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Autore: Adeia Di Elferas    08/06/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Caterina guardava in silenzio la processione che affiancava il corpo di Bianca dal palazzo del Governatore, passando davanti alla rocca, per permettere anche al padre, Gian Piero, di dare un ultimo saluto alla figlia, fino a raggiungere il Convento dell'Osservanza.

Tutta la città sembrava disperata per quel fulmine a ciel sereno e le nuvole che coprivano il sole, precipitando Imola nell'afa più totale, rendevano le lacrime dei presenti ancora più salate e penose.

Bianca sarebbe stata sepolta nella chiesa di San Michele, di cui il convento era una dipendenza.

Il posto per lei era stato ricavato nel muro della cappella già quella mattina e restava solo da commissionare la pietra tombale.

Lucrezia aveva provato a dire a mezza bocca che forse sarebbe stato più consono seppellirla in Duomo, dato che era stata la moglie di un Governatore, ma tanto Caterina quanto Tommaso si erano subito opposti, ricordando come nella chiesa di San Cassiano già fosse stato tumulato Girolamo e nessuno dei due voleva che i resti di Bianca riposassero accanto a quelli del defunto Conte Riario.

La bambina, invece, non poteva essere sepolta in terreno consacrato, perchè non aveva ricevuto il battesimo, nascendo già morta.

Caterina aveva provato ad alzare la voce con il prete responsabile del Duomo, che era stato il primo a negare la degna sepoltura alla piccola, ma il religioso era stato irremovibile, elencando una serie di obblighi che gli esseri umani avevano nei confronti della Chiesa e spiegando come fosse impossibile infrangere certi dogmi.

Quando la Contessa aveva osato fare il nome del papa, poi, il prete aveva gonfiato il petto e aveva esclamato che quel genere di cose nemmeno il Sommo Pontefice poteva cambiarle.

Lucrezia era intervenuta, dicendo che il prete aveva ragione e che il corpicino della bambina sarebbe stato sepolto, com'era giusto, in terreno sconsacrato, assieme agli altri 'piccoli', sperando che Dio, nella sua immensa misericordia, nel Giorno del Giudizio si ricordasse anche di lei.

Alla Contessa quelle radicate convinzioni e quella cieca ubbidienza ai precetti calati dall'alto parevano assurde, ma quando aveva incrociato lo sguardo addolorato di Tommaso aveva capito che era semplicemente meglio non parlarne più e lasciare che facessero dei resti della bambina quel che volevano.

In fondo, una tomba era sempre una tomba, sia che fosse scavata in una chiesa, sia che fosse stata ricavata in un campo.

La realtà della morte non sarebbe cambiata, e se qualcuno avesse voluto andare a piangere per quella vita mai cominciata, avrebbe potuto farlo tanto davanti a una croce, quanto sopra a una lapide in bianco.

Mentre entravano in San Michele, Caterina, che indossava un abito scuro prestatole dalla madre e un velo di pizzo nero recuperato all'ultimo da una delle dame di compagnia di Bianca, si disse che almeno suo cognato stava ricevendo la consolazione della partecipazione popolare.

Rispetto al cordoglio opportunista e pregno di terrore che aveva contraddistinto le esequie di Giacomo, quel giorno a Imola si respirava un'aria di partecipazione contrita e sincera.

Parlando con Gian Piero, quella mattina presto, mentre si discuteva dell'organizzazione del funerale e di alcuni affari di Stato, la Contessa aveva scoperto che sua sorella in quegli ultimi mesi si era fatta amare moltissimo dagli imolesi.

Bianca aveva preso a passeggiare spesso per le vie della città e si intratteneva a chiacchierare con i mercanti e con le donne, proprio come anche Caterina aveva fatto per anni a Forlì. Con la sostanziale differenza che la moglie di Tommaso Feo sembrava nata per quel compito, dimostrandosi sempre affabile, comprensiva e sorridente, disposta ad avere una buona parola e un gesto affettuoso per tutti.

I preti stavano iniziando a spargere il fumo dell'incenso ovunque e il feretro era stato posto davanti all'altare, accompagnato dalle litanie dei religiosi.

Tommaso restava con le spalle dritte, lo sguardo fisso davanti a sé. Aveva pianto tutte le sue lacrime prima di arrivare in chiesa e, ora che fronteggiava di nuovo la realtà dei fatti, assomigliava come non mai a un guscio vuoto.

Caterina non era più riuscita a star da sola con lui, da quando ne aveva respinto il confuso bacio di quella notte. Avrebbe voluto essere capace di parlargli con più dolcezza o almeno con maggior franchezza, ma il solo pensiero di sfiorare certi argomenti con lui l'atterriva.

Anche mentre le esequie entravano nel pieno, la Contessa restò in disparte. Lasciò che in prima fila rimanessero solo sua madre e suo cognato, convinta che fosse necessario lasciar loro lo spazio per ripensare a Bianca senza la sua intrusione.

Quando infine si procedette con la tumulazione, la Tigre si mise in fondo alla chiesa, indecisa sulla parte da prendere in quel frangente. Era la sorella della defunta ed era la signora di quella città, eppure più vedeva gli imolesi stringersi attorno a Tommaso e a Lucrezia, più si sentiva estranea a tutto quanto.

“Vostra sorella era una donna come poche – le disse piano uno dei preti che facevano riferimento al convento, quando la vide tutta sola poco lontana dalla porta – seguiva i precetti divini e non perdeva occasione per prendere le parti dei più deboli, degli orfani, delle donne di strada...”

Caterina fece un cenno con il capo, a mo' di ringraziamento, e poi si tirò il velo di pizzo nero davanti al viso, come a dire che non aveva voglia di parlare.

Il prete comprese e si diresse verso il vedovo, per dargli un minimo di conforto con le sue parole.

 

Cesare Riario finì di leggere il messaggio appena arrivato da Imola. La grafia era quella di sua madre, eppure non riusciva a credere che proprio lei avesse potuto scrivere una cosa del genere con tanto distacco.

In silenzio, senza avere il coraggio di dire la sua, il ragazzo si passò una mano sulla tonsura e poi porse la lettera alla sorella.

Bianca si schiarì la gola e lesse ad alta voce, a beneficio anche di Sforzino, Livio e Galeazzo, che attendevano tanto quanto lei di sapere che cosa mai avesse portato la loro signora madre a correre a Imola in piena notte e da sola.

“Vostra zia Bianca è morta stanotte e sua figlia ha subito la medesima sorte.” mentre leggeva le prime parole vergate dalla mano di sua madre, la ragazzina ebbe un fremito e sentì il bisogno di sedersi: “Le esequie si svolgeranno subito quest'oggi. Tornerò appena avrò sistemato ogni cosa.”

Bianca guardò il fratello Cesare con gli occhi spalancati e il cuore che batteva con forza nel petto.

In tutta risposta, il maggiore pescò il breviario dal tascone del suo ampio abito nero da religioso e commentò: “Vado a pregare per l'anima di nostra zia.”

Sforzino, Galeazzo e Livio, invece, dopo un primo momento di smarrimento, si strinsero attorno alla sorella maggiore e, uno dopo l'altro iniziarono a piangere.

I più piccoli non potevano ricordare di quando, sotto la prigionia degli Orsi, Bianca Landriani era rimasta loro accanto, rischiando la vita pur di non lasciarli soli. La sua omonima nipote, però, se lo ricordava benissimo e quella memoria, più di ogni altra, le si impresse nella mente, quando le prime lacrime cominciarono a sgorgare anche dai suoi occhi blu.

Mentre si sforzava di dare ugualmente appoggio ai fratelli più piccoli, Bianca si chiese se fosse il caso di cercare anche Bernardino e di parlargliene. In fondo, quella che era morta era anche sua zia, anche se non l'aveva mai vista.

Bernardino era un fratello come gli altri, per Bianca, allora più che mai. Se volevano sopravvivere, dovevano restare uniti, tutti quanti. Nelle loro vene scorreva il medesimo sangue, quello degli Sforza, ed era solo quello che doveva importare.

 

“Fammi venire con te a Forlì.” disse Lucrezia, a voce bassa, appena Caterina ebbe lasciato lo studiolo di Tommaso.

La Contessa stava ancora ripensando alla penosa conversazione avuta con il cognato, perciò all'inizio non diede ascolto alle parole della madre.

Tommaso le aveva chiesto di dargli un altro incarico, lontano da Imola, in modo da non dover convivere con il ricordo della moglie appena morta.

Dapprima la Tigre aveva visto quella richiesta come un qualcosa di umano e comprensibile. Lei stessa, in certi giorni, se avesse potuto avrebbe volentieri lasciato per sempre Forlì e la rocca di Ravaldino nella speranza di riuscire a dimenticare almeno in parte il senso di vuoto lasciato dalla scomparsa di Giacomo.

Non si trattava di un sentimento particolarmente nobile, ma, se non altro, lo poteva capire.

Quando, però, il Governatore si era fatto più sicuro, intravedendo nella cognata uno spiraglio di speranza, e aveva proposto di riprendere la carica di Governatore a Forlì e starle accanto o di partire per il fronte e morire per lei, Caterina aveva sentito di nuovo scattare qualcosa dentro di sé.

Non era vero e proprio desiderio di vendetta, ma vi si avvicinava molto.

Allora aveva negato ogni tipo di permesso al cognato, e, anzi, lo aveva messo a tacere senza ammettere repliche.

“Siete sempre un mio servo fedele?” aveva chiesto.

Tommaso aveva annuito, corrucciandosi, forse illudendosi che alla fine la sua signora lo avrebbe lasciato partire o se lo sarebbe tenuto vicino come un tempo.

“Se lo siete, resterete qui a Imola a ricoprire la carica che ho scelto per voi.” aveva detto la Contessa.

“Perché non volete permettermi di sollevarmi un po' l'anima? Qui, ovunque mi volto, mia moglie è presente. Ci sono i suoi abiti, le sue cose, i suoi...” aveva cominciato il Governatore, credendo che parlando francamente avrebbe indotto la cognata a provare per lui un minimo di empatia.

Invece la Tigre lo aveva zittito, alzando una mano e dicendo: “Quando mia sorella era viva, non l'avete mai amata come meritava. Mai, Tommaso, non mentite proprio a me. Vi conosco meglio di quanto crediate. Io so che oltre al dolore ora vi sentite in colpa e io credo che non potrà che farvi bene, riflettere sulle vostre mancanze. Quando l'avete sposata, mi avevate promesso che l'avreste resa felice. Ci avete messo troppo tempo a rispettare la parola data e ora è giusto che paghiate almeno con il rimorso e il rimpianto.”

L'uomo, allora, non aveva detto più nulla e aveva chinato il capo in segno di obbedienza.

Caterina era uscita dallo studiolo, affranta per le parole che lei stessa aveva lasciato sgorgare come un fiume in piena dalle sue labbra, e, una volta fuori dalla porta, si era imbattuta in Lucrezia.

“Ti prego.” riprese la madre, vedendo la figlia distratta: “Portami a Forlì con te. Permettimi di tornare alla rocca di Ravaldino dai miei nipoti.”

Camminando a passo svelto per andare a fare ancora un paio di cose prima di ripartire, la Contessa chiese: “E perché mai?”

Lucrezia, che faticava a starle dietro, curva sotto al suo scialle nero di lana, portato malgrado il caldo per far fronte ai dolori reumatici, rispose: “Voglio parlare con Piero. Sua sorella è morta e non è nemmeno potuto venire al suo funerale... È stata una cosa molto crudele... Voglio almeno parlargli e raccontargli quello che è successo. Se solo fosse potuto essere qui anche lui...”

“Piero è castellano a Forlimpopoli, le regole sono chiare, non può lasciare la rocca se non per motivi gravissimi.” ribatté Caterina, mentre la sua testa era già agli impegni che si era fissata da sola e che voleva a tutti i costi portare a termine prima di tornare a Forlì.

“La morte di una sorella non è un motivo gravissimo?” chiese Lucrezia, le mani nodose strette al petto.

La Contessa si fermò di colpo, ma, quando incrociò gli occhi cerulei e un po' acquosi della madre, non ebbe il cuore di farle una paternale sugli obblighi che Piero aveva accettato di rispettare nel diventare castellano.

Così preferì una linea apparentemente più morbida e chiese di nuovo: “Perché vuoi venir via da Imola?”

“Te l'ho detto, io voglio incontrare Piero e...” iniziò l'anziana, venendo però subito interrotta dalla figlia.

“Dimmi il motivo vero.” la incalzò Caterina, lanciando uno sguardo teso verso il portone d'uscita del palazzo, che era a meno di un metro di distanza.

Non sopportava più le menzogne e le ipocrisie. Perché nessuno parlava apertamente, dicendo solo la verità? Che senso aveva abbellire le proprie intenzioni, mascherandosi sotto nobili propositi e pietose scuse, se poi la verità era molto più banale e terrena?

“Perché Gian Piero non mi vuole più.” ammise Lucrezia, piegandosi un po' su se stessa.

La Tigre restò spiazzata da quella risposta, tanto che per un momento si dimenticò perfino della fretta che aveva addosso.

Fissando la madre e riflettendo tra sé sul fatto che Gian Piero aveva accettato Lucrezia anche quando nessun altro uomo l'avrebbe accettata, che l'aveva amata sinceramente anche quando la sapeva di un altro, che l'aveva sempre difesa al meglio delle sue possibilità anche quando i pericoli erano stati molti e concreti, chiese: “Ma che stai dicendo?”

“Lui...” la voce di Lucrezia si era fatta sottile e mai come allora era parsa alla figlia vecchia e fragile: “Ha detto che è stata colpa mia. Se io non l'avessi incoraggiata... Se le avessi messo più paura, dopo tutti i figli che ha perso, Bianca non ne avrebbe cercati più e non sarebbe morta a questo modo...”

Caterina gettò gli occhi al cielo, trovando quel ragionamento assurdo e, soprattutto, inutile.

“Gian Piero in parte ha ragione – riprese l'anziana donna, tormentandosi le dita e scuotendo lentamente il capo – però è anche vero che se tu non le avessi dato nulla, probabilmente non sarebbe mai arrivata a termine della gravidanza e non...”

“Sei stata tu a chiedermi di darle qualcosa per renderla più robusta, io non volevo.” fece subito la Contessa, scandalizzata nel sentirsi messa sotto accusa: “E comunque non è stata certo colpa delle mie pozioni se è finita così.”

“Tu sei sempre stata gelosa di tua sorella Bianca...” fece Lucrezia, ormai immersa in una sorta di soliloquio.

Siccome la figlia non sembrava intenzionata a prestare il fianco a quel genere di argomentazioni, la madre sbuffò, contrariata dall'apparente immobilità del volto di Caterina: “Ma possibile che a te scivoli addosso ogni cosa? Possibile che nulla ti scomponga?”

“Ma che stai dicendo...” fece stancamente la Contessa, sempre più desiderosa di lasciare il palazzo per dedicarsi a quello che sentiva di dover fare, invece di sentire i deliri di una donna che parlava solo sull'onda emotiva della tragedia.

“Ma sì, Caterina, non lo vedi? È morta tua sorella e tu non hai fatto altro che pensare agli affari di Imola, obbligando tuo cognato e mio marito a lavorare anche oggi, dopo un funerale, dopo aver perso una moglie e una figlia. Non ti vedi? Hanno ucciso tuo marito e ora non fai altro che passare da un uomo all'altro come se non fosse successo nulla...”

Caterina aveva capito che sua madre non stava ragionando lucidamente, ma quelle parole, assieme al discorso appena fatto con Tommaso risvegliarono in lei la rabbia che il cordoglio che lo sgomento di quel giorno aveva per qualche ora messo a tacere: “Come osi..!” esclamò, alzando una mano, come se volesse colpire Lucrezia.

L'anziana fissò il braccio della figlia coi suoi occhi color ghiaccio e sussurrò: “Avanti. Colpisci pure tua madre. Tanto, dopo tutte le colpe di cui ti sei macchiata, questa non sarebbe nulla...”

La Tigre riabbassò lentamente la mano e, rendendosi conto che nemmeno sua madre, così come Tommaso quando erano rimasti soli accanto alla camera di morte di Bianca, avrebbe tratto giovamento da ammonizioni o punizioni, in quello stato, preferì soprassedere.

“Va bene – le disse, ritraendosi di mezzo passo – potrai tornare con me a Forlì, ma non cercare mai più niente da me.”

 

Giovanni stava ripensando con ansia all'ultima lettera che suo fratello gli aveva spedito e che era arrivata giusto quel giorno.

I rapporti tra Firenze e Venezia si stavano facendo sempre più tesi e né Savonarola né il resto della Signoria sembravano inclini a scegliere una linea morbida. E, purtroppo, lo stesso si poteva dire di Venezia.

Quando era stato a Faenza, a parlamentare con il tutore di Astorre Manfredi, il Popolano aveva intuito come anche quella città paresse molto più incline a seguire, in caso di necessità, il Doge, piuttosto che una repubblica apparentemente in mano a un pazzo come il domenicano che ogni giorno sbraitava i suoi sproloqui da sopra un pulpito.

In più, Faenza aveva già ricevuto aiuti da Venezia e, nel proteggersi dal ribelle Ottaviano Manfredi, aveva avuto manforte militare proprio dalla Serenissima, oltre che da Forlì e Imola.

Mentre attendeva con pazienza che spettasse a lui essere sbarbato da Andrea Bernardi, Giovanni si allentò un po' il colletto del giustacuore leggero, pensando a cosa sarebbe successo, nel caso in cui avesse scoperto che anche la Tigre era pronta a prendere le parti di Venezia se fosse scoppiata una guerra.

In realtà, da quando era a Forlì, gli era parso di capire che la famigerata Leonessa di Romagna non avesse interesse a schierarsi in favore di Venezia. Era anche vero che, però, in caso di guerra, quella volta la Contessa Sforza avrebbe dovuto schierarsi a tutti i costi.

Il giochetto che aveva provato a portare avanti durante l'invasione di re Carlo, con l'ostinata tendenza alla neutralità prima e all'immobilismo poi, aveva retto solo perché le terre a lei vicine non avevano interessi troppo diretti nel parteggiare per la Francia o per Napoli, ma in caso di uno scontro tra le forze fiorentine e quelle veneziane...

“Prego.” fece il Novacula, indicando la sedia appena liberatasi.

Giovanni ringraziò e si sedette, mentre il barbiere rifaceva il filo al rasoio, dicendo con uno di quelli in attesa: “Sì, sì, già il secondo. Era anziano, per carità, ma se continua questa siccità, c'è il rischio che queste febbri diventino un'epidemia.”

“C'è stato un altro morto?” chiese il Popolano, risvegliandosi dai suoi pensieri e guardando Bernardi.

Lo storiografo gli raddrizzò la testa con un delicato tocco della mano: “State fermo, per favore, o vi taglierò...” disse, con un sorriso accomodante, per poi rifarsi serio: “Eh, sì, un altro morto, ma, come dicevo, aveva già più di cinquant'anni... Quando si è vecchi, basta poco per lasciare questo mondo...”

Giovanni non ribatté in nessun modo, perchè la lama del rasoio stava già passando sulla sua gola e quindi sarebbe stato imprudente parlare.

“Giovani, vecchi, poco conta.” fece amaramente uno dei clienti, allungando le gambe e battendosi i palmi sulle cosce: “Guardate la sorella della Contessa...”

Il Popolano cercò di vedere con i suoi occhi chiari quello che aveva parlato, ma era proprio alle sue spalle.

“Venite da Imola?” chiese il barbiere, smettendo per un attimo di radere Giovanni.

“Sono arrivato adesso da là.” asserì l'uomo, con un sospiro: “La sorella della Contessa è morta e così il figlio che portava in pancia. E ditemi voi se non era giovane.”

Bernardi deglutì a fatica. Aveva saputo, come tutti, che la Contessa era andata a Imola in tutta fretta quella notte, ma non aveva creduto possibile che fosse per un motivo tanto grave.

“Sono partito poco prima che iniziasse il funerale – spiegò il cliente, alzando il mento – non mi andava di vedere la sepoltura di una donna così giovane e bella...”

Il Novacula diede ragione al suo cliente e poi passò in fretta a un altro discorso, cercando di risollevare un po' lo spirito dei presenti.

“E voi cosa ne dite, della nuova moda che vuole le lattughine sempre più vistose?” chiese dopo un po' il barbiere, rivolgendosi a Giovanni.

Il fiorentino non stava seguendo più il discorso da un pezzo, perciò, dato che ormai la rasatura era completa, disse che non ne aveva idea, che, pur venendo da Firenze, non aveva mai avuto interesse nelle mode, e pagò, uscendo in fretta dalla barberia.

La notizia della morte della sorella della Contessa – non che per lui fosse arrivata proprio del tutto inattesa – aveva colpito Giovanni in modo particolare.

Pensare a una donna morta nel dare alla luce un bambino lo aveva riportato a pensare a se stesso e alla sua storia.

Sua madre non era più giovane, quando si era trovata ad aspettarlo. Però, almeno così gli aveva detto suo padre quando era piccolo, l'aveva atteso con amore e grandi aspettative, felice di avere un altro figlio, dopo Lorenzo, quando ormai si era convinta di non poterne avere altri.

E poi Giovanni era nato e lei era morta.

Tenendo lo sguardo fisso in terra, il Popolano non si era accorto di essere arrivato davanti alla chiesa di San Girolamo. Spinto dall'improvvisa necessità di pregare, entrò.

L'aria era immobile e pregna del tanfo dell'incenso. Giovanni si inginocchiò davanti all'altare, si segnò e giunse le mani. Pregò per l'anima di sua madre, e poi per quella di suo padre, e, infine, anche per quella della sorella della Contessa benché non l'avesse mai conosciuta.

Dopo essersi fatto di nuovo il segno della croce, si rimise in piedi e si prese qualche minuto per osservare le decorazioni e i dipinti della chiesa. Dopo averla girata tutta, riconobbe la Tigre e i suoi figli in uno degli affreschi.

Tra le persone ritratte attorno a lei, il Popolano non ne riconobbe solo un paio.

Il primo, per età e aspetto, non poteva che essere Ottaviano Riario, il figlio primogenito della Contessa. Giovanni lo fissò a lungo, chiedendosi se mai lo avrebbe visto dal vivo.

Il secondo, dal profilo simile a quello di una statua greca e dal fisico prestante, non poteva che essere il defunto Giacomo Feo.

Distogliendo subito lo sguardo e chiedendosi quale effige, tra quella dell'affresco e quella della statua che svettava davanti a Ravaldino, fosse più somigliante all'originale, il Popolano fece per andarsene.

Tuttavia, ripercorrendo con lo sguardo la parete, notò una cosa che non aveva visto prima, malgrado vi fosse passato accanto già due volte. La tomba del Barone Feo.

Lesse lentamente le parole incise nella pietra e poi, mosso improvvisamente a compassione per quell'uomo, stroncato in piena giovinezza da una congiura nata dai dissapori tra una madre e un figlio, fece un mezzo inchino rivolto alla tomba e disse una breve preghiera anche per l'uomo che aveva sconvolto così tanto la vita della Tigre da portarla a spaventare l'intera Romagna con la sua tremenda vendetta.

 

Caterina temporeggiò a lungo sulla porta del Duomo di Imola. Due suore fecero in tempo a entrare, passandole accanto, e a uscire e lei restava ancora inchiodata all'ingresso.

Il suono delle campane che le ricordavano l'ora la fece decidere. Voleva essere a Forlì il più in fretta possibile. Se fosse partita a breve, probabilmente sarebbe riuscita ad arrivare alla sua rocca in tempo per riposare qualche ora prima che fosse di nuovo giorno.

Il buon senso le avrebbe detto di passare ancora una notte a Imola e ripartire con la luce del mattino, ma per vari motivi non aveva intenzione di passare in quella città altro tempo oltre a quello strettamente necessario.

Con un sospiro profondo, la Contessa mosse qualche passo avanti e la penombra del Domo la inghiottì.

Sapeva dove andare, anche se non vi era mai stata di persona. Percorse la navata e arrivò davanti alla tomba di Girolamo Riario a colpo sicuro.

La fissò a lungo. Scorse con lo sguardo il nome del suo primo tirannico marito e poi si guardò alle spalle, come ad assicurarsi di essere sola.

L'unica presenza era un canonico, che, dopo aver smorzato un paio di candelotti e averne accesi di nuovi, era scomparso di nuovo dietro all'abside.

Accompagnata dal solo rumore del suo respiro, Caterina alzò di nuovo gli occhi verso la pietra tombale di Girolamo e provò a pensare a qualcosa. Non ci riuscì.

Non era mai stata davanti al sepolcro del suo primo marito. L'aveva sempre evitato, soprattutto perchè sentiva di non aver nulla da fare lì. Non aveva intenzione di pregare per lui, tanto meno di ricordarselo. Eppure, quel giorno, già durante il funerale di sua sorella, aveva sentito la necessità di trovarsi di fronte a quella tomba.

Fondamentalmente, voleva vedere se la vicinanza fisica del corpo del suo primo marito – per quanto ormai di certo ridotto a polvere e ossa – fosse ancora in grado di metterla in difficoltà.

Raddrizzò le spalle e incrinò gli angoli della bocca, con fatica, verso l'alto. Non sentire nulla, davanti a quel marmo, era la cosa migliore in cui potesse sperare.

Capì di essere andata lì al solo scopo di far pace con il passato e, forse, era proprio quella la pace che cercava: l'assenza di emozioni.

“Ora non mi puoi toccare più.” sussurrò, le iridi ancora puntate sul nome inciso nella pietra: “In nessun modo. Non mi puoi toccare più.”

E dopo un ultimo sguardo, la Contessa voltò le spalle alle spoglie del suo primo marito e, un po' più leggera, camminò fin fuori dal Duomo e si diresse alla chiesa di San Michele.

Durante le esequie non aveva avuto modo di trovare un attimo di raccoglimento. Ci teneva a farlo, prima di tornare a Forlì. Chissà quanto tempo sarebbe passato, prima di riuscire a tornare a Imola.

Quando fu davanti allo scavo nel muro, non ancora chiuso dalla pietra tombale, ma solo da uno strato di mattoni, in cui riposava il giovane corpo di sua sorella, Caterina sentì tutta la calma respirata in Duomo svanire nel nulla.

Si fece il segno della croce, senza pensarci, in automatico, come quando era bambina e le sue due madri la portavano a Messa.

Dopo un breve istante di perplessità, prese il gonnellone tra le mani e lo tirò un po' su, prima di inginocchiarsi in terra e giungere le mani davanti al petto.

Per la prima volta da molto tempo, la Leonessa cercò un contatto con Dio. Lo invocò, lo blandì, lo minacciò, come quando si era trovata nella chiesa di Mordano, sola in mezzo ai corpi straziati di decine di donne innocenti, ma anche quel giorno di lui non trovò alcuna traccia.

Con un sorriso triste, si alzò, si tolse un po' di polvere dal vestito e si rivolse alla tomba della sorella: “Avrei voluto conoscerti di più. C'erano ancora tante cose che avremmo potuto dirci. Mi mancherai.” e, dopo un nuovo segno della croce, questa volta più svogliato e insignificante, Caterina uscì anche da San Michele e si diresse al palazzo del Governatore, per prendere un cavallo e tornarsene a Forlì.

Se sua madre non fosse stata pronta nel giro di un'ora, allora sarebbe partita senza di lei. Che la raggiungesse quando voleva, non le interessava più.

 

 

 
   
 
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