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Autore: Adeia Di Elferas    13/05/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Calma!” stava gridando il Gonfaloniere di Giustizia della Signoria di Firenze: “State calmi! Fate silenzio! Silenzio!”

Lorenzo Medici osservava gli altri membri dell'assemblea alzarsi dagli scranni addossati al muro e sollevare pugni e inveire gli uni contro gli altri.

La decisione, presa qualche giorno addietro, di proporre dei soldi a Virginio Orsini a patto che si ritirasse subito dalle terre che stava occupando per spostarsi altrove, aveva sollevato molte meno polemiche che non la semplice notifica che il Gonfaloniere aveva appena fatto.

“Siete dei corrotti!” gridavano quelli che si erano schierati in opposizione a Savonarola: “Avete comprato il favore del papa coi soldi!”

E di contro i sostenitori del domenicano ribattevano: “Il papa ha finalmente capito che questa è la via per la cristianità!”

Il Popolano quel giorno non era accompagnato dal fratello, che si era sentito poco bene fin dalla sera prima. Si trattava di un attacco gottoso, che nulla aveva a che fare con quello più feroce patito mesi addietro, ma che comunque era stato sufficiente per far preoccupare Lorenzo abbastanza da distrarlo perfino da quello che veniva detto dalla Signoria.

Il delegato fiorentino Becchi, per volere di Alessandro VI, aveva concesso vivae vocis oraculo il permesso a Savonarola di salire di nuovo sul pulpito e quella notizia aveva scosso Firenze come un terremoto. Solo Lorenzo il Popolano sembrava non essere stato nemmeno sfiorato da quella prospettiva.

Quello che aspettava davvero era il secondo punto all'ordine del giorno: la scelta del nuovo ambasciatore da mandare a Forlì. Fosse stato per lui, sarebbe entrato nella sala della Signoria solo finita la lite sterile che aveva quel folle di Savonarola come soggetto, ma non avrebbe mai potuto.

Così dovette sorbirsi le grida di sedicenti rispettabili fiorentini che facevano a gara a chi avesse polmoni più potenti.

Solo quando la situazione fu sul punto di degenerare scadendo in una volgarissima e inutile rissa, Lorenzo lasciò la sua panca e si adoperò per riportare la calma, invogliando i suoi vicini – la maggior parte dei quali erano suoi sostenitori solo perché rientravano nel gruppo da lui corrotto per favorire l'elezione di Giovanni – a placare gli animi di tutti quanti.

Nel giro di una manciata di minuti la Signoria tornò tranquilla e, dopo qualche frase di circostanza con cui si ammetteva che ormai il volere papale era stato espresso e che quindi era assurdo lamentarsene, finalmente il Gonfaloniere tossicchiò e passò oltre.

“Ringraziamo messer Medici per aver ridato alla nostra assemblea un minimo di contegno – disse l'uomo, guardando di sottecchi Lorenzo, che ricambiò con una noncurante alzata di spalle – e passiamo ora alla prossima urgente questione. È giunto il nullaosta, da parte del governo di Imola e Forlì in merito al nostro invio di un nuovo ambasciatore. Se qualcuno ha dei nomi da proporre, questo è il momento. Dopo aver espresso le preferenze sui candidati, procederemo a votazione.”

Lorenzo attese con pazienza che qualcuno per la parte degli Arrabbiati e qualcuno per quella dei Piagnoni avanzasse le proprie proposte e non dovette nemmeno sforzarsi a smontare le presentazioni altrui, perché i due partiti riuscivano a farlo da soli e in modo egregio anche senza il suo aiuto.

Quando finalmente l'assemblea pareva essere precipitata in un clima di sfiducia, dato che nessuno dei nomi proposti pareva adatto – uno era notoriamente un incapace, l'altro era troppo irruento e si sarebbe scontrato con la Leonessa senza motivo, un altro ancora non riusciva ad aprir bocca davanti a una donna, uno era un prete e solo per quello la Contessa lo avrebbe probabilmente disprezzato, un altro era troppo vecchio e così via – il Popolano si alzò e prese la parola, assumendo un'espressione affranta che convinse subito molta parte dell'auditorio: “La mia famiglia non vorrebbe prendere altre cariche importanti, non vogliamo accentrare il potere su di noi, noi non siamo come era mio cugino, il Magnifico, né come poteva essere suo figlio Piero, ma tutti voi sapete quanto teniamo al bene di questa repubblica.”

Qualcuno espresse il proprio assenso con qualche mezza frase e il Gonfaloniere si sistemò sul suo alto seggiolone, occhieggiando verso Lorenzo in un modo che fece intere al Medici di essere stato smascherato, se non altro dal moderatore di quell'assemblea. Poco importava, però, dato che il Gonfaloniere avrebbe accettato tutto, pur di averne un minimo ricavo e l'uomo già immaginava di poter contare sulla benevolenza medicea, se avesse assecondato Lorenzo.

“Come tutti voi sapete, io e mio fratello abbiamo trattato in passato con la Leonessa di Romagna, per venderle del grano, e abbiamo intessuto con lei una corrispondenza pacifica e costruttiva.” disse il Popolano, allargando la braccia e mostrando i palmi, cercando di sfruttare tutti i trucchi della retorica per far sì che nessuno avesse più dubbi sulla sua buona fede: “Quindi io candido mio fratello minore, Giovanni, come ambasciatore e sovrintendente degli interessi repubblicani in Romagna.”

Quella proposta venne accolta da un insieme confuso di esclamazioni e commenti, ma Lorenzo sapeva che avrebbe avuto la vittoria in pugno, se nessuno avesse avuto il tempo di trovare delle pecche nel suo candidato. Così lanciò uno sguardo significativo al Gonfaloniere che si affrettò a battere il martello e richiamare l'ordine.

“Si voti!” ordinò l'uomo, facendo un segno con una delle grosse mani affinché venissero distribuiti i pezzi di carta e l'inchiostro.

Dopo nemmeno mezz'ora, lo spoglio terminò e il Gonfaloniere, annuendo con serietà, dichiarò: “E sia. L'ambasciatore di Firenze e il nostro sovrintendente per gli affari della repubblica in Romagna sarà Giovanni dei Medici, detto il Popolano.”

Un applauso fece da sfondo a quella decisione e Lorenzo si permise di tirare un sospiro di sollievo e si sciolse perfino in un sorriso a beneficio degli elettori del fratello.

“Quando potrà partire?” gli chiese il Gonfaloniere, una volta tolta la seduta.

Il Medici ci pensò. Voleva che suo fratello avesse il tempo di riprendersi, prima di mandarlo tanto lontano.

Così, inclinando il capo di lato, rispose: “Il tempo di sistemare alcuni affari di famiglia e partirà. Io credo che entro marzo sarà a Forlì.”

 

Giovanni Merlo si era subito dato da fare, fin dal momento in cui il Governatore Tommaso Feo lo aveva fatto liberare e gli aveva intimato di trovare i soldi in fretta e senza fare scherzi.

“Prova a prenderti di nuovo gioco della Tigre – gli aveva detto a mezza bocca, tenendo con fare evocativo una mano sull'elsa della spada che portava al fianco – e sappi che non ci sarà un solo angolo su questa Terra in cui potrai nasconderti senza che lei ti trovi e ti tagli la gola.”

Come risultato, già verso fine mese cominciarono ad arrivare a Forlì i primi fondi per i lavori a cui la Contessa si stava dedicando senza tregua.

Oltre alla costruzione del parco e alla distruzione e il recupero del palazzo dei Riario, Caterina aveva preso importanti decisioni anche in campo economico e finanziario.

Aveva tagliato le tasse sulla legna e sulla paglia, andando a risollevare i mercati di due merci che stavano subendo un forte arresto nelle vendite e nelle richieste proprio per colpa dei prezzi.

In più aveva riscritto la legge sulla compravendita di terreni agricoli, facendo sì che non si potesse vendere un'intera proprietà terrena né comprarla senza avere prima ottenuto un permesso scritto da lei in persona, pena duecento ducati di multa.

Quell'ultima accortezza era stata decisa per due motivi: sia per evitare l'odiosa formazione di nuovi latifondi, che avrebbero impoverito ancora di più il panorama contadino del suo Stato, sia per evitare lo spopolamento.

In tanti, infatti, stavano vendendo o avevano da poco venduto, i propri campi a latifondisti in cerca di espansione e, una volta intascati i ricavati della cessione, scappavano da qualche altra parte, in genere lontano dalla Romagna, per evitare di essere coinvolti di nuovo in una guerra.

A Caterina, invece, serviva un bacino stabile di soldati e dunque di sudditi. Lo spopolamento andava combattuto e andavano favorite le famiglie, alleggerendo le tasse e aumentando la presenza in positivo dello Stato. Ci volevano nove mesi per fare un bambino, almeno tredici o quattordici anni per farne un soldato. Era un lavoro che andava fatto con dedizione e cautela. Se voleva dare a Forlì un esercito stabile, era necessario pensarla in termini di lungo periodo. Lei non avrebbe potuto godere di quella disponibilità di soldati, ma suo figlio Galeazzo sì e questo era ciò che contava.

Quella mattina di fine febbraio, la Contessa aveva appena lasciato i suoi costruttori con l'ordine di cominciare a battere il terreno intorno alla rocca, per vedere quali appezzamenti convenisse comprare per espandere il parco, e poi si era ritirata nello studiolo del castellano.

La stagione cominciava già ad aprirsi e i suoi figli sembravano decisi a passare più tempo possibile all'aperto. L'unico che restava saldamente ancorato al caminetto acceso era Livio, e a ragione, visto che bastava un colpo d'aria per fargli prendere come minimo un'infreddatura.

Galeazzo, invece, se ne stava quasi tutto il giorno coi soldati e Caterina ne era felice. Sia lui sia Bernardino si stavano facendo ben volere dagli armigeri della rocca e quello sarebbe stato importante anche per il futuro. Lei stessa era stata soccorsa dalle conoscenze strette in giovanissima età coi soldati di Milano, dunque anche i suoi figli, un giorno, avrebbero potuto trovare vantaggio da una simile condizione.

Sforzino, invece, usciva spesso di nascosto dalla rocca e più di una volta la madre lo aveva pizzicato a giocare a civettino, al finto battesimo o a mosca cieca coi bambini di strada di Forlì.

Non lo aveva mai sgridato troppo, però, perché, malgrado fosse pericoloso per un ragazzino di neanche nove anni girare in certi punti della città da solo – a maggior ragione visto che era suo figlio – era giusto che stesse anche coi suoi coetanei, cosa che ai suoi fratelli, per molti motivi, era stata quasi del tutto negata.

Cesare, per contro, restava isolato e pareva intenzionato a evitare Caterina almeno quanto lei era decisa a farlo con lui. Passava le sue giornate tra la chiesa e i libri di teologia e la madre aveva saputo indirettamente che aveva già chiesto in più occasioni a Luffo Numai se sapesse quando avrebbe potuto partire per Roma per completare i suoi studi.

Mente Bianca...

“Mia signora...” uno dei servi era appena entrato nello studiolo con quattro lettere e le porse subito alla Contessa.

La donna le prese e andò a mettersi sulla poltrona sotto alla finestra. Il castellano le dedicò uno sguardo rapido e poi tornò a concentrarsi sui libri contabili, che stavano diventando la sua croce, da quando le tasse erano state cambiate e si dovevano ricalcolare metà delle spese della rocca.

La prima era una lettera di Lucrezia. Caterina la lesse in fretta, tralasciando quasi per intero le chiacchiere sul clima e sulla città. Lesse con un misto di sollievo e delusione le parole della madre che la informavano di voler restare a Imola ancora per qualche tempo, prima di tornare di nuovo a Forlì, e poi i suoi occhi si spalancarono quando arrivò al fondo del messaggio.

'Tua sorella Bianca è in stato interessante, ma questa volta sembra davvero che nascerà un figlio. Si pensa che la data sarà a maggio. Tua sorella è troppo orgogliosa per dirlo, ma ti ringrazio io a nome suo per i tonici che le hai donato. Le tue pozioni hanno di certo giovano al suo fisico e ora è florida e felice e in parte lo si deve anche a te.'

Caterina richiuse la lettera scritta da sua madre e non si soffermò più di tanto a pensare al figlio che sarebbe nato dall'unione tra sua sorella e Tommaso.

La seconda missiva, più seriosa, era un resoconto degli spostamenti di Virginio Orsini. Aveva toccato Leonessa con centocinquanta uomini e sessanta cavalieri, più alcuni soldati di ventura. Poi aveva rimpolpato le sue file congiungendosi coi vitelleschi e i fuoriusciti di Perugia aumentando la sua forza con seicento lance, seicento cavalleggeri e i provigionati erano saliti a mille e cinquecento. Si era sposato negli Abruzzi assieme a Carlo di Sangro e al Marchese di Martina e aveva prelevato il denaro guadagnato con la dogana delle pecore. Bartolomeo Prato lo aveva accolto a L'Aquila e da lì Virginio aveva spedito le sue truppe a Popoli, contro Ristagno Cantelmi, ma, forse per via della sua assenza, i suoi soldati erano tornati indietro con un pari e patta. Da lì, infine, era dato in marcia per Lanciano.

Quei movimenti fecero capire alla Contessa che il suo vecchio amico aveva accettato i soldi fiorentini e aveva abbandonato i suoi piani iniziali. Quello era un modo pericoloso di muoversi.

La Tigre scosse il capo, contrariata. Non si sarebbe sorpresa se il papa, vedendo l'Orsini tirare a quel modo la corda, l'avesse come minimo dichiarato un ribelle.

La terza lettera portava il simbolo della repubblica fiorentina stampigliato sopra, per cui Caterina già si figurava quale potesse essere il contenuto.

Lesse il messaggio senza troppo trasporto, prendendo atto che presto la Signoria avrebbe mandato un nuovo ambasciatore a Forlì. Aveva già predisposto un palazzo in città per i nuovi ambasciatori e non le faceva né caldo né freddo sapere che presto alcune delle stanze si sarebbero riempite.

Le sembrava solo strano che Milano e Roma ancora non avessero imposto un nuovo portavoce delle loro corti, ma i tempi si erano dilatati, da quando lei aveva mostrato i muscoli attaccando le terre dei Guerra, dunque non si stupiva più di tanto nel vedere i giorni passare senza ricevere notizie da suo zio Ludovico o dal papa.

Infine, l'ultima lettera arrivava da Faenza. Pensando subito che fosse successo di nuovo qualcosa, magari un ritorno di fiamma di Ottaviano Manfredi, la Contessa spiegò il foglietto e scorse rapida le parole nervose vergate da Niccolò Castagnino.

Nulla di quello che pensava. Si trattava di un invito per Bianca alla corte di Faenza.

'Ora che la situazione è stata pacificata di nuovo – aveva scritto il tutore di Astorre Manfredi – il mio signore avrebbe piacere a trascorrere del tempo con la sua legittima moglie. La vicinanza tra i nostri Stati è fortificata dagli eventi degli ultimi tempi e il felice matrimonio tra il mio signore e vostra figlia ne sarà la prova migliore.' e proseguiva con una serie infinita di convenevoli e luoghi comuni che Caterina nemmeno lesse fino in fondo.

Stringendo tra le dita la lettera dei faentini, Caterina lasciò la poltrona e andò verso la porta, chiedendo di sfuggita al castellano: “Per caso avete visto mia figlia? Sapete dove potrei trovarla?”

Cesare Feo smise per un istante di fare somme e sottrazioni e ci pensò su: “L'ultima volta, mentre venivo qui nello studiolo, l'ho vista andare verso le cucine.”

La Contessa ringraziò e provò a cominciare le sue ricerche proprio da lì.

Scese fino ai locali della servitù e quando fu a pochi metri dal portone spalancato delle cucine sentì la voce della figlia dire qualcosa. Rallentò il passo e si mise in ascolto. Una delle sguattere di cucina rise e ribatté con una frase in forlivese stretto che Caterina non capì. Bianca, però, doveva aver compreso bene, perché ricambiò a tono con il medesimo dialetto.

“Per me – disse infine una terza voce femminile, un po' più vecchia, tornando a un accento molto più comprensibile – il più bell'uomo di Forlì e Imola messe assieme resta messer Tommaso.”

“Ma dai!” ricambiò la sguattera di poco prima: “Per la nostra Bianca è uno zio... Mica puoi dirci certe cose, eh.”

L'anziana borbottò qualcosa e Bianca e la sguattera risero di nuovo.

Caterina non avrebbe voluto interrompere, ma le premeva parlare con sua figlia, perciò si schiarì la voce con largo anticipo, proprio per annunciarsi, ed entrò in cucina.

Bianca era al tavolone assieme alla sguattera e stava tagliando a pezzi delle verdure, mentre l'anziana era accanto al fuoco e curava un pentolone fumante.

La figlia della Contessa, nel vedere la madre, scattò in piedi e si pulì le mani nell'abito chiaro, finendo per macchiarlo di verde. La sguattera e la cuoca si guardarono preoccupate e Caterina si rammaricò una volta di più per la reazione che suscitava, nel presentarsi all'improvviso da qualche parte, praticamente in tutti quelli che la conoscevano.

Guardò per un momento Bianca e le sue guance un po' arrossate, poi la sguattera, i cui occhi erano ancora lucidi per le risate appena spente, e infine la vecchia che stava al paiolo. Le invidiò profondamente. In quella cucina buia e pregna degli odori della selvaggina appesa al soffitto e degli intrugli che bollivano sul fuoco, erano riuscite a ricreare un calore che Caterina non aveva più trovato, una volta lasciato il palazzo di Porta Giovia. Un calore che non era mai riuscita a ricreare.

“Puoi seguirmi un attimo? Devo parlarti di una cosa.” fece la Contessa, rivolgendosi alla figlia.

Bianca annuì subito e si avvicinò alla madre, seguendola verso l'uscita. La sguattera e la cuoca restarono immobili fino a che non furono di nuovo sole, come se temessero, altrimenti, di essere punite dalla Contessa per aver indotto la sua bella figlia a fare un lavoro adatto a una serva e non alla moglie del signore di Faenza.

“Mi ha scritto Niccolò Castagnino.” disse Caterina, una volta che lei e la figlia furono emerse dalle cucine ed ebbero raggiunto la stanza dei giochi, in quel momento deserta: “Dice che Astorre ti vorrebbe a Faenza per qualche tempo.”

Gli occhi blu, tanto scuri da sembrare quasi neri, di Bianca lampeggiarono allarmati, per poi abbassarsi e fissare il pavimento.

“Ti chiedo di rispondermi con serietà. Non parlare solo per paura o per fretta. Ragionaci con attenzione, va bene?” iniziò la Contessa, afferrando la figlia per le spalle.

Bianca corrugò la fronte, chiedendosi quale fosse la domanda che sua madre voleva porle, e attese.

“Devi dirmi se vuoi o no andare a Faenza. Se vuoi o no Astorre Manfredi. Non voglio sapere se ti sta antipatico o se è troppo giovane. Capisci quello che intendo?” fece Caterina, rendendosi conto di quanto fosse difficile spiegare alla figlia quale fosse la sua vera perplessità: “Faenza si è avvicinata a noi da quando abbiamo combattuto assieme, ma ha continuato a fare il doppiogioco con Venezia.”

Bianca guardò gli occhi della madre, senza capire. Trovò il viso della Contessa più segnato di quanto lo ricordasse e notò per la prima volta qualche capelli bianco in mezzo a quelli biondi.

Quell'improvvisa consapevolezza la portò a chiedersi da quanto tempo non avesse più guardato in faccia sua madre.

“Se adesso tu vai a Faenza – spiegò Caterina, cogliendo un barlume di perplesso interesse negli occhi della figlia – allora il tuo matrimonio non potrà più essere sciolto facilmente, se in futuro cambierai idea, ma io potrò giocare questa carta a nostro favore e indurre Castagnino a mediare per noi presso il Doge, cercando in lui la protezione che ci serve. Perché sappi che se i veneziani si sono limitati a toglierci solo le terre che avevo appena catturato senza invadere né Forlì né Imola, probabilmente lo dobbiamo solo all'intercessione di Faenza, che deve aver promesso al Doge che con gli eredi che nasceranno dal tuo matrimonio con Astorre, il nostro Stato diverrà un loro appannaggio. Se invece esiste un motivo serio per cui non vuoi nemmeno prendere in considerazione l'ipotesi di essere la moglie di Astorre, allora a Faenza non ti ci mando e...”

Bianca osservò con cautela i lineamenti della madre, che si tesero in un'espressione un po' persa che le fece capire quanto un suo rifiuto, a quel punto, avrebbe messo in difficoltà tanto lei quanto l'intero Stato.

Tuttavia la figlia della Contessa aveva imparato, proprio osservando la madre, quanto fosse importante essere felici e quanto, invece, fosse catastrofico avere un marito per cui non si prova altro che odio e paura.

“Non voglio andare a Faenza.” disse allora Bianca, con fermezza, sentendo le mani della Contessa stringersi un po' di più attorno alle sue spalle: “Non lo dico per capriccio, ma perché non posso pensare di essere la moglie di Astorre Manfredi. Lui mi fa paura.”

Caterina strinse i denti e passò in rassegna i sentimenti che si alternarono sul viso della figlia.

Siccome temeva di non averla convinta abbastanza, Bianca fece un profondo sospiro e concluse, sentendosi incredibilmente crudele: “Non posso pensare di amarlo. Se mai mi sposerò, voglio che sia con un uomo che amo. Io non voglio fare la fine che avete fatto voi. Non voglio arrivare a desiderare la morte di mio marito. Non voglio essere costretta a condividere il letto con un uomo che detesto. Non voglio odiare i miei figli solo perché lui ne è il padre.”

La Contessa lasciò subito la presa dalle spalle di Bianca e per un paio di minuti non trovò le parole per commentare quanto appena udito.

Deglutendo rumorosamente, concluse: “Va bene. Con Castagnino inventerò una scusa. Ma prima di ottenere l'annullamento, dovrò tornare nelle grazie del papa. Ci vorrà del tempo.”

Poi Caterina chiuse un istante gli occhi, mentre Bianca si abbandonava a un moto di sollievo: “Ora puoi anche tornare dalle tue amiche in cucina. Ti farò sapere qualcosa appena...” ma interruppe la frase a metà, perché, a scoppio ritardato, un nodo le era salito alla gola nel ripensare a ciò che sua figlia le aveva appena detto.

Bianca colse la sua difficoltà e, sentendo il cuore punto dalla spina dell'egoismo, fece una riverenza e se ne andò, senza nemmeno provare a consolare la madre, benché avesse appena accettato di richiare grosso pur di non costringerla a fare qualcosa che non voleva.

 

Alessandro VI aveva la testa che scoppiava. Aveva cominciato a dolergli già quel mattino e non aveva fatto che peggiorare. Per fortuna, nel freddo indolente quel 26 febbraio, sua figlia si era detta disponibile a intrattenere i quattro nuovi cardinali, tre dei quali spagnoli, al suo posto, almeno a inizio serata.

Rodrigo non avrebbe avuto la forza di mettersi a fare il padrone di casa dopo la cerimonia dell'investitura, proprio no.

Tutto congiurava contro di lui in quei giorni.

Giovanni Sforza, suo genero, si stava facendo sfuggente e continuava a fare promesse senza che il papa capisse quanto ci fosse di vero nei suoi spergiuri.

Cesare si era fatto irrequieto e non faceva altro che ronzare attorno a Lucrecia o parlare male di Juan e Jofré.

Quella testa calda di Virginio Orsini aveva fatto di testa sua, tanto che Rodrigo, per non passare da idiota, era stato costretto a dichiararlo pubblicamente un ribelle, mettendosi così in difficoltà da solo.

E quel maledetto domenicano d'un Savonarola aveva subito approfittato del permesso papale di tenere orazioni salendo sul pulpito di Santa Maria del Fiore davanti a quindicimila persone per la prima predica quaresimale e aveva già alzato i toni. Il papa sentiva il freddo nelle ossa. Sapeva che presto il frate avrebbe ripreso a scagliarsi contro di lui...

Lucrecia era appena passata a salutarlo, già pronta a scendere lo scalone e ricevere nel vestibolo i quattro nuovi Cardinali, e Rodrigo avrebbe già voluto ritirarsi. Altro che feste e banchetti.

“Santità...” il Cardinale Raffaele Sansoni Riario, che era tra gli scomodi invitati della curia, si era avvicinato al papa con fare esitante.

Tenendosi una mano sulle tempie pulsanti, Rodrigo lo fissò in cagnesco e chiese: “Che avete ancora?”

Raffaele, che, dopo le ultime scellerate mosse della cugina acquisita in Romagna, si era fatto sempre più servile con Alessandro VI, chinò la testa e gli porse un sacchettino di velluto.

Rodrigo prese il portamonete con espressione interrogativa e il Cardinale gli disse: “Mi sono appena state mandate da un mio conoscente. Vorrei che le vedeste anche voi.”

Il papa aprì il sacchettino e cominciò a passarsi tra le dite le monete, mentre dal vestibolo arrivavano le voci dei nuovi Cardinali e quella vellutata e tranquilla di Lucrecia.

Alessandro VI guardò incredulo una moneta d'argento. Da un lato era impressa la chiesa di San Mercuriale di Forlì, dall'altro il profilo di una donna con scritte una C e una S incrociate e nel giro si poteva leggere: Caterina Sforza vicecomes. Poi ne osservò un'altra, che portava sempre la Tigre come soggetto. E un'altra ancora. Cambiava solo il rovescio, dove si alternavano le varie chiese dello Stato della Sforza. Solo i tagli più piccoli, le monetine più inutili, recavano il profilo di Ottaviano Riario, con tanto di scritta che lo indicava come Ottaviano Riarius Comes.

Rodrigo ributtò le monete nella sacchetta e si ricordò all'istante del permesso che Sisto IV aveva dato ai Riario di battere moneta. Era stato presente in Vaticano pure lui, quando l'aveva fatto.

“Vostra cugina è una donna astuta – sibilò Rodrigo, minaccioso – ma un conto è fare sfoggio di forza con delle nullità com'era Guido Guerra, un conto è macchiarsi di arroganza.”

“Io... Non so che dire... Volevo solo informarvi...” si schermì Raffaele, già pentito della sua soffiata.

Rodrigo fissò il profilo smunto e spaurito del Cardinale e decise che non era il caso di prendersela con lui. Non aveva nemmeno capito che così facendo aveva inguaiato ancora di più la sua parente.

Fu tentato di minacciarlo di mandarlo a Forlì come ambasciatore, ben sapendo quando il Cardinale Sansoni Riario temesse l'idea di trovarsi alla corte della Tigre, che di certo ne avrebbe approfittato per calare la scure anche su di lui, ma la testa gli faceva troppo male per permettergli di godersi un simile scherzo.

“Ci saranno altri momenti per parlarne.” concluse il papa, mentre le voci degli ospiti si facevano vicine nel risalire lo scalone: “Piuttosto, che mi dite di quel quadro antico di cui vi ho sentito parlare? Un Cupido, giusto?”

Il Cardinale Sansoni Riario ci mise un po' a riprendere colore sulle gote, ma rispose pronto: “Sì, un Cupido, sembrerebbe. Un mercante di mia fiducia me lo procurerà a breve... Lo stanno recuperando da degli scavi fiorentini...”

 
   
 
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