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Autore: Adeia Di Elferas    06/06/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Un urlo graffiante e profondo squarciò il silenzio del palazzo del Governatore di Imola, e Tommaso, ancora riverso sulla scrivania, preda del sonno improvviso, si svegliò di soprassalto, confuso e frastornato.

Delle candele che gli facevano luce era rimasta accesa solo quella segnatempo, che era lì a ricordargli che erano passare più o meno due ore, da quando si era assopito senza accorgersene.

Stringendo gli occhi, si chiese cosa lo avesse strappato al sonno in modo tanto repentino, ma non gli ci volle molto per capirlo, perché un secondo grido, ancor più feroce e penetrante, lo fece scattare in piedi e correre verso la camera da letto in cui risposava la moglie.

“Devo andare..! Lasciatemi, devo..! Devo andare! È tardi! Mi aspettano..! Io devo...” la voce di Bianca, le mani protese in avanti come a cercare qualcosa, era affannosa, i suoi occhi erano vitrei, la sua fronte sudata.

Quando Tommaso le fu abbastanza vicino, vide la pozza di sangue che imbrattava le lenzuola e che si spandeva come una chiazza d'olio, a partire dal bassoventre di sua moglie.

Con il cuore in gola, il Governatore andò di nuovo alla porta e sbraitò, in cerca di aiuto. In pochi istanti, un nugolo di serve si stava già affaccendando attorno a Bianca, ma Tommaso non riusciva a sopportare le sue grida e le sue frasi sconnesse e senza senso.

“Andate a Forlì...” ebbe la prontezza di dire a uno dei servi che erano accorsi per vedere che stava capitando: “Dite subito a mia cognata che... Ditele di... Se può, che venga qui a Imola...”

Il domestico annuì, capendo senza che fosse bisogno di parole più precise, e terrorizzato, sia per il tono del padrone, sia per tutto il sangue che aveva visto colare giù dal letto quando le donne del palazzo avevano provato a spostare la padrona, che gemeva sempre più disperata.

Dopo un solo attimo di esitazione, il servo lasciò la stanza per adempire al suo compito.

Tommaso si sentiva impotente e l'unica altra cosa che gli venne in mente di fare fu prendere per la collottola uno dei paggi che erano arrivati a curiosare e ordinargli: “Corri alla rocca e chiama qui mia suocera!”

Quando il ragazzetto fu partito di corsa, il Governatore si premette i palmi contro le tempie, tentato di scappare, di sottrarsi a quell'improvviso dramma, ma poi, da sopra le spalle della levatrice, che era appena arrivata tutta trafelata e ancora in abiti da camera, Tommaso incrociò gli occhi colmi di lacrime e panico di Bianca e a quel punto si fece forza e le andò vicino.

Inginocchiandosi accanto al letto, mentre le donne cercavano di fare qualcosa per fermare l'emorragia, le baciò la fronte bollente e fradicia di sudore freddo e le sussurrò all'orecchio: “Ti amo, ti amo Bianca...Ti prego, non...”

Stava per aggiungere ancora qualcosa, ma un urlo della moglie, profondo e nero come la notte in cui erano immersi, lo zittì e lo fece scoppiare in lacrime.

 

La stanza era immersa nel buio della notte ed era silenziosissima, eppure Caterina non riusciva a prendere sonno.

L'aria era ancora gravata dal sentore dell'uomo che se n'era appena andato e la Tigre, che aveva creduto di trovare almeno il sollievo del sonno dopo quell'incontro, non faceva invece altro che rimuginare in silenzio, una mano sul petto che si alzava e scendeva lentamente e gli occhi fissi alla finestra chiusa da cui filtrava incerta la luce della luna.

Si sentiva stanca, le lenzuola umide di sudore sotto di lei le davano la strana sensazione di essere avvolta in una specie di bozzolo, eppure non riusciva a tacitare i tormenti della sua anima e quelli, di rimando, non la lasciavano dormire.

Chiuse un attimo le palpebre e rivide il ragazzo che aveva cacciato dalla sua stanza non appena non le era più stato utile. Si sentì incredibilmente vuote nel rendersi conto che già non ne ricordava quasi più i lineamenti.

Con un sospiro silenzioso e spezzato, Caterina si girò sul fianco, affondando il volto nel cuscino.

Le tornarono alla memoria all'improvviso tutte le volte in cui aveva fatto un gesto simile quando Giacomo era ancora al suo fianco.

Lo aveva fatto anche i primi giorni in cui era rimasta sola. Ovviamente non aveva mai più sentito l'odore di suo marito sul guanciale. E così ogni volta la delusione l'aveva sprofondata ancora di più nella disperazione.

E quella notte non faceva eccezione.

Si sedette sul letto, appoggiò i piedi in terra e sentire il freddo pavimento le ridiede una parvenza di vita, in quella crisalide che era la sua stanza. Era sorprendente come bastasse una sensazione tanto insignificante per ricordarle che il suo cuore pulsava ancora e nelle sue vene il sangue scorreva senza sosta.

Stava già cominciando giugno. Giacomo era da nove mesi.

Mentre si asciugava con il dorso della mano una lacrima, qualcuno bussò. Sorpresa di essere richiesta a quell'ora, la donna afferrò subito la veste da camera che teneva appesa alla sedia della scrivania e chiese chi fosse.

“Si tratta di una questione urgentissima!” rispose la voce del castellano dall'altro lato della porta.

Accigliandosi, Caterina si passò ancora la mano sugli occhi, per asciugarli una volta per tutte e aprì l'uscio di qualche centimetro.

Alla luce incostante delle torce, un uomo scapigliato e dal viso tirato in un'espressione di panico affiancava il castellano Feo.

“Che c'è?” chiese la Contessa, dato che nessuno dei due parlava.

“Vengo da Imola, mia signora...” fece lo sconosciuto: “Sono uno dei servi del Governatore Feo.”

“Cos'è successo?” domandò subito la Tigre, che nel tono tremante dell'imolese leggeva già qualcosa di molto brutto.

“Vostra sorella...” cominciò l'uomo, ma scoppiò a piangere.

Caterina si sentì mancare e si rivolse a Cesare: “Che cosa è successo?”

“Mi ha detto che vostra sorella non è stata bene. Quando è partito da Imola, l'ha vista soccorsa dalle donne del palazzo, ma stava perdendo molto sangue.” riferì il castellano, mesto: “Forse rischia di perdere il bambino.”

Respirando a fatica, la Tigre richiuse subito la porta. Si schiacciò la punta delle dita sugli occhi, fino a non vedere altro che lampi bianchi e alla fine si decise.

Indossò il primo abito che le capitò sottomano, uno di quelli che metteva di solito per addestrarsi e si infilò gli stivali da caccia.

Quando uscì dalla sua camera, trovò i due uomini ancora in attesa davanti alla porta. Doveva essere stata un fulmine a prepararsi, perchè i due apparvero sconvolti nel vederla già vestita.

“Dove state andando?” chiese debolmente Cesare Feo, mentre la Contessa li oltrepassava, scansandoli di malagrazia.

Caterina non rispose e, appena riuscì a tornare pienamente cosciente dei propri movimenti, iniziò a correre.

“Ma che succede..?” Giovanni Medici, che era rientrato da poco dopo essersi perso lungo la via di ritorno da Faenza, si affacciò, attirato dal trambusto, fuori dalla sua camera e si trovò davanti il castellano e l'imolese.

“La sorella della Contessa potrebbe perdere il figlio che porta in grembo.” spiegò Cesare Feo al fiorentino: “La nostra signora sta correndo da lei.”

“Fino a Imola? A quest'ora?” fece Giovanni, sgranando gli occhi: “Da sola? Non la si dovrebbe accompagnare? Non è sicuro andare fino a Imola in piena notte...”

Il castellano, mentre l'imolese riprendeva a piangere per la fatica del viaggio improvviso e per la tensione, guardò di traverso l'ambasciatore: “Sfido chiunque a provare a seguirla in un momento simile. Non la conoscete, se pensate che accetterebbe una scorta. Se non l'avete ancora capito, le tigri sono animali solitari, non amano stare in branco.”

Il Popolano guardò un momento verso il buio del corridoio lungo il quale era scomparsa Caterina e poi fece un cenno d'assenso ai due uomini che gli stavano di fronte.

Diede mostra di rientrare in stanza, ma appena il castellano e il tizio giunto da Imola si furono allontanati, Giovanni infilò il giubbotto che aveva tolto da poco e, ravviandosi i riccioli castani, prese la decisione di provare a seguire ugualmente quella che tutti descrivevano come una Tigre solitaria.

Le avrebbe offerto sostegno e protezione e l'avrebbe accompagnata volentieri a Imola, se era là che era diretta. Al diavolo quello che avrebbero pensato gli altri nel saperli partiti assieme.

 

Caterina svegliò il garzone di stalla con un rabbioso calcio sugli stinchi. Sapeva benissimo che quel ragazzino non aveva colpe, ma non era in grado di controllarsi.

“Muoviti!” inveì, tirandolo su di peso dal pagliericcio in cui dormiva: “Sella una bestia! Una veloce!”

Il garzone, ancora mezzo addormentato, scelse subito il cavallo migliore della scuderia, senza nemmeno provare a lamentarsi per il brusco risveglio.

Conosceva bene come tutti i metodi della Contessa e sapeva che, se non fosse stata soddisfatta e pure in fretta, avrebbe anche potuto punirlo in modo cruento, magari perfino sbattendolo in cella.

Lui era a Forlì da poco, ma le voci correvano e, dal fuoco nelle iridi della sua signora che vedeva rilucere nel buio quasi perfetto delle stalle, non era poi difficile credere a quelli che la dipingevano come un demonio in carne e ossa.

Tuttavia, più il ragazzetto cercava di fare in fretta, più le sue mani si aggrovigliavano, impedendogli di fissare a dovere la sella sotto la pancia della bestia o i finimenti lungo il muso.

La Tigre sentiva il fiato della fretta sul collo e alla fine non resistette più. Strappò di mano briglie e sella al ragazzo e provò a sistemarle per conto suo. Le sue dita, però, tremavano troppo. Vibravano con forza, proprio come quando era morto Giacomo.

Caterina si accorse con orrore, in quel preciso momento, che la sua mente aveva già deciso per lei di pensare al peggio.

Quell'agitazione e quel dolore pungente che già avvertiva nel centro del petto stavano a indicare che per lei sua sorella era già morta.

Quando si rese conto di non essere in grado di tenere le mani sufficientemente ferme per sistemare il cavallo, gettò in terra i finimenti e la sella e montò a pelo.

“Levati di mezzo!” intimò al garzone, quasi travolgendolo.

Il garzone si spostò all'istante e così Caterina fu libera di galoppare fino all'ingresso delle stalle, dove per poco non investì in pieno Giovanni.

“Aspettate!” fece l'ambasciatore, alzando le mani: “Vengo con voi!”

In tutta risposta, la Contessa fece fermare un momento il cavallo e minacciò il fiorentino con voce ferma e bassa: “Non provate a seguirmi.” e poi colpì i fianchi della povera bestia coi talloni.

Il Popolano dovette farsi da parte, mentre il cavallo lo sfiorava, e capì subito che quello che aveva detto il castellano era vero.

Per quanto fosse tentato all'inverosimile di seguirla comunque, si fece persuaso del fatto che sarebbe stata una mossa sbagliata.

La Tigre non voleva testimoni della sua paura.

L'aveva capito nell'istante stesso in cui, mentre lei gli diceva di non seguirla, i loro occhi si erano incrociati per la frazione di un secondo. Il tono della voce era minaccioso, ma il suo sguardo implorava solo pietà.

Con un sospiro pesante, Giovanni si appoggiò abbattuto allo stipite del portone e poi guardò il garzone di stalla, che, ancora sconvolto, stava raccogliendo da terra i finimenti.

“Sta cavalcando a pelo?” chiese il fiorentino, mentre cercava di ricordare ciò che aveva visto.

Il ragazzo annuì e poi lo raggiunse fuori dalla stalla, sotto la luce chiara della luna: “Sì, messere.”

Giovanni strinse i denti e annusò per un istante l'aria fragrante dell'estate. Giugno iniziava quella notte, eppure il fiorentino avvertiva nelle ossa uno strano freddo.

Dando una pacca di incoraggiamento al garzone, il Popolano gli disse di tornarsene a dormire e poi rientrò nelle viscere della rocca, fin nella sua stanza, sul letto che gli era stato concesso in qualità di ambasciatore.

Mentre cercava invano di prendere sonno, si accorse di essere ancora vestito. Non aveva voglia di cambiarsi. Si spogliò e basta.

Mentre si rigirava nel letto, si rese conto che non sarebbe riuscito a dormire.

Avrebbe voluto più di ogni altra cosa essere con lei, in quel momento, qualunque cosa fosse successa.

Quel giorno era stato a Faenza e per la prima volta da quando la conosceva era stato lontano da lei.

Era impossibile da comprendere, ma il bisogno che sentiva di essere sempre nel suo raggio d'azione si era fatto un varco in lui come un animale selvatico in mezzo al bosco e pian piano lo stava divorando.

Stringendo il pugno e colpendo il materasso in un gesto di frustrazione, Giovanni si trovò a chiedersi se mai una donna come la Contessa Sforza avrebbe potuto provare interesse per un uomo come lui.

Giovanni aveva un cognome importante, veniva da una città importante, aveva una carica importante. Però portava anche in sé la condanna della gotta e, in più, come avrebbe fatto a competere con un fantasma?

Cosa poteva sperare di ottenere, se anche fosse riuscito a guadagnarsi la sua attenzione? Una notte e basta? La stessa sorte che toccava agli uomini che lei si sceglieva come passatempo? Essere usato e poi messo in un angolo come un giocattolo rotto? L'avrebbe cacciato da Forlì per non vederlo più, così come spediva le reclute con cui si intratteneva nei punti più disparati del suo Stato solo per non rischiare di imbattersi di nuovo in loro?

Affondando il viso nel cuscino, Giovanni cercò di calmare il suo respiro, sentendosi egoista e molto piccolo nel pensare a certe cose, quando la donna di cui si era innamorato era in preda al panico perchè la sorella stava rischiando la vita...

 

Caterina, per evitare il passaggio da Faenza, che l'avrebbe solo rallentata, attraversò i boschi che conosceva come le sue tasche a una velocità così folle che quando arrivò a Imola il suo cavallo era coperto di schiuma.

Smontò dal pelo scivoloso senza nemmeno curarsi di lasciare la bestia alle cure di qualcuno e percorse gli ultimi metri che la separavano dal palazzo del Governatore di corsa.

Come in un bolla, l'edificio spiccava tra le strade ancora scure della città perché pressoché da tutte le finestre arrivava la tremula luce delle candele e delle torce.

L'alba si stava pian piano avvicinando, ma il cielo era più nuvoloso di quanto non fosse quando Caterina era partita da Forlì. Il leggero vento che si alzava, spirando verso est, prometteva pioggia.

La Contessa si fece riconoscere in fretta dalla guardie che presidiavano l'ingresso e uno dei due uomini ebbe lo spirito di dirle, accorato: “Fatevi coraggio.” mentre lei vi passava accanto.

Il palazzo era completamente sveglio. La Tigre non volle subito cogliere i segni, ma non poté evitare di vedere i servi piangere, il medico che seguiva la corte imolese in un angolo, le braccia insanguinate e un'espressione mesta, mentre parlava a voce bassa con una donna di mezz'età e, soprattutto, una delle dame di compagnia di sua sorella disperata, piegata in due dalle lacrime.

Quando qualcuno si accorse della sua presenza, Caterina si sentì estranea al mondo che la circondava. In un certo senso era come essere sotto l'effetto della sua pozione per dormire. Vedeva gli occhi dei presenti fissarsi su di lei con un misto di compassione e sorpresa e non voleva capirne il motivo.

“Dov'è mia sorella?” chiese la Contessa, a voce bassa, senza rivolgersi a nessuno in particolare.

Fu il medico a prendere di petto la situazione. Allacciandosi le mani rosse di sangue secco dietro la schiena, le si avvicinò. Ondeggiò un momento il capo, mentre le narici del naso aquilino si aprivano in cerca di aria.

Alla fine le disse: “Venite con me.”

Come senza volontà, la Tigre seguì l'uomo dal profilo secco e non si fece domande, mentre egli la scortava fino al piano di sopra.

Lungo la strada, l'uomo provò a prepararla, spiegando con calma eccessiva cosa era successo quella notte: “Da tutto il giorno aveva avuto dei piccoli dolori, segno che il parto si avvicinava... Tuttavia, quando è stato il momento, qualcosa ha portato a una grave perdita di sangue e vostra sorella appariva confusa, parlava in modo insensato, aveva la febbre alta...”

Caterina ascoltava solo con un orecchio, mentre i suoi occhi vagavano inquieti sulle cameriere che affollavano il corridoio. Ma quanto personale c'era in quel palazzo? Perché erano tutti lì schierati come se fosse appena successo qualcosa di grave?

La mente della Tigre stava iniziando a creare dei circoli viziosi che le facevano sentire l'assurdità di quella situazione. Fino a poche ore prima era a Forlì, immersa nel ricordo di suo marito, e ora che ci faceva a Imola, in mezzo a gente che mormorava e si asciugava le lacrime dal viso?

Il medico giunse davanti alla porta della camera del Governatore e sussurrò: “Vi avviso che non è uno spettacolo gradevole. Non abbiamo ancora fatto in tempo a ricomporla.”

Caterina guardò il dottore con espressione stolida, non riuscendo a cogliere appieno il senso di quelle parole.

Poi la porta si aprì e l'odore ferrigno del sangue la colpì in pieno, come un pugno nel centro dello stomaco. Quello, più d'ogni altra cosa, la riportò bruscamente alla realtà, facendole cogliere tutta d'un tempo la verità.

In mezzo alla stanza, sul letto, le cui lenzuola erano imbevute di sangue, c'era il corpo nudo ed esangue di Bianca.

Avevano giusto avuto la delicatezza di coprirla fino al seno con un un telo, che però già si era a sua volta impregnato di rosso.

Le numerose candele che davano luce alla scena sembravano spietati indici indagatori che additavano al volto niveo e alle braccia abbandonate lungo i fianchi della giovane.

Caterina non si accorse nemmeno che nella stanza con lei c'erano altre persone. Camminò lentamente fino al capezzale della sorella e lo guardò fissa.

Tutte le storie che dicevano sulla serenità che un volto acquista dopo la morte erano solo panzane.

Il viso di Bianca era contratto, come se ancora fosse spaccata in due dal dolore. Le labbra erano schiuse e gli occhi erano velati, ma ancora spalancati.

Riuscendo a stento a frenare il tremito che l'aveva presa di nuovo, la Contessa allungò una mano e tentò di abbassare le palpebre della sorella, come illudendosi, a quel modo, di farla apparire meno straziata.

Non ci riuscì. La pelle di Bianca era gelida e rigida. Per quanto avesse cercato di far forza, le palpebre rimasero aperte.

“Ci ho provato anche io, ma...” la voce di Lucrezia, resa acuta dal pianto appena smesso, arrivò alle spalle di Caterina, facendola quasi sobbalzare.

Madre e figlia si fissarono per un lunghissimo minuto, senza trovare null'altro da dire. In quel momento si sentirono due estranee.

La Contessa distolse lo sguardo e si accorse solo allora di Tommaso. Era seduto in terra, vicino alla porta, la testa tra le mani.

Istintivamente, sapendo che per Bianca ormai non poteva più far nulla, si andò a inginocchiare accanto al cognato.

Senza riuscire a parlare, gli prese le mani nelle sue e provò a convincerlo ad alzare lo sguardo su di lei.

Docile, l'uomo si lasciò rimettere in piedi e la seguì nella stanza accanto.

Caterina voleva trovare il modo di parlargli, ma non voleva farlo davanti al letto di morte di sua sorella. L'odore del sangue e la presenza del cadavere di Bianca erano troppo anche per lei.

La Contessa chiuse la porta alle loro spalle e, nel buio della camera in cui si erano rintanati, abbracciò Tommaso con forza, con insistenza, con urgenza, più in cerca di consolazione per sé, che non nel tentativo di consolare lui.

“Era una femmina...” sussurrò il Governatore, mentre Caterina ancora lo teneva stretto contro di sé: “Noi l'avremmo chiamata Lucrezia. E invece è morta anche lei...”

La donna, che non aveva avuto il coraggio di chiedere che ne fosse stato del neonato, subì quell'ennesima rivelazione come un colpo basso del destino.

Non avevano già sofferto abbastanza? Non erano già passati attraverso abbastanza sentieri di rovi?

“Siamo rimasti soli, Caterina...” sussurrò Tommaso, osando per la prima volta chiamare per nome la sua signora: “Ci hanno lasciati soli...”

Dopo parecchio tempo, prima di cedere e perdere le forze, vinta dal dolore, Caterina lasciò Tommaso libero dal suo abbraccio.

L'uomo, nella penombra che iniziava a tingersi coi colori del primo sole, deglutì rumorosamente e si passò una mano sul collo. Indossava una camicia larga, dal colletto aperto, e delle brache da lavoro. La Contessa pensò che probabilmente aveva addosso ancora gli abiti del giorno prima. La tragedia aveva colpito anche lui all'improvviso, come era capitato a lei con Giacomo.

In entrambi i casi avrebbero potuto subodorare il pericolo, ma tutti e due erano stati ciechi, seppur in modo diverso.

“Andiamo.” sussurrò la Tigre, sforzandosi di ritrovare la sua leggendaria sicurezza: “Ci sono molte cose da organizzare, adesso...”

Il Governatore soffiò, e, mentre Caterina si voltava per andare alla porta, l'afferrò per un braccio e se l'avvicinò tanto da riuscire a rubarle un bacio.

Con la prontezza di un felino, la donna lo spintonò via e poi gli diede uno schiaffò fortissimo in piena guancia: “Il corpo di mia sorella è ancora immerso nel suo sangue nella camera qua affianco.”

La voce della Tigre era roca e implacabile, ma Tommaso non riusciva a coglierne la severità.

Caterina intravide negli occhi spersi di suo cognato il caos.

Capì che riprenderlo o punirlo per quel gesto sarebbe stato inutile.

“Vi perdono solo perché siete confuso.” gli disse, aprendo la porta: “Ma non fatelo mai più.”

 
   
 
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