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Autore: Adeia Di Elferas    04/06/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Dopo tre giorni di agonia, durante i quali non ripresa mai conoscenza, Camillo Vitelli morì.

L'infruttuosa azione a Circello aveva causato, nell'esercito al servizio di Carlo VIII, una reazione a catena, resa più travolgente dalla morte assurda fatta da uno dei condottieri più importanti che ne stavano alla guida.

Gli uomini al soldo del re di Francia dislocati nei pressi di Circello, che militavano ormai sotto l'unica guida di Virginio Orsini e del Montpensier, avevano cominciato a dar segni di insofferenza e ogni notte le defezioni aumentavano in modo esponenziale.

Sarebbe stato del tutto inutile fissare punizioni o procedere con repressioni nei confronti di chi tagliava la corda. Il fenomeno ormai era troppo imponente e provare a opporvisi con la violenza avrebbe solo portato a una guerricciola intestina che avrebbe distrutto una volta per tutte le forze d'Oltralpe.

Consci delle difficoltà dei propri soldati e temendo uno scontro campale, al quale, ormai, non avrebbero più avuto possibilità di scampare, i due comandanti avevano iniziato a indugiare in manovre poco concrete, che consistevano essenzialmente nel continuo spostarsi senza mai fissare un accampamento fisso, in modo da confondere gli aragonesi e ritardare uno scontro, nell'attesa di avere un piano più preciso e delle forze maggiori.

Virginio, in particolare, era molto teso, perchè avvertiva come non mai la fine imminente e la sconfitta.

La morte di Camillo Vitello lo aveva colpito in modo particolare e molto personale. Vedere lo stesso uomo che pochi giorni prima era stato raggiante dinnanzi alla vittoria ottenuta con il suo caracollo, una mossa geniale scaturita dalla sua mente, morire con il cranio spaccato dopo interminabili ore di respiro spezzato e rantoli di dolore gli aveva fatto rivalutare molte cose.

Aveva visto morire tanti uomini, nel corso della sua vita, molto spesso si trattava di persone più giovani di lui e qualche volta si era trattato di amici o parenti. Eppure solo quando aveva sentito Camillo tirare l'ultimo faticoso respiro, aveva capito che prima o poi sarebbe capitato anche a lui.

Magari non a quel modo, magari non con quello strazio, ma non avrebbe potuto sottrarsi neppure lui al suo destino.

E questo bastava a farlo sentire un uomo perso. Malgrado il suo mestiere e quello con cui si confrontava da anni, la consapevolezza della sua mortalità lo stava trascinando in un gorgo da cui era difficile risalire. L'unica cosa che poteva fare per non pensarci troppo, era tenersi impegnato.

Tuttavia anche darsi da fare sembrava non essere sufficiente. I problemi che doveva affrontare erano a volte difficili da sormontare e dagli altri comandanti a lui collegati non arrivavano certo notizie più confortanti.

Sapeva che suo cognato Bartolomeo d'Alviano non riusciva a pagare i suoi uomini da quasi quattro mesi e sommando a questo l'apparente sordità di Carlo VIII che dalla Francia sembrava intenzionato a far arrivare solo ordini e nemmeno una moneta, il quadro si faceva sempre più tetro.

“Non c'è quasi più acqua, e qui è impossibile trovarne ancora.” riferì Gilberto di Montpensier.

Virginio ne squadrò il grosso naso, poi l'arcata sopraccigliare prominente e infine i suoi occhi si puntarono assorti nella profonda fossetta che aveva nel mezzo del mento: “E allora spostiamoci ancora.”

“Ma dove?” fece l'altro, allargando le braccia e cominciando a misurare a lunghi passi il terreno, sollevando nuvolette di polvere rossa.

Si erano fermati in aperta campagna e anche il terreno secco sotto i loro piedi pareva voler sottolineare l'amara scoperta del Montpensier.

L'Orsini ci ragionò a lungo, desiderando come non mai un letto fatto come Dio comandava o anche solo una poltrona per riposare un po' le sue gambe stanche.

Non erano lontani da Montecalvo Irpino, ma era proprio da lì che l'avanguardia era tornata per dire al Montpensier che le riserve d'acqua della zona scarseggiavano.

Di quel passo, pensò Virginio, sarebbe pure scoppiata qualche epidemia. Proprio l'ideale, nella loro già disastrata condizione.

Socchiuse le palpebre, facendosi scudo contro il sole ormai estivo di quegli ultimi giorni di maggio e poi, dopo aver vagliato a grandi linee l'esercito che li seguiva e i volti smunti e affaticati dei soldati, sbuffò.

Montò di nuovo in sella, affranto al pensiero della lunga cavalcata che l'aspettava, e ordinò: “Che si torni verso le Puglie! Lì ci rifocilleremo e poi scenderemo e daremo il sacco ad Atella!”

 

Giovanni Sforza fissava assorto la punta dei propri stivali, tenendo le braccia strette contro il petto e le sopracciglia alzate.

Non gli piaceva stare lì. Si sentiva troppo vicino al pericolo. A che era servito far l'impossibile per starsene lontano dai campi di battaglia, per poi trovarsi in un padiglione, assieme al resto dell'esercito, in attesa degli eventi?

Dopo essersi ricollegato con Francesco Gonzaga, aveva cercato invano di staccarsi, andando a Benevento, ma non era riuscito a forzare l'ingresso in città e aveva desistito subito, ritirandosi a Morcone.

Da lì era arrivato a Fragneto Monforte, e aspettava. Non sapeva nemmeno lui cosa.

Che il papa gli scrivesse ancora per convincerlo a tornare a Roma?

Rabbrividiva alla sola idea. Dopo quello che aveva visto e sentito, non voleva mai più rimettere piede nella corte di Alessandro VI.

Aspettare, allora, che iniziasse una battaglia e che qualcuno gli tagliasse la gola o gli piantasse una lancia nel petto? E per cosa? Per una guerra che nemmeno capiva?

Il signore di Pesaro era ancora immerso nei suoi pensieri quando la tendina che fungeva da ingresso al suo padiglione si aprì, lasciando entrare il crudele profumo della notte, che in quel finale di maggio portava in sé gli aromi della vita e della morte, tutti mescolati assieme.

Giovanni sollevò lo sguardo e vide che a fargli visita era niente meno che Francesco Gonzaga.

“State, state...” disse piano l'eroe di Fornovo, facendogli segno con la mano di non alzarsi.

Lo Sforza allora invitò il mantovano a prendere posto sullo sgabello che stava davanti al suo e poi gli offrì un po' di vino.

Il Gonzaga rifiutò e partì subito a dire le cose che più gli premevano: “A breve stiamo pensando di attaccar battaglia contro i francesi. Le nostre spie dicono che sono diretti ad Atella, ma io vorrei pungerli anche prima, provocandoli in campo aperto. Sarete dei nostri?”

Gli occhi spersi di Giovanni cercarono quelli fieri di Francesco e poi il signore di Pesaro seppe solo dire: “Io... Non... Se volete vi posso lasciare i miei uomini.”

Il Marchese di Mantova lo fissò per un lunghissimo istante, la fronte aggrottata, poi si batté le mani sui fianchi, e, con uno sbuffo molto sonoro, si alzò dallo sgabello, facendo mostra di voler lasciare di già il padiglione.

Lo Sforza non fece nulla per fermarlo, così, quando ormai era quasi alla tendina d'ingresso, il Marchese si lasciò scappare: “Proprio non vi capisco, Sforza. Avete lasciato a Roma una moglie bellissima per venire qui e adesso che ci siete, non volete nemmeno prendere in mano una spada.”

“Voi conoscete i Borja?” sussurrò piano Giovanni, domandandosi se mai nel Gonzaga potesse celarsi un interlocutore comprensivo.

Francesco si voltò, tornando verso lo sgabello e risiedendosi: “Chi non li conosce?” domandò, retorico.

Lo Sforza deglutì, e, puntellandosi in avanti, speranzoso, incalzò il mantovano: “Sì, ma io intendo dire... Sapete che hanno in casa loro?”

“Se intendete malignare su vostro suocero o su uno dei vostri cognati o, ancor peggio, su vostra moglie – fece Gonzaga, d'impeto, rimettendosi in piedi – non starò qui ad ascoltarvi.”

Giovanni non aggiunse più nulla e, anche se il Marchese avrebbe in realtà voluto sapere di più, se non altro per aver conferma di alcune voci che avevano inziato a farsi strada tra i frequentatori del Vaticano, la discussione si chiuse lì e lo Sforza rimase di nuovo da solo a ribollire nei suoi tormenti.

 

“Mi sembra che il tuo ambasciatore non stia facendo molti progressi.” disse Ludovico Sforza, gettando di lato una lamentosa lettera dell'oratore scelto da Beatrice.

La donna strinse le piccole labbra e ribatté: “Ho già provveduto a mandargli una risposta. Non sta rispettando gli accordi che aveva preso con me. O raddrizza il tiro, o sarò costretta a prendere provvedimenti.”

Il Moro sollevò un sopracciglio e, mentre Calco entrava nello studio, soffiò: “Dio lo scampi dalla tua ira...”

La riunione con il cancelliere e alcuni dei consiglieri più fidati del Duca durò molto tempo, tanto che, alla fine, Ludovico non sapeva nemmeno più che giorno fosse.

Non era un uomo adatto a quel genere di attività. Avrebbe preferito mille volte svestire i panni eleganti che portava e andare in mezzo a un campo a zappare.

Però il potere imponeva quello sforzo, e il Moro avrebbe anche venduto l'anim al diavolo, pur di tenersi stretto il bastone del comando, dunque, cos'era una riunione fiume, in confronto?

Quando il conciliabolo si sciolse, Ludovico, offrendo il braccio alla moglie, le propose di far un giro all'aperto, nel cortile.

Anche se faceva molto caldo e sarebbe stato di certo più piacevole prendere una carrozza e andare a Vigevano, il Moro sapeva bene che quel momento difficile richiedeva la sua presenza a Milano.

Beatrice aveva ragione, le sue spie avevano confermato tutto. La città lo odiava e dunque era di vitale importanza non lasciare il proprio scranno, almeno non finché le schermaglie tra la Lega e i francesi non fossero di nuovo state messe a freno.

“Avrei dovuto mandare Ermes, a Forlì.” disse a un certo punto Ludovico, mentre con Beatrice passava sotto il loggiato: “Mio nipote sa quello che fa e non si sarebbe lasciato mettere all'angolo come quel buono a nulla...”

“Ma che stai dicendo..!” lo liquidò Beatrice, che stringeva la grande mano del Moro nella sua: “Se tu avessi mandato tuo nipote, sarebbe stato come avere una spia della Tigre in casa nostra. Lui e Caterina sono fratelli. Sei così ingenuo da pensare che Ermes ti sarebbe rimasto fedele?”

“Lo è stato fino a ora.” notò il Duca, voltando l'angolo con lo stesso lento e cadenzato passo della moglie.

“Fino a ora non stavamo perdendo la guerra.” controbatté la Duchessa.

“Ma noi non stiamo perdendo la guerra!” si ribellò il Moro, provando a sciogliere la salda presa della donna sulle sue dita, senza riuscirci: “Carlo di Francia è sempre più debole, gli Aragona sono allo sbando e...”

“Quello che sta succedendo al sud equivale a una sconfitta per noi. Spese, spese e ancora spese e prova a citarmi una vittoria degna di nota per la Lega.” argomentò Beatrice, mentre il suo viso si illuminava fugacemente con un sorriso di saluto per uno degli armigeri che stava passando loro accanto: “Gli Aragona sono allo sbando, su questo sono d'accordo con te, ma i francesi... Re Carlo è l'ultimo dei nostri problemi. Quello che ci dovrebbe spaventare adesso è suo cugino Luigi. Il Duca d'Orléans è stato un problema fin dal primo momento...”

Il Duca avrebbe voluto darle torto, ma si rendeva conto di quanto, purtroppo, le parole di Beatrice rispecchiassero la realtà dei fatti.

Anche se la loro corte stava vivendo un momento di raro splendore, anche se quasi ogni sera una nuova festa faceva brillare gli occhi dei loro cortigiani, anche se Leonardo era solo uno dei grandi artisti che gravitavano attorno a Milano, abbellendo la città e il castello, Ludovico sapeva benissimo che tutto il loro impero di fumo stava per dissolversi.

“Mia signora – salutò il medico di corte, fradicio di sudore e rosso per il caldo, che stava seduto su una delle panchette, sventolandosi disperato con un ventaglio da donna preso in prestito chissà da chi – vi vedo molto bene, oggi. Procede tutto come dovrebbe?”

Beatrice gli sorrise e lo ringraziò per la sua premura, assicurando che tutto stava andando per il meglio.

“Che intendeva?” chiese il Moro, accigliandosi, appena furono a qualche metro di distanza.

“Sono incinta, Ludovico.” rispose Beatrice, abbandonando il sorriso pacifico che aveva indossato in riguardo al medico e assumendo un'espressione abbastanza bellicosa: “Da due mesi, più o meno.”

“E come mai non me l'hai detto prima?” fece il Duca, fermandosi di colpo.

“Se non fossi stato così occupato a correre dietro alle gonne della tua amante, magari te ne saresti accorto da te.” lo rimbrottò.

Ludovico fece un paio di respiri profondi, poi, quando ebbe metabolizzato la straordinaria novità, strinse le spalle della moglie con un braccio e, riprendendo a camminare, promise: “Sarò un marito migliore, lo giuro.”

 

Il sole era a picco del mezzogiorno su Forlì eppure nel cortile c'erano ancora soldati che menavano le mani e cozzavano le armi come furie.

La Contessa era vicina al muro, all'ombra, lo sguardo fisso su Galeazzo che stava duellando contro uno degli scudieri più giovani. L'impegno c'era e la tecnica era passabile. Ci sarebbe voluto un fisico un po' più solido, ma Caterina confidava nel passare degli anni.

Il maestro d'armi gridò qualcosa a un'altra coppia di reclute e a quel punto, mentre Galeazzo e il suo sfidante incrociavano la spada per l'ennesima volta, la Tigre si stufò di quello spettacolo.

Era rimasta quasi tutta mattina a osservare il figlio che aveva scelto come suo erede, ma la sua mente aveva continuato a correre da altre parti.

Quella notte non aveva quasi chiuso occhio, e, quando lo aveva fatto, era stato solo grazie alla sua pozione per far dormire. Si era limitata ad annusarne l'essenza attraverso uno straccio, in modo da riuscire a svegliarsi presto, ma l'effetto era stato comunque deleterio.

Le doleva il capo, aveva tutti i muscoli rigidi e faceva una terribile fatica a concentrarsi.

Il sonno senza sogni non era bastato a levarle di dosso la sensazione tremenda che l'accompagnava ogni volta che dormiva. Quella sensazione fredda e un po' appiccicosa che dava l'aria umida e stantia delle segrete.

Per una volta, non aveva rivisto in sogno la morte di Ludovico Marcobelli e di tutti gli altri, eppure fin dal primo mattino uno strano sapore amaro le aveva infestato la lingua e non l'aveva più lasciata.

“Per oggi basta così!” esclamò, facendo un cenno al figlio.

Galeazzo accolse con un sospiro di sollievo quell'ordine. Il caldo era davvero impossibile, quel 31 maggio, e tenere addosso un elmetto di cuoio a quell'ora era un supplizio inaudito.

Caterina lasciò il cortile, indecisa se andare a cercare qualcosa da mangiare nella sala dei banchetti o se ritirarsi da Andrea Bernardi per farsi aggiornare un po' sui nuovi pettegolezzi che giravano in città. Pensando che all'ora di pranzo sarebbe stato da parte sua un segno di invadenza eccessivo presentarsi a casa del barbiere, preferì andare a cercare qualcosa da mettere sotto i denti.

Quando arrivò al salone, sentì subito un meraviglioso profumo di carne arrosto e non solo.

Era la prima. Si servì un po' di stufato di daino. Aveva cacciato quella bestia lei stessa, qualche giorno prima.

Mentre masticava la carne saporita e selvatica, facendovi seguire un po' di vino, un ricordo improvviso le chiuse lo stomaco, rendendo il boccone indigesto.

Mandò giù a fatica e, dopo aver preso appena un paio di pezzetti di daino, lasciò il tavolo, ben felice di non aver avuto testimoni. Se l'avessero vista lasciare così a metà una portata di cui di norma era ghiotta, di certo alcuni ficcanaso come il castellano o uno dei suoi Capitani si sarebbero preoccupati e le avrebbero messo addosso, senza dover nemmeno dire una parola, una pressione inutile e fastidiosa.

A passo svelto lasciò la sala e poi la rocca e andò dritta e filata da Bernardi, infischiandosene di quello che avrebbe pensato nel vedersela piombare in casa a quell'ora.

Mentre attraversava la città, illuminata dai raggi incandescenti del sole allo zenit, continuava a ripensare a quando era tornata da sola a Cassirano. Mentre provava a masticare la carne del daino, aveva finalmente capito cosa l'aveva spinta a recarsi nell'ultimo posto in cui era stata con suo marito. La consapevolezza di quello che aveva cercato di mettere a tacere riportando a sé nel modo più vivido possibile il ricordo di Giacomo la faceva sentire divisa a metà e non sapeva come rimettere insieme i pezzi.

“Scusatemi se sono qui a quest'ora...” fece la donna, quando il Novacula aprì guardingo la porta.

“Siete la benvenuta.” la salutò l'uomo, facendosi subito da parte per lasciarla entrare: “Avete già mangiato?”

Caterina ripensò allo stufato e a come quei pochi bocconi le fossero rimasti di traverso e fece segno di no.

“Venite, ho appena fatto un po' di pasta con le verdure...” la invitò Bernardi, richiudendo la porta.

La Tigre ringraziò e, mentre il barbiere si affaccendava attorno alla sua parca mensa, versandole un po' di vino e servendole una ciotola fumante uguale alla sua, riuscì a rilassarsi almeno un po'.

Non parlarono di nulla in particolare, facendo solo qualche osservazione sul tempo e dissertando per un po' della qualità eccellente degli ortaggi che il Novacula era riuscito a trovare, malgrado il clima difficile.

Dopo il pasto, però, ci fu un lunghissimo pomeriggio. Caterina lo trascorse quasi tutto vagando come un'anima in pena nella sua rocca, e, quando si decise a chiedere a Luffo Numai se avesse visto l'ambasciatore di Firenze da qualche parte, quello gli disse che quel giorno Giovanni Medici sarebbe stato fuori fino a tarda sera.

“Lo aspettavano a Faenza. Tornerà in giornata, ma credo che non farà in tempo a essere qui nemmeno per l'ora di cena.” spiegò il Consigliere: “Lo sapete, è responsabile degli affari della repubblica fiorentina in tutta la Romagna, non è solo ambasciatore presso la vostra corte.”

“Lo so, lo so...” tagliò corto la Contessa, riprendendo il suo giro a vuoto che durò fino a sera inoltrata.

A quel punto, dato che dell'ambasciatore ancora non c'era traccia, stremata dalla convivenza forzata con se stessa e coi suoi ricordi, e non volendo provare a obliarsi ancora una volta nel vino e nell'oppio, la Tigre uscì a caccia, ma non di animali.

 

Michelangelo guardò con disprezzo Jacopo Galli: “Ma che state dicendo...”

L'uomo del Cardinale annuì con gravità: “Sì, il mio cliente l'ha comprato per duecento ducati.”

L'artista, pulendosi le mani sporche di pittura sulla camicia bianca – ormai divenuta grigia e tutta chiazzata per via della poca cura con cui la trattava – e facendo una smorfia di incredulità, buttò gli occhi al cielo e sbottò: “Duecento ducati!”

“La vostra è un'opera mirabile.” commentò Galli, credendo che la rabbia del giovane uomo fosse dovuta alla cifra ritenuta incongrua: “Ma capite bene che si tratta di una statua piccola... Con difficoltà avrebbero potuto ricavarne di più, per quanto di foggia pregevole...”

“Non è quello.” rispose con una specie di ringhio Michelangelo, passandosi una mano tra i riccioli e imbrattandoli tutti senza avvedersene: “È che a me ne hanno dati solo trenta!”

Jacopo Galli capì finalmente quale fosse il motivo dell'ira dell'artista, così provò a marciare su quel fronte: “Davvero dei truffatori. Ditemi di chi si tratta e vedremo che fare per...”

“Da quelli non voglio più niente. Di loro non ne voglio più saper niente. Non voglio mai più sentirli nominare!” si incaponì Michelangelo, facendo segno a Galli di seguirlo fuori dalla bottega.

Arrivati in strada, il sole che batteva su Firenze anche a quell'ora tarda accecò per un istante entrambi, fino a che Buonarroti non disse all'uomo di fiducia del Cardinale di accompagnarlo in una locanda vicina.

Davanti a un boccale ricolmo di vino fresco, Michelangelo cominciò a rimuginare sui Popolani e su tutte le belle parole che gli avevano rifilato.

“Noi non siamo stolti come nostro cugino Piero – aveva assicurato Lorenzo, il maggiore – e nemmeno prepotenti come il Magnifico. Non siamo ambiziosi per noi stessi, ma per la nostra amata patria. A noi stanno a cuore l'arte, la bellezza, la gloria di Firenze!”

Ma poi a quelle promesse vuote erano seguiti i fatti e i due nuovi Medici si erano dimostrati identici a quelli vecchi.

“Capiscono solo l'oro...” borbottò tra sé Michelangelo che, non badando minimamente agli sguardi straniti che gli altri avventori gli lanciavano nel vederlo tanto sporco di colore, continuava a trangugiare il suo vino: “Non vedono altra legge se non quella del denaro...”

Jacopo Galli pensò che quella sera non sarebbe riuscito di certo a estorcere altre informazioni al pittore, ma pensò che forse il suo stato d'animo sarebbe stato eccellente per sciogliere un altro nodo della sua missione: “Siete un artista eccellente – lo blandì – tanto che a Roma ci sono porporati interessati al vostro lavoro.”

Michelangelo, che si stava corrodendo ancora nella rabbia al pensiero di essere stato tradito da persone in cui aveva creduto, alzò gli occhi verso Galli e disse senza indugio alcuno: “Datemi tempo fino a fine giugno, per allora avrò finito un paio di lavori che devo a tutti i costi portare a termine. Dopodiché verrò con voi a Roma.”

“Non vi interessa nemmeno sapere quanto vi pagheranno?” chiese l'altro, francamente stranito dalla facilità con cui aveva comprato il giovane artista.

Buonarroti finì il boccale di vino e alzò il mento, insolente: “Non mi interessa. Qualsiasi posto è meglio di Firenze.”

 

Da tutto il giorno Bianca Landriani aveva avvertito dei dolorini alla pancia e, quando ne aveva fatto cenno al medico e alla madre, entrambi le avevano detto che forse il momento si stava avvicinando.

La giovane ne era stata felice e spaventata allo stesso tempo, ma, seguendo i loro consigli, aveva passato la giornata come sempre, dividendosi tra le letture sul divanetto imbottito e il riposo a letto.

In realtà non era riuscita a seguire la trama del poemetto che stava leggendo. Le parole le andavano insieme e la canicola le aveva tolto la voglia di concentrarsi.

Aveva le gambe molto gonfie e continuava a sudare. Il 31 maggio si stava accanendo su di lei, riversando su Imola un'afa che sarebbe stata più adatta a un infuocato agosto.

“Stai bene?” chiese Tommaso, chino sui soliti documenti, che stavano sparsi sulla scrivania.

Bianca annuì, ma dovette scuotere la testa, prima di riuscire a dire: “Sì, è solo il caldo... Ti spiace se intanto vado a coricarmi?”

Il marito la guardò un po' perplesso, ma poi si disse che non aveva nulla di diverso, rispetto agli ultimi giorni. Era un po' pallida, ma era comprensibile, visto il carico che portava con sé.

“Va bene.” disse, allora, alzandosi e andandole incontro: “Vuoi che ti accompagni fino a letto?”

Bianca sorrise, per un istante convinta che ci fosse qualche proposta nascosta in quelle parole, ma poi la confusione momentanea che l'aveva fatta dimentica del presente passò e la donna si ricordò del suo stato e della sua tremenda stanchezza e chiuse gli occhi, prima di dire: “No, non preoccuparti, vado da sola.”

Tommaso annuì e le disse: “Cerca di riposarti. E se senti qualcosa, chiama subito. Io cercherò di finire in fretta il lavoro. Sai com'è, è la fine del mese ed ero rimasto indietro...”

Bianca gli passò con lentezza una mano, le cui dita avevano le punte un po' fredde malgrado il caldo ancora ruggente di quella sera, sulla guancia ruvida per via della barba scura.

Con delicatezza, la donna approfondò la sua lenta carezza verso la nuca del marito e, cercando di non forzarlo troppo, lo indusse a piegarsi un po' verso di lei e a baciarla.

Il Governatore di Imola non fece resistenza, assecondando la moglie e, appena si staccò da lei, le diede un secondo bacio sulla fronte. Era rovente, ma cosa non lo era, quella notte?

“Ti amo.” sussurrò Bianca, mentre, con una mano sulla schiena dolorante, usciva dallo studiolo con una candela a farle luce.

Tommaso la guardò finché non fu sparita dalla sua vista e solo allora sussurrò di rimando: “Ti amo anche io.” e poi tornò alla scrivania.

Dopo quasi un'ora persa dietro a numerini e appunti a piè pagina, il Governatore sbadigliò sonoramente e, sotto lo sguardo indagatore di tre candele di sego e di quella segnatempo, appoggiò un momento la guancia alla carta ruvida che riportava le somme ottenute con le tasse all'ultima tornata di riscossione e, senza accorgersene, si assopì.

 

 
   
 
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