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Autore: Adeia Di Elferas    03/05/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“I veneziani prenderanno un paese alla volta.” decretò Francesco Numai, che, in qualità di testimone oculare della forza di Giacomaccio, era stato ammesso a pieno titolo nel Consiglio degli Anziani di quel giorno.

“Sì, ma li ridaranno all'Arcivescovo!” fece notare l'Oliva, che ne aveva avuta certa notizia dalle sue spie: “Non vogliono che il papa se l'abbia a male con loro. Non hanno ancora capito se il Santo Padre li perdonerebbe, in caso di conquista forzosa...”

Ci fu un gran vociare tra i presenti, tanto che per poco il cancelliere Cardella non fu tentato di riportare l'ordine battendo la mano sul tavolo.

Caterina ascoltava i membri del Consiglio con un certo distacco. Sapeva che richiamare tutte le sue truppe in città avrebbe permesso ai veneziani di prendersi tutto quello che lei aveva conquistato, ma il fatto che gli uomini della Serenissima volessero restituire tutto al papa mitigava in un certo senso la sua disfatta.

A conti fatti, Alessandro VI avrebbe ridistribuito le terre contese, estromettendola quasi per certo, ma almeno la Contessa si era tolta di mezzo un po' di gente che le stava scomoda, come il Conte Guerra, e ne aveva ridimensionati altri che avrebbero potuto farsi pericolosi, come Pandolfo Malatesta.

Certo, probabilmente il Consiglio degli Anziani l'avrebbe pensata diversamente. Siccome la decisione di non opporre altre resistenze a Venezia era stata presa, non le restava che attendere la reazione dei suoi sudditi.

Pur fingendosi molto interessata a quello che veniva detto, Caterina passò tutto il tempo della discussione immersa nei suoi pensieri più privati, tanto che, a un certo punto, si trovò così assorta da essersi quasi dimenticata di quello che si stava valutando.

A mordere la sua coscienza era soprattutto quello che le era capitato quella mattina, prima di andare a presiedere il Consiglio.

Approfittando del fatto che doveva uscire dalla rocca per andare al palazzo, aveva preso una strada lunga, vagando un po' per la città che si risvegliava, come non faceva da troppo tempo.

I suoi passi l'avevano portata alla chiesa di San Girolamo, dove era sepolto Giacomo. Era passata varie volte davanti al portone centrale, senza mai risolversi a entrare.

Il freddo di fine dicembre le era entrato nelle ossa, mentre sfuggiva da se stessa e dai propri fantasmi e alla fine, sentendosi una codarda, aveva voltato le spalle alla chiesa, motivando quel gesto con una scusa che lei per prima trovava molto labile.

Si era detta, con umiliante semplicità, di non voler andare sulla tomba del marito quando ancora si sentiva addosso l'odore di un altro uomo.

Quella notte aveva ancora una volta cercato, in un amante scelto per caso, una traccia di ciò che c'era stato con Giacomo, e come sempre ne era rimasta delusa.

Di solito riusciva a dimenticare in fretta, archiviando le sue avventure notturne come un semplice passatempo, come se in realtà non la riguardassero, mentre quella mattina, quando si era trovata davanti alla chiesa in cui era custodito il corpo di Giacomo, si era sentita una traditrice.

“Ed è per questo – stava sentenziando con tono altisonante Luffo Numai, che si era evidentemente fatto carico di concludere a nome di tutti – che riteniamo che le azioni militari condotte in queste settimane non siano state né una perdita di tempo, né una spesa inutile.”

Quell'affermazione strappò la Contessa dai suoi tormenti interiori.

“Con questo genere di azioni – continuò Luffo, scoccando alla sua signora un'occhiata di intesa che Caterina faticò in un primo momento a interpretare – si ravvivano gli antichi diritti dei signori della città, si dà aiuto agli amici e si addestrano le truppe, rendendole pazienti alle fatiche militari. E quindi il Consiglio non solo non condanna i fatti degli ultimi tempi, ma concede anche di usare le mille lire, prese dalle pubbliche casse, richieste dalla Contessa per l'acquisto di nuove armi.”

Sorpresa dal clima di assenso e ottimismo che si era spanso tra i suoi Consiglieri, Caterina fece un cenno di ringraziamento e si alzò, per dire qualcosa, ma Numai la interruppe per soggiungere: “In più, le corporazioni di armaioli e lavoratori del ferro vogliono farvi dono di una statua bronzea raffigurante il compianto Barone Feo.”

A quel punto, la Tigre strinse le labbra, e cercò di essere razionale. L'onda emotiva l'avrebbe portata a considerare quel gesto come una dimostrazione affettuosa di cordoglio, ma squadrando bene i volti di quelli che stavano nella stanza con lei, si rese conto che quel favore aveva tutt'un altro sapore.

Era la paura a muovere tutti loro. La paura e la speranza di non essere i prossimi a finire sotto le sue grinfie. Era la consapevolezza di quello che lei era in grado di fare, delle punte di violenza che era riuscita a raggiungere. Era il sapere le celle di Ravaldino ancora piene di torturati, di mutilati e di morti che ancora respiravano.

Se le corporazioni avevano voluto fare un monumento in bronzo senza volere in cambia nemmeno un soldo, era solo perché la temevano tanto da cercare di placarla preventivamente con un dono costoso. Come i pagani che portavano al tempio le bestie da sacrificare, nel tentativo di tenere calme le proprie divinità.

Malgrado quest'amara consapevolezza, Caterina ringraziò di cuore tutti i Consiglieri e poi, forse troppo affrettatamente, dichiarò sciolta la riunione, rimandando ulteriori decisioni a data da destinarsi.

 

“No, non dobbiamo accettare.” scosse il capo Giovanni Medici, non appena suo fratello ebbe riferito quello che l'esule Ottaviano Manfredi gli aveva chiesto, in forma riservata.

I due fratelli erano in una delle sale più luminose del palazzo di famiglia e stavano accanto al camino acceso. Firenze era morsa dal gelo e la Signoria aveva interrotto i lavori per festeggiare il Natale e l'inizio del nuovo anno.

Quella pausa era capitata nel momento giusto per i Popolani, che avevano bisogno di riconsiderare la loro posizione e mettere a punto una strategia vincente per far sì che Giovanni venisse scelto come nuovo ambasciatore in Romagna.

Ora che Venezia si stava facendo beffe della Tigre di Forlì e del Pandolfaccio di Rimini, però, Firenze si era fatta cauta e aveva rimandato la votazione. A quel punto, il tempo per comprare voti e influenze c'era, ma era una partita giocata sul filo del rasoio.

“Ragiona, fratello – proseguì il più giovane, appoggiando i gomiti alle ginocchia e fissando il fuoco che riluceva nel camino – se dessimo ospitalità a quest'uomo, che è stato sconfitto e che non ha un soldo con sé, cosa ci guadagneremmo?”

“Potremmo aiutarlo a prendere Faenza, dando battaglia, e a quel punto...” provò a dire Lorenzo.

“Suo cugino Astorre Manfredi, o chi per lui, gli ha messo sulla testa una taglia da millecinquecento ducati, vivo o morto.” lo fermò subito Giovanni, mentre qualche ricciolo ribelle gli scivolava sulla fronte: “Quindi o lo prendiamo in casa nostra e lo consegniamo cadavere ai faentini e ci prendiamo i soldi...”

A quelle parole il volto di Lorenzo si contrasse in segno di disgusto, ma l'altro non vi fece troppo caso. Aveva capito che suo fratello, in certe cose, era bravo a parole, ma non coi fatti.

Era, per esempio, certo che nel caso in cui fosse stato necessario mettere mano alle armi, Lorenzo sarebbe stato eccellente nell'amministrare la parte teorica, ma non sarebbe riuscito nemmeno a tagliare un dito a un nemico. La guerra non faceva per lui. Era un uomo di pace, un economista, un diplomatico, non un soldato.

Mentre Giovanni, benché mancasse quasi del tutto di esperienza, si conosceva abbastanza bene da sapere che non si sarebbe tirato indietro, davanti a certe sfide. In quel momento, però, andava preservata la pace. Anche se effimera. Giusto il tempo per portare a termine il loro piano.

“O facciamo finta che non si sia mai rivolto a noi e lo lasciamo perdere.” concluse il Popolano più giovane, ben sapendo quale strada avrebbe preferito il fratello.

“Hai ragione.” annuì Lorenzo, dopo un po': “Fingeremo che Ottaviano Manfredi non abbia mai avuto nulla a che fare con noi. Non siamo sicari. La nostra fortuna non va fondata su soldi sporchi di sangue.”

Giovanni fece un debole sorriso e rimettendosi in piedi con qualche fatica – il tempo umido e freddo di quei giorni stava ponendo a dura prova i suoi reumatismi gottosi – passò accanto al fratello dandogli una leggera pacca sulla spalla: “Ben detto.” gli sussurrò.

Quando fu quasi alla porta, accompagnato dal rumore ovattato della neve che cominciava a scendere a raffiche fuori dalla finestra, il Popolano più giovane soggiunse, a voce tanto bassa da essere certo che Lorenzo, ancora intento a protendere le mani verso il camino per scaldarsi, non lo sentisse: “Non sono mai esistiti soldi che non fossero sporchi di sangue...”

 

Il 3 gennaio, tra le nebbie appiccicaticce e lo strato infido di ghiaccio che si era depositato in terra rendendo insidiosa anche la più innocua delle passeggiate, Ludovico il Moro e parte della sua corte si erano preparati ad assistere a un momento epocale.

Il maestro Leonardo aveva lasciato intendere che fosse tassativo provare la sua nuova macchina proprio quel giorno, e così il Duca di Milano, spinto anche dalla moglie, che era tra le più curiose, aveva accettato e aveva scomodato anche altri nobili della sua corte, tanto per rendere quel raduno un po' meno patetico.

In mezzo a un campo scosceso, vedendo a stento tra i vapore che si alzava da terra il domine magister che trafficava con la sua nuova invenzione, Ludovico si trovò a chiedersi che mai ci facesse lì.

Beatrice, invece, stretta nel mantello di pelliccia e ben imbacuccata nella sua turchesca più pesante, sembrava una bambina in attesa di un nuovo giocattolo.

Il Moro era felice di vederla così euforica. Giusto a Natale avevano litigato per colpa di Lucrezia Crivelli. La sua Beatrice l'aveva visto mentre rideva con la dama di compagnia e quella sera gli aveva fatto una scenata degna di una donna di strada.

Per fortuna il Duca era riuscito a calmarla, rassicurandola come solo lui sapeva fare e alla fine era anche stato capace di strapparle la promessa di essere meno gelosa.

“Soprattutto quando non ce n'è motivo!” aveva aggiunto, strafacendo come spesso gli capitava.

Così quella mattina Beatrice gli stava attorno come un cane da guardia, benché nel campo non ci fossero altre donne a parte lei.

Offrendole il braccio, Ludovico fece con lei qualche passo, borbottando un po' di lamentele sul clima, finché Leonardo non si disse pronto.

Quello che voleva proporre alla corte milanese era una straordinaria macchina per far volare un uomo.

Mentre il maestro illustrava ciò che gli spettatori avrebbero presto visto, agitando le braccia coperte dalle ampie maniche del suo vestone invernale, Bartolomeo Calco trattenne all'ultimo uno sbadiglio, in riguardo alla stoccata di disappunto che la Duchessa gli aveva dedicato nel vederlo annoiato.

Leonardo si perse per qualche momento nella sua solita vanagloria, vantandosi di aver carpito i segreto del volo degli uccelli e di aver sintetizzato tutti i segreti di quell'arte in quella straordinaria macchina che aveva accanto.

“Non trovi che il domine magister abbia i capelli più scuri del solito?” sussurrò Ludovico all'orecchio di Beatrice, che ancora lo teneva sottobraccio come se fossero in procinto di fare una passeggiata: “Deve esserseli tinti di nuovo... Che vanitoso...”

“Silenzio..!” lo redarguì lei, tenendo gli occhi puntati sulla macchina costruita da Leonardo.

La Duchessa vedeva in quella struttura di legno la chiave per una nuova era. Se l'uccello meccanico del domine magister avesse funzionato, Milano sarebbe stata la prima e unica città al mondo a poter vantare soldati volanti.

Arrivare sul nemico come eroi mitologici su un ippogrifo. Scagliare frecce dal cielo. Colpire dall'alto con le picche. Quante opportunità, dietro a un ammasso di legno e chiodi!

Ludovico, mortificato dal tono della moglie, invece, vedeva nell'invenzione del suo caro domine magister solo qualcosa di molto curioso, potenzialmente utile nei campi o magari nei viaggi.

Quali che fossero, comunque, gli usi che si sarebbero potuti fare di quella macchina, l'attesa stava crescendo in tutti e quando Leonardo permise al suo aiutante di iniziare la sperimentazione, non uno dei presenti riuscì a evitare di spalancare bocca e occhi.

Il ragazzo, esile e un po' curvo, che si imbragò con la struttura costruita dal domine magister, cominciò a mettere in azione le ali meccaniche. Accelerò, sparendo per un po' nella nebbia, poi ricomparve più avanti, fece un tentativo di decollo e fallì. Provò di nuovo, ma non vi fu nulla da fare.

“Ho detto là!” si mise ad abbaiare Leonardo, gesticolando furiosamente verso il suo aiutante e indicando una pendenza promettente.

Titubante, il giovinetto eseguì e per un paio di metri la macchina parve davvero funzionare, tra lo stupore generale. Peccato che dopo quella breve distanza il collaudatore si schiantò rovinosamente in terra, distruggendo quasi per intero lo scheletro di legno che indossava e procurandosi anche qualche escoriazione.

Mentre Leonardo, combattuto tra la vergogna dell'insuccesso e la rabbia per l'evidente incapacità del suo assistente, raggiungeva ciò che restava della sua macchina da volo gridando, Ludovico sospirò impaziente e guardò la moglie di sottecchi.

Gli altri cortigiani si divisero equamente tra le risa e i commenti oltraggiati. Lo spettacolo era stato comico, ma il freddo e l'umidità affrontati per arrivare fino in quel campo parevano un prezzo troppo alto per due minuti di risate.

“Che delusione...” commentò amara Beatrice, sporgendo in fuori le piccole labbra e tirando un po' il braccio del marito affinché la seguisse.

Voleva tornarsene subito a palazzo. Aveva sperato tanto in quel macchinario e vederlo rovinare in terra così facilmente l'aveva messa di pessimo umore.

Ludovico si lasciò portare via dalla moglie, dopo aver consigliato al domine magister, che forse non lo sentì perché troppo impegnato a prendere a male parole il ragazzo che ancora si dimenava tra i resti della macchina per volare: “Meglio che torniate a lavorare a quel vostro dipinto, quello che ritrae l'ultima cena di nostro Signore...”

“Prima di venire qui – disse Beatrice, sollevando una nuvoletta di vapore, quando lei e Ludovico raggiunsero il loro calesseìino coperto – mi hai detto che le nostre spie hanno notizia dei Fregoso a Genova.”

“Sì...” annuì il Moro, sbuffando e chiudendo la tendina per avere un po' meno freddo.

Beatrice lo imitò e l'abitacolo restò pressoché al buio. Il dondolio impresso dal trotto lento dei cavalli si ripercuoteva stancamente sui Duchi di Milano.

“Anche tua nipote Chiara è a Genova?” domandò Beatrice, scrutando il profilo del marito nell'oscurità.

Ludovico si grattò la testa e ammise: “Questo non lo so. Però sembra che suo marito Fregosino non faccia un passo senza lei e loro figli, quindi è probabile che l'abbia seguito.”

“Non possiamo influenzarla a nostro favore nemmeno stavolta, immagino.” tentò l'Este, agitando le gambette che non arrivavano a toccare il fondo della carrozza.

L'uomo perse la pazienza. Sua moglie lo aveva ripreso mille volte per quella faccenda. I Fregoso non erano importanti, ma Fregosino si era sempre dimostrato un bravo manipolatore. Se l'era cavata in ogni frangente e non sembrava esserci al mondo una cella capace di trattenerlo.

Se solo Ludovico non si fosse inimicato in modo irreparabile la nipote anni prima, avrebbero potuto sfruttarla per fare pressioni sul marito affinché passasse in pianta stabile dalla loro parte come spia o come diplomatico.

“Piuttosto – fece il Moro, chiudendo bruscamente il discorso su Chiara – dovremmo pensare a un ambasciatore da spedire a Forlì. Quel vecchio inutile che avevo mandato prima della morte del mantenuto di mia nipote Caterina è scappato e non lo si trova da nessuna parte...”

“Se anche lo trovassimo – precisò Beatrice, con tono da saputella – dubito fortemente che tua nipote Caterina lo rivorrebbe alla sua corte.”

Ludovico dovette darle ragione: “Certo, certo... Il punto è che non mi fido nemmeno più delle mie spie in Romagna. Da quando quel dannato Oliva è passato dalla parte di mia nipote, non so più dove sbattere la testa...”

“Facciamo così.” decretò Beatrice, mentre la carrozza entrava nel cortile del loro palazzo fendendo la nebbia: “Il prossimo ambasciatore di Milano a Forlì lo sceglierò io.”

Il Moro aprì la bocca per ribattere, ma la giovane moglie fu più rapida: “L'unica nipote che non ti ha mai dato problemi è Bianca Maria. E non te ne sta dando perché io ti ho convinto a farla sposare con Massimiliano d'Asburgo!”

“E va bene!” si arrese Ludovico, accogliendo con gioia l'apertura dello sportello che lo liberava da quello che si stava trasformando in un processo: “Hai ragione! Hai ragione! Con le mie nipoti ho sbagliato tutto!” ammise, scendendo dalla carrozza e poi aiutandola a fare altrettanto.

“Bene.” sorrise Beatrice, affondando il viso nel colletto di pelliccia del mantello: “Quando avrò scelto il nostro nuovo ambasciatore, te lo farò sapere.”

 

La neve era arrivata a Forlì tutta d'un colpo. Alle spolverate dei giorni precedenti, nel corso della prima settimana dell'anno, seguirono nevicate insistenti e tanto pesanti da indurre la popolazione a essere grata alla Contessa per aver deciso di interrompere le azioni militari intraprese alla fine dell'anno precedente.

Per Caterina si trattava di un risvolto inatteso e decisamente fortunato. Già temeva la reazione del popolo di fronte all'apparente inutilità della guerra che lei stessa aveva voluto, ma i soldi che aveva fatto circolare con le paghe dei soldati e il rientro di molti forlivesi nelle proprie case giusto in tempo per le festività avevano giocato a suo favore.

Da Imola erano arrivate notizie abbastanza confortanti da parte di Tommaso Feo, che aveva assicurato che la città aveva reagito altrettanto bene e che non sembravano esserci particolari malcontenti.

Certo, la Tigre sapeva che non si sarebbe chiuso tutto così facilmente. Quelle sarebbero state settimane di pausa legate soprattutto all'inverno. Anche suo padre permetteva ai suoi di svernare nei mesi più rigidi dell'anno ed era un'accortezza giusta e di norma molto apprezzata dalle milizie.

Quando Tiberti, quella mattina, aveva provato debolmente a convincerla a non demordere proprio in quel momento, Caterina aveva ribattuto: “Non abbiate paura, verrà il momento per noi in cui sarà necessario combattere anche in pieno gennaio. Non abbiate fretta di vedere quei giorni.”

La Contessa aveva parlato più per pessimismo che non per altro, ma al suo comandante quella era parsa una profezia e così, sicuro che la sua signora parlasse a ragion veduta, non aveva più sollevato la questione.

Poco dopo, nel corso di un'ennesima riunione del Consiglio Cittadino – più che dimezzato dopo le repressioni mosse contro gli assassini di Giacomo – Caterina aveva decretato di essere intenzionata a far valere un vecchio diritto esteso a quello Stato da Sisto IV.

“Batteremo moneta.” aveva annunciato: “Impiegherò i miei fondi personali, per farlo, e useremo l'oro delle casse dello Stato per proseguire con il conio.”

Nessuno aveva avuto da ridire, soprattutto perché la creazione di una moneta interna avrebbe incentivato il commercio, grandemente in difficoltà, e avrebbe ridato dignità alle terre della Contessa.

Non era stata una decisione presa a cuore leggero. Battere moneta sfruttando la concessione del defunto Sisto IV equivaleva a ricordare a tutti la sovranità degli Sforza Riario e del loro Stato. Ad Alessandro VI in particolare.

Un modo diverso di fare la guerra, ma pur sempre un segnale forte che non sarebbe passato inosservato.

La riunione si era sciolta con l'aggiornamento al giorno seguente per decidere cosa imprimere sulle due facce delle monete.

Libera dagli impegni politici, Caterina aveva lasciato il figlio Galeazzo alle cure del suo precettore di matematica – materia a cui era recalcitrante, ma che gli sarebbe servita per imparare a maneggiare bene l'artiglieria – Bernardino con gli scudieri più vecchi, che gli avrebbero insegnato le differenze tra i vari tipi di finimenti, e la figlia Bianca, con la madre Lucrezia nella sala delle letture. Livio e Sforzino, invece, erano rimasti nella loro camera a giocare, supervisionati da una delle balie.

La Contessa non sapeva dire dove fosse Cesare. E non le interessava saperlo.

Uscì dalla rocca non appena fu sicura di non avere altri obblighi fino a sera, e vagò coperta dallo spesso cappuccio scuro del suo mantello invernale per un paio d'ore.

La neve scendeva con foga, tanto obliqua da infilarsi fin sotto al bordo degli abiti e tanto fredda da intorpidire non solo le mani, ma anche i pensieri della Tigre.

Per un paio di volte, come le era capitato spesso negli ultimi giorni, Caterina si trovò davanti alla chiesa di San Girolamo e per altrettante volte non trovò il coraggio di entrare.

Infreddolita e abbattuta, preferì trovare un po' di ristoro in una delle locande meno frequentate di Forlì. Entrò e andò al bancone, dove l'oste la riconobbe al primo sguardo. Tuttavia l'uomo non fece fracasso, abituato a mantenere il riserbo dei suoi clienti, soprattutto quando questi facevano intendere di non voler attirare l'attenzione.

Dopo due parole, la donna andò a mettersi nel tavolo più riparato dagli sguardi dei pochi avventori presenti e attese che le venisse portato il vino richiesto.

Mentre sorseggiava distratta il liquido scuro, speziato e caldo, scalciando via un po' di neve rappresa dal bordo del gonnellone, Caterina si mise ad ascoltare distrattamente i tre uomini che stavano al tavolo più vicino.

Uno di loro, in particolare, era molto ubriaco e parlava trascinando le parole: “Ve lo dico io, io, porco mondo d'un mondo boia..!” e si alzò barcollando, picchiando il calice sul tavolone scheggiato: “Quella è una strega! Avete visto che è stata capace di fare, no?”

La Contessa non colse subito chi fosse il soggetto di quello sproloquio, perciò, finito in fretta il vino, che l'aveva riscaldata a dovere, fece un cenno all'oste e lasciò una moneta sul tavolo e poi si alzò per andarsene.

Passando accanto al tavolo dei tre ubriachi, però, le parole che udì la fecero fermare di colpo.

“Ecco, ha fatto così! Prima si è servita di quei poveracci, che Dio li abbia in gloria loro e le loro anime, per liberarsi di un amante che non voleva più...” stava pontificando quello che si era messo in piedi: “E poi s'è inventata la panzana che lei non ne sapeva un fico secco e li ha ammazzati tutti quanti, così ha potuto mettere sulle sedie del Consiglio chi le piaceva a lei, mondo boia, poveracci e vecchi servi compresi! E il Conte Ottaviano è finito chiuso in una cella, perché è così, ve lo dico io che è così. Il nostro vero signore è lì che muore di fame e stenti! Sua madre se n'è servita e poi ha fregato anche lui!”

Caterina restava immobile a pochi passi dalla tavolata incriminata. Il sangue le ribolliva nelle vene assieme al vino e le tempie le pulsavano con ferocia.

L'uomo fece una mezza risata roca e buttò lì: “E adesso si porta pure a letto mezza città, tanto è addolorata dalla morte di quel...”

L'ubriaco non poté finire la sua frase, perché il pugnale della Tigre gli si era appena materializzato contro la gola.

Gli occhi incavati dell'uomo trovarono quelli furenti della Contessa e gli ci volle almeno un minuto per capire quello che era successo.

I due che stavano con lui scapparono all'istante in un angolo della locanda e gli altri pochi avventori si ritrassero, temendo che succedesse l'irreparabile.

Alzando le mani, il chiacchierone fece tremare le labbra e, mentre si urinava addosso per la paura, sussurrò: “Pietà...”

Caterina guardò i pantaloni di quello che doveva essere un uomo di fatica in qualche bottega, e, nel vedere che si bagnavano pian piano, provò un misto di compassione e repulsione per quell'individuo.

Premendo un po' di più la lama contro la gola mal rasata dell'ubriacone, Caterina sporse in fuori il mento e gli disse, sperando che egli non avesse bevuto così tanto da non capirla: “Non vi uccido solo perché non voglio, ma se verrò a sapere che avete detto altre falsità sul mio conto, giuro che vi taglierò la gola senza pensarci due volte.” e lo lasciò andare di scatto.

Sentendosi salvo, l'uomo si gettò in ginocchio e iniziò a piagnucolare, magnificando la grandiosità d'animo della sua signora.

La Tigre, sempre tenendo in vista il suo coltello, occhieggiò verso gli altri avventori e verso l'oste e dichiarò: “Chi dirà male contro di me e contro il mio governo, da oggi in poi verrà punito alla stregua di un traditore. Che si sappia.” e lasciò all'istante la locanda.

Tornata in strada, infilò il pugnale nel tascone della gonna, evitando di sollevarla per rimetterselo contro la gamba, e camminò per almeno duecento metri, prima di sentire il contraccolpo di quell'improvvisa scarica di tensione.

Raggiunse un vicolo deserto e, liberando il viso incandescente dal cappuccio, si appoggiò al muro e lasciò che la neve si sciogliesse al contatto con la sua pelle.

Ripensò alle parole dell'ubriaco e, per quanto facessero male, riuscì a trarne qualcosa di utile.

Finalmente sapeva cosa far raffigurare sulle monete che avrebbero coniato. Da un lato andavano bene chiese e rocche, ma dal rovescio tutti tagli dovevano alternare la sua effige e quella di Ottaviano.

Se anche era vero che suo figlio era un recluso, il popolo doveva sentirlo ancora presente. Così avrebbe mitigato i malcontenti di quelli che lo volevano al governo. Anche in questo caso la pace sarebbe stata solo momentanea e illusoria, ma era sempre meglio di niente.

Visto che la luce andava scemando, la Tigre si convinse a tornare a Ravaldino. Camminando a fatica nei corridoi scavati nella neve da chi era passato prima di lei, Caterina arrivò in vista della rocca appena in tempo per vedere i rappresentanti delle corporazioni posizionare un blocco coperto da un telo nel centro dello spiazzo antistante al ponte levatoio.

Sapeva che sotto a quella copertura c'era la statua bronzea che raffigurava Giacomo. Non voleva vederla. Non in quel momento.

Accelerò e passò accanto ai mastri che vociavano tra loro per sistemare al meglio il monumento e non li degnò di uno sguardo.

Raggiunse come una furia la sua stanza, gettò in terra il mantello, tolse il pugnale dalla tasca della sottana e lo appoggiò sul letto.

Armeggiò col cassetto segreto della scrivania e ne tirò fuori la bottiglietta della sua pozione per dormire. Non voleva obliarsi del tutto, ma solo calmarsi e aveva trovato un buon compromesso per farlo.

Prese un pezzo di stoffa scelto ad hoc per quell'uso e, facendo attenzione, aprì la bottiglietta. Bagnò un lembo del fazzoletto con la pozione e poi, dopo aver rimesso il tappo alla boccetta, annusò lo straccio.

Con la testa che girava un po', si andò a coricare accanto al pugnale e restò sdraiata a fissare il soffitto e a ripensare a Giacomo, a com'era morto e a quelli che lei aveva dovuto uccidere per vendicarlo, fino a che non andarono a chiamarla per la cena.

 
   
 
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