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Autore: Ayr    09/06/2017    5 recensioni
Mi hanno accusato di tradimento, ma sono solo una vittima innocente degli eventi, incastrata da qualcuno più furbo e spietato di me, che non ha avuto rimorsi nel coinvolgermi in tutto questo e nel far ricadere la colpa sul mio capo, su cui, ora, pende la lapidaria sentenza: verrò destituito dal mio incarico e cacciato da quella che fino a quel momento era stata la mia casa.
Verrò umiliato, un’ultima volta, la più terribile: mi verrà strappato tutto ciò che fino ad ora ho posseduto ed il mio unico compagno di una vita verrà distrutto. Una parte di me morirà inevitabilmente con lui, quando il Sigillo verrà spezzato e rimarrò spezzato anche io.
Non voglio essere ricordato in questo modo, non se ho anche la più remota possibilità di raccontare come siano veramente andate le cose, e di dimostrare la mia innocenza.
Narrerò la mia storia e lascerò che siano i posteri a giudicarla, nella speranza che qualcuno riesca a vedere come io sia stato solo una vittima ingenua di un enorme inganno ben architettato.
[La storia partecipa al contest indetto da E.Comper sul forum di EFP: ‘The Dragon’s Riders Contest!’]
[Steampunk fantasy (o almeno ci provo)]
Genere: Avventura, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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V

Il Palazzo di Cristallo si innalzava maestoso, altezzoso e fiero, dominando l’orizzonte con la sua imponente struttura: una foresta di torri di vetro sostenute da uno scheletro d’acciaio, che catturava e rifrangeva la luce del sole nei colori dell'arcobaleno.
Era il palazzo di rappresentanza, dove venivano accolti e ospitati coloro che richiedevano i servigi dei Dragoron, ed era la sede del Capitolo: il suo scopo era quello di mostrare la potenza e il potere dei cavalieri, e sottolineare che sarebbe stato un errore considerarli semplici mercenari; avevano un codice d’onore, un regolamento e pretendevano il rispetto che si sarebbe riservato a qualsiasi altro Ordine. Era stato pensato per lasciare l’ospite a bocca aperta e senza fiato, infondendogli un vago senso di meraviglia e terrore reverenziale: le torri si slanciavano verso le nubi, sfidandole ad accarezzare per prime il sole morente; erano possenti, eppure non prive di flessuosità ed eleganza, ingentilite nelle forme marziali da un ricamo di guglie, pinnacoli e archi rampanti. Gli ultimi raggi dell’astro trafiggevano il vetro di cui erano rivestite, insanguinandolo, e donando all’intero complesso un’aura inquietante e suggestiva.
Krupfer atterrò elegantemente su una delle numerose piattaforme sospese che circondavano quella principale, su cui torreggiava il Palazzo; un sistema di ponti dalle ringhiere intarsiate a motivi floreali si gettavano in archi sinuosi tra una piattaforma e l’altra, collegandole con passaggi sospesi nel vuoto.  Sebbene non avesse mai sofferto di vertigini, Arandil sentì il proprio cuore risalirgli fino alla gola e mozzargli il respiro. Aveva trovato subdolamente crudele quella scelta: si aveva l’impressione di camminare sul nulla e la paura di cadere attanagliava le viscere lungo l’intero percorso; l’elfo mise cautamente un piede davanti all’altro, reggendosi alla ringhiera e aggrappandosi spasmodicamente a questa, quasi fosse un’ancora di salvezza. I lampioni di vetro soffiato che costeggiavano i ponti stavano iniziando ad accendersi, diffondendo il loro tenue bagliore, e immergendo le costruzioni e le statue di drago che le sorvegliavano in una calda e labile luce rosata. Ma per quanto fosse onirico e idilliaco il paesaggio, l’elfo era concentrato solo sulla viscida sensazione di cadere e sfracellarsi sui tetti di Evernia, la città sottostante.
Si domandò come diplomatici, nobili e mercanti riuscissero a resistere ad una simile apprensione e ad attraversare tutto il percorso senza bagnarsi i calzoni di seta; non che Arandil stesse per farsela sotto, ma se qualcuno l’avesse visto in quel momento, abbarbicato al ponte come il muschio sul tronco degli alberi, avrebbe sicuramente iniziato a nutrire dei dubbi circa l’antonomastico coraggio dei Dragoron.
Pochi gradini di vetro privi di ringhiera separavano il ponte dalla piattaforma del Palazzo e l’elfo li scese con il cuore che batteva all’impazzata, tuonandogli nelle orecchie con una spiacevole eco che si riverberava per tutto il corpo, facendolo tremare come una foglia. Giunto nelle vicinanze della torretta di guardia si impose di ridarsi un contegno e di non presentarsi, quantomeno, con l’espressione di un coniglio che sta per essere ucciso.
Il Dragoron, segregato nella torretta, gli concesse appena un’occhiata priva di interesse: il ciondolo con la viverna, che spiccava prepotentemente sul giustacuore di pelle, era abbastanza esaustivo e Arandil non perse tempo in presentazioni né convenevoli, ma superò la torretta e si avventurò sull’ultimo ponte prima del vero e proprio Palazzo. Quest’ultimo era una galleria di arcate a sesto acuto che permettevano di vedere il paesaggio circostante per brevi e regolari intervalli, quando gli archi spaziavano sul cielo circostante, dando l’impressione di stare galleggiando nel vento. L’elfo trovava quella costruzione più sicura e confortante delle precedenti, ma sapeva bene che anche quella scelta era stata ponderata a lungo e aveva un fine ben preciso: la copertura del ponte, una successione di volte a botte, impediva di vedere il Palazzo antistante, lasciando completamente basito e senza fiato il visitatore una volta che fosse emerso dal percorso e si fosse imbattuto tutto d’un tratto nella grandiosa costruzione.
Due imponenti statue di draghi rampanti, in bronzo dorato, accolsero con un minaccioso sguardo rosso rubino Arandil, non appena questi oltrepassò l’arco di pietra che segnava l’ingresso nel cortile interno del Palazzo. Una fontana di marmo dominava il piazzale lastricato, e giochi di acqua e di luce si illuminavano di cremisi e di arancione nell’atmosfera sfumata del crepuscolo.

Era la seconda volta che l’elfo varcava quella soglia nel giro di poche settimane, e la prima non era stato piacevole: si era presentato davanti al Capitolo per chiedere di essere sollevato dal suo incarico, era stato guardato con delusione e compassione dai suoi superiori, e Adam non aveva mancato di fargli notare quanto fosse inetto e inadatto al suo ruolo di Cavaliere. Arandil non mai stato così frustrato e scontento di sé stesso. Ma questa volta era diverso: l’Ordine stesso aveva chiesto di lui e l’aveva convocato, segno che aveva fiducia nelle sue capacità e non lo considerava completamente un inetto…Sempre che il sigillo di ceralacca fosse autentico e non una copia molto ben riuscita atta ad ingannarlo e a prenderlo in giro.
Quando la missiva gli era stata recapitata aveva subito pensato ad uno scherzo di cattivo gusto da parte di Adam per umiliarlo e ferirlo più di quanto non facesse da sé, ma il sigillo era parso autentico, così come la firma in calce del generale Xendar Scudo d’Argento; se si trattava di uno scherzo, era stato davvero ben congegnato.
Arandil deglutì, spaesato di fronte alla magnificenza e alla bellezza che quel luogo emanava: davanti a lui si stagliava il corpo principale del palazzo, una specie di cattedrale gotica in vetro, decorata da mosaici di cristallo colorato che tingevano il piazzale di un caleidoscopio di colori sgargianti. Divorò con gli occhi quello splendore all’apparenza fragile eppure forte, di cui non si sarebbe mai stancato di cibarsi.

L’elfo era stato poche volte a Palazzo e l’edificio serbava i ricordi più belli e strazianti: la prima volta che era stato in quello stesso piazzale aveva sei anni ed era un piccolo elfo con la testa piena di sogni e lo sguardo pieno di stelle, avido dell’azzurro del cielo che lo circondava. Suo padre non era mai stato completamente d’accordo con la sua scelta di diventare aviatore, avrebbe preferito che diventasse un guerriero come lui, o un guaritore come sua madre, o comunque qualcosa che fosse davvero utile; così era giunto ad un compromesso: i Dragoron erano soldati ma volavano, e ciò accontentava sia il desiderio dell’immensità del cielo di uno, sia la prospettiva di un lavoro che avesse una qualche utilità dell’altro. All’epoca Arandil era solo un elfo spaurito e pieno di speranze, e quell’edificio incredibile l’aveva completamente conquistato e ingannato con il suo sensuale splendore, facendogli credere che il suo addestramento, se fosse avvenuto in un luogo tanto bello, non sarebbe stato poi così male.
Purtroppo, però, l’istruzione delle reclute avveniva a Evernia, presso l’Accademia, una distesa di casermoni di pietra e legno completamente privi di bellezza e grazia che abbatterono con un solo sguardo l’iniziale entusiasmo del giovane. Ben presto Arandil si rese conto che quella scelta non faceva per lui: la scherma era una pratica barbarica e monotona e le armi erano noiose e antiquate, i turni di guardia massacranti erano inutili e servivano solamente a fargli prendere freddo e a causargli raffreddori insopportabili, gli scontri erano umilianti ed erano utili solamente per accrescere l’ego di spacconi e arroganti, come Adam. L’unico argomento che aveva risvegliato un minimo di interesse nel giovane elfo erano stati i draghi meccanici: quei prodigi di ingegneria e alchimia avevano affascinato il ragazzo e l’avevano lasciato senza fiato; da allora volle scoprirne tutti i segreti e i meccanismi, e iniziò a trascorrere la maggior parte del tempo a spulciare volumi enormi di ingegneria meccanica, guadagnandosi il nome di “secchione” e “sfigato”, e le angherie di Adam che lo considerava un perdente e un idiota. Arandil ci dette poco peso e lentamente si chiuse nel suo mondo di carta e inchiostro, perso completamente nella contemplazione di quelle meraviglie di acciaio. Pian piano l’attrazione per le creature di metallo e tubature spinse l’elfo nella direzione di quelle in carne ed ossa, molto più incredibili e affascinanti; iniziò a procurarsi e a divorare libri sui draghi, imparò tutto su di loro, conosceva a menadito ogni razza, il suo habitat, le sue dimensioni, il suo aspetto, la sua dieta e persino il periodo di accoppiamento; aveva tappezzato il cubicolo che gli avevano assegnato come stanza di disegni e riproduzioni di draghi, a volte copiate dai libri, altre partorite dalla sua fantasia…era così che aveva preso forma Krupfer, diventato un assemblaggio di tutte le informazioni e i progetti che aveva accumulato nel corso degli anni.
Ma il periodo della scuola non era stato per nulla idilliaco: era stato costantemente vittima di vessazioni e prese in giro perché era gracile ed impacciato, di aspetto femmineo e dalle movenze misurate e aggraziate, come quelle di una ragazza; più volte l’avevano accusato di essere omossessuale o l’avevano scambiato, volontariamente o per sbaglio, per una femmina. Inoltre non era mai stato abile con le armi, come gli altri ragazzini e nelle prove risultava sempre ultimo: veniva considerato un ritardato e un incapace, tanto dai suoi compagni quanto dai suoi insegnanti; veniva caricato di lavoro supplementare, sgridato, motteggiato e umiliato. I turni di guardia più scomodi e negli orari più assurdi venivano affibbiati a lui, nella convinzione che l’avrebbero aiutato a migliorare a farlo diventare un vero uomo. Non era riuscito a instaurare un rapporto di amicizia con nessuno, nessuno condivideva i suoi interessi, e spesso era rimasto da solo ed escluso, maltrattato da chiunque e senza nessuno a cui appoggiarsi o presso cui trovare un po’ di compagnia e conforto; lentamente si era abituato a quella situazione e aveva trovato sostegno nei libri, chiudendosi ancora più in sé stesso ed allontanandosi volontariamente dagli altri e dalla loro compagnia chiassosa e arrogante.
Adam era sempre stato il peggiore di tutti: lo aveva torturato in tutti i modi possibili e ancora in quei giorni non perdeva occasione per pavoneggiarsi ed evidenziare quanto fosse meglio di lui in tutto, abile con qualsiasi tipo di arma, forte, intelligente, astuto, coraggioso, affascinante, ligio al suo dovere, uomo d’onore e di parola, un Dragoron perfetto e inappuntabile, che nessuno sarebbe mai riuscito a eguagliare, tantomeno una nullità come Arandil.
L’elfo detestava profondamente quell’umano e covava il desiderio, nel profondo del cuore, di ficcargli una delle sue frecce su per gli sfinteri, di modo che la smettesse di fare tanto il gradasso con uno strale piantato nel didietro; ma il codice d’onore gli impediva di arrecare qualsiasi danno, di qualunque tipo, ai Dragoron investiti di tale carica, che avevano ricevuto la propria cavalcatura ed erano diventati cavalieri a tutti gli effetti.
Il giorno dell’Investitura era quello che ricordava con più gioia: era stato quando aveva ricevuto Krupfer, brillante e maestoso nella luce smagliante del primo pomeriggio di quella calda giornata di primavera, quando tutti gli alunni che avevano completato il percorso di addestramento erano stati intabarrati in armature di cuoio bollito e rinchiusi in elmi che si erano, ben presto, trasformati in forni bollenti, facendoli sudare e sbuffare copiosamente. Allineati in quello stesso cortile, come un corpo di fanteria dell’esercito, a uno a uno erano stati chiamati per prestare giuramento e ricevere il proprio drago assieme al Sigillo che li avrebbe legati indissolubilmente ad esso, fino a quando morte non li avesse separati.

Arandil sfiorò la nuca, dove era stato impresso il suo Sigillo, lo stesso che brillava sulla fronte di Krupfer: la runa Aran, che costituiva l’iniziale del suo nome, e nella sua lingua significava “splendente, eccelso”; quella runa era stato il frutto di un processo lungo e complicato, in quanto, avrebbe rappresentato il legame tra drago e cavaliere. Quel simbolo aveva imbrigliato parte della volontà di Arandil sigillandola nel drago, di modo che rispondesse solo a lui e che una volta che il suo padrone si fosse dissolto, il drago si sarebbe smembrato e non sarebbe stato utilizzabile da nessun altro.
Le sensazioni che aveva provato durante quel rituale erano state contrastanti e difficili da spiegare, tanto erano parse surreali e inusuali: la percezione di sentire una parte della propria coscienza separarsi, diventare estranea eppure ancora collegata a lui e percepire, in una sorta di coma, che veniva imprigionata e stretta in quel contenitore, in quel sigillo, spettatore e attore dell’intera procedura con una parte di lui che osservava ciò che l’altra parte sentiva e percepiva. Una sensazione simile gli era capitata la sera prima, quando per festeggiare la fine di quel calvario, aveva accettato di festeggiare con i suoi compagni di corso e si era sottoposto al loro malsano esperimento: volevano testare la provvidenziale resistenza degli elfi, che si diceva reggessero molto bene all’alcol e non bastassero quattro barilotti di rum a farli ubriacare. Arandil ne aveva trangugiato al massimo uno e già percepiva come la testa scollegata dal resto del corpo e quest’ultimo che si muoveva con un leggero ritardo rispetto al comando mentale, era stata una sensazione stranissima, estraniante ed estremamente spiacevole: era come muovere il proprio corpo e vederlo muovere contemporaneamente, assolutamente da non ripetere.
Da allora, bastava un pensiero indirizzato al drago perché questo eseguisse esattamente la sua richiesta: sussurrava “fuoco” nella mente e il drago sbuffava, spandendo dai tubicini il suo fumo velenifero e altamente infiammabile.

Poi c’era stato il giorno in cui aveva ricevuto il suo primo incarico: si aspettava qualcosa di più formale e solenne, ma il generale Xendar l’aveva convocato nel suo ufficio tetro e angosciante, comunicandogli brevemente quale sarebbe stato il suo compito, in maniera succinta e pratica, senza fronzoli o qualsiasi altro orpello Arandil si era immaginato. Era stato piuttosto deprimente e deludente.
Successivamente le sue missioni gli erano state affidate direttamente mediante una missiva, mentre si trovava impegnato a svolgere un altro incarico o appena tornava nel suo desolante appartamento perciò trovava alquanto sospetto e preoccupante venire convocato dal Xendar e soprattutto dal Capitolo per un colloquio faccia a faccia, la questione doveva essere estremamente delicata e pericolosa e Arandil non attendeva altro.

   
 
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