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Autore: Mirokia    22/05/2017    0 recensioni
Lo vidi correre dietro il pallone nella direzione opposta. Diego bestemmiò ancora e gli urlò di fermarsi e Michele pensò che stesse impazzendo. Forse era così. Ma ero così cieco, così impotente, e fui l'unico a non urlargli di fermarsi. Pensai anche di correre con lui e farmi passare la palla, ma in fondo lo sapevo che voleva correre da solo.
[Storia di un "io" che si perde in un così chiamato "amore"]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo 7

 

 

 

 



Mi mossi dalla mia posizione dopo una manciata abbondante di secondi che m’erano serviti per rielaborare l’accaduto. Mi guardai i palmi delle mani, come se avessi potuto fargli del male senza sfiorarlo con un dito, ma mi dissi che non era affatto possibile. Doveva essere successo qualcosa a cena, perché fino a poco prima aveva scherzato con Ludovico, sembrava fin troppo felice, quasi iperattivo. Aveva anche minacciato di iniziare una guerra di cuscini, e lui non era proprio il tipo da giochi del genere. Decisi di andare a cercarlo, ché nel buio l’avevo già perso di vista. L’unica fonte di luce che potesse aiutarmi ad orientarmi era il faretto sul mio cellulare, e pensai di essere anche fortunato ad avere la batteria carica. Quando misi il primo piede nel bosco, sentii un rametto scricchiolare sotto il mio peso e un brivido scese giù per la schiena. Non ero il tipo da farmi spaventare da così poco, ma quel posto era davvero surreale, molto più di quanto potessi aspettarmi da un film dell’orrore. Non feci il nome di Claudio, perché avevo la certezza ormai che, per qualche motivo, volesse sfuggirmi, e in quel modo si sarebbe nascosto o allontanato ulteriormente. Ma allo stesso tempo non volevo spaventarlo, quindi cercai di muovermi il meno furtivamente possibile, per non fargli intendere che volevo tendergli un agguato. Mi chiesi quand’era stata l’ultima volta che m’ero preoccupato tanto della reazione di qualcuno. La sua di poco prima m’aveva sorpreso e persino ferito, come quando sai di avere qualcosa di buono da mangiare al tuo ritorno a casa e quando arrivi non lo trovi più. Nessuno lo ha mangiato, nessuno lo ha preso, semplicemente non c’è più, e inizi a pensare di aver solo creduto che quel qualcosa di buono esistesse e che sino a quel momento hai vissuto un sogno, un’illusione. Gli avrei chiesto spiegazioni, una volta ritrovato. O forse no, non volevo forzare niente.
Per mezz’ora girai per il bosco tenendomi sempre sul limitare, pensando che Claudio non si sarebbe permesso di inoltrarsi troppo senza una luce a guidarlo e a quell’ora della notte. Ma poi mi ricordai di come proprio al centro di quel bosco ci fosse uno spiazzo liberato dagli alberi perché una volta vi si ergeva una baita. Ne aveva parlato Sandro una sera, perché era già stato in quella località qualche anno prima con l’oratorio, e la baita non c’era più ma quel posto lo utilizzavano come punto di incontro quando facevano le cacce al tesoro o giocavano a nascondino. Qualcosa, come l’ago di una bussola interna che improvvisamente s’era bilanciato, mi disse che Claudio s’era appostato proprio lì. Calcolando che fossi già a metà strada tra l’inizio del bosco e la sua conclusione, mi addentrai tra i rami secchi lasciandomi alle spalle la stradina che costeggiava la fila di alberi. Davanti a me iniziai ad intravedere una luce, e spensi il cellulare quando si fece decisamente più vicina. Era proprio come aveva detto Sandro, e come aveva detto la mia bussola interna: uno spiazzo quasi perfettamente circolare bucava il bosco nel centro, e la luce della luna lo colpiva come un faretto sul palcoscenico. Sotto quella luce c’era un fagotto ripiegato su se stesso che mi dava le spalle; si era tolto le scarpe e le dita dei piedi avevano piccoli scatti. Ma nessun’altra parte del suo corpo si mosse quando feci il suo nome e gli dissi “Sono io”. Ero certo che mi avesse sentito, ma ancora non aveva fatto niente che suggerisse il rifiuto, e allora mi andai a sedere accanto a lui, badando a non stargli troppo vicino. Iniziò quindi un lungo periodo di silenzio in cui io di tanto in tanto sfregavo il terreno con la scarpa per fargli capire che non avevo intenzione di andarmene. Aspettai lì quasi mezz’ora prima di avere un segno di vita da parte sua.
«Sei ancora qui?» mi chiese, la voce roca di pianto.
«Mh Mh» annuii, e quello prese improvvisamente a respirare più forte con la gola, e pensai che la mia presenza lo mettesse effettivamente in agitazione. Ma,
«Scusa» fece senza riuscire a controllare la voce. «A volte mi capita».
«Hai avuto un… attacco di panico?» provai ad esternare quello che era stato il mio pensiero quando l’avevo visto raggomitolato per terra con le dita dei piedi che si muovevano a scatti e il respiro agitato. Lui ci mise un po’ a parlare, come se stesse elaborando la risposta o semplicemente non riuscisse a tirarla fuori in quel momento.
«Sì, penso di sì».
Stetti ancora qualche minuto in silenzio per lasciare che si tranquillizzasse del tutto, poi sospirai di sollievo quando si rilassò dalla sua posizione fetale e si distese supino, il respiro non più spezzato e gli occhi che si chiudevano e riaprivano lentamente. Cercò la mia mano senza staccare gli occhi dal cielo, e avrei voluto guardarlo anche io, ma davvero non riuscivo a distogliere un attimo lo sguardo da Claudio, lì disteso a gambe e braccia aperte. Trovò la mia mano e fu come se fossimo due macchine a cui era stato dato il carburante, con quel semplice contatto. Lui prese istantaneamente colore nei suoi soliti punti, su tutto il naso e sotto le basette. Poi finalmente mi guardò e mi sorrise accarezzandomi il dorso della mano.
«Scusa se ti ho fatto preoccupare. Avrei dovuto dirtelo che a volte mi capitano ‘ste cose. Mi vedi anche svenire di tanto in tanto, no?»
Annuii riportando alla memoria quelle pochissime ma indimenticabili volte in cui Claudio era crollato in campo nel bel mezzo della partita ed era stato necessario interrompere l’amichevole. Mi distesi accanto a lui e a quel punto alzai gli occhi al cielo, che in montagna era sempre così aperto e pulito. Le stelle si potevano contare una ad una.
«Ma i tuoi lo sanno?»
«Certo, sono morbosi con me, quei due. Vado dallo psicologo una volta ogni due settimane per capire quale parte remota del mio passato possa causare questi attacchi». Spiegò, ed era decisamente tornato ad essere il Claudio di prima. Dopo aver fatto dei centri concentrici col dito sul dorso della mia mano, fece scivolare la sua tra le mie dita per poi stringere un po’.
«Tu sospetti qualcosa?» gli chiesi, genuinamente curioso, e il che mi spaventò perché io ero solito farmi i fatti miei. Stavo cambiando o stavo tornando ad essere quello che ero in principio?
«A parte l’essere gay, aver avuto qualche bulletto alle calcagna, avere l’ossessione della predestinazione e della morte? Nah, quello sono strano io. Non sono mica traumi. Almeno credo!» e fece un sorriso per niente convincente. Mi resi conto che quella era stata la conversazione più lunga che avessimo mai avuto, e un dolce calore si impossessò del mio petto. Era la prima volta che mi parlava di sé, seppur vagamente, degli affari personali come le sedute dallo psicologo e del passato a scuola. E mi aveva parlato come se io sapessi tutto, come fosse scontato, come se mi stesse ripetendo sempre la solita storia. I nostri esseri erano di nuovo uniti attraverso quelle mani.
Ma ancora, il silenzio sembrava il modo migliore in cui riuscissimo a comunicare. Mi lasciò la mano e si girò con tutto il corpo di lato, cosa che feci subito anche io imitando i suoi movimenti. Mi spostò una ciocca più lunga di capelli dietro l’orecchio e mi guardò con un sorriso amaro che mi diceva un muto “Mi dispiace”, e ancora non comprendevo del perché dovesse dispiacersi per me. La distanza tra di noi s’accorciò e lui mi posò un bacio in fronte, poi scese sul naso e concluse sulle labbra. Era solo il secondo bacio che ci scambiavamo, eppure sembrava che chissà quante volte le nostre labbra s’erano toccate. Non si trattava solo delle mie fantasie: era una sensazione già provata, una consistenza e un sapore così familiare da farmi pensare che davvero potessimo esserci già conosciuti in una vita precedente. Appoggiai la fronte contro la sua e, mente occhi e anima collegati, volevamo che anche i corpi lo fossero. Ma non chiedevamo troppo: intrecciammo le gambe durante quel bacio che sembrava non volersi interrompere, lui infilò piano una mano sotto la mia maglia andando a fare disegni con le dita sulla mia schiena mentre io feci scendere la mia sul suo fondoschiena. Petto e stomaco entrarono in contatto nonostante i vestiti, ed eravamo tanto incastrati da sembrare una persona sola. Come conseguenza naturale iniziammo a sfregarci l’uno contro l’altro, avvertendo la nostra virilità attraverso i pantaloni. Non sentivamo vergogna o senso del pudore, solo un’enorme necessità di continuare a fare quello che stavamo facendo. Più velocemente, con più foga, tanto che finii per sollevarmi leggermente per sovrastarlo e spingere contro la sua gamba. Interrompemmo il bacio per permetterci di respirare e ansimare, i pantaloni di entrambi che stringevano e sfregavano e facevano male. Con uno sguardo d’intesa decidemmo di aprire la cerniera dei jeans e quindi abbassarli leggermente. Il suo naso rosso come un segnale d’allarme nella notte, i suoi occhi lucidi pieni dei miei e il suo mezzo sorriso eccitato mi rivelarono la verità: stavamo impazzendo. La nostra mente era quasi del tutto distaccata dalla realtà, i nostri movimenti erano morbidi e naturali come le parole di un pazzo quando dice di vedere la sua stanza piena di serpenti. Sarebbe stato differente il nostro destino, adesso?
Con pantaloni e mutande abbassate continuavamo i nostri movimenti, sempre più vicini all’orgasmo, che quando arrivò pensammo di aver visto il cielo aprirsi sopra di noi.



Non me l’ero mai immaginata così, la scena. Io avevo il capo adagiato sul suo petto e con un braccio gli avvolgevo il fianco, mentre lui aveva il suo, di braccio, che m’avvolgeva le spalle e l’altro piegato dietro la testa, quasi fosse in spiaggia a prendere il sole. M’ero sempre sognato di essere io quello a proteggerlo in un abbraccio, eppure non avvertivo alcun tipo di imbarazzo, niente che fosse fuori posto. Ce ne stavamo in quel modo, a contatto, ad assorbire ognuno il calore dell’altro, ad ascoltare ognuno il respiro dell’altro, come non ci fosse nulla di più naturale sulla Terra. Non parlavamo, non più, e lasciavamo vagare lo sguardo nel cielo notturno, con la stessa calma con cui s’aspetta la morte. Come se un meteorite di lì a poco potesse cadere e spazzarci via. Uno scenario che non faceva paura a nessuno dei due. Avevamo anche smesso da un po’ di baciarci, come se quelle poche ore fossero bastate per trasformare quell’amore in qualcosa di più del desiderio fisico, in qualcosa che avrebbe volentieri trasceso spazio e tempo. Ero nudo accanto a lui, senza essermi tolto i vestiti. Lui mi raccontava di vita e aldilà, sogni e incubi, senza dire una parola.
Solo dopo un arco di tempo indefinito proferii parola.
«Come ti senti?» chiesi, forse ancora in apprensione per il suo attacco di panico. Lui sospirò e attorcigliò una mia ciocca di capelli in un dito.
«Come se andassi contromano in autostrada perché voglio farmi fuori. Sono sereno, ma ho comunque il terrore dello schianto. E so che porterò qualcuno via con me».
Quella sua aria pessimista e romantica tornò a tenerci sulle spine. Gli stropicciai la polo all’altezza del petto.

«Io non guido la macchina con cui ti scontrerai. Sono nella tua, sul sedile del passeggero. Sì, siamo in contromano, ma non troveremo ostacoli»
«Dici?»
E poi ancora silenzio.
Correvamo sull'autostrada nella nostra testa da un po', finché la strada non si interruppe improvvisamente lasciando che la macchina cadesse nel vuoto. Avemmo entrambi un sussulto, ci guardammo e capimmo. Ma lo stesso prendemmo il coraggio di assopirci per qualche minuto stretti in un abbraccio.





Era già il sesto giorno di ritiro e quasi nessuno sembrava avere come priorità l’allenamento di quella mattina e la partita nel pomeriggio che avrebbe deciso la sorte della nostra squadra. Ludovico era già in astinenza e quella notte s’era svegliato ben tre volte di soprassalto e tutto sudato, senza che il suo vicino di letto potesse far nulla per tranquillizzarlo. E non erano stati i soli ad aver avuto una notte agitata: anche io ero stato destato dal mio vicino nel momento in cui staccò il suo braccio sudato dal mio. Fino a quel momento avevo dormito piuttosto profondamente, quindi ancora oggi non so dire se quello che vidi e sentii quella notte è effettivamente successo o se è stato solo un sogno o un’illusione creata dal dormiveglia. Faticavo ad aprire gli occhi e a muovermi ma giurai di aver sentito Claudio lamentarsi; era un silenzioso lamento che andò trasformandosi in un pianto con singhiozzi mal trattenuti. Dopodiché caddi nuovamente tra le braccia di Morfeo, incapace di stare attento e vigile. Mi svegliai un’altra volta dopo quelli che erano sembrati una decina di minuti, ma quando diedi un’occhiata all’orologio sul muro colpito dalla luce riflessa della luna, mi resi conto di aver dormito altre due ore buone. Con solo un occhio aperto, vidi Claudio adesso seduto sul letto, con le spalle che avevano minimi sussulti e la testa intrappolata tra le mani. Respirava forte e velocemente, e volevo davvero fare qualcosa, ma il corpo non rispondeva, come in tutti i più banali sogni in cui si vuole correre ma non ci si muove di un centimetro o si vuole gridare ma dalla gola non esce alcun suono. Mi riaddormentai senza neanche accorgermene. La terza e ultima volta che aprii gli occhi incollati dal sonno, pensai di vedere Claudio in ginocchio per terra a frugare forsennatamente nel suo zaino e ancora la luce del bagno quando ci entrò e ci si chiuse dentro. Mi dissi che era sicuramente un sogno o un’illusione, m’era già capitato. Non senza una spontanea apprensione e preoccupazione, ripresi sonno, che da quel momento in poi fu però piuttosto agitato.
Finì che quella mattina io, Marco e Ludovico avevamo due belle occhiaie che ci incorniciavano il viso smunto e non eravamo esattamente pronti e scattanti per un nuovo duro allenamento. Loris era insolitamente silenzioso, così come Antonio, ma quello silenzioso lo era sempre. Diego giurò che ci avrebbe riempiti di pugni, uno ad uno, se non ci fossimo dati una mossa: il pallone e la partita erano sempre stati al primo posto, per lui.
Successe che Claudio non volle venire a fare colazione. Era l’unico ancora sotto le lenzuola, coperto fino al collo, lo sguardo ancora fisso davanti a sé. Temevo che quello a cui avevo assistito quella notte fosse successo davvero e mi chiesi se quelli potessero essere gli effetti di un altro attacco di panico.
«Cla, sei sicuro di stare bene?» gli chiese Marco quando si piegò per guardarlo in faccia. «Hai due occhiaie peggio delle mie e gli occhi strani»
«Vattene» gli sibilò Claudio ed ebbi un déjà-vu della sera prima, forte e vivido.
«E’ successo qualcosa?» insistette Marco, ma l’altro non sembrava avere intenzione di rispondere alle sue domande.
«Te ne devi andare» disse invece, e allora Marco si girò verso Loris e gli fece segno di parlarci lui, altrimenti il mister ci avrebbe sgozzati, e fece il segno della mano sulla gola. Ma Loris sembrava indeciso se avvicinarsi o meno, stringeva le labbra e puntava sul suo amico uno sguardo piuttosto serio. Toccai il braccio del mio gemello e quello fu scosso momentaneamente dai suoi pensieri.
«Ti prego, fa’ qualcosa» gli sussurrai, ché dalla faccia che aveva fatto sembrava che una scena del genere l’avesse già vista, quindi magari sapeva come comportarsi. Ero nel completo panico, e temetti che da fuori si potesse vedere. Loris fece una smorfia da “Ci provo, ma non ti assicuro nulla”, glielo lessi in faccia. Si piegò piano sull’amico e,
«Cla…» provò a chiamarlo posandogli una mano sulla spalla. Ma a quel minimo contatto, Claudio reagì in modo inaspettatamente violento e gridò tanto da spingerci a proteggere le orecchie.
«Dovete andare via!» strillò, e non potemmo fare altro che fiondarci tutti in mensa per poi chiuderci la porta alle spalle.
«Che cazzo è successo, è posseduto?!» fece Ludovico stralunato, mentre Antonio mi gettò uno sguardo, come se pensasse che io sapessi qualcosa riguardo le stranezze accadute quella mattina. Ma io, davvero, non sapevo cosa pensare. Avevo il vuoto in testa, così come vuoto era anche il mio sguardo.
Durante la colazione, i ragazzi dell’altra camerata iniziarono a farci domande sull’urlo agghiacciante di poco prima, e Ludovico e Marco risposero alle domande in maniera concitata , mentre Loris seguitava a stare zitto e a bere il latte controvoglia. Antonio gli mise una mano sulla spalla e gli chiese se avesse bisogno di qualcosa, ché lo vedeva preoccupato, poi iniziarono a bisbigliare impedendomi di ascoltarli, e mi diede un po’ fastidio che Loris si confidasse col mio migliore amico piuttosto che con me.
Ovviamente, l’unico a pensare che quella di Claudio fosse tutta una commedia fu Diego, che si ingozzò con l’ultimo pezzo di brioche e andò svelto verso la nostra camerata senza guardare in faccia nessuno.
«Non può mica picchiarlo, vero?» chiese retoricamente Nathan, ma Michele, addentando tranquillamente il suo toast,
«Perché no?» disse, e aveva anche un che di divertito. Sentii distintamente pulsare le tempie dalla rabbia: che cazzo era quella, una squadra o un branco di animali? Certo gli animali avrebbero avuto più buon cuore. Mi ero già alzato per andare dietro a Diego, ma uno strillo simile a quello di poco prima attraversò la porta come se fosse aperta. Prima che potessi entrare, mio padre si presentò nella stanza, quando tutti credevano che fosse già giù ai campetti. Claudio continuava a urlare tanto da consumarsi la gola, e quando mio padre entrò nella camerata dopo avermi guardato interrogativo, riuscii a vedere Diego che tentava di buttar Claudio giù dal letto tirandolo per i piedi. In un’altra occasione, una scena come quella probabilmente mi avrebbe fatto sorridere, sarebbe stata comica per tutti. Ma, mentre il mister dentro tentava di fare il punto della situazione con un sottofondo di singhiozzi appartenenti a Claudio, sui volti dell’intera squadra non vi era ombra di sorriso. A parte su quello di Michele che, mentre si puliva la bocca, sembrava aver chiara la situazione.
«Secondo me è bipolare» disse con quel tono da saccente che uno schiaffo glielo davi volentieri.
«Ma vaffanculo» ribatté Marco, chiaro e tondo, e mi sarei aggregato anche io se non fossi stato ancora rivolto verso la porta semichiusa, le lacrime raggruppate sugli occhi, con la terribile consapevolezza di non sapermi spiegare in alcun modo cosa stesse succedendo così all’improvviso. Stava andando tutto troppo veloce ed ero sicuro che non sarei riuscito a tenere il passo.
Mio padre si affacciò dalla stanza e ordinò a coloro che ancora non avevano preso il borsone di farlo immediatamente e di dirigersi ai campetti, ché lui sarebbe arrivato di lì a poco. Lo stesso valeva per Diego che, cacciato dalla camera a spintonate da parte del mister, disse ad Abu di prepararsi mentalmente perché quel pomeriggio l’avrebbe giocata lui, la partita. Io e gli altri ospiti di quella camerata andammo a recuperare la nostra roba, con mio padre che ci incitava a “muovere il culo”. Non riuscii a non gettare un’occhiata a Claudio, ancora ben racchiuso dalle lenzuola e con le mani a coprirgli il viso che chissà in quale espressione era contrito. Non esisteva che me ne sarei andato ai campi come non fosse successo niente. Feci andare avanti i miei compagni e finsi di aver dimenticato qualcosa solo per poter ascoltare la conversazione al telefono che mio padre sembrava aver appena avviato. Provai a socchiudere la porta, ma era ben chiusa, e quelle diavolo di porte di legno scricchiolavano al minimo movimento. Mi limitai ad avvicinare l’orecchio alla parete fortunatamente per niente spessa. E dovetti ringraziare anche il tono di voce altisonante di mio padre.
«Pronto, parlo con la signora Ferrari? Sì, buongiorno, perdoni l’orario. La chiamo per via di vostro figlio. E’ da qualche ora che si comporta in modo strano: non vuole alzarsi per nessun motivo dal letto, non ha fame e continua a dire di voler essere lasciato solo. Ora…»
La voce di mio padre mi arrivò con più fatica, come se avesse deliberatamente abbassato la voce o si fosse allontanato verso il bagno in fondo o si fosse messo la mano davanti alla bocca.
«Non l’avrei chiamata senza pensarci due volte se non fosse già successo… sì… no, non nel contesto sportivo. Mio figlio lo ha invitato a casa qualche volta… no, una sola volta… Ha chiesto di essere lasciato solo ed è stato tutto il giorno seduto in un angolo con la testa tra le gambe. Solo la sera ha accettato di occupare il letto dell’altro mio figlio»
Quando… quando era successo tutto questo? Come potevo non essere a conoscenza anche solo del fatto che Claudio era stato a casa nostra e aveva dormito nel mio letto? L’unico periodo in cui ero mancato da casa era stato durante la gita scolastica di cinque giorni. Mio fratello era stato così stronzo da invitarlo in quel frangente?
«…Il giorno dopo sembrava come nuovo e si è scusato per il comportamento del giorno prima. Gli ho chiesto se fosse successo qualcosa e lui m’ha detto che erano cose private. Voi sapete se ha, non so… problemi a scuola, con gli amici, con parenti… o se il problema è nella squadra di calcio, cosa non così improbabile?» Mio padre concluse il suo monologo e aspettò che gli dessero una risposta, e da quanto stava in silenzio ad ascoltare sembrava che anche dall’altra parte avessero iniziato a parlare a ruota.
«Che vuol dire?» chiese spiegazioni su qualcosa che non potevo sentire, e il che mi fece spuntare sfoghi rossastri sotto le orecchie dal nervoso. «Ma avreste dovuto dirmelo! Se dovesse succedergli qualcosa, la responsabilità è mia. Questo va oltre le volontà di vostro figlio. Adesso torniamo giù, oppure venite a prenderlo»
«Se ne vada» mugolò Claudio con un tono da rassegnato e voce bassa, quasi stesse intimando ai propri pensieri di abbandonare il suo cervello.
«Come, non posso? E che devo fare?» la voce di mio padre vibrava, segno di evidente panico. Volevo spalancare la porta e sorpassare quella soglia, e l’avrei fatto se non fosse che non potevo. E non dovevo. Ma volevo. E avevo ancora troppa paura di oltrepassare il limite per sperare di essere quello sul posto del passeggero nella macchina di Claudio che andava in contromano. Allo stesso modo in cui la sera prima riuscivo a sentire distintamente quello che sentiva lui, pensavo a quello che pensava lui, toccavo ciò che toccava lui, in quel momento lo sentivo lontano anni luce, irraggiungibile, e mi sentivo incapace, impotente: non potevo fare alcunché per liberarlo da quell’oscurità che sembrava essersi presa possesso di lui. Rassegnato dalla mia impotenza e dalla mia incapacità di incomprensione, buttai le braccia lungo i fianchi, presi il borsone e scappai a gambe levate verso i campetti, con l’impressione che l’ombra di una mano tentasse di afferrarmi la testa e insinuarsi nel cervello.
Quando arrivai allo spogliatoio, gli altri erano già pronti e si stavano ancora scambiando opinioni su cosa potesse essere successo a Claudio.
«Lo sappiamo tutti che è una checca melodrammatica. Lo avrà scaricato qualcuno» Stava dicendo Diego, e avrei voluto essere arrivato qualche secondo dopo per non sentire quella sua supposizione.
«Io vi ho detto la mia» si azzardò Michele.
«Non ci interessa, la tua» lo zittì subito Marco, e Michele alzò le mani in segno di resa.
«Magari sta male proprio fisicamente. Tipo ha la nausea o la febbre e non vuole alzarsi per nessun motivo. Cioè, stanotte c’era un vento forte e fresco e invece stamattina c’è un’afa che non si respira. Magari il cambio improvviso di temperatura non gli ha fatto molto bene» propose Sandro, e sinceramente era una delle rarissime volte in cui faceva un discorso di senso più o meno compiuto senza mai farsi interrompere. Le sue parole, incredibilmente, riuscirono a convincere tutti gli altri, a parte Loris, che come prima a colazione se ne stava sulle sue, a mordicchiarsi le dita, gesto incondizionato che faceva quando qualcosa lo preoccupava. Ma non c’era bisogno del tic per cogliere la preoccupazione sul volto di mio fratello.
Quando mi videro entrare mi chiesero novità, ma io non avevo da dargliene. Anche avendo ascoltato parte della conversazione che mio padre aveva avuto con la sua famiglia, non potevo certo dire di aver capito qualcosa. Mi davo dello stupido, dell’incapace, dell’inutile, ed ero tanto frustrato da non riuscirmi a infilare i calzettoni.
Il mister ci raggiunse una decina di minuti dopo, senza aprire bocca sull’accaduto ma incitandoci invece, con tono piuttosto minaccioso, a pensare a vincere la partita. Ma una volta entrati in campo, notammo tutti come il ritmo della squadra fosse pacato e la voglia di mettersi in gioco fosse sfumata tutta d’un colpo. Mio padre non faceva che urlarci dietro con tono esageratamente aggressivo, a dirci di fare attenzione, di intercettare la palla, di muovere il culo, imbastiva frasi farcite di parolacce, ci chiedeva cos’è che non andava, dopodiché prese a calci la panchina e lasciò il campo imprecando. Quella partita la vinsero gli avversari. Per noi il torneo si concluse e il nostro posto in classifica divenne terribilmente incerto; quel che era sicuro era che non ci saremmo più potuti posizionare al primo o secondo posto. Diego era visibilmente furioso, ma non si osò a pronunciarsi, non finché non ci saremmo confrontati col mister. Al nostro rientro negli spogliatoi, mio padre si dichiarò deluso dalle nostre prestazioni in campo, ci disse di aver pensato a un attimo di smarrimento nei giorni scorsi e che magari ci saremmo ripresi, ma a quanto pareva il problema era interno alla squadra e legato ai nostri orrendi caratteri.
«Discutete in continuazione, vi prendete in giro, vi guardate con antipatia e talvolta scappa qualche pugno. Vi detestate. Mi spiegate cosa ci fate ancora qui?» ci rimproverò, e tutti tennero la testa bassa per l’umiliazione. «Avete fatto pena in campo, non vi ho mai visti tanto fiacchi, demotivati e distratti. Che fate, prendete droghe e le avete finite?» la frecciatina di mio padre era chiara e sicura, quasi ci avesse sentito parlare il giorno prima a colazione e avesse capito esattamente quale fosse stato il “malessere” di Ludovico. Nessuno ebbe il coraggio di alzare la testa e puntare lo sguardo su Nathan.
«Poi uno fa sgambetti gratis, l’altro non riesce a passare la palla al compagno che è a due metri di distanza! Sembrate principianti!»
A quel punto, l’unico ad alzare il capo fu Diego.
«Forse, se Marco non mandasse sempre le palle in fuori gioco…»
«E se il capitano non le spedisse fuori…» ribatté l’altro con un pizzico di sfida.
«Ricominciate?» fece mio padre alterato, ma Diego sembrava non volerla finire lì.
«Ma non parliamo delle figuracce che ci ha fatto fare Nicola. E’ dall’inizio che mi chiedo che diavolo ci faccia qui, e tutti se lo chiedono, ma nessuno ha mai avuto il coraggio di tagliarlo fuori»
Nicola si sentì chiamato in causa e alzò a sua volta il capo, non proprio sorpreso che adesso Diego se la stesse prendendo con lui.
«Nessuno ti voleva. Ti abbiamo preso solo perché sei il cugino di Ludovico, ma a confronto tu non sai neanche che forma abbia una palla. Allora mi chiedo, mister, che aspettiamo a sbarazzarcene?» concluse il capitano, braccia e mani aperte, in volto un’espressione quasi esasperata. Lui lo guardò più o meno con la stessa espressione, mordendosi il labbro per costringersi a non riempire di insulti un ragazzo che aveva un terzo della sua età.
«Se non la pianti di ribattere, sarai tu il primo ad essere cacciato. E’ chiaro?»
La fermezza di mio padre spaventò anche me e fece calare il silenzio nello spogliatoio, un silenzio che per Nicola fu come un insulto. Si infilò i capelli neri nel berretto e si mise in piedi, per poi filare via a passo così svelto che nessuno fece in tempo a rendersi conto di quello che stava succedendo. Quando chiuse la porta dietro di sé, Sandro s’alzò d’istinto per inseguirlo, ma mio padre gli fece segno di non muoversi e gli disse di lasciarlo sfogare e che in poco tempo sarebbe tornato. Ma non fu così, e fino a che non fece buio di lui non s’intravide l’ombra.








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