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Autore: Adeia Di Elferas    09/06/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Lucrezia, senza battere ciglio, aveva accettato la partenza frettolosa proposta dalla figlia e così Caterina aveva dovuto piegare la testa alla prospettiva di tornare a Forlì con una scorta, seppur esigua, di uomini armati.

Per quanto avesse detto e fatto, non avrebbe sopportato l'idea di cadere in una qualche imboscata proprio mentre con lei c'era sua madre. Malgrado tutto, era contenta di averla ancora vicina.

L'estate che stava entrando nel pieno concesse al piccolo gruppo di avere luce fino a tardi e quando arrivarono a Forlì la sera era calata da poco.

“Voi andate avanti – fece la Contessa, non appena entrarono in città – prima devo fare una cosa.”

Lucrezia non fece domande e proseguì assieme alla scorta verso la rocca. Caterina, invece, condusse il suo cavallo fino alla casa di Andrea Bernardi.

“Mia signora...” fece l'uomo, sorpreso nel vederla arrivare a quell'ora: “Mi dispiace per la vostra perdita. Ricordo molto bene vostra sorella, era una donna di valore.”

La Contessa ringraziò in modo frettoloso e poi cominciò a guardarsi in giro irrequieta, come se non si decidesse a parlare.

Così il Novacula provò: “Avete bisogno di qualcosa?”

La Tigre aveva passato tutto il viaggio di ritorno a rimuginare. Tutto quello che voleva era riuscire a riposare e trovare un po' di calore. I suoi nervi erano stati esasperati dagli eventi caotici e affrettati delle ultime ore e nulla voleva di più di qualcuno che la tenesse stretta e le facesse credere che tutto, prima o poi, sarebbe andato per il meglio.

“Sapreste ritrovare quel ragazzo..?” cominciò la donna, mentre le sue narici venivano riempite dal profumo invitante della cena che Bernardi si era appena portato in tavola: “Quello del postribolo, quello di quella volta...”

Il barbiere, che si era messo a cenare tardi per via del caldo, comprese subito chi fosse il giovane a cui la sua signora si stava riferendo, così annuì, secco, e confermò: “Credo di poterlo fare.”

La Tigre abbassò lo sguardo e disse: “Fatelo venire alla rocca al più presto. Pagatelo quanto vuole, non mi interessa, voglio solo non dover pensare a nulla per un po'.”

Il Novacula strinse i denti e poi, cercando di non lasciar trapelare troppo la sua contrarietà, offrì una ciotola di minestrone alla Contessa.

Rendendosi conto di essere davvero affamata, Caterina prese la pietanza con gratitudine e in un soffio la mangiò tutta.

“Mentre ero via è successo qualcosa che dovrei sapere?” chiese poi, prima di lasciare la casa del suo amico.

Il barbiere scosse il capo, ma disse: “Solo qualche nuovo caso di febbre e un altro morto, ma si trattava di un anziano.”

La Tigre sospirò: “Ho capito. Speriamo non scoppi un'epidemia. Non sarebbe proprio il momento...”

Dopo qualche frase di circostanza, i due si salutarono e Bernardi assicurò che avrebbe cercato il giovane che la sua signora voleva e che l'avrebbe fatto andare alla rocca appena possibile.

Caterina uscì dalla casa del Novacula e rimontò in sella. Attraversò la città con lentezza, scrutando le poche finestre illuminate e chiedendosi che tipo di vita facessero le persone che vivevano oltre quei vetri e quelle imposte.

Quando infine arrivò a Ravaldino, passò il ponte al trotto lento e poi arrivò fino alle stalle. Lasciò il cavallo a uno dei garzoni e poi salì al primo piano e andò alla sua stanza.

Un'ombra la stava aspettando davanti alla porta.

“Che volete?” chiese la donna, riconoscendo alla luce tremula della torcia il profilo di Giovanni Medici.

“Ho visto arrivare vostra madre, così ho pensato che steste arrivando anche voi.” spiegò il fiorentino, prima di farsi avanti e aggiungere: “Vi porgo le mie più profonde condoglianze. Se avessi saputo per tempo, sarei venuto a Imola per il funerale.”

“Non ce ne sarebbe stato motivo.” tagliò corto Caterina, raggiungendo la porta, evitando in modo abbastanza scortese la mano dell'ambasciatore, che si era tesa, probabilmente per posarlesi sulla spalla.

Mentre gli sfilava accanto, la Tigre aveva avvertito, inspiegabile e prepotente, il desiderio di avvicinarsi di più, di lasciarsi consolare da lui, ma si era trattenuta e aveva evitato quel contatto inappropriato.

Doveva ricordare chi era davvero quell'uomo e perché era lì. Un errore diplomatico con un messo fiorentino di quella risma avrebbe potuto costarle molto caro in futuro.

Giovanni la guardò mentre entrava nella stanza e si chiudeva la porta alle spalle e gli mancò la faccia tosta di aggiungere qualcosa per indurla a fermarsi.

Scalciando l'aria con la punta del piede, il Popolano si allacciò le mani dietro la schiena e cominciò a camminare, soprappensiero.

 

Il ragazzo del postribolo arrivò alla rocca poco dopo Caterina. Raggiunse la sua stanza senza problemi e quando gli venne aperta la porta, non si sorprese nello scoprire che la donna che lo aveva fatto chiamare era la Contessa Riario, al momento immersa nella luce calda delle candele, intenta a bere del vino.

Quando la signora di Forlì se lo trovò davanti, finalmente provò a lasciare spazio al libero sfogo di quello che aveva provato quel giorno e la notte prima.

Senza dire una parola, si avvicinò al giovane e si fece abbracciare. Quella stretta, però, per quanto chiaramente mossa da un sincero trasporto da parte del ragazzo, non diede nulla alla Tigre.

Teneva il volto affondato nel suo petto coperto da una leggera camicia di stoffa e da un giustacuore senza maniche e sentiva lo stesso aroma di olii profumati della prima volta.

Come se avesse intuito i pensieri della Contessa, il giovane sussurrò: “Mi pareva che la volta scorsa aveste apprezzato l'odore dei miei olii, così li ho usati anche questa volta.”

Caterina si sforzò di fare un sorriso e si allontanò da lui. Le era bastato quell'abbraccio per capire che si era ingannata nel pensare che in quello sconosciuto avrebbe potuto trovare il conforto che cercava.

Tuttavia, ormai l'aveva lì e la notte era ancora acerba. Per quanto fosse stanca, la tensione che provava dentro di sé reclamava soddisfazione.

“Posso fare qualcosa per voi?” chiese il ragazzo, un po' confuso dal silenzio della Leonessa.

“Fate solo quello per cui siete stato pagato.” rispose Caterina e cominciò a spogliarlo.

 

Giovanni si stiracchiò, rientrando nella rocca. Stare sui camminamenti a quell'ora era molto rilassante, per lui. L'aria fresca e più secca rispetto a quella del giorno era un toccasana per le sue povere articolazioni e la pace del cielo scuro lo aiutava a placare i tumulti del proprio cuore.

Mentre attraversava i corridoi bui della rocca, il Popolano cominciò a pensare a quello che avrebbe dovuto fare il giorno dopo.

Le disposizioni arrivate da Firenze erano chiare. Gli avevano ordinato di partire subito per un giro di alcuni degli Stati più importanti in Romagna, con particolare attenzione per quelli in cui la Signoria aveva proprietà o interessi.

Rimini, Cesena, Ravenna... In ognuna di quelle città avrebbe dovuto presenziare a banchetti e ricevimenti, ma, soprattutto, avrebbe dovuto muoversi con attenzione e circospezione. Doveva scoprire le esatte posizioni dei vari governi e doveva farlo senza farne accorti i rispettivi signori.

Quello di certo sarebbe stato un compito complicato ed estenuante sotto vari punti di vista, ma quando aveva accettato quella carica, Giovanni aveva messo in bilancio anche quel genere di sforzi.

Peccato che, all'epoca, non sapesse che lasciare Forlì, anche se per poco, gli sarebbe risultato tanto penoso...

Passando nel corridoio interno su cui si affacciava anche lo studiolo del castellano, Giovanni restò sorpreso nel vedere la luce filtrare dalla porta mezza aperta.

Che Cesare Feo fosse ancora al lavoro a quell'ora? Ormai si era nel cuore della notte...

Deciso a sfruttare quell'occasione per non dover passare dal castellano il giorno dopo, il Popolano andò deciso verso la luce, sperando di non sbagliarsi.

Quando si affacciò sull'uscio, però, non si trovò davanti Cesare Feo, ma la Contessa.

Caterina non lo vide immediatamente. Era seduta in modo scomposto sulla poltrona che restava vicino alla finestra. Aveva spostato il tavolinetto vicino a sé, e sopra vi era appoggiata una caraffa di vino ormai a metà.

La Contessa stringeva tra le mani il calice e i suoi occhi erano fissi alla notte che si stagliava oltre al vetro.

Giovanni stava già per fare marcia indietro, convinto che la donna non si sarebbe comunque accorta di lui, ma proprio mentre si ritraeva di un pazzo, la Tigre si voltò verso di lui e chiese: “E voi che ci fate qui a quest'ora?”

La sua voce era un po' impastata, il che fece pensare al fiorentino che il vino che mancava nella caraffa fosse sceso tutto nel suo stomaco e anche in fretta.

“Non riuscivo a dormire – fece il Medici, indeciso se entrare una volta per tutte nello studiolo o se restare sulla porta – ho visto la luce accesa e ho pensato che il castellano fosse ancora alzato, così ne avrei approfittato per parlargli...”

Caterina sorbì un sorso e poi appoggiò il calice al tavolino, sistemandosi un po' sulla poltrona, prima di chiedere: “E di cosa dovevate parlare con il castellano?”

Giovanni stava osservando con attenzione il profilo della Tigre, che sotto le fiammelle irrequiete delle candele sembrava estremamente stanco e affilato: “Devo partire domani, per andare in alcune città della Romagna per conto di Firenze. Dovrei star via almeno un paio di settimane, forse anche di più. Volevo avvisare, prima di lasciare Forlì.”

“Ah, partite.” fece piano la Contessa, abbassando lo sguardo e riafferrando il calice: “E dove andate?”

Il Popolano fece un rapido e incompleto elenco dei posti che avrebbe dovuto visitare e quando citò Rimini, la donna sollevò un sopracciglio e lo mise in guardia: “Attento a Pandolfo Malatesta. È pazzo.”

Giovanni, in buonafede, si accigliò e disse: “Credevo foste stati alleati non molto tempo fa.”

Caterina ricordò di come avesse consegnato Guido Guerra al Pandolfaccio e di come, poi, minacciato da Venezia, il Malatesta l'avesse lasciata con un palmo di naso invece che onorare la loro amicizia: “Vero, eravamo alleati, ma ciò non toglie che Pandolfo sia pazzo.”

Giovanni ringraziò per l'avvertimento e poi, per quanto tentato di restare, visto il silenzio protratto da parte della Contessa, fece un mezzo sospiro e fece: “Tornerò domani a cercare il castellano...”

“Non volete un po' di vino?” chiese Caterina, cercando un pretesto per non restare di nuovo sola.

Si era rintanata lei in quella stanza, sfuggendo alla propria camera e all'insonnia. Quando il ragazzo del bordello era andato via, la donna aveva avvertito più forte che mai il senso di vuoto che la coglieva ogni notte e, in più, aveva cominciato a ripensare a sua sorella, a come si erano lasciate, a tutti i dissapori che avevano avuto e che ormai, di fronte alla morte, perdevano ogni valore.

Così era passata dalle cucine e aveva preso del vino. Sperava che bevendo fino all'ultima goccia avrebbe finalmente trovato un sonno sordo e silenzioso.

E invece, mentre stava sulla poltrona che suo marito aveva occupato centinaia di volte, il vino pareva capace solo di risvegliare in lei altri ricordi e nuovi rimpianti.

“No, grazie...” fece Giovanni, per quanto desideroso di cogliere quell'invito.

“Vi prego, un calice e basta.” ribadì la Contessa, un po' più ferma.

Il Popolano si mosse in avanti, ma poi si ritrasse di nuovo. Stava per partire, non doveva eccedere in nulla. Sapeva che a un calice, data la compagnia, ne sarebbe seguito un secondo e magari un terzo e, quando beveva a quel modo, poi il ginocchio e la caviglia si gonfiavano e la gotta tornava a batter cassa e non poteva permetterselo.

Così, sperando di non apparire troppo scortese, ribadì: “No, grazie, meglio di no.”

“Avanti, per un sorso di vino..!” insistette Caterina, stringendo i denti.

“Davvero, no...” disse piano il fiorentino.

“Almeno fatemi compagnia!” sbottò la Tigre, alzando una mano con rabbia: “Il vino era solo un pretesto!”

Giovanni restò un momento in silenzio, non avvezzo a quel genere di scatti, ma poi si disse che quella doveva essere stata una giornata molto pesante per lei e che quello che stava bevendo di certo non la stava aiutando a risultare più equilibrata.

Siccome Caterina stava indicando la sedia del castellano, il Popolano andò a sedersi là e poi attese che fosse lei a dire qualcosa.

“Perché voi e vostro fratello avete cercato il potere?” chiese a bruciapelo la Contessa, versandosi altro vino: “Perché avete cercato una cosa tanto disgustosa come il potere? Non stavate meglio nella vostra villa di campagna? Avevate soldi a sufficienza e nessuno vi avrebbe fatto del male, se ve ne foste rimasti al vostro posto... Che cosa cercavate? Perché avete voluto prendervi Firenze? Cosa c'è di così attraente, nel potere?”

Il fiorentino strinse le labbra e poi cercò lo sguardo della Tigre, ma le sue iridi chiarissime altro non trovarono se non un muro di pietra: “E voi, perché ci tenete così tanto a restare a capo di questo Stato?” ribatté.

Caterina soffiò e vuotando il calice sollevò le spalle, tornando a guardare la finestra: “Perché mi ci sono ritrovata. Se provassi a uscirne adesso, non sopravvivrei nemmeno un giorno. Ho pestato i piedi a troppa gente. E poi non potete sapere quanto mi è costato, avere queste terre.”

“Noi volevamo il potere per avere vendetta.” spiegò allora Giovanni, decidendo di dire solo la verità.

Anche se rappresentava gli interessi di Firenze, sentiva di potersi aprire con la signora di Forlì, senza paura che ciò che avrebbe detto potesse essere usato contro di lui o contro la repubblica.

In quella calda notte d'estate, sentiva che lui e la Leonessa di Romagna erano solo un uomo e una donna, non un ambasciatore e una Contessa.

“Vendetta?” chiese la Tigre, puntellandosi sui braccioli, improvvisamente molto interessata a quel che diceva il fiorentino: “E contro chi?”

“Contro nostro cugino Lorenzo. Essendo lui morto, abbiamo fatto quel che potevamo per prendere il posto di suo figlio Piero e riprenderci ciò che era nostro.” mentre parlava, la voce del Popolano assumeva delle sfumature di cui Caterina non l'avrebbe mai creduto capace.

Quell'uomo, che a prima vista e a una conoscenza superficiale sembrava solo pacato e gentile, ben educato e avvezzo alla vita di corte, stava in fretta dimostrando di avere qualcosa di più, dentro di sé e la Tigre voleva scoprire meglio che cosa fosse.

“Ma gli averi e il potere del Magnifico spettavano più a suo figlio, che non a voi.” fece la donna, seguendo una logica che le pareva corretta.

“Sarebbe stato così se lui non avesse rubato tutte le sostanze mie e di mio fratello.” obiettò Giovanni, allacciandosi le mani sul ventre e sporgendo un po' in fuori il mento.

Caterina accantonò per un istante il vino, trovando quella conversazione un espediente migliore per dimenticarsi un momento di sé: “Spiegatevi meglio.”

“Nostro cugino Lorenzo... Anzi, è meglio partire da prima...” iniziò il fiorentino, facendosi più concentrato: “Mia madre morì alla mia nascita.”

La Contessa rispettò il momento di silenzio che l'ambasciatore osservò dopo quella frase e si chiese come fosse stata la sua infanzia. Lei, di madri, almeno fino a che non l'avevano fatta sposare a Girolamo, ne aveva avute addirittura due. Crescere senza conoscerne nessuna non doveva essere stato semplice.

“Mio fratello Lorenzo aveva quattro anni. Non me ne ha mai fatto una colpa, come invece a volte capita tra fratelli in questi casi. Tuttavia non potete immaginare quante volte io mi sia sentito un assassino.” Giovanni era conscio del fatto che quei discorsi esulavano dalla richiesta fatta dalla signore di Imola e Forlì, ma non gli importava.

Non aveva mai affrontato quei fantasmi del suo passato con qualcuno e quella notte pareva così facile vuotare il sacco che nulla lo avrebbe trattenuto: “Non potete immaginare quante volte mi sia tormentato pensando che sarebbe stato meglio se fossi morto io, quel giorno. Mia madre avrebbe potuto avere altri figli, ma andando così le cose mio fratello non ha potuto mai avere sua madre.”

Caterina ascoltava senza dire nulla, immobile sulla sua poltrona, gli occhi verdi, e un po' lucidi per il vino, che scorrevano sul volto dell'uomo che stava raccontando quello che doveva essere il peso più grande che schiacciava il suo cuore.

“Così io e mio fratello – riprese l'ambasciatore – restammo soli con nostro padre. Era un uomo buono, colto, ci amava moltissimo, ma nel Settantasei è morto all'improvviso e così io e mio fratello siamo stati adottati dai nostri cugini, Lorenzo e Giuliano. Ci hanno accolti a Firenze, nel loro palazzo, e ci hanno dato un'istruzione e una casa. Io avevo nove anni e mio fratello tredici.”

“Anche mio padre è morto nel Settantasei – intervenne a quel punto la Contessa, colpita da quella coincidenza – e anche io avevo tredici anni, come vostro fratello.”

Giovanni sollevò l'angolo della bocca e commentò: “Non è un'età facile in cui perdere un padre.”

“Nemmeno nove anni è una bell'età.” notò Caterina, ricordandosi come anche suo figlio Ottaviano avesse quell'età, quando Girolamo era stato trucidato nella stanza delle Ninfe, e di come anche per lei a nove anni la vita avesse preso una piega diversa, anche se per un altro motivo.

“Vero. Ma se non altro noi avevamo i nostri cugini. Ci siamo sentiti fortunati. Abbiamo conosciuto artisti, scienziati, filosofi, letterati...” proseguì il Popolano, scuotendo piano il capo, come se il ricordo portasse con sé qualcosa di molto amaro: “Ma poi Giuliano è stato ucciso dai Pazzi e tutto è cambiato.”

La Tigre sentì il bisogno di bere ancora. La congiura dei Pazzi... Poteva ancora sentire le parole che aveva origliato a Roma. Poteva ancora sentire il disprezzo che aveva provato per il papa e per suo marito, quando li aveva saputi coinvolti in quello scellerato attentato.

“Nostro cugino Lorenzo perse la testa, quando uccisero Giuliano.” Giovanni si massaggiò la fronte, stanco: “Ha portato a termine la sua vendetta e poi ha cominciato a inseguire la chimera di creare una nuova Firenze, come avrebbe voluto fare assieme a suo fratello. Però gli serviva dell'oro e così attinse alle nostre sostanze. Avrebbe dovuto amministrarle per noi fino alla maggiore età di mio fratello, e, invece, quando venne il momento, scoprimmo che aveva dilapidato tutto fino all'ultimo centesimo.”

“E allora che avete fatto?” lo incalzò Caterina, mentre quel nuovo aspetto del Magnifico le veniva rivelato con tanta semplicità da farla rabbrividire.

“Mio fratello ha iniziato una causa legale, ma ci sono voluti ancora anni, prima che ci venisse almeno restituita la villa di Cafaggiolo e una piccola somma.” soffiò Giovanni, sistemandosi i riccioli castani con due dita: “Ecco perché, appena abbiamo potuto, abbiamo cercato di usurpare Piero. Volevamo vendicarci del furto subito e prenderci quello che ci spettava di diritto.”

“Ho capito...” fece allora la Contessa, riaffondando nello schienale soffice della poltrona: “In ogni caso non so quanto vi sia convenuto, gettarvi nel covo di serpi che è il potere.”

Il fiorentino allargò le braccia: “Non avevamo scelta. Il cognome che il fato ci ha dato porta con sé dei doveri e degli obblighi. Pretendere giustizia è uno di questi. Mantenere il nostro ruolo di potere è un altro. Non potevamo tirarci indietro.”

Caterina avrebbe voluto contraddirlo, ma non aveva intenzione di smontare le sue convinzioni, soprattutto visto quello che anche lei era stata capace di fare per desiderio di vendetta.

“Sapete – fece allora la donna, che nella sincera confessione del Medici aveva trovato terreno fertile per liberarsi anche lei di qualche pensiero confidenziale – ci sono stati tanti giorni e soprattutto tante notti in cui avrei voluto non essere una Sforza. Se mio padre non avesse voluto a tutti i costi darmi il suo cognome, sfidando anche sua madre, che odiava la donna con cui mio padre aveva fatto ben quattro figli, io sarei stata solo una dei sui tanti figli illegittimi. La solita testimonianza vivente del capriccio di un Duca. Ha avuto molti altri figli, sapete, da molte altre donne, ma a nessuno di loro ha voluto dare il suo cognome.”

Il Popolano sapeva, come quasi tutti, che la Contessa Sforza era una figlia naturale del Duca Galeazzo Maria Sforza, ma, come tutti, aveva dimenticato quel dettaglio.

Il cognome che la donna aveva sempre sbandierato con orgoglio aveva fatto scordare in fretta al mondo le sue reali origini.

“Invece a me e ai miei altri fratelli nati da mia madre ha voluto dare il suo cognome. Se fossi stata una figlia misconosciuta, nessun nipote di nessun papa mi avrebbe mai voluta sposare e io...” la voce di Caterina si incrinò, mentre Giovanni cercava di raccapezzarsi in quel monologo.

Il papa doveva essere Sisto IV e il nipote Girolamo Riario. Giovanni ricordava bene come lui e suo fratello avessero scoperto, da alcuni documenti trovati a palazzo Medici, che, secondo loro cugino, erano proprio quei due alle fondamenta della congiura dei Pazzi.

“E voi?” fece il fiorentino, incoraggiando la Contessa a concludere la frase.

La donna si grattò distrattamente il mento e buttò lì: “E io forse non sarei stata così infelice.”

“E siete infelice anche adesso?” chiese il Popolano, pur accorgendosi dell'apparente indelicatezza della sua domanda.

La Tigre di Forlì aveva appena perso una sorella, di certo non poteva essere felice. Tuttavia la donna parve capire il senso reale di quel quesito e rispose a tono.

“Sapete quello che è successo al mio secondo marito, giusto? Avete visto le teste sulle picche in cima alla Torre del Pubblico. Avete di certo sentito dire in giro per la città cose orribili su di me.” le parole le uscivano dalle labbra come tante spine, ma non seppe fermarsi: “Secondo voi posso essere felice sapendo che mio figlio ha convinto delle persone, che io credevo fidate, a uccidere l'unico uomo che io sia mai riuscita ad amare?”

L'ambasciatore di Firenze fece un profondo sospiro e poi fece segno di no e soggiunse: “Lo amavate davvero così tanto?”

“Non ho voglia di parlarne.” rispose subito Caterina, sulla difensiva.

“Perché non avete fatto uccidere vostro figlio? Con il torto che vi ha fatto, nessuno vi avrebbe biasimata.” fece notare il fiorentino.

La Tigre lo guardò a lungo, prima di rispondere: “Io non sapevo cosa farne, di mio figlio, così non ne ho fatto niente.”

Giovanni incurvò le labbra carnose e si mosse un po' sulla sedia del castellano, facendola cigolare e poi, dopo aver preso una profonda boccata d'aria, proseguì nella sua indagine privata: “Perché ricevete tutti quegli uomini nelle vostre stanze?”

“Per lo stesso motivo per cui bevo vino in piena notte e prendo le mie pozioni quando proprio non riesco a dormire.” rispose la donna, lo sguardo sfuggente che correva alla caraffa quasi vuota.

“Cioè, che cosa ve lo fa fare?” insistette il Popolano.

Alla Contessa scappò una breve risata: “Avete un accento davvero fortissimo...” ma poi si rifece seria e concluse: “Lo faccio solo per stordirmi. Per cercare di non pensare, perché quando mi metto a pensare, mi sembra di impazzire.”

“E funziona?” si informò il fiorentino, sporgendosi un po' in avanti e appoggiando le lunghe braccia alla scrivania del castellano.

“Qualche volta.” rispose laconica Caterina.

“Anche a me piacerebbe dimenticarmi di alcune cose, in certi momenti. Quando ero più giovane ci riuscivo, con qualcosa da bere e qualche corsa in aperta campagna.” fece l'ambasciatore, passandosi automaticamente una mano sul ginocchio che per primo si infiammava ogni volta che la sua malattia si riproponeva: “Ma non posso eccedere con il vino e nemmeno con l'esercizio fisico.”

“Come mai?” chiese la donna, facendo proprio il metodo inquisitorio del suo interlocutore.

Giovanni tergiversò un secondo, poi, la bocca che si seccava, ammise: “La gotta. La malattia della mia famiglia, quella che ha portato alla tomba mio cugino Lorenzo. Ha colpito anche me e molto presto. Il medico della mia famiglia dice che c'è poco da fare e che potrei resistere cinquant'anni così come andarmene in cinque ore, se avessi una crisi troppo forte. Così io mi limito nel mangiare e nel bere e cerco di evitare gli sforzi eccessivi.”

“Dunque è per questo che siete così magro.” constatò la donna.

“Sì, mangiando meno e soprattutto verdure si fa in fretta a diventare pelle e ossa.” fece il Popolano, battendosi con fare ironico una mano aperta sulla pancia piatta: “Mangio poca carne, non bevo quasi più vino e cerco di starmene tranquillo, se possibile”

“E funziona?” chiese Caterina, provando un istintivo senso di protezione per l'uomo che le stava davanti, seduto dietro la scrivania.

“Qualche volta.” sorrise Giovanni, facendo eco alla risposta che la donna gli aveva dato poco prima.

Seguì un momento di tregua, durante il quale tutti e due rimasero immersi nei loro pensieri, rivalutando ciò che si erano detti fino a quel momento.

“E voi? Cos'altro mi dite di voi?” fece la Contessa, deglutendo rumorosamente: “Avete quasi trent'anni e siete un bell'uomo. Come mai non siete sposato? Avrete avuto delle donne, in questi anni...”

Giovanni annuì: “Ho avuto qualche donna, è vero, ma non sono mai state relazioni vere e proprie, mai nulla di serio. In generale, dopo una notte o al massimo due io perdevo interesse in loro e loro in me e così alla fine sono rimasto da solo.”

“Avete figli?” fece la Tigre, versandosi l'ultimo calice di vino.

“No, non ne ho mai avuti.” disse il fiorentino: “Ne sono certo.” precisò.

Caterina fece un breve cenno del capo, mentre gli ultimi sorsi di rosso le scaldavano la gola e poi rivolse gli occhi alla finestra. La luce della notte stava per scivolare in quella pallida e stupita dell'alba.

“Non avete paura di ritrovarvi ad aspettare un figlio, prima o poi?” domandò Giovanni, senza riuscire a trattenersi: “O di prendere qualche malattia... Con tutto il rispetto, ho visto uomini di ogni genere entrare nelle vostre stanze, da quando sono qui.”

La Contessa fece una breve risata sommessa e poi, alzandosi a fatica dalla poltrona, disse: “Cerco di stare attenta, per quanto possibile. E per il resto, si vede che ho avuto fortuna. Avanti, ora ho bisogno di coricarmi un po'. Il vino finalmente mi sta facendo l'effetto sperato.” e come a sottolineare le sue parole sbadigliò.

Giovanni accettò a malincuore l'idea di separarsi, ma sapeva che sarebbe stato davvero troppo sconveniente chiedere di più, per quella volta.

Una volta nel corridoio, sotto le torce che davano gli ultimi sprazzi, la Tigre chiuse la porta a due mandate e si mise la chiave nella tasca dell'abito.

Quando tornò a guardare il Medici, i due si trovarono tanto vicini che, se solo uno dei due avesse preso l'iniziativa, avrebbero potuto sfiorarsi.

“Ci stiamo prendendo le misure a vicenda, vero?” sussurrò Caterina, arrochita e un po' mesta.

Il fiorentino sentì il cuore pompare con più forza. Con quella domanda la Contessa stava lasciando intendere di aver intuito il suo interessamento e, forse, sottintendeva di provare altrettanto interesse nei confronti di lui.

“Attento, Medici...” l'avvisò poi la Tigre, appoggiandogli con un po' di esitazione la mano sul braccio, lasciandola poi scivolare fino a incontrare le sue lunghe dita e stringerle, intrecciandole alle sue: “Sembra che io sia capace di rovinare tutto quello che tocco. Non crediate che io sia meglio di quello che dicono su di me.”

Giovanni quasi non respirava, mentre la donna dava un'altra forte stretta alla sua mano, prima di lasciarla e di allontanarsi, voltandogli le spalle, diretta all'ala della rocca in cui stava la sua camera.

Il Medici attese qualche istante che il fiato gli tornasse nei polmoni e poi, con ancora un prepotente formicolio sulle dita che la mano di lei aveva stretto, raggiunse la sua stanza.

Si stese sul letto e, sentendo ancora nelle narici il profumo della donna che ormai sapeva di amare, si addormentò.

 
   
 
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