STEPBROTHERS
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01.
Di
catastrofi e altre disdette.
Se Ella, in
un primo momento, era rimasta sconvolta dall’incredibile
notizia, in seguito, a
mente lucida, era venuta alla conclusione che l’intera
situazione
rappresentasse una vera e propria catastrofe – utopica,
certo, ma pur sempre
catastrofe. Dover sopportare Tristan Owens a scuola costituiva
già una croce
cui Ella era certa non potesse sottrarsi e di cui, a malincuore, era
stata
costretta a farsi carico, ma dover addirittura convivere con quell’idiota
dotato di patente, era tutt’altra
storia.
«Tu non puoi
dire sul serio», aveva asserito convinta, prima di scoppiare
a ridergli in
faccia, senza alcun pudore. In realtà, la risata ilare che
era scaturita al
suono di quelle parole celava in sé una nota stonata, al
retrogusto di
nervosismo. Tristan non vi fece caso, comunque, poiché
troppo intento a
scrutarla con piglio pensieroso. Non poteva certo biasimare quella
ragazzina
che per anni gli aveva dato filo da torcere, opponendosi a lui e alle
sue
continue provocazioni, senza mai cedere per prima; quella ragazzina,
detentrice
di un orgoglio inattaccabile, avrebbe faticato ad accettare la
questione. Lui
era consapevole di ciò, ed era proprio a fronte di quello
che aveva deciso di
renderla partecipe
della lieta
novella. Aveva ardito per settimane,
mesi,
di gustarsi
l’espressione
di
sorpresa, stupore, sconvolgimento di Eleanor Duncan. E ne era rimasto
soddisfatto, a lavoro compiuto, poiché adesso la biondina
mostrava segni, ormai
evidenti, di star facendo i conti con la prima fase, rispondente al
nome della
negazione. Tristan era convinto, ci
avrebbe scommesso il pacco,
che Ella non avrebbe
creduto a lui finché non
avesse visto e appurato con i suoi occhi la veridicità di
quella storia.
«Ok, Barbie, facciamo così: tu mi
segui senza
lagne inutili in macchina, ti accompagnerò a casa, da bravo fratellone, e lì potrai risolvere
ogni
dubbio che alberga la tua bella
testolina. Ti va?».
Ella aveva
odiato ogni singola parola che era defluita dalle labbra del giovane
ancor
prima che esse andassero a formare un discorso di senso compiuto.
Probabilmente, era a causa del tono di scherno che aveva adoperato.
Sembrava che si
stesse rivolgendo ad
una bambina di sei anni!
«Io,
seguirti, in macchina? Affinché tu possa cogliere
l’attimo ed uccidermi? Ti sei
bevuto il cervello, Owens?!».
Tristan
davvero non capiva dove quel peperino dell’altezza di un
comune Hobbit
trovasse la forza di urlare a quel
modo, con l’unico risultato di dare spettacolo; e
sì, magari non c’era poi
questa gran folla ad ascoltare i loro battibecchi se si escludeva il
tradizionale via vai di gente che usciva, di tanto in tanto,
dall’aeroporto.
Ad ogni
modo, non capiva neppure come riuscisse a partorire simili e assurde
idee. Come
se avesse voluto davvero
che morisse.
C’erano poche cose a cui Tristan Owens era indissolubilmente
legato e una di
quelle era proprio il valore che assegnava alla vita.
Mai avrebbe
commesso l’atto di toglierla
a qualcuno, né mai gli sarebbe venuto in mente di farlo,
semplicemente perché
non era nella sua indole.
Aveva fama di stronzo, non di mostro.
Aveva fama di stronzo, non di mostro.
«Sì,
davvero allettante. Ogni
giorno mi
sveglio e il mio primo pensiero è:
‘Andiamo ad infastidire quella
piattola della Duncan, magari è la volta buona
che mi capita a tiro cosicché possa passarle sopra con la
macchina!’.
Andiamo, fai sul
serio?»,
l’aggredì, servendosi di un’ironia
tagliente, fattosi
all’improvviso scuro in volto. Ella sospirò,
ammettendo a se stessa di aver
esagerato nella scelta dei termini. Non pensava che Tristan potesse sul
serio
prendere in considerazione l’idea di ucciderla,
solo... non si sarebbe
sentita a suo agio a stare accanto al suo
nemico di sempre.
Prima regola di
sopravvivenza: mai,
mai socializzare con il nemico.
Ed Ella
aveva speso anche troppo tempo ad intrattenersi con lui.
«Okay, forse
non è nei tuoi piani, almeno per oggi,
di attentare alla mia vita ma... insomma, non crederai che io mi beva
la tua
storia, eh! Non ho bisogno di accertarmi di nulla perché un
mondo in cui tu
diventi il mio fratellastro – al
pronunciare quella parola un brivido le attraversò, celere,
la schiena – è
inconcepibile, mera utopia».
Tristan pareva
essersi rilassarto, poiché le sue labbra assunsero la forma
di un mezzo
sorriso, quasi divertito. «Non mi darai mai la soddisfazione
di avere l’ultima
parola, vero?».
Ella era
rimasta interdetta per un attimo. Tristan aveva assunto qualche droga
di
recente, durante la sua assenza? Era
bipolare, accidenti! Un
attimo sembrava volerla sbranare, quello dopo atteggiarsi
a suo amico. Era un bel rompicapo!
Sbuffò,
già stanca di quella sorta di botta e risposta amebeo. Non
era proprio
in vena di assecondare i suoi capricci e le sue uscite da cavernicolo,
dal
momento che aveva ben altro per la testa. Si massaggiò le
palpebre,
percependole appesantite.
«Guarda, in
realtà sto appena dichiarando forfait,», e nel
dirlo aveva alzato le mani, in
segno di resa, «dammi questo maledetto passaggio e facciamola
finita! Voglio
solo incontrare il mio letto per oggi, domani è un altro
giorno. Dove hai
parcheggiato quel rottame?».
Tristan non
ebbe neanche il tempo di schiudere le labbra per la sorpresa di essere
stato di
nuovo zittito dall’Hobbit poiché
quest’ultima si era appena incamminata verso
una meta indefinita alla ricerca della sua macchina.
Rottame. La Maserati Ghibli,
l’unico regalo che Tristan avesse mai accettato dal padre di
Ella, non aveva
niente a che vedere con il rottame
cui si riferiva la
piattola. Da quando aveva avuto l’incidente, neanche ci
pensava più al pick-up che suo fratello gli aveva lasciato
in dotazione; primo,
perché pensare di averlo distrutto gli faceva ricordare di
essere stato un
irresponsabile ed un codardo; secondo, perché Andrew Duncan
si era esposto
visibilmente e aveva fatto il diavolo a quattro pur di tirarlo dai guai
e
Tristan se l’era cavata con qualche punto represso dalla
patente ed un paio di
punti guadagnati al sopracciglio sinistro. La sorte peggiore era
toccata al
conducente dall’altro lato; era ubriaco, molto
ubriaco, e
aveva messo a repentaglio la sua vita e quella di Sailör che
quella notte era seduta al suo fianco.
Se solo avesse
rimandato il
divertimento ed il soddisfacimento dei suoi bisogni al giorno seguente
Lör,
adesso, non sarebbe stata costretta ad una sedia a rotelle, e non
sarebbe mai
arrivata ad odiarlo, né avrebbe perso le Olimpiadi di
Cheerleading cui aspirava
da una vita.
Aveva intuito,
dall’uscita serafica di Ella, che Duncan Senior non
l’avesse
messa al corrente degli ultimi trascorsi, tralasciando anche quello di
farle
presente – era sua figlia, dannazione!
– che la mogliettina nuova di
zecca fosse niente
poco di meno che sua madre e che lui
stesso, che sarebbe diventato suo fratellastro, fosse la persona che
sua figlia
detestava di più al mondo!
Scrollando
il capo, si era affrettato a seguirla prima che continuasse a girare a
vuoto,
nel cercare un’automobile che non esisteva più.
«Hobbit, la
macchina è da questa parte!», le aveva fatto
presente Tristan, afferrandola per
un braccio e deviando la sua traiettoria dall’altro lato. Il
contatto con la
sua pelle bollente l’aveva fatto desistere dal prolungarlo e
l’aveva lasciata,
non appena fu sicuro che stesse camminando nella direzione esatta.
«Sei un
bruto. Bastava dirlo. E comunque, io non sono un hobbit. Mi chiamo Eleanor e sarebbe
carino che, almeno una volta
nella vita, tu la smettessi di... che
cosa stai facendo?! Oh, mio Dio, ma
sei anche un vandalo, adesso?».
Ella era sbiancata,
quando aveva compreso le intenzioni poco nobili del suo compare.
Perché diavolo
stava tentando di scassinare una macchina di quel calibro?! Sarebbe
potuta
appartenere ad un pezzo grosso dell’alta società
ed... era troppo giovane per finire in prigione per
complicità in tentativo
di furto con scasso. La
sua mente aveva preso a vagare verso mete poco
piacevoli.
Fu un
attimo. Tristan le si era avvicinato in un lampo, tappandole la bocca
con una
mano prima che potesse disconoscerlo ed urlare:
“Al ladro, al ladro!”. Ella aveva sgranato gli occhi,
pensando al
peggio.
Magari
l’avrebbe uccisa davvero. D’istinto, era andata
rovistando
nella borsa, alla ricerca del fedele spray al peperoncino nel caso in
cui le
cose si fossero messe male. Tristan, tuttavia, che stronzo
sì ma stupido anche meno, le aveva
bloccato l’arto prima
che potesse anche solo obiettare o tranciargli le dita con un morso, a
seconda
dei punti di vista. Aveva ottenuto un mugugno contrariato in risposta.
«Ah, ma
taci!», le aveva ordinato perentorio, sbloccando la sicura
della macchina con
la mano libera ed aprendo la portiera per sbattercela dentro.
Anche sequestro
di persona... le sue accuse andavano
incrementando
sempre di più, aveva pensato Ella, una volta che si
ritrovò, spaesata e
sofferente per la pressione che Tristan aveva attuato per tenerle fermo
il
braccio, a respirare a fatica. Dannazione, ma lui era al corrente, dopo
tutti
quegli anni, che soffrisse di asma ed attacchi di panico e che in quel
modo
c’erano buone probabilità che di lì a
poco se ne generasse uno?!
Quando il
teppista – criminale –
si era seduto
al lato guida, Ella gli aveva riservato un sonoro schiaffo che era
rimbombato
nell’abitacolo silenzioso e che aveva lasciato
l’uno e l’altra, ancora una
volta, a corto di fiato e di parole.
Ed Andrew
Duncan era stato chiaro con lui: “D’ora
in avanti, non devi mai più dare nell’occhio. Sono
stato abbastanza chiaro?!
Ricordati che io ho rischiato il culo ed il posto per tirarti fuori dai
casini
e che se solo dovessi mettermi in una posizione scomoda una seconda
volta,
stavolta niente mi fermerà dal farti affondare con me. E non
sarà piacevole.
Parola di Andrew Duncan!”.
«Menomale
che non volevi attentare alla mia vita…», aveva
commentato sarcastica,
accigliandosi e spezzando quel silenzio oppressivo che si era
instaurato dopo
lo schiaffo. Se l’era meritato. Non avrebbe dovuto
intimorirla a quel modo;
doveva scortarla a casa sana e salva, senza nessun graffio e senza
troppe
cerimonie. Ed invece era accaduto il contrario. Aveva intravisto con la
coda
dell’occhio il livido violaceo che ora si stava ingrandendo
sul polso minuscolo
della biondina che, di tanto in tanto, si apprestava a massaggiare. Per
non
parlare delle sue espressioni. Aveva cercato di limitare i
danni anche in quel
caso, non osando ribattere né
rompere la bolla in cui lei si era rinchiusa per la rabbia e, Tristan
temeva,
anche per la paura che lui potesse “metterle” di
nuovo le mani addosso.
Sussultava ogni volta che Tristan lasciava saettare la mano sul cambio
e si
ritraeva a mo’ di riccio, per mettere più distanza
possibile tra lui e lei.
Quello, dal
canto suo, aveva sospirato, prendendo a grattarsi la nuca.
«Infatti non è così.
Cercavo solo... tu non capisci!».
Si era
voltata di scatto a guardarlo, con un cipiglio scettico ed iracondo.
«Cos’è
che
non capirei, esattamente? Ti riferisci al fatto che tu abbia rubato una
macchina, che tu mi abbia appena rapita
o che tu mi stia portando a…», si era
interrotta, al limite dello shock, guardando fuori dal finestrino per
un
momento.
Erano nei pressi
di Duncan Manor.
L’aveva portata davvero a casa. E non l’aveva
uccisa.
“Ho ben altro a cui pensare che farti da
autista per un giorno”.
Senza sapere
cosa dire, aveva ripreso a guardarlo mentre lui era intento a fare una
manovra
degna di un racer per immettersi nel vialetto adibito a parcheggio. Il
sole ed
il caldo di quella mattina stavano rapidamente scemando, lasciando il
posto ai
tenui raggi rossastri del crepuscolo e ad un piacevole tepore che le
accarezzava il viso, dandole un po’ di pace, presentandosi
come una boccata
d’aria fresca opposta al clima torrido e asfissiante del
pomeriggio che aveva
trovato all’atterraggio.
«Mi
hai
portata a casa», aveva mormorato, dando adito ai suoi
pensieri. «Allora
perché…», inspirò, serrando
le palpebre per poi riaprirle, «perché... ti sei
comportato come un noto criminale degno di quel nome? Volevi
spaventarmi? E
perché hai rubato questa macchina?».
Tristan aveva
tirato il freno a mano, spegnendo l’auto e, appiattendosi al
sedile nero di
pelle, aveva tirato un sospiro. Forse era meglio se avesse trasgredito
agli
ordini impartiti dal suo nuovo patrigno e fosse andato a giocare a
football,
piuttosto che incontrare la principessina.
Ah, la sua vita stava diventando un porto di rimpianti!
«No», aveva
scandito, digrignando i
denti.
«È che
stavi
per fare una delle tue scenate plateali e ho agito senza pensare.
Scusami se ti
ho fatto male, non era mia intenzione ma te l’hanno mai che
sai solo dare fiato
alla bocca? Se solo avessi atteso dieci minuti, dieci, io ti avrei spiegato che questa
maledetta macchina sia la mia e che sia un regalo da parte di
tuo padre! Ma no, la signorina deve
fare
la sapientona e ci credo che ho dovuto metterti a tacere ma, a costo di
ripetermi, non avevo intenzione di attentare
alla tua vita!».
Ella non
aveva neanche prestato attenzione alla restante parte del discorso,
troppo
presa dalle parole ‘mia macchina’ e ‘tuo
padre’.
Perché
suo padre avrebbe dovuto regalargli
un’auto del genere, quando lei aveva dovuto pregare in
ginocchio affinché ne
potesse guidare una?
«Ellie?».
Per tutti
Eleanor Duncan era solo Ella e lei
detestava, da una parte, i soprannomi che Tristan le affibbiava di
tanto in
tanto ma più di tutti non era neanche in grado di udire
quello che aveva scelto
in quel momento. Stranamente, non era riuscito ad infastidirla quella
volta
perché era presa da qualcosa di ben più rilevante
e complicato da assimilare.
“La macchina che tuo padre mi ha regalato”.
“Bentornata
a casa, sorellina”.
Era tutto vero. Tristan non stava scherzando
quando
aveva tirato fuori quella assurda quanto utopica notizia a cui lei si
era si
ostinata di non credere.
Ma la macchina,
la promessa fatta al
padre di riaccompagnarla a casa, il fatto che conoscesse
l’esatta ubicazione
della villa,
erano chiari segni che si trattasse della pura ed infelice
realtà. Una realtà
da cui Ella avrebbe voluto senz’altro evadere.
Se fosse esistita una dimensione parallela, in cui lei ed il suo acerrimo nemico fossero divenuti parenti, be’, Ella l’aveva appena appurato, lei c’era finita dentro con tutte le scarpe.
Se fosse esistita una dimensione parallela, in cui lei ed il suo acerrimo nemico fossero divenuti parenti, be’, Ella l’aveva appena appurato, lei c’era finita dentro con tutte le scarpe.
E di
piacevole quella storia non presagiva nulla.
*
«Owens!
Cosa
ti fa credere che tu possa lasciare in giro per casa i calzini sporchi
e
puzzolenti, eh?! Io non sono la tua stracazzo
di serva, mi sembrava di essere stata abbondantemente
chiara!».
Ella, un
diavolo per capello, il pantalone del pigiama – casualmente – strappato
all’estremità, batteva una mano con rabbia
sulla porta del suo odiato – e nuovo di zecca – fratellastro.
Tre mesi, da quando aveva assodato che la sua vita fosse
irrimediabilmente
volta al termine e tre mesi, da
quando Andrew Duncan l’aveva accolta con un misero biglietto
lasciato per conto
della segretaria in cui diceva: ‘Bentornata,
tesoro. Mi dispiace non poter essere lì ad accoglierti ma
vedrai, Charlotte è
così entusiasta di conoscerti e non ti farà
mancare nulla. Baci, A.D.’.
Siamo finiti in
Pretty Little Liars?
fu il primo
pensiero che aveva
affollato la mente di Ella al termine del testo e non ‘Stronzo
di un padre fedifrago e senza palle” e non “Chi cazzo è
Charlotte?”, come in realtà
ci si sarebbe dovuto aspettare. Della prima, Ella aveva potuto
già prendere
atto grazie al gioco di epistole in cui Andrew si era prodigato
– benché lei
fosse più che convinta che fossero frutto della penna della
zelante segretaria
– della seconda, be’, dopo un bicchiere di coraggio
liquido aveva avuto anche
modo di conoscere Charlotte. Quando aveva incrociato i suoi occhi, di
un
azzurro così glaciale e ipnotico, così differenti
da quelli di Tristan, più
tendenti al verde bosco, non poteva credere che quella fosse sul serio
sua
madre. Tutto faceva pensare il contrario; gli occhi erano solo un
piccolo
particolare fra tanti. I capelli, neri come l’ebano,
cozzavano
irrimediabilmente con quelli del figlio, di un biondo cenere slavato.
Solo la
bellezza sembrava essere un tratto caratteristico di famiglia. Inoltre,
non
appena era entrata nel suo campo visivo, imponente e slanciata, passo
sinuoso
ed elegante, sorriso e portamento raffinati aveva potuto notare quanto
fosse
giovane, terribilmente giovane. Se
l’avesse incontrata per strada, aveva ponderato,
l’avrebbe scambiata per una
sua coetanea, tanto portava bene gli anni. Ciò che,
tuttavia, aveva colpito
Ella più di tutto era stato il suo carattere: genuino e
affabile, dolce e
bonario, come se volesse davvero andare d’accordo con lei e
come a voler
mettere in chiaro che non fosse assolutamente
una cacciatrice di dote. Ella, alla fine, per il bene comune, aveva
deciso di
non partire premeditata, almeno per una volta nella vita, e di tentare
di darle
una minima possibilità di conquistare la sua fiducia.
Qualora questa fosse
stata tradita, in qualsiasi caso, non ci sarebbe stato punto di
ritorno, alcuna
remora, alcun tentennamento, alcun perdono; questi, erano i patti a cui
Ella
era scesa e cui aveva convenuto, con se stessa, di rispettare. Fino ad
ora, Charlotte
si era comportata in modo egregio, lontana da lei l’idea di
provare a
sostituire in qualche modo la sua defunta madre.
Quell’approccio l’aveva
stupita più di ogni altra cosa e più di quanto
volesse ammettere.
La
precedente moglie di suo padre s’era dimostrata ben presto
per ciò che era
realmente: una patetica arrivista senza alcuno scrupolo, che mirava
più alla
posizione sociale occupata dal padre di Ella e alla conquista del
prestigio che
a condividere la sua vita con il primo, per puro amore. Era proprio
quello il
timore che aveva attanagliato Ella nel momento in cui era venuta a
conoscenza
del secondo matrimonio. Andrew era rimasto profondamente scottato dalla
precedente relazione e l’ultima cosa che la figlia desiderava
era raccogliere i
pezzi del suo cuore infranto, per la seconda volta. Venire a conoscenza
di Charlotte,
della vera Charlotte, colei che
guardava Andrew Duncan con gli occhi dell’amore,
dell’affetto, della devozione,
aveva contribuito ad incrementare il suo dubbio riguardo alla parentela
con Owens.
Sua madre era una persona di cuore, generosa, altruista, buona
mentre lui era l’esatto contrario. Ella si era ritrovata a
chiedersi più volte se in realtà fosse Tristan
quello adottato, piuttosto che
il fratello James. Vedeva più affinità tra
quest’ultimo e la sua matrigna di
quanto ne avesse vista mai con Tristan. Probabilmente, Tristan era la
copia
sputata del padre naturale che lei, tuttavia, non aveva mai conosciuto
e che
per quello non poteva dare alcun giudizio certo.
«Sei
davvero
un raggio di sole, Elenöir.
Ti prego, svegliami così
ogni mattina».
La voce di
Tristan Owens trasudava ironia e fastidio da tutti i pori. Fasciato
solo da dei
calzoncini blu di cotone, se ne stava bellamente appoggiato allo
stipite, una
mano sul battente in alto. Sguardo annoiato e stropicciato di chi: a)
ha appena
lottato con il cuscino; b) ha passato una notte insonne; c) ha dormito
beato
come un bambino, la osservava dall’alto del suo metro e
novanta mentre un
rapido sorriso andava a sfumargli le labbra.
Okay, ora
sì che può andare a fanculo,
rifletté Ella, senza palesare a
voce quel pensiero ma mimandolo con la fronte aggrottata.
“Stai
cercando di metterti in mostra, per caso?”, lo
canzonò, del tutto immune al suo
fascino da Golden Boy, ai suoi occhi, ormai scaduto. Era un
cliché vivente,
quel ragazzo; chi mai avrebbe potuto anche solo pensare di impegnarsi
in una
relazione seria con lui?
Oh, ma
sciocchina, lui non cerca
relazioni, ricordi?
Con
noncuranza, si apprestò a lanciare contro il suo petto i
calzini incriminati,
ora appallottolati, che aveva tenuto tra indice e pollice e a debita
distanza
dal suo naso.
Che schifo
vivere con un maschio...
«Copiti, idiota!».
Una vocina
bassa e assonnata irruppe in corridoio, destando l’attenzione
di entrambi che
dovettero chinare lo sguardo per accorgersi dello scricciolo che era
appena
sgattaiolato fuori dalla sua stanza. Ecco, Danika era compresa nel
pacchetto
quando Andrew aveva deciso di impelagarsi in quella avventura e
così Ella si
ritrovava a dover convivere con una presenza materna – che
per quanto si
ostinasse a prendere le distanze dal desiderio di essere chiamata
‘mamma’ anche
dalla figlia acquisita, rimaneva comunque quanto di più
vicino ad una madre ci
fosse – con un fratellastro ogni giorno più
antipatico, ed una sorella minore, sei
anni ed una lingua lunga e biforcuta già sviluppata. Danika
non condivideva il
sangue neppure con Tristan, sebbene quest’ultimo la trattasse
come se fosse sua
sorella a tutti gli effetti, senza badare ad alcun legame. Ed era
l’unica persona
a far emergere un Tristan diverso, animato da una luce nuova, molto
più
piacevole dal solito tenebroso e arrogante Owens. Quando
c’era Nika di mezzo,
lui era solo Tristan, spoglio di
ogni
aspetto negativo di cui, con il tempo, Ella aveva imparato a prendere
atto.
«E tu
impara
a parlare», fu la risposta del fratello maggiore che,
sorridente, le scompigliò
i capelli in un gesto affettuoso. Ella cercava in tutti i modi di non
intenerirsi di fronte a quelle scene ma talvolta Tristan
l’aveva colta sul fatto,
benché lei avesse provato a negare ogni cosa. Era
semplicemente adorabile. Ma non era necessario che Ella lo
mettesse al corrente.
Nika
gonfiò
le guanciotte, irritata dal commento del maggiore.
«Io so
palare benissimo! Sono gande, omai».
Ella le
sorrise, piegandosi sulle ginocchia per giungere alla sua altezza.
«Hai
ragione, piccola. Stai diventando proprio grande e presto imparerai
anche tu a
rispondere a dovere a questo cattivone. È tutta apparenza,
sai?».
Tristan
scoccò la lingua sul palato, ma si lasciò
sfuggire anche un sorriso divertito.
Ella alzò gli occhi in tempo per coglierlo e sorrise
soddisfatta.
«Visto?
Can che abbaia...»,
esordì Ella,
indirizzandosi alla bambina. «Non mode»,
completò
lei, battendo le mani, felice.
«Nika,
dobbiamo andare all’asilo.
Corri a prepararti, su».
Charlotte
spuntò sulle scale prima che potessero accorgersene. La
bimba si adombrò di
colpo a quelle parole e incrociò le braccia al petto,
contrariata.
«Butto l’asilo. I bambini sono
’tupidi. Veo, Trix?».
Tristan
uscì
dalla camera dopo essersi infilato una T-shirt – alla
rovescia, per altro – e
prese in braccio la piccola, facendole fare una gira volta. Quella,
colta di
sorpresa, emise un urletto estasiato e poi si aprì in una
risata di cuore
quando Tristan le schioccò un bacio sulla guancia. Infine,
la mise a terra.
«Verissimo,
piccola. Ma tu li stenderai tutti, prima o poi…»,
commentò, mimando dei pugni immaginari per farle
intendere il
concetto. Le espressioni che accompagnarono i gesti, Ella avrebbe
voluto tanto
immortalarle. Era raro che Tristan si
lasciasse andare a quel modo.
«...o lo farò io»,
completò sottovoce, come
se a sentirlo dovessero essere solo gli adulti presenti. Charlotte
scosse la
testa, ridacchiando e prese in braccio la figlia, salutando i due
adolescenti.
Ella, invece, si ritrovò a fissare, impensierita, un punto
indefinito sulla
ringhiera delle scale.
Chissà
come sarebbe dovuto essere
avere un fratello maggiore che mi riempisse di attenzioni come Tristan
fa con
Nika? A lei era toccato uno zotico, fin troppo cresciuto per poter
riservarle
quel genere di riguardi.
«Ellie?»,
sentì
Tristan chiamarla in
sottofondo ma lei lo ignorò. Si diresse nella sua camera e
lì vi rimase finché
non fu vestita e pronta per andare a scuola.
«Ehi,
c’è
Tristan!», esclamò Ink Larsson non appena Tristan
si immise nel parcheggio
riservato agli studenti. La Maserati spiccava in modo particolare tra
tutti gli
altri mezzi, alcuni più economici, altri del suo stesso
calibro ed il tridente
brillò colpito da un raggio di sole. L’idillio fu
interrotto dal fischio di
Brian Finnegan che con un indice si ritrovò a lisciare e a
seguire il profilo
della rifinitura nera dell’auto.
«Wow,
che
bel gioiellino abbiamo qui!», mormorò, mentre i
suoi occhi si accendevano di
luce propria. Tristan, preso dai suoi amici, neanche s’era
accorto che Ella era
sgattaiolata senza farsi notare e che fosse andata chissà
dove. Sicuramente
doveva presenziare all’accoglienza nuove matricole dal
momento che era stata
nominata Presidentessa del Comitato Studentesco l’anno
precedente. Senza troppi
indugi, alzando gli occhi al cielo, tirò via il suo amico
dal parcheggio,
distogliendo la sua attenzione dalla vettura lussuosa.
«Come
Presidentessa del Comitato Studentesco, io ed il mio team vi diamo il
nostro
caloroso benvenuto alla Eastwood High School».
Casey,
Lorelai, Pete, Jasper, Ines e Gabriela offrirono un gran sorriso ai
presenti,
annuendo alle parole del loro ‘capo’.
«Nessie
adesso vi illustrerà il vasto campo di opzioni tra cui
scegliere per conseguire
al meglio l’anno scolastico. Ines, pronta?».
Ines fece un
cenno con il mento, destreggiandosi e macchinando con il computer ed il
proiettore. Non appena il PowerPoint fu aperto, iniziò:
«Io sono Ines, dirigo
le iscrizioni ai club scolastici e mi tocca mettervi al corrente che la
scuola
ne ospiti diversi, tutti a discrezione degli studenti. Dunque, la
scelta
toccherà a voi. E adesso andiamo a
vedere
di che si tratt…”
Lasciando
che i suoi soci continuassero il loro lavoro, Ella, lanciata
un’occhiata
all’orologio da polso, si accorse che fosse tardi per
l’inizio delle lezioni e
che sarebbe dovuta correre in segreteria a ritirare
l’occorrente da distribuire
alle matricole. Avvisò rapidamente Jasper e
sfrecciò via dalla aula-magna,
correndo all’impazzata, dando, di tanto in tanto, delle
occhiate all’orario.
Quando aveva deciso di deviare con impeto per irrompere nello studiolo
della
segreteria non aveva calcolato che dietro l’angolo potesse
esserci qualcuno e
in men che non si dica si ritrovò sbalzata per terra,
complice l’attrito.
«Cazzo».
Ella prese a
massaggiarsi la testa, chiudendo gli occhi per il dolore ed imprecando
mentalmente verso il suo attentatore.
«Ti
costa
tanto guardare dove...»,
iniziò, con
un accenno di ira nella voce; accenno, che andò sfumando non
appena le sue
iridi entrarono in contatto con quelle del ragazzo che si era
già alzato e non
mostrava alcun segno di dolore. Ella arrossì, dimentica
ormai del bernoccolo
che le si stava formando sulla nuca. Rhys Lawrence la stava fissando
con uno
sguardo preoccupato mentre lei sbatteva gli occhi, incredula.
Tra tutti gli
studenti dell’Eastwood
perché era dovuta incappare proprio in lui?
Aveva
maturato una cotta per Rhys non appena aveva messo piede
all’Eastwood, fasciato
della mise sportiva della squadra di football che sfoggiava con tanto
orgoglio.
Le era bastato posare i suoi occhi sulla figura del giovane per un
secondo
perché il suo cuore capitolasse e dichiarasse forfait. Non
era mai stata una
fan dell’amore a prima vista; non ci aveva mai creduto ma era
bastato davvero
poco affinché iniziasse a provare qualcosa per lui. E negli
anni, quel
sentimento tremendo e dispettoso si era acuito sempre di
più, portandola a
soffrire, poiché da sempre conscia che lei, un ragazzo come
Rhys Lawrence, non
l’avrebbe mai meritato, né potuto avere. Non a
caso, alla fine, aveva
intrapreso una relazione con la reginetta del ballo, la dolce e
perfetta Sailör
Clark, che non perdeva alcuna occasione per dispensare sorrisi e per
prodigarsi
in favore del prossimo. Dunque non era rimasta stupita dalla scelta di
Rhys
poiché tutti adoravano Sailör, ma ferita
sì;
ciò era innegabile. Aveva dovuto sopprimere quei sentimenti,
fino ad inglobarli
nel profondo del suo cuore, non mettendo, tuttavia, in conto che a
lungo andare
quelli avrebbero finito per farla implodere a causa della loro grande
portata e
grande intensità.
Si riscosse
dalla piega verso cui i suoi pensieri si erano inerpicati e,
semplicemente,
sorrise.
«Rhys!».
«Eleanor,
mi
dispiace averti travolto, colpa mia. È tutto
okay?», si accertò, premuroso,
poiché altrimenti non sarebbe stato Rhys. Il cuore di Ella,
in quella
circostanza, palesò un sussulto ed Ella si accorse che fosse
talmente forte
tanto che Rhys avrebbe potuto captarlo e quasi si vergognò
delle sue stesse,
sconsiderate, emozioni.
È
fidanzato, si
ripeté, a mo’ di mantra, così
come aveva fatto negli anni scorsi.
Ella
annuì,
mandando giù un groppo enorme e forzando
l’ennesimo sorriso. Non lo vedeva da
prima che partisse e, con amarezza, stava attestando quanto le fosse
mancato.
Improvvisamente, Tristan, la sua matrigna, Nika, suo padre e tutto il
nuovo
mondo cui stava ancora cercando di abituarsi le parvero scomparire
dinanzi agli
occhi più belli e più rasserenanti che avesse mai
visto. Ancora una volta,
provando vergogna per se stessa, si ritrovò ad invidiare Sailör.
«Grazie
a
Dio! Sei tornata da poco? È da molto che non ti vedo in
città. I ragazzi del
tuo club giravano sempre senza di te, così ho pensato fossi
partita...». Ciò
detto, si passò la mano dietro la nuca, iniziando a
presentare sintomi di
nervosismo.
Ella
pensò
che da un lato fosse buffo e quasi paradossale, che mentre per lei Rhys
fosse
un porto sicuro, in cui rifugiarsi quando la vita le andava male, per
lui, lei
fosse solo la presidentessa del
Comitato Studentesco ed era doloroso rendersi conto che senza quel
titolo, Rhys
non si sarebbe neanche mai accorto di lei. D’altro canto, non
sapeva se dovesse
fare i salti dalla gioia poiché lui, la sua cotta
adolescenziale, aveva fatto
caso alla sua assenza, come se si fosse
impegnato a cercarla tra i presenti.
Scosse la
testa e affrettandosi a levarlo dall’imbarazzo venutosi a
creare, Ella
raccattò, senza entusiasmo, la borsa che nella caduta era
stata spazzata
qualche metro più lontano.
«Sì,
ero...
ero in Montana, dai miei nonni».
In quel
momento, il suo cercapersone trillò ed Ella
ringraziò chiunque si celasse
dall’altro lato. Utilizzando quella scusa, si
defilò, lasciandolo con una mano
alzata a metà, quasi come se il saluto si fosse disperso
nell’aria a causa
della sua frettolosa dipartita, ed un’espressione confusa.
Ella
concordò con se stessa che per preservare il suo incarico,
che richiedeva
attenzione e dedizione alla causa, ma anche il suo cuore, distrazioni come Rhys Lawrence avrebbe
dovuto evitarle come la
peste.
Munita del
materiale necessario all’immatricolazione –
prelevato dalla segreteria non
prima di aver firmato e aver crocettato una serie di scartoffie
burocratiche – si
affrettò a condurre la scatola, abbastanza pesante, che la
faceva barcollare
qui e lì, nell’aula magna, cosicché i
nuovi ragazzi, e anche i membri del club,
potessero intraprendere le lezioni.
Attenta a
non inciampare in niente e in nessuno, spostava la scatola, di tanto in
tanto,
per avere una migliore visuale del passaggio. Non sarebbe finita bene.
“Cassie,
no, ho già detto che posso
farlo io. Non c’è bisogno
che…”
“Lör,
tu non sei nelle condizioni
di…”
“Cassie,
taci”.
Una serie di
bisbigli concitati e anche piuttosto velati giunse
all’orecchio di Ella prima
ancora che potesse ignorare ciò che stessero dicendo. Le
voci sembravano
appartenere a Cassandra Lawrence, la sorella di Rhys, e Sailör
Clark, la
fidanzata di quest’ultimo. Solo, Ella non capiva a cosa si
stessero riferendo.
Che ci fossero problemi nella squadra di cheerleading? Se
così fosse stato,
perché nessuno l’aveva avvisata? Era lei a dover
occuparsi delle eventuali
sostituzioni e delle ammissioni delle nuove aspiranti cheerleaders. Il
decreto
supremo spettava a Sailör, in quanto capitano della squadra,
ma le iscrizioni e
i cambiamenti di programma sarebbero dovuti filtrare attraverso lei in
primo
luogo.
Stranita ma
troppo impegnata a non cadere, insieme all’occorrente degli
studenti, decise di
lasciar correre, appuntandosi, comunque, di indagare non appena le
fosse stato
possibile.
«Ce ne
hai
messo di tempo, Dunck! Li hai presi
in Siberia, quei cosi? E... sicura di sentirti bene? Hai una
cera...».
Effettivamente
si sentiva spossata e stanca – ed
era
solo la prima ora. Non aveva idea se a concorrere a quello
strano malessere
fosse il fatto che non avesse avuto modo di fare colazione,
poiché
quell’animale di Tristan aveva minacciato di lasciarla a
piedi – e la sua auto
serviva a Charlotte per accompagnare Nika all’asilo
– o la botta che aveva
preso nello scontro con Rhys. In un primo momento, non le aveva dato
molto
peso, poiché l’aveva considerato come un semplice
ematoma da caduta, che non avrebbe avuto ripercussioni sul
suo stato di
salute ma ora sentiva freddo e la vista le si era annebbiata
più di una volta.
«Ella?
Vuoi
andare in infermeria? Non stai benone...», le chiese Ines,
dandole un colpetto
sulla spalla.
«È
tutto
okay, Ines, tranquilla. Adesso mi passa, solo... solo un
capogiro», minimizzò,
sforzandosi di elargire un sorriso convincente.
Dopo un
momento di tentennamento, Ines cedette. «E va bene, testona,
sai che non devi
interpretare la parte di Wonder Woman
solo perché la tua posizione, in teoria, lo richiede. Sei la
nostra
presidentessa ma sei anche una persona, Ella, e come tutti è
normale presentare
delle debolezze ma, credimi, celarle non è sinonimo di
coraggio, anzi, alla
lunga, diventa questo atteggiamento assume i tratti di una
mancanza».
«Grazie, Nessie. Credo tu sia
l’unica a
cui interessa il mio reale stato d’animo e di salute. Tu mi
vedi anche come Ella Duncan e non solo come la presidentessa di questo
club. Quindi... grazie».
Si potevano
contare sulle dita le volte in cui Ella avesse ringraziato uno di loro
e questo
Ines Bennet lo aveva imparato a sue spese. La sua amica era sempre
troppo
impegnata ad impartire ordini affinché tutto filasse liscio,
senza alcun
imprevisto e questa sua tendenza a programmare tutto, a volte, la
faceva
apparire come un’insensibile stronza, pronta a caricare di
lavoro i membri del
gruppo che non potevano neppure lamentarsi poiché tutti, chi
più chi meno,
intendevano portare a termine un lavoro fatto bene.
Le sorrise
bonaria e felice che Ella fosse riuscita a palesare qualche sentimento umano a fare da contraltare alle solite
azioni tipiche da macchina da guerra. Vedere Ella ammorbidita
era una sensazione nuova ma non per questo meno
piacevole.
«Qui
abbiamo
finito», annunciò Casey, spegnendo il proiettore e
infilando la pen-drive nella
borsa. Il brusio delle matricole si diffuse nell’aria a
macchia d’olio mandando
tutti in confusione.
Che mandria di
indisciplinati! pensò
Ella, reggendosi la fronte con
una mano, iniziando a sudare freddo.
Jasper,
colta l’antifona, iniziò ad agitare le braccia
come a richiamare l’attenzione
di quegli animali da zoo. Quando ottenne il risultato sperato,
iniziò a dare
loro istruzioni: «Adesso, date un’occhiata
all’orario come Gabriela vi ha
spiegato poco fa. Non appena vi sarà chiara la lezione cui
dovrete partecipare
disponetevi in gruppi ordinati. Pete», disse indicando il
giovane dai capelli
fulvi, stante la porta, «scorterà i ragazzi del
corso di chimica. Gabriela,
quelli del corso di algebra. Ines vi mostrerà la strada per
il corso di storia
e geografia. Casey, per quello di letteratura inglese. Lorelai, per
quello di
spagnolo. Infine, io vi porterò nell’aula di
giornalismo. È tutto per oggi.
Forza, forza, andiamo! I professori odiano i ritardatari!».
E come un
vigile, iniziò ad impartire ordini a destra e a sinistra.
Ella gli regalò un sorriso
carico di gratitudine e lui le rispose con un occhiolino.
«Ella,
vai a
farti visitare in infermeria. Quel livido sulla nuca non mi piace per
niente».
Casey Gomez
sognava di studiare medicina una volta al college ed Ella era convinta
ce
l’avrebbe fatta perché era una ragazza brillante,
in gamba, e aveva occhio per
ogni minimo particolare. Sarebbe stata un grande e valido medico, da
grande.
«Cosa? Un livido? Ma cosa è
successo nel
tragitto aula magna-segreteria?», intervenne sconvolta Ines. Menomale che stava bene!
Ella
sospirò. «Niente. Sono solo scivolata. Casey, vai
pure, chiederò un po’ di
ghiaccio da applicare sull’ematoma e vi
raggiungerò alla lezione di spagnolo.
Su, andate! Non so per quanto Pete riuscirà a
tenerli…», annunciò, ammiccando
con il mento all’orda di ragazzini pestiferi e ad un Pete
che, sconsolato,
chiedeva aiuto ai suoi compagni. Casey fu la prima ad immolarsi per
quel
compito e fu impressionante constatare che tutti i presenti, al suono
della sua
voce, ammutolissero, prendendo ad osservarla come rapiti.
«Che
spaccona”, commentò Lorelai, divertita.
Quando tutti
scomparvero, Ella, rimasta sola, iniziò a tastarsi il punto
dolorante,
trovandovi una protuberanza gonfia e irritata.
Cazzo, che male!
«Signorina
Duncan, si sente bene?», domandò
l’inserviente, notandola sola in aula-magna,
l’espressione sofferente. Si apprestò a darsi un
contegno, sorridendo genuina
alla donnina di mezza età con un piglio preoccupato.
«Miss
Johnson, quanto è bella lei, nessuno mai!».
Ella
sbiancò,
sentendo quella voce e
iniziò a
gesticolare e a scuotere la testa come a far capire la bidella di
mandarlo via.
Quella, tuttavia, non la ascoltò nemmeno perché
troppo impegnata a voltarsi per
accogliere Tristan e rimproverarlo per essere fuori dall’aula
nell’ora di
lezione, piuttosto che a studiare.
Era una
catastrofe! Se gli avesse
riferito di averla trovata con un’espressione di dolore
Tristan, come minimo,
avrebbe iniziato a deriderla, solo per il gusto di darle fastidio.
Lì,
all’Eastwood High nessuno era stato messo a conoscenza del
fatto che lei e
Tristan avessero unito le famiglie e che, quindi, fossero fratellastri.
Ella
aveva voluto così e Tristan, dal canto suo, non
s’era opposto, sebbene fosse
rimasto perplesso dinanzi alla richiesta della biondina.
Lei era
dell’idea che sarebbe stato meglio non dare voce ai
pettegolezzi che, in quella
scuola, si diffondevano molto rapidamente.
«Signor
Owens, sa bene che non mi incanta adulandomi! Ma seriamente,
è convinto di far
capitolare una ragazza servendosi di queste battute pre-confezionate?
Ah,
Cielo, i giovani d’oggi…».
Tristan
incassò il colpo, fingendosi ferito nel profondo, con tanto
di mano plateale
sul petto.
«Lei
mi
uccide così. Possibile mai che niente riesca a scalfirla? Mmh, sa che mi ricorda qualcuno?».
Rigida come il
manico di scopa che
tiene in mano, totalmente inerme al suo fascino, intenta ad intaccare
il suo
orgoglio... be’, la versione più anziana della sua
sorellastra!
Ella che,
all’inizio, aveva gioito per la stoccata impartita dalla
bidella, suo nuovo
mito, non appena captò quelle ultime parole smise di
sorridere. Si stava riferendo a lei, quel
cafone!
E dimentica,
dei suoi tentativi di apparire inosservata, nascondendosi sotto alla
scrivania
o, alla peggio, di frantumare di testa la finestra, precipitandosi
giù, si
alzò, noncurante della fitta che le attraversò la
testa e, impettita, avanzò
verso l’uscio, pronta a dirgliene quattro.
Ma insomma, che
maleducato...
«Questa
ragazza di cui parla deve essere molto scaltra e superiore per non
lasciarsi
incantare da quello che lei si ostina a definire fascino.
Le donne, caro mio, preferiscono i giovani nobili d’animo
che riservano dolcezze e riverenze all’amata e non i bellocci
tutto fumo e
niente arrosto!».
Sì,
forse, nella sua epoca dimenticata
da Dio,
rifletté Tristan,
assorto. Era risaputo che nel ventunesimo secolo tutte preferissero
ormai il
‘bello e misterioso’ al “gentile ma
stupido”.
«Sì,
in
effetti è molto intelligente,
anche
troppo, ad essere sinceri, ma anche piuttosto strana. Miss Johnson,
crede
davvero che la ragazza di cui parla sia immune al mio fascino?
È tutta tattica,
la sua. Fare le recidiva affinché un bel maschione, in
questo caso il
sottoscritto, colga la sfida, decidendo di correrle dietro. Ormai
è assoldato
che sia una mera trappola per imbrogliare chiunque stia
dall’altro lato!».
Ella
batté
le mani. Una, due, tre volte. Si avvicinò con passo
cadenzato ed un’espressione
fintamente soddisfatta.
«Ma
bravo, bravo, continua con la tua
filippica
cinica e misogina! Tu sei un idiota! Ecco perché la
sottoscritta non ti viene e
mai ti verrà dietro. Ho ben altro da fare che rispondere ad
i tuoi stupidi
quanto cavernicoli modi di approcciarti a me. Non è che
forse sarai tu, quello
bisognoso di attenzioni che non perde attimo di punzecchiare la preda
affinché
questa cada vittima della tua trappola?».
Tristan
sussultò, come se l’avessero schiaffeggiato. Di
tutto quel discorso, non aveva
seguito nulla, perché era troppo impegnato ad interrogarsi
sul perché la
diligente e zelante Eleanor Duncan fosse fuori dall’aula, a
poltrire in
aula-magna.
«Che
diavolo
ci fai tu qui?», l’accusò, furente in
volto.
Neanche capiva
da dove derivasse
quella bizzarra emozione.
Forse era legata al fatto che Ella, ancora una volta,
l’avesse colto impreparato
e che in quel modo lui non avrebbe saputo come ribattere.
«E sai
cosa?
Miss Johnson ha ragione quando dice che noi ragazze preferiamo
l’altro genere
di uomo ed io ne sono la prova vivente!».
Ma cosa cazzo
stava dicendo? Perché
era così criptica? E soprattutto, cos’era quel
colorito biancastro che le
incorniciava il volto?! Ella
aveva sempre avuto un incarnato pallido e diafano ma mai
così spento e terrificante. E fu strano accorgersi che
avesse
notato quel particolare ma ancora più strano e preoccupante
il fatto che quando
l’aveva accompagnata a scuola stesse bene.
«Dio,
Ellie,
ma ti sei messa la cipria in faccia stamattina?».
Miss
Johnson, intanto, stava facendo ondeggiare lo sguardo
dall’uno all’altra,
davvero presa dal teatrino che stava mettendo in scena. Anche meglio
delle sue
soap-opera argentine. Le mancavano solo i pop-corn per godersi a pieno
quella
scenetta degna di nota.
«...che cosa?», completò
Ella, ai limiti
della comprensione di cui Dio l’aveva dotata. Che
domanda era quella, esattamente? E come si era accorto di avere
qualcosa di strano in viso?
«Dico,
sei
bianca cadaverica…», continuò,
fissandola con un piglio inquisitore.
«Vero?»,
diede manforte Miss Johnson, «L’ho notato anche io
non appena l’ho vista e
inoltre…»
No, ti prego,
taci. Ella le
lanciò un’occhiata
eloquente che la bidella, di nuovo, ignorò bellamente.
Allora attese. Attese
che Tristan la deridesse per la sua sbadataggine e
quell’insulto che,
sicuramente, ne sarebbe scaturito sarebbe piovuto come una spada di
Damocle
sulla sua testa.
«...inoltre,
l’ho colta a massaggiarsi la nuca, in modo dolorante. Sicura
che non sia
caduta, signorina Duncan?».
Perché
diavolo non era andata subito
in classe? Perché non
aveva dato
retta a Nessie andando in infermeria?
«No. Non sono caduta. Ero solo
stanca. Sono stanca e adesso andrei
in classe perché ho già perso un’ora.
Smettetela di chiedermi come sto!».
Disse quelle
parole con un impeto tale da provocarle un capogiro e si
appoggiò, di istinto,
al muro.
«Blondie, tu non stai bene»,
asserì il
giovane, scrutandola con un’intensità tale da
perforare chiunque, da parte a
parte.
Lo detesto,
perché non tace?
«Ah,
ma lo
saprò io, se sto bene oppure no. Devo
andare».
«Signorina
Duncan! Non si regge in piedi”, aggiunse Miss Johnson,
preoccupata.
Si
staccò
dalla parete, decisa ad andarsene, a fuggire
dalle preoccupazioni dei due presenti. Un attimo... preoccupazione?
Tristan era... no, impossibile.
Allora perché la
frecciatina al vetriolo non era ancora giunta dalle sue dannate labbra?
Non doveva andare così.
«Signor
Owens, non sarebbe meglio accompagnarla in infermeria?»,
propose Miss Johnson,
guadagnandosi un’occhiata quasi accondiscendete da parte del
ragazzo che era
intento a fissare Ella che barcollava, reggendosi a stento in piedi.
Era cocciuta,
cocciuta come un mulo
e cosa più grave, con la sua testardaggine si sarebbe
ammazzata tra un
corridoio e l’altro.
Tristan
imprecò, maledicendo il Fato che aveva fatto in modo di
incrociare i loro
destini più di quanto già non fossero. Poco male,
avrebbe potuto usare la
scusa, con se stesso, che la sua improvvisa e inconsapevole
preoccupazione,
fosse scaturita in quanto responsabile della sua incolumità,
in veste di
fratello maggiore. Fratellastro, le
ricordò una vocina infima nella mente.
«Elenöir»,
scandì a denti stretti, rincorrendola. Doveva
sempre dare
spettacolo, quella stupida, neanche fossero in un reality!
Era veloce
per essere una che stesse per crollare da un momento
all’altro. Con ampie
falcate riuscì a raggiungerla, arpionandole un braccio.
«Ma ti
rendi
conto di quanto tu sia incosciente? Perché ti costa tanto
chiedere aiuto, per
una volta?», le urlò contro, strattonandola con
forza, senza applicarne troppa
per non farle male come quella volta nel parcheggio
dell’aeroporto.
«E tu,
che stai interferendo con il
corso naturale degli eventi, stravolgendolo? Non sai che è
auspicio di cattivo
presagio?»,
rispose a tono, divincolandosi da quella presa ferrea.
Cazzo, ma quanto
forte l’aveva
battuta, la testa?
Tristan
sembrò
formulare lo stesso pensiero perché assunse
un’espressione confusa e...
divertita.
Sì,
adesso andava bene. Adesso
sì che era Tristan Owens.
«Non...»,
serrò le palpebre, «...non dovresti, che so,
spingermi tu stesso a terra ora,
per farti una sana risata?».
Tristan si
levò quel sorriso dalla faccia, facendosi serio
all’improvviso.
Era incredibile!
E stava anche delirando. Sembrava ubriaca.
“Forse
un
tempo l’avrei fatto, sì. Ma non sono così
stronzo, Ella. Capisco quando comportarmi come tale e quando
smetterla e in
questo momento non ho proprio voglia di giocare,
non quando tu sei più a terra che in piedi. Si
può sapere che cazzo hai fatto
stamattina? Dovevi solo accogliere dei ragazzini!”.
Ella
ridacchiò. Si sentiva davvero strana. Come se le avessero
iniettato una dose di
Valium e quello stesse facendo i suoi effetti. Del resto, era a poco
dallo
svenire e le gambe di colpo fatte di gelatina ne erano il sintomo
lampante.
Alla fine, complice la fatica nel ribattere e litigare, si arrese.
Sbuffò. «Sono
scivolata e ho battuto la testa. Più forte di quanto
credessi, ad onor del
vero. Ma stavo bene, te lo giuro.
Solo
che ora… ora... oh, mio Dio», si
allarmò, portandosi le mani davanti alla bocca
poiché all’improvviso ci vedeva doppio, «hai
un gemello, per caso?».
Ella fece
per assopirsi, chiudendo gli occhi e se non ci fosse stato lui a
tenerla
avrebbe incontrato nuovamente il pavimento duro.
«Merda.
Ellie, ehi, apri
gli occhi»,
mormorò, dandole uno schiaffetto in faccia
affinché si riprendesse. Poi, colto
da un istinto di sopravvivenza, le prese un braccio portandoselo dietro
il
collo e mettendole il suo sul fianco, così da poterla
scortare in infermeria.
Idiota,
incosciente e... Ella
sembrava così tranquilla e indifesa, nel suo attuale stato;
in un modo che
faceva venire voglia a Tristan di prendersi cura di lei, di aiutarla a
stare
meglio. E questo
improvviso desiderio lo spaventò terribilmente.
«Tristan»,
lo accolse Clementine Roberts, sorpresa di vederlo lì in
infermeria per un
motivo che non avesse niente a che fare con i loro incontri sporadici
in cui se
la spassavano allegramente. Clementine aveva solo vent’anni e
Tristan aveva
raggiunto la maggior età, quindi non si trattava di nulla di
illegale e neanche
nulla di serio, in quanto lei, in veste di dipendente della Eastwood,
non
avrebbe potuto impegnarsi seriamente con uno studente. Era contro il
regolamento. E comunque, erano sempre stati molto attenti a non farsi
scoprire
da occhi indiscreti.
«Che
è
successo?», domandò, allarmata, non appena vide la
ragazza esanime ora stesa
sul lettino.
Pescò
la
torcia medica dal taschino del camice ed iniziò a
proiettarla verso le pupille
della giovane distesa, dopo aver sollevato le palpebre.
«È
cosciente, ma troppo sfiancata per rispondere agli impulsi».
Clementine
alzò gli occhi, notando che Tristan non avesse smesso di
guardare la ragazza
nemmeno per un attimo e si chiese cosa ci fosse tra quei due. Era noto
a tutti
che a Tristan non importasse di nessuno che non fosse se stesso ed era
alquanto
strano vederlo penarsi per qualcuno che non fosse lui.
Avanzò,
facendo il giro del lettino andando in cerca di ematomi o simili che
potessero
farle comprendere la causa di quello svenimento.
«Tristan». Dovette chiamarlo tre
volte
prima di destare la sua attenzione. «Devi dirmi cosa
è successo altrimenti non
so come muovermi».
«Io…
è
svenuta... è svenuta tra le mie braccia... io... non lo so... ha detto che è
caduta… ha sbattuto la testa».
Possibile
che non riuscisse a formulare un pensiero di senso compiuto? Che fine
aveva
fatto il Tristan inamovibile e insensibile a cui era abituata?
Clementine
annuì, lasciando perdere le sue elucubrazioni mentali, e
andò a verificare il
punto indicato. Con le dita raggiunse l’ematoma che si
aspettava di trovare e
trovandolo, iniziò a toccarlo per rendersi conto della
gravità della
situazione.
«È
davvero
gonfio ma non letale. In teoria dovrebbe andare in ospedale per fare
una tac e
scongiurare il trauma cranico ma, per quanto ne so, non è
niente che non possa
risolversi con un po’ di riposo, un antidolorifico e un
impacco di ghiaccio».
Clementine
si disfece dei guanti in lattice, gettandoli nel cestino sotto il letto
e andò
alla vetrina dei medicinali per prendere una compressa che diede a
Tristan
affinché la facesse prendere alla ragazza ancora dormiente e
si spostò allo
scomparto del ghiaccio per prelevarne una bustina. Diede un pugno
deciso a
quest’ultima e, celere, quella iniziò a
raffreddarsi. Consegnò anche quella al
ragazzo cosicché andasse ad appoggiarla sotto la nuca della
biondina.
«È
solo una
tua compagna o anche... qualcos’altro?».
Tristan
ponderò a lungo sulla risposta da dare alla donna. Aveva
promesso ad Ella di
tacere sul fatto che fossero fratelli e non sarebbe certo venuto meno
alla sua
parola.
«È
una
compagna. Ma non vedo come questo possa riguardarti,
Clementine».
Era stato
più duro di quanto avesse voluto, nel rivelare quelle parole
ma sul serio non
capiva cosa potesse importare alla donna con cui scopava
occasionalmente chi
fosse quella ragazza.
Clementine
non sembrò prendersela, anzi sorrise compiaciuta.
«Ah,
questo
è il ragazzo che conosco!», osservò,
felice, avvicinandosi a lui con passo
felpato. Tristan captando, le sue intenzioni, si fece più
vicino ad Ella, prendendo
a carezzarle la fronte. La donna si fermò, decidendo di
arretrare. «Capisco»,
disse e quell’unica parola fu come una doccia fredda per lui.
Era sicuro che
Clementine si fosse fatta un’idea del tutto sbagliata di loro
due, eppure, in
quel frangente, non gli importò più di tanto.
Ella si decise ad aprire gli
occhi, proprio mentre la ventenne stava osando sfiorargli il braccio in
maniera
molto poco casta, gesto seguito da un’occhiata languida e
lussuriosa.
Tristan si
ritrasse, come se la voce di Ella, che era andata a rompere quella
bolla che si
era creata tra i due amanti, l’avesse risvegliato,
l’avesse riportato a
ragionare con mente lucida, non ottenebrata dal piacere che, se avesse
seguito
la richiesta velata di Clementine, avrebbe potuto provare.
Non poteva
affermare con certezza se Ella avesse notato o meno quel contatto ma il
solo
pensiero gli dava il voltastomaco, senza alcun appartenente motivo.
«Dove...
dove sono?».
«Come
ti
senti?», si informò Clementine, aiutandola ad
alzarsi. Era pur sempre una
studentessa e, per quanto avesse tutta l’aria rappresentare
una minaccia, che
minasse il rapporto venutosi a creare con Tristan, Clementine non
poteva
avvalersi di alcuna scusa per evitare di prestarle assistenza.
«Frastornata
e... confusa. Che ci fa lui qui?!»,
Ella additò il giovane, con piglio severo e tono colmo di
stizza.
Sembrava avercela a morte con lui, lui che si era preoccupato tanto per lei!
Improvvisamente le venne voglia di schiaffeggiarla.
Ma insomma, bel ringraziamento!
Sembrava avercela a morte con lui, lui che si era preoccupato tanto per lei!
Improvvisamente le venne voglia di schiaffeggiarla.
Ma insomma, bel ringraziamento!
«Come
ti
senti?», ripeté Tristan, ignorando le sue
occhiatacce.
Era svenuta? Tristan
l’aveva davvero portata in infermeria?
«Adesso
che
ti vedo, male», fu la sua secca risposta. Tristan, oltre ogni
previsione,
sorrise, lasciando di stucco non una, ma ben due ragazze.
«Be’,
direi
che stai benone se sei capace di fare del sarcasmo. Signore, il mio
lavoro qui
è finito. Hasta luego»,
e ciò detto,
scomparve dietro la porta, non prima di aver indirizzato uno sguardo
eloquente
e carico di aspettative in direzione della dottoressa.
Ella
arcuò
un sopracciglio, riconoscendo la natura di quell’espressione,
e si limitò a fissare la porta da cui era uscito. Tristan se la faceva con la dottoressa…
Inorridendo,
alzò una mano, percependo un conato in arrivo:
«Scusi, mi sa che devo vomitare».