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Autore: Adeia Di Elferas    11/06/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Giovanni Medici, assieme a una piccola scorta di armati presi momentaneamente al soldo tra i soldati della Contessa, era partito da Forlì da qualche giorno, eppure Caterina continuava a ripensare allo strano scambio di confidenze che avevano avuto la notte in cui lei era tornata da Imola.

La vita, nella rocca e in città, continuava come al solito e la Tigre si trovava sempre più divisa tra gli impegni pubblici e quelli familiari.

Dal lato politico, i suoi problemi si stavano via via ingigantendo.

La questione del sale si stava dimostrando una matassa difficile da sciogliere, soprattutto perché da Cervia era arrivata la definitiva conferma che per quell'anno la produzione sarebbe rimasta ferma.

In più i contadini continuavano a presentarsi a frotte, quando era giorno di queste, e Caterina, per quanto cercasse una soluzione che fosse indolore per tutti, non riusciva a venirne a capo e così i suoi Consiglieri. Lo strapotere dei Cavalcanti era a tutte le evidenze inattaccabile e, anche facendo saltare qualche testa e mettendo uomini diversi al posto dei vecchi, era certo che presto la situazione sarebbe tornata come in partenza.

Accanto a questo, la Contessa si era messa d'impegno, smossa in parte dalla morte della sorella, nel tentare di recuperare quel che poteva in ambito familiare.

La dipartita di Bianca aveva fatto scattare di nuovo in Caterina una molla che da tempo non funzionava più. Il modo improvviso in cui la sorella, proprio quando stava per raggiungere il suo obiettivo, era stata strappata alla vita, aveva messo una pulce nell'orecchio alla Tigre, che aveva risentito, dopo anni, le parole di sua nonna Bianca Maria Visconti.

Ricordava bene, benché all'epoca fosse molto piccola, come la matriarca ricordava l'improtanza di una famiglia unita. Tenere insieme i pezzi, ecco qual era il segreto per creare una stirpe capace di passare indenne attraverso i decenni e i secoli.

Così Caterina si era metaforicamente rimboccata le maniche e aveva fatto del suo meglio per far la pace con il suo ruolo di madre e di capofamiglia.

Cercava di tenere molto in conto i progressi di Galeazzo, che si stava sforzando con tutto se stesso di dimostrarle il suo valore, per quanto non ancora undicenne. Lo seguiva nei suoi allenamenti e a volte si presentava mentre il ragazzino era a lezione da uno dei precettori e restava ad ascoltare quel che il figlio aveva imparato.

Teneva d'occhio Bianca e Cesare che, seppur in modo differente, avevano accusato molto la perdita della zia. La prima si era fatta più chiusa, silenziosa, e pareva aver anche perso interesse in molti dei passatempi in cui di solito indugiava, come l'andare nelle cucine a chiacchierare o fermarsi negli alloggiamenti delle truppe per giocare ai dadi. Il secondo, invece, aveva ripreso, con cautela, a non sfuggire più la madre e più di una volta si era fatto trovare a tavola alla stessa ora in cui vi andava lei.

Quando necessario, Caterina preparava galenici per Livio, che aveva ripreso a soffrire di polmoni e, quando faceva in tempo, passava anche un po' di tempo con Sforzino, che cercava però più la compagnia delle balie che non della madre.

Lucrezia, come a supplire le mancanze della figlia, si dedicava quasi esclusivamente a Bernardino, sistemandogli i vestiti e coccolando tutte le volte che se lo trovava davanti.

In più la Landriani si trovava spesso nella posizione di dover in qualche modo difendere il nipotino più piccolo, dato che veniva chiamato spesso dai soldati che lo seguivano 'il povero orfanello'.

La donna ribatteva, quando sentiva dire quella cosa da qualcuno, che il bambino non era un povero orfanello: “Una madre ce l'ha, e si tratta di una Contessa!” ma ogni volta, dopo qualche sguardo in tralice, gli armigeri che avevano dato dell'orfanello al figlio del defunto Barone Feo facevano finta di nulla e tornavano ai loro discorsi, come se Lucrezia non avesse nemmeno aperto bocca.

Di Ottaviano nessuno chiedeva notizie e la stessa Caterina non lo voleva neppure sentir nominare.

Le bastava sapere che era ancora vivo e che le sue disposizioni in merito alla sua carcerazione venivano seguite alla lettera.

Una volta, mentre erano a tavola, Lucrezia aveva chiesto a sua figlia se non avesse paura che Ottaviano potesse fare qualche sciocchezza, soverchiato dal peso dell'isolamento.

Caterina aveva ribattuto con durezza: “Lui è come suo padre. Pur di non togliersi la vita, accetterebbe anche di vivere come mozzo in una nave di carcerati.” e così aveva freddato qualsiasi altra rimostranza o dubbio della nonna del Conte carcerato.

Per il momento la Contessa non aveva intenzione di ritirare la condanna nei confronti del primogenito, né di inasprirla. Le bastava pensare che suo figlio era costretto a rimanere da solo con se stesso, a ragionare su quello che aveva fatto. Non avere altra compagnia se non il senso di colpa e il terrore di non rivedere mai più l'esterno della camera in cui era sembravano per il momento condanne sufficienti.

Malgrado seguisse la sua tabella di marcia con una precisione notevole, però, la Tigre era ben lungi dal sentirsi rasserenata.

La sua marziale attenzione nel seguire gli impegni della giornata svaniva come nebbia quando scendeva la sera.

In quei pochi giorni, un paio di volte si era lasciata di nuovo tentare dall'oblio dell'oppio, qualche volta aveva preferito limitarsi al vino, e qualche altra aveva di nuovo cercato la compagnia di uomo.

A differenza delle volte precedenti, però, sia quando aveva anestetizzato le sue emozioni, sia quando aveva permesso a Bacco di trascinarla nella sonnolenza degli ubriachi e sia quando si era fatta stringere da braccia che non conosceva, alla fine la Leonessa di Romagna si era ritrovata sempre e inevitabilmente a pensare a Giovanni.

Dopo poco più di una settimana di caldo intenso e sole ruggente, in città cominciarono a moltiplicarsi i casi di febbre, accumunati da sintomi vaghi e scarsamente riconoscibili.

La scarsità di cibi freschi e la difficoltà nel reperire acqua pulita, portò in fretta e senza che nemmeno la Tigre, presa dalle sue tribolazioni personali, se ne avvedesse all'inizio di una silenziosa e pestilenziale epidemia.

 

Giovanni si chiuse la porta alle spalle, felice che almeno per quel giorno i suoi impegni si potessero dire conclusi.

Era stanco morto, aveva la testa che girava, sentiva un groviglio di desideri e remore che si combattevano nel centro del suo petto e avvertiva uno strano peso alle gambe che non prometteva nulla di buono.

Era a Rimini e il giorno appresso sarebbe partito alla volta di Cesena, dove l'attendeva un governo temporaneo e caotico e una città in preda a una guerriglia di successione.

A voler essere pignoli, pensava il fiorentino, aveva poco senso mettersi a discutere coi rappresentanti di quello Stato in merito ad alleanze e accordi, visto che, probabilmente, non sarebbero rimasti in carica se non pochi mesi.

Gli ordini però erano ordini e non si dovevano discutere. Lorenzo, nella sua ultima lettera a stampo personale, gli aveva fatto chiaramente capire che la situazione di Firenze non era rosea e che Venezia lo sapeva e si sarebbe mossa di conseguenza. Dunque era necessario buttare le basi giuste, se si voleva restare in piedi.

Il Medici si lasciò cadere con pesantezza sul materasso magnificamente imbottito che Pandolfo Malatesta gli aveva riservato. Il signore di Rimini aveva molti difetti, ma sapeva come accogliere e intrattenere gli ospiti importanti.

Giovanni quella sera si sarebbe ribellato a tutte le portate del banchetto e anche al vino, ma quando aveva provato a tirarsi indietro aveva subito colto uno strano bagliore negli occhi scuri del Pandolfaccio e così aveva preferito assecondarlo, prima di trovarsi un pugnale tra le scapole.

Quella mattina, poi, per discutere più in libertà, Malatesta l'aveva portato fuori a caccia e il Popolano aveva dovuto per forza cavalcare e darsi da fare, sempre per non irritare il suo ospite.

Quando erano stati in mezzo ai boschi della riserva di caccia privata di Pandolfo, Giovanni aveva azzardato, dopo una serie di panegirici molto vaghi, una domanda molto precisa: “Vi schierete con Venezia, in caso di guerra?”

Il signore di Rimini aveva fatto un sorrisetto scaltro e poi aveva teso l'arco, e, prima di colpire una beccaccia posata su un ramo, aveva risposto: “Il papa ha dieci anime, Medici. Questa terra è di quel diavolo d'un Borja. E quel diavolo di un Borja adesso ha deciso che Venezia è degna della sua fiducia. Vi basta, come dichiarazione?”

Giovanni aveva capito benissimo quello che il riminese intendeva e ogni altro approfondimento a riguardo gli era parso superfluo, così aveva accantonato l'argomento per passare a cose di stampo prettamente economico.

L'unica cortesia su cui si era permesso di tirarsi indietro era stata quella offerta alla conclusione di quella giornata.

Per fortuna, Pandolfo sembrava aver preso quel suo rifiuto di buonagrazia e, anche a costo di passare per patetico, Giovanni aveva assecondato le battutacce del riminese e si era ritirato nella sua stanza.

Dopo il banchetto, infatti, quando ormai tutti i punti di discussione erano stati toccati e, bene o male, approfonditi, Malatesta aveva invitato il fiorentino a seguirlo ai piano superiori del palazzo.

Aveva congedato la moglie Violante, che si era ritirata con capo chino e sguardo scuro senza nemmeno salutare il Popolano e già quel dettaglio aveva dato un indizio al fiorentino.

Con una certa tensione in corpo, Giovanni l'aveva seguito, chiedendosi se il suo intuito avesse ragione.

Pandolfo lo aveva scortato fino a una serie di camere che davano una nell'altra, illuminate quasi a giorno da decine di candele e arricchite da mobilia d'eccellenza e da baldacchini drappeggiati in damascato e oro.

“Scegliete quella che preferite. Siete mio ospite.” lo invitò Pandolfo, mostrandogli con la mano aperta una schiera di giovani donne in abiti provocanti che si erano appena profilate davanti a loro.

Il fiorentino aveva guardato tutte le ragazze che aveva di fronte e poi si era fatto rosso in viso e aveva provato a declinare: “Siete molto generoso, ma io non...”

Malatesta, facendosi passare da una delle donne un calice pieno fino all'orlo, aveva messo il braccio attorno alle spalle del Popolano e gli aveva detto a voce alta, contro l'orecchio: “Non mi direte che non ce la fate, eh...”

Sollevato per quell'appiglio che il Malatesta gli stava involontariamente offerto, Giovanni si era finto molto imbarazzato e aveva ammesso: “Devo aver ecceduto con il vino...”

In realtà aver bevuto tanto, dopo il lungo periodo passato a non superare mai il mezzo bicchiere a pasto, aveva risvegliato nel Popolano anche il desiderio, tanto che in altri tempi avrebbe accettato senza troppi ripensamenti il dono generoso del suo ospite.

Tuttavia sentiva due forze diverse trattenerlo, quella sera. In primo luogo, aveva paura che in qualche modo astruso e malato quella fosse una trappola e che il Malatesta volesse, per così dire, divertirsi, prima di accopparlo. In secondo luogo, nella sua mente c'era posto solo per una donna e l'idea di accettarne un'altra, anche se solo per una notte, lo disgustava.

“Se volete provare comunque, non c'è fretta...” aveva accennato magnanimo Pandolfo, mettendosi a ridere.

Il fiorentino disse che aspettare non sarebbe servito a nulla, così il riminese, più facilmente del previsto, lo aveva lasciato andare e aveva esclamato: “Meglio per me, così avrò una scelta più vasta!” e, con una risata sguaiata, aveva augurato la buonanotte al Popolano, soggiungendo: “Se però cambiate idea, conoscete la strada! Queste meraviglie sono pagate per restare fino all'alba.”

Così Giovanni era riuscito a scappare nella sua camera e a buttarsi sul letto, per riprendere fiato e rimettere in ordine le idee.

Adesso che era fermo e lontano dalla confusione della corte di Pandolfo Malatesta e di sua moglie Violante, il Popolano vedeva Rimini con più disincanto. E vedeva anche la propria condizione in modo più critico.

Sperando di non star male proprio quella notte, e nemmeno i giorni seguenti, il fiorentino si cavò le scarpe, si tolse il giustacuore e si slegò i lacci delle brache che, vuoi per i bagordi, vuoi per tutto il resto, sembravano essersi fatti troppo stretti.

Sopraffatto dal caldo si levò anche il camicione e poi si rimise sdraiato, vinto dal pulsare insopportabile del ginocchio e della caviglia. Bestemmiò piano tra sé e si rigirò tra le lenzuola.

Si massaggiò l'articolazione calda e dolorante e il tormento parve quietarsi per un po'. Respirando superficialmente, come se ogni inspirazione troppo forte potesse far tornare il male alla gamba, Giovanni cercò di distrarsi e per farlo non trovò espediente migliore che ripensare alla Tigre di Forlì, ai suoi meravigliosi capelli, biondi e ondulati, e al suo fisico dalla prorompente bellezza.

 

Virginio Orsini guardava con attenzione oltre il confine delle mura di Atella. Conquistare la città e asserragliarvisi, in fondo, non era stato difficile.

Lui e il Montpensier avevano portato a casa la giornata in fretta e senza grosse perdite e questo sarebbe stato meraviglioso, se non fosse stato per l'arrivo quasi subitaneo delle truppe di Cordoba, dei veneziani e anche dei pontifici.

“Siamo circondati...” sbuffò Virginio, voltando le spalle agli accampamenti che andavano via via allestendosi attorno ad Atella: “Di questo passo resteremo senza viveri e ci cattureranno per fame.”

Il Montpensier stava immobile, un dito davanti alle labbra e gli occhi persi in una smorfia di concentrazione.

'Ma che avrà da pensare, questo idiota...' disse tra sé l'Orsini, fissandolo con i suoi occhietti azzurri, senza capire se l'altro avesse afferrato o meno la gravità della situazione in cui si trovavano.

“I rinforzi arriveranno.” fece a un certo punto il Montpensier, risolvendo con cieco ottimismo il grande enigma: “Ci basta attendere ancora qualche giorno. Abbiamo mandato le staffette più veloci che avevamo. Arriveranno i rinforzi e sbaraglieremo questi papisti e questi mangiagatti...”

Virginio sospirò, comprendendo che sarebbe stato inutile ogni tentativo di farlo ragionare, almeno per quella sera.

Gli diede una breve pacca sulla spalla e disse: “Sì, arriveranno i rinforzi.” e poi gli passò accanto e andò a ritirarsi nella stanza del palazzo del Consiglio che aveva scelto per sé.

 

La corte di Alessandro VI languiva nel caldo del giugno romano. I porporati vagavano per le sale con passo lento e cadenzato e le dame e i servi volteggiavano loro attorno come tante api in mezzo ai fiori.

Malgrado i venti di guerra che spiravano da ogni angolo, la curia romana sembrava immobile, immersa nella eterea canicola dell'estate, come se non ci fosse nulla di vui preoccuparsi.

L'unico ad apparire inquieto e senza pace era Sua Santità.

“Quella dannata donna... Permettersi di scrivere certe cose a me! Al padre della Cristianità!” sbottò Rodrigo, facendo sobbalzare i due paggi che gli stavano accanto.

Con le sue grosse e robuste mani fece a pezzi la lettera di rimostranze appena arrivata da Bracciano e firmata da quell'insolente di Bartolomea Orsini.

Che la sua famiglia fosse ormai passata in massa e in modo definitivo dalla parte dei francesi non era, purtroppo, una novità per Alessandro VI. Però, sentirsi dire che il castello di Bracciano non sarebbe mai più stato messo in mano a un diavolo con l'abito da papa era davvero troppo.

Mentre i pezzetti della lettera volteggiavano nella stagnante aria del salone vaticano, Rodrigo lasciò il suo scranno e cominciò a camminare avanti e indietro, voltandosi di scatto di quando in quando e borbottando tra sé frasi e imprecazioni in spagnolo e in italiano.

Aveva capito già dalla discesa di Carlo VIII che la curia altro non era se non un insieme gorgogliante di teste, pronte a saltare sul collo giusto appena prima che la scure calasse su quello sbagliato.

Ecco perché aveva deciso di confidare davvero solamente sui suoi figli. Juan, Jofré, la sua amatissima Lucrecia, perfino Cesare, tutti loro erano meglio del più illustre degli Orsini o dei Colonna o di chi diavolo altro ci fosse lì a Roma.

“Ci sono notizie di mio figlio Juan?” chiese Rodrigo, dopo aver lasciato il salone ed essersi recato dal capo delle guardie del palazzo.

“Non lo aspettiamo che tra qualche settimana...” rispose l'uomo, che da tempo si sentiva porgere quella domanda quasi ogni giorno.

Il papa batté il piede in terra e ringraziò con un cenno secco del capo, prima di riprendere il suo andirivieni.

Juan doveva tornare dalla Spagna e doveva farlo al più presto. C'era bisogno delle sue abilità militari. Se Rodrigo voleva sperare di sterminare uno dopo l'altro tutti quei maledetti baroni romani, non avrebbe potuto contare su nessun altro se non sul suo figlio preferito.

“Guardatelo. Prima vuole la guerra, poi non la vuole, poi la vuole di nuovo. Fa sposare la figlia e poi dà di matto quando il marito la vuole portare a casa sua. Manda un figlio in Spagna e poi lo richiama a Roma. Ne fa un altro Cardinale per averlo vicino e poi si infastidisce ogni volta che se lo trova davanti. Seduce tutte le donne che gli capitano a tiro, ma poi continua a tornare dalla Cattanei... Par proprio vero, quello che dicono su di lui...” bisbigliò Ascanio Sforza e Raffaele Sansoni Riario, quando Alessandro VI passò loro accanto senza nemmeno vederli.

Il Cardinale Sansoni Riario guardò l'altro interrogativo e chiese: “Che intendete di preciso? Si dicono molte cose, su Sua Santità...”

Ascanio, che pure dalla sua lunga carcerazione si era fatto molto cauto nel parlar male del Borja, sollevò il mento, insolente, ed esclamò: “Che il papa ha dieci anime, ecco cosa!”

 

Ermes Sforza passò gli occhi placidi sul volto dello zio e poi su quello di Beatrice. Non riusciva neppure lui a capire chi tra loro due stesse decidendo e chi stesse semplicemente eseguendo gli ordini.

“Allora? Che cosa ne pensate, voi?” fece il Moro, apostrofando il cancelliere Calco.

Giugno e Milano non andavano d'accordo. Dal fiume salivano torme di zanzare e le campagne attorno alla città stavano risentendo di nuovi accessi malarici e dell'umidità che andava a peggiorare ogni genere di malattia.

Tra i sudditi del Ducato, oltre alle bisce d'acqua dolce, che si erano moltiplicate a dismisura, serpeggiava anche l'insoddisfazione profonda legata all'aumento delle tasse in vista di eventuali nuovi sforzi bellici.

E in tutto questo, i Duchi di Milano ad altro non sembravano pensare se non alle sorti di Bianca Giovanna.

“Farla giungere alla casa di suo marito – fece Calco, con cautela, cercando un muto sostegno in Ermes, che in tutta risposta ricambiò lo sguardo con la sua solita imperscrutabile espressione annoiata – sarebbe giusto, ormai. Madonna Bianca Giovanna ha quattordici anni, è sposata a messer Sanseverino da mesi. Non trovo irragionevole concludere una volta per tutte le pratiche matrimoniali.”

“Scriverò a sua madre Bernardina.” concluse allora Ludovico, spazientendosi: “In fondo spetta anche a lei decidere delle sorti di sua figlia.”

“Quando mai?” lo contraddisse Beatrice, i cui occhi appuntiti valutavano il velo di sudore sulla fronte del marito come un segno, più che del caldo, della difficoltà incontrata nel prendere quella decisione: “Sua madre non ha mai voluto perdere nemmeno un'ora, per pensare al futuro di Bianca Giovanna.”

Il Moro masticò l'aria e poi convenne: “In effetti...”

Beatrice, che voleva a tutti i costi vederci chiaro nei maneggi di Francesco e Francesca Dal Verme, non intravedeva più altra soluzione se non spedire l'amica a Bobbio, in modo che potesse scrutare coi propri occhi la trappola in cui il Sanseverino stava cadendo senza nemmeno accorgersene.

Ovviamente anche lei era in ansia, al pensiero di lasciare la sua prediletta in mano a quella gente, ma conosceva Bianca Giovanna a sufficienza e sapeva che era sveglia e che non si sarebbe fatta fregare in nessun modo.

“E allora è deciso.” concluse la Duchessa, alzandosi dalla sedia su cui si era seduta per far riposare le caviglie: “Bianca Giovanna verrà trasdotta al marito prima della fine del mese.”

Sentendo di nuovo il peso alle gambe che con quel caldo aveva fin da subito caratterizzato quella nuova gravidanza, Beatrice salutò Ermes e Calco con freddezza e poi disse al marito che si sarebbe ritirata a riposare fino all'ora di cena.

Il cancelliere lasciò la stanza per secondo. Batté una mano sulla spalla del Moro, in segno di incoraggiamento, e poi si permise di dire che forse la Duchessa aveva ragione. In fondo, Bianca Giovanna sembrava felice di andare a vivere in uno dei suoi nuovi possedimenti.

Rimasto solo con Ermes, Ludovico lo fissò in cagnesco: “Potevi dire qualcosa, almeno tu.”

“Io credo che vostra moglie abbia ragione.” fece il nipote, e poi, dopo un respiro un po' rumoroso, espresse, forse per la prima volta, una sua opinione realmente personale: “Non so cosa vi spinga davvero a voler mandare Bianca Giovanna a Bobbio, ma io la manderei solo per vedere che cosa stanno combinando i due figli di Pietro Dal Verme.”

Il Moro restò sorpreso dall'acume di Ermes, che aveva colto l'esatto motivo della prossima partenza di Bianca Giovanna, ma questi non diede mostra di notare la sua espressione stupita, anzi, mentre lasciava la sala, aggiunse: “Avete sbagliato a permettere a quei due di prendere il cognome del padre. Nemmeno Pietro li aveva riconosciuti, nemmeno lui sapeva di averli per figli. Come sempre, avete peccato di arroganza. Non tutti hanno paura di voi.”

Ludovico restò imbambolato sul suo scranno per qualche minuto. Dalle finestre aperte entrava l'odore pesante dello stallatico e dei campi aridi.

Il Duca si alzò e, lentamente, andò a guardare fuori. Vide lo sconfinato orizzonte che pareva tremolare alla calura di quell'ora pomeridiana. Si sentì mancare il fiato. Se perfino il suo immutabile nipote Ermes si era spinto a dirgli una cosa del genere, forse aveva davvero passato il segno.

Era il padrone di una terra che lo odiava. Aveva parenti che lo odiavano. I suoi stessi cortigiani lo odiavano. Forse perfino sua moglie, a volte, lo odiava.

Allargandosi il colletto del giubbetto di raso rosso, Ludovico lasciò il salottino con il volto paonazzo e gli occhi sgranati come se avesse visto un fantasma.

Era confuso e non sapeva cosa fare o come muoversi. Per la prima volta vedeva la fragilità del castello di carte che aveva allestito ed era terrorizzato.

Stava raggiungendo a fatica la sala della palla, sperando che giocarvi un po', malgrado la temperatura proibitiva, lo avrebbe fatto distrarre, quando incontrò un nugolo di dame di compagnia della moglie che attraversava il porticato ridendo e chiacchierando.

Incrociò lo sguardo della più anziana tra loro, la bella Lucrezia. Bastò quella rapida occhiata per prendere un tacito e mutuo accordo.

Quando Ludovico arrivò nella sua stanza personale, pochi minuti dopo, vi trovò, come da attese, la Crivelli e, senza dire una parola, sfogò su lei il panico e le insicurezze che lo avevano preso d'assalto.

 
   
 
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