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Autore: Adeia Di Elferas    01/06/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Simon Fiorini si era appena coricato e non aveva ancora preso sonno, benché fosse molto tardi. Gli capitava spesso, soprattutto in primavera. Un po' per colpa dell'umidità, un po' perché la cena gli restava sullo stomaco e un po' per via del sole che ogni giorno ritardava sempre di più il suo tramonto.

Era la notte del 6 maggio e Simon, tormentato dall'insonnia, non riusciva a far altro che pensare alle scadenze dei giorni a venire.

Doveva finire di sistemare alcune carte delle compravendite di terreni e doveva fare dei versamenti in denaro a quelli che gli avevano ceduto un appezzamento appena fuori da Bertinoro. In più tutti quei maneggi andavano portati avanti con una certa cautela, senza farsi troppa pubblicità, soprattutto ora che la Contessa Riario aveva rimesso mano alla legge, inasprendo le pene per i trasgressori.

Lui viveva relativamente lontano da Forlì e si sapeva che da anni, ormai, la Tigre difficilmente si avventurava troppo lontano dalla sua rocca. Aveva molte spie in giro, ma Simon si credeva tranquillo, essendo sempre attento a ogni mossa.

Voltandosi tra le lenzuola, sbuffando per il caldo, Fiorini credette di essersi ingannato nel sentire uno strano rumore. Si disse che la colpa doveva essere della vecchia intelaiatura del letto, che scricchiolava ogni qualvolta si muovesse, e richiuse gli occhi nel tentativo di assopirsi.

Quando sentì un secco sbattere metallico provenire da un punto indefinito della casa, l'uomo non ebbe più voglia di trovare delle scuse rassicuranti e pensò a salvare la pelle.

Sapeva benissimo che prima o poi avrebbe passato dei guai, o per i reati perpetrati contro Dio, o per quelli perpetrati contro lo Stato.

Chi fosse a bussare alla sua porta quella notte non gli interessava. Non poteva che essere qualcuno intenzionato a fargli pagare il suo salato conto, dunque nel dubbio era meglio darsela a gambe e basta.

Scivolando fuori dalle coperte, in silenzio assoluto, Simon Fiorini prese da sopra alla cassapanca la sua spada corta, mai usata, ma sempre a portata di mano, e poi, camminando lentamente e trattenendo il fiato, si avvicinò alla porta.

Sentì delle voci che sussurravano concitate e dei passi avvicinarsi. Dovevano essere in molti e per essere arrivati fino a lì dovevano aver passato il recinto senza essere visti, o, ancor peggio, uccidendo le guardie che stavano lungo tutto il perimetro della proprietà.

Facendosi il segno della croce, Fiorini lasciò la camera e si affrettò ad attraversare quasi metà del suo palazzo, pregando e facendo scongiuri.

Per fortuna, quelli che erano entrati in casa sua per prenderlo – o ammazzarlo – avevano scelto una strada diversa e Fiorini riuscì a raggiungere l'imboccatura del passaggio segreto senza farsi trovare.

Quando aveva pregato il costruttore di curare in modo particolare quel corridoio scavato nel muro, l'aveva fatto per scaramanzia, più che per convinzione.

L'aveva trovata un'idea di moda, come se aggiungere una via di fuga alla propria magione la rendesse più simile a quella del mondo che contava davvero, ai castelli dei potenti e alle rocche dei grandi signori.

Ma avrebbe creduto che sarebbe realmente arrivato il giorno in cui quel vezzo gli avrebbe salvato l'osso del collo.

Mentre correva a perdifiato nel passaggio buio, confidando nel fatto di non inciampare e di ricordarsi bene la perfetta linea retta del percorso, Simon Fiorini scoppiò a ridere da solo.

 

Il Cardinale Raffaele Sansoni Riario stava rimirando il Cupido Dormiente arrivato da poco a Roma.

Si trattava di una statua e già questo gli aveva fatto un po' storcere il naso, dato che il mediatore si era detto sicuro fino all'ultimo che si trattasse di un dipinto.

“Un disguido – si era scusato il milanese, quando gli aveva mostrato l'opera d'arte – ma tutto a vostro vantaggio, non credete? Questo marmo di certo vale più di una misera tela, ma il prezzo resta il medesimo!”

Soprassedendo su ciò, il porporato aveva comunque accettato l'acquisto di buon grado e aveva posto quell'antico cimelio nel centro del suo miglior salone, vantandosene con tutti gli ospiti – non che in quel periodo fossero in molti a frequentare il suo palazzo – fino a sfinirli.

Quella mattina di maggio, però, con quella luce impietosa che colpiva il profilo efebico del Cupido, Raffaele non riusciva più a zittire la voce che dentro di sé lo metteva in guardia.

Da quando la statua era arrivata, erano subito cominciate delle voci molto antipatiche circa la sua autenticità e, di conseguenza, sulla scarsa furbizia del Cardinale, che si era fatto truffare come niente, pagando una cifra ingente per un falso.

Non che Raffaele pensasse che i chiacchieroni della curia romana fossero in grado di riconoscere un falso da un originale, ma la sua natura paurosa e sospettosa l'aveva subito gettato nello sconforto.

Quando qualcuno bussò alla porta, Raffaele staccò la punta del dito dal liscio marmo della statua e si apprestò con cuore dolente a sentire cosa le sue spie avessero da riferire.

Avendo soldi da spendere e non avendo altre velleità, ormai, se non il collezionismo e l'istruzione del cugino Cesare Riario, il Cardinale aveva pagato profumatamente degli uomini molto esperti affinché scoprissero lo scopribile su quel benedetto Cupido Dormiente.

“Allora?” chiese con la vigliacca impazienza di chi attende una notizia infausta ed è combattuto tra il desiderio di una conferma e l'illusoria attesa di una smentita.

“Abbiamo messo sotto torchio quel milanese – fece la spia, un omaccione con un occhio solo e due mani grosse come badili – l'intermediario che vi ha portato questa cosa...”

Raffaele, che comunque apprezzava molto la linea limpida e precisa di quella statua, si risentì un po' per il tono usato dalla spia, ma non disse nulla, stringendosi le mani l'una nell'altra e portandosele al petto, in ansia.

“Ha ammesso che non è un originale, ma che anzi è una roba fresca, freschissima, anticata per farvela comprare e pagare di più.” concluse la spia: “Ha anche detto che prima si pensava di rifilarvi una crosta, ma alla fine una statua era più semplice da patinare e così hanno fatto.”

“E chi è stato a volermi truffare?” chiese il Cardinale, occhieggiando verso il Cupido con rinnovata diffidenza.

Il delatore fece spallucce e ammise: “Questo non lo abbiamo scoperto. Anche se gli abbiamo detto che gli cavavamo la lingua, quel dannato milanese ha detto di non sapere i nomi di quelli che l'avevano proposto. Se volete risposte, vi conviene mandare qualcuno a Firenze.”

Raffaele ringraziò, allungando ancora una moneta d'oro alla spia, senza un vero motivo, forse solo per l'inconscia paura di vedersi a sua minacciato dalle quelle manone, e si mise subito a pensare al da farsi.

Ormai era stato gabbato e su questo non c'era nulla da dire. Anzi, cercare il colpevole per essere rimborsato, forse, lo avrebbe fatto passare ancor di più da fesso.

I suoi occhi incavati si posarono sulla statua di marmo e improvvisamente una nuova prospettiva gli si aprì davanti.

Forse non si trattava di una statua antica, ma c'era da ammettere che era un'opera più che notevole, un'opera che davvero nulla aveva da invidiare a quelle dei grandi scultori latini e greci.

Chiunque ne fosse l'autore, doveva trattarsi di un grande artista.

Con un entusiasmo tutto nuovo, Raffaele ci ragionò sopra e poi decise di mandare a Firenze Jacopo Galli, un mediatore molto esperto e dai metodi efficaci.

Gli avrebbe chiesto sì di trovare i colpevoli della truffa, ma anche e soprattutto di rintracciare l'artista che era stato capace di scolpire quella statua magnifica.

“Portatemelo a Roma – disse il Cardinale, mentre spiegava il suo piano a Galli – a qualsiasi cifra e a qualsiasi condizione. Ditegli che diventerà lo scultore del Vaticano e dei papi! Ditegli che lo introdurrò alla curia, che ne farò un grande scultore, un grande artista! Qualsiasi prezzo, Jacopo, io lo voglio qui a Roma! E se proprio dovesse rifiutarsi, minacciatelo. Che si renda accorto che una truffa a un Cardinale può costare molto cara!”

 

Il Capitano che aveva cercato assieme ai sui sessanta uomini Simon Fiorini nel suo palazzo e poi per tutta la città, estendo le ricerche ai terreni vicini, fino a sfiorare Forlimpopoli, restava a capo chino davanti alla Tigre, temendo una punizione esemplare per la sua inefficienza.

Caterina si stava mordendo l'unghia del pollice, assorta, gli occhi rivolti alla finestra.

Quando il soldato era arrivato per riferirle l'esito della spedizione punitiva, la donna aveva fatto uscire dallo studiolo il castellano, soprattutto per sfuggire alle sue continue occhiate di rimprovero.

Lo zio di Giacomo e Tommaso era un ottimo armigero e un fedele suddito, ma, forte della sua età e della sua parentela acquisita con la Contessa, in quei giorni stava facendo pesare molto il suo giudizio, pur tacendo.

Da quando aveva saputo del trattamento riservato all'ambasciatore milanese, poi, non perdeva occasione per puntare gli occhi sulla Tigre, stringendo impercettibilmente le labbra e atteggiandosi a genitore contrariato per le marachelle della figlia.

Era una cosa che irritava all'inverosimile Caterina, tanto che l'aveva momentaneamente estromesso da qualsiasi colloquio o riunione, in modo da non rischiare di perdere la concentrazione per colpa sua.

Quel genere di atteggiamento, seppur viziato in quel caso anche dalla gelosia, era stato proprio anche di Tommaso, qualche anno addietro e il solo ricordo rendeva la Contessa al contempo malinconica e rabbiosa. Entrambi quei sentimenti poco si conciliavano con la necessità di mantenersi calma e obiettiva per valutare al meglio gli affari del suo Stato.

Dunque cercare di tener lontano quella pallida copia del Governatore di Imola era già un primo modo per tenere la propria mente un po' più sotto controllo.

“E avete perquisito ogni angolo della sua casa?” chiese la Tigre, picchiettando con le dita sul bracciolo della poltrona.

Il Capitano annuì, teso: “Sì, abbiamo trovato tutti i conti delle sue attività illecite, ma lui sembra essersi volatilizzato nel nulla. E sì che abbiamo trovato i segni della sua presenza, doveva essere ancora nell'edificio, quando siamo entrati...”

“Il palazzo ha passaggi segreti?” domandò Caterina, accigliandosi.

Il soldato parve stupito da quella possibilità, e, dopo un momento di smarrimento, disse: “Non lo so... Potrebbe essere.”

“Ma certo che è così.” tagliò corto la Contessa, scocciata: “Poco importa ormai. Anche se tornaste a Bertinoro e percorreste il passaggio per vedere dove sbuca, di certo adesso Fiorini sarà già molto lontano. Su di lui c'è una taglia: quindi o si tiene stretta la vita e abbandona le ricchezze che ha accumulato coi suoi delitti, o torna a prendere i suoi soldi e si guadagna un bel soggiorno nelle segrete della rocca, da cui non uscirà più se non cadavere. Ora andatevene.”

Il Capitano si inchinò e praticamente scappò fuori dallo studiolo, sollevato dalla reazione relativamente mite della sua signora.

Caterina cercò di calmarsi, anche se quell'azione non riuscita le stava risultando più fastidiosa di quanto avesse creduto possibile.

Nessuno doveva potersi considerare al di sopra delle leggi che lei stessa aveva emanato. Se non avessero trovato Simon Fiorini da nessuna parte, si sarebbe creato un pericoloso precedente.

Intanto era necessario non sbandierare troppo quell'evento sventurato, facendo sì che nessuno si ricordasse più del fuggitivo, ma di certo almeno a Bertinoro in molti si sarebbero chiesti che fine avesse fatto. Caterina avrebbe requisito tutti i suoi averi e li avrebbe redistribuiti, ma, per quanto necessaria, quella sarebbe stata la conferma per tutti quanti che Fiorini non sarebbe tornato.

Con un po' di fortuna e mettendo in giro le chiacchiere giuste, pensò a quel punto la Contessa, avrebbe potuto far credere a tutti che Simon Fiorini fosse morto o che fosse stato catturato... Certo però che se poi fosse ricomparso all'improvviso...

Battendo il palmo aperto contro la poltrona, la donna si alzò e andò alla porta.

Stava già pensando ad altri due problemi, più urgenti, e la sua testa minacciava di scoppiare per quanto le faceva male.

Da un lato i contadini della zona di Forlì le avevano mandato un rappresentante, alle questue, per chiederle di risolvere il problema dei Cavalcanti che si erano fatti violenti e prepotenti nel raccogliere le tasse.

Dall'altro c'erano le lamentele per l'annunciata scarsità di sale, dovuta all'umidità eccessiva che stava bloccando i lavori alle saline di Cervia. Per il momento non era ancora una situazione tragica, ma presto sarebbe stato necessario muoversi in qualche direzione per acquistare del sale da qualche altra potenza straniera e Caterina sapeva di non avere abbastanza soldi.

Immersa nei suoi tormentosi pensieri, la Tigre stava attraversando il perimetro della rocca a passo di marcia, diretta verso l'esterno, in cerca di qualche cosa con cui svagarsi.

Avrebbe potuto andare al cortile, dove sapeva che Galeazzo e Sforzino si stavano addestrando.

Oppure avrebbe potuto raggiungere Bianca che, con le balie e Livio, era nella sala dei giochi a leggere.

Avrebbe potuto cercare Bernardino, che quel giorno doveva essere al Quartiere Militare assieme ad altri piccoli aspiranti scudieri per imparare a distinguere i vari tipi di armi da fuoco.

Mentre ragionava su queste eventualità, però, incrociò Cesare, vestito di nero, il lungo naso immerso in un breviario e la tonsura che luccicava alla luce di maggio che filtrava dalle finestre che davano sul cortile.

Doveva essere appena rientrato da una delle sue interminabili sedute di preghiera in Duomo, o forse aveva addirittura passato l'interna notte immerso in meditazione in chiesa, viste le pesanti occhiaie e le guance tirate.

Quando passarono l'uno accanto all'altra, madre e figlio si sfiorarono con gli occhi e quel breve contatto visivo bastò al ragazzo per rimettere il naso tra le pagine del breviario e accelerare il passo e alla donna per desiderare con tutta se stessa di uscire dalla rocca almeno per qualche momento, sfuggendo dai ricordi, dai problemi e anche dalla propria famiglia.

Insofferente anche all'idea di recarsi in città – dove avrebbe potuto incontrare per caso ancora qualche contadino giunto in Forlì per il mercato – pensò che una scampagnata nel suo nuovo parco non sarebbe stata una cattiva idea.

Avendo scelto un approccio abbastanza conservativo nel sistemare la zona boscosa, gran parte del progetto era già stato ultimato. Mancavano solo alcune zone adibite alla crescita e alla cura di alberi da frutto e piccoli orti, ma la parte più selvatica, quella che restava più lontana da Ravaldino, si poteva dire praticamente ultimata.

Ne avrebbe approfittato per vedere a che punto era la casina per la caccia che aveva fatto costruire in mezzo alla riserva.

Cambiando repentinamente senso di marcia, per dirigersi verso le scale e da lì alle stalle per prendere un cavallo, Caterina per poco non andò a sbattere contro l'ambasciatore fiorentino.

“Siete silenzioso come un gatto.” gli disse, a mo' di rimprovero, dopo averlo evitato per un soffio.

Giovanni abbozzò un sorriso e si scusò: “Cercavo di raggiungervi per chiedervi se vi andava di parlare un po' del libro che vi avevo prestato. E già che si è qui, ho anche delle cose da riferirvi da parte di Firenze.”

Caterina lo guardò per un lungo istante, tentata come non mai di proporgli di seguirla nella riserva di caccia. Non sapeva dire nemmeno lei per far cosa. Parlare, magari, quello sì. Per cacciare, forse, tanto per vedere se quel Medici se la cavava anche con arco e frecce oltre che con le parole.

Poi lesse l'attesa nei suoi occhi chiarissimi e per qualche momento la sua attenzione venne catturata dalle labbra carnose e un po' aperte nell'indecisione se aggiungere qualcosa o meno.

Le sue spalle erano dritte e abbastanza larghe e gli abiti semplici e lisci che indossava quel giorno ne risaltavano il fisico slanciato. Se solo fosse stato un tantino più robusto, lo si sarebbe potuto dire un corpo dall'armonia ideale.

Schiarendosi la voce e abbassando lo sguardo, la Contessa disse, tanto veloce da mangiarsi un po' qualche finale: “Oggi proprio non posso, ho cose molto importanti a cui badare, devo occuparmi dei contadini e delle loro richieste, poi ho una riunione del Consiglio, devo anche pensare ad alcuni affari che riguardano la riscossione delle tasse, mi stanno aspettando proprio ora, ma sono certa che nei prossimi giorni troveremo sicuramente un momento per...” e prima di finire la frase fece un cenno del capo e passò oltre Giovanni, a marce serrate, imponendosi di non voltarsi nemmeno, per non cedere a quella debolezza che minacciava di farsi di nuovo strada in lei.

Si era ripromessa di tenere a debita distanza gli oratori stranieri e così doveva fare. Il suo Stato era troppo fragile e così era anche lei, in quel momento.

La disperazione per la morte di Giacomo era ancora troppo viva e si ripresentava nei momenti più disparati, con la medesima forza distruttiva di quando l'aveva attanagliata la prima volta.

Non aveva abbastanza lucidità per mettersi a confronto con qualcosa che andasse oltre il fugace piacere fisico che traeva dalle sue saltuarie avventure di una notte.

E, neanche a dirlo, non poteva certo sperare di potersi permettere uno svago simile con un ambasciatore straniero. Anche una sola notte passata assieme avrebbe alterato il loro rapporto diplomatico e le conseguenze avrebbero potuto essere imponderabili.

Senza contare che Giovanni Medici non la interessava da quel punto di vista, o meglio, non solo.

Ormai doveva ammettere con se stessa di provare un'innegabile attrazione per quell'uomo, la cui bellezza non era aggressiva com'era stata quella di Giacomo, ma tranquilla, una di quelle bellezze che si scoprono pian piano e, quando finalmente si riconoscono, non smettono più di stupire.

L'interesse che provava nei suoi confronti, però, trovava una spiegazione ancora più solida in tutto il resto. Nei suoi modi, nei discorsi che faceva, nelle solide basi culturali che dimostrava e nella sua innata capacità di farla sentire meglio anche solo guardandola. Ed era quello a spaventare più di ogni altra cosa la Tigre.

Arrivata alle stalle, ancora molto agitata per ciò che le frullava in testa, Caterina ordinò che le venisse preparato un cavallo. Poi fece un salto nella sala delle armi dove prese il necessario per cacciare.

Lasciò la rocca senza dire a nessuno dove fosse diretta di preciso e appena fu fuori dalla vista delle guardie di ronda, diede di speroni al suo purosangue scuro e, invece di andare nella sua nuova riserva nel parco, si spinse, senza capire nemmeno lei perché, fino ai prati di Cassirano.

 

“Si sta facendo attendere, eh?” chiese Lucrezia Landriani, abbassando il ricamo e guardando la figlia Bianca, seduta davanti a lei, le mani sul pancione.

“Se Dio vuole, per fine mese dovrebbe nascere.” rispose la giovane, che da qualche giorno non ce la faceva proprio più.

Con il caldo che iniziava a farsi sempre più pressante, le sue gambe arrivavano a sera gonfie come otri, doloranti e pesanti e, spesso e volentieri, le doleva il capo come se avesse preso delle bastonate sulla fronte.

Tommaso faceva del suo meglio per non farle mancare nulla e il fatto che sua madre avesse deciso di restare con lei a Imola fino al parto la tranquillizzava tantissimo.

Non vedeva l'ora che il bambino nascesse e non solo per togliersi tutti gli inconvenienti di una gravidanza arrivata a termine in una primavera calda e umida, ma anche per conoscere finalmente il frutto dell'amore che provava per suo marito.

“Avete già pensato a come chiamarlo?” domandò Lucrezia, curiosa.

Bianca sospirò e rispose: “Abbiamo deciso che se sarà un maschio, il nome lo sceglierà lui, se sarà una femmina, il nome lo sceglierò io.”

“E quindi che nomi avete in mente?” insistette la madre, che, come Bianca, non stava più nella pelle dalla voglia di scoprire che aspetto avrebbe avuto il piccolo, o la piccola.

“Io vorrei chiamarlo Lucrezia, come te.” disse la giovane, mentre le sue parole venivano accolte da un accorato ringraziamento della madre: “Mentre credo che Tommaso, se nascesse un maschio, lo vorrebbe chiamare Giacomo.”

“Dire che è comprensibile.” fece Lucrezia, ricominciando a cucire, un placido sorriso sulle labbra, stroncando con quell'espressione tranquilla la punta di tensione che traspariva dalle parole di Bianca.

Erano in una delle stanze della rocca che la Landriani aveva personalmente abbellito, rendendola accogliente ed elegante quanto la saletta di un palazzo signorile alla moda.

Bianca apprezzava molto il gusto della madre nella scelta della mobilia e degli arredi, e non poteva che essere felice per lei, quando pensava che per buona parte della sua vita, almeno fino a quando Galeazzo Maria Sforza era stato in vita, Lucrezia non era mai riuscita ad avere una casa che fosse davvero sua.

Vederla padroneggiare così le stanze della rocca, per quanto fossero anguste e fredde, era una gioia per gli occhi. Da padrona di casa, Lucrezia appariva finalmente realizzata.

“Tommaso è un po' preoccupato...” fece Bianca, pensando a come il marito parlasse del parto imminente con la gravità con cui avrebbe parlato di un assedio in atto: “Ha sempre paura che possa capitare qualcosa, sai com'è fatto.”

Lucrezia annuì: “Anche tuo padre era in ansia, quando dovevi nascere tu.” ricordò, per poi dare in una leggera risata: “Non devi farci caso. Gli uomini sono tutti così. O non gliene importa niente, o non fanno altro che pensare al peggio.”

Bianca ricambiò con un sorriso e si sentì in dovere di ricordare: “Tommaso, però, ha motivi più seri di quanto non ne avesse mio padre, per essere in pensiero.”

Rievocare a quel modo tutte le gravidanze fallite che avevano preceduto quella che stava per arrivare a termine senza incidenti, rabbuiò Lucrezia, che si sforzò di apparire comunque lieta, nell'incoraggiare la figlia: “Questo è vero, ma adesso che sei più robusta e in salute, non vedo che cosa debba impensierirti. Entro fine mese avrai tra le tue braccia il tuo bambino, e allora vedrai che andrà tutto bene.”

 

Camillo Vitelli si mise davanti ai suoi e li aiutò a prendere lo scalone: “Forza! Avanti! Avanti!”

Le mura di Circello erano difese da tutta la popolazione, in quel momento. Per far fronte all'attacco dei filofrancesi, non solo i soldati, ma anche le donne, i vecchi e i bambini erano saliti sui camminamenti e respingevano gli attacchi, lanciando ogni genere di cosa contro i nemici.

I comandanti francesi non erano stati d'accordo con quell'attacco, ma Virginio Orsini aveva insistito, specificando come quella città sarebbe stata fondamentale per rimpolpare le vettovaglie ormai quasi esaurite.

La campagna contro Napoli si stava ripiegando su se stessa, alla luce delle ultime battagliette finite tutte o con un pari e patta o con delle sconfitte. Andando avanti così i miseri baluardi di Carlo VIII sarebbero crollati uno dopo l'altro e allora non ci sarebbero state speranze di un vero e proprio ritorno di fiamma dei francesi.

Conquistare Circello sarebbe stato un punto da cui ripartire, o almeno così la vedeva Virginio, che si era studiato accuratamente le mappe e che oramai conosceva abbastanza bene la mentalità degli aragonesi.

Camillo, dopo averci pensato sopra per una notte intera, aveva alla fine dato ragione all'Orsini e di buon mattino era partito all'assedio.

“Forza!” gridò di nuovo Vitelli, mentre la scala riusciva infine a raggiungere il bordo delle merlature.

Per far forza ai suoi, Camillo si mise davanti a tutti e cominciò a salire. I suoi soldati inneggiavano a lui e al re di Francia, mentre dalle mura continuavano a piombare sassi, frecce e secchiate di liquami.

Camillo Vitelli teneva alto lo scudo, impedendo a tutti i proiettili anche solo di sfiorarlo, ma quando fu quasi in cima, con alcuni dei suoi che premevano sui pioli sotto di lui, dovette per forza guardare quello che aveva davanti, se voleva sperare di riuscire a buttarsi sui camminamenti, e così scostò la protezione.

Attraverso la celata, intravide una donna, vestita da popolana, coi capelli neri al vento e un grosso masso tra le mani. Per un istante infinito i due si guardarono l'un l'altro e poi la donna scagliò il pietrone proprio contro di lui.

Camillo venne centrato in testa e perse subito i sensi, ricadendo all'indietro. Il volo fu notevole e quando toccò terra, tutti pensarono subito con sgomento che fosse morto sul colpo.

Virginio, che stava coordinando l'artiglieria, si fece largo, scortato da due scudieri che gli coprivano la corsa con due grossi scudi a goccia, e arrivò al fianco di Camillo.

Vitelli aveva come minimo una gamba rotta e una spalla lussata, era evidente, e stava sanguinando molto. L'armatura aveva fatto più danno che altro, nella caduta, piegandosi e conficcandosi in più punti nella carne.

Virginio, incurante dei suoni sordi che arrivavano dagli scudi sopra la sua testa, tolse con delicatezza l'elmo all'amico.

Respirava ancora, ma era del tutto incosciente. Lo chiamò più e più volte a voce altissima e alla fine, vedendo i capelli corti di Camillo tingersi di rosso, altro non poté fare che cercare di tappare la ferita sul cranio con lo straccio che portava in vita e chiamare soccorso, affinché qualcuno lo aiutasse a riportarlo nel suo padiglione, in attesa delle cure di un cerusico.

“E voi andate avanti!” ululò Virginio, mentre trasportava assieme ad altri uomini l'esangue Camillo Vitelli lontano dalle mura: “Combattete! Combattete! Dobbiamo vincere! Forza!”

 

 
   
 
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