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Autore: Carme93    11/06/2017    1 recensioni
Anno 2021.
I Dodici della Profezia si preparano ad adempiere al loro destino, mentre la comunità magica piomba nel caos; ma è il tempo anche di affrontare i problemi e le discriminazioni sociali ignorate per secoli. E ancora una volta toccherà ai ragazzi far aprire gli occhi agli adulti. Ragazzi che a loro volta sono alle prese con i problemi tipici dell'adolescenza e della crescita.
Inoltre si ritroveranno a interagire anche con studenti stranieri e quindi con civiltà e realtà completamente diverse dalla loro. Questo li aiuterà a crescere, ma anche a trovare una soluzione per i loro problemi.
Questa fan fiction è la continuazione de "La maledizione del Torneo Tremaghi" e de "L'ombra del passato", la loro lettura non è obbligatoria ma consigliata.
Genere: Fluff, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Albus Severus Potter, Famiglia Potter, Famiglia Weasley, James Sirius Potter, Nuova generazione di streghe e maghi | Coppie: Harry/Ginny, Ron/Hermione, Rose/Scorpius, Teddy/Victorie
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nuova generazione
Capitoli:
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Disclaimer: i personaggi di questa storia appartengono a J.K. Rowling, come anche tutto il fantastico mondo di Harry Potter. Questa storia non ha scopo di lucro.
 
Capitolo II
Sacrifici
 
È stata una nottata lunga, va’ a riposare. I prossimi giorni saranno un inferno.
Era dalla notte precedente che quelle parole gli rimbombavano in testa. Non riusciva a dimenticarle. Non dormiva da quella maledetta notte. Quando era rientrato alle tre, aveva trovato i suoi genitori ad attenderlo. Non perché fossero preoccupati per lui. Oh, no. Assolutamente no. Aspettavano di sapere quanti dei loro amici erano riusciti a scappare da Azkaban. Aveva borbottato qualcosa sul fatto che ci erano riusciti e che due Auror avevano perso la vita. Prima di chiudersi alle spalle la porta della sua stanza, aveva sentito le loro urla di giubilo e lo stappo di alcune bottiglie. Non era più uscito dalla sua camera e aveva scacciato in malo modo gli elfi domestici che avevano tentato di portargli da mangiare e verificare come stesse. I suoi genitori erano stati troppo occupati per farlo di persona, probabilmente avevano già preso parte a qualche simpatica rimpatriata.
Quella notte aveva capito di non poter continuare a fare il doppiogioco. Erano mesi che pensava che i suoi compagni avessero capito che la spia era lui: lo trattavano freddamente e con distacco. Il Capitano, però, non aveva proferito una sola parola. Era dalla festa di Natale che aspettava con terrore di essere convocato nel suo ufficio, ma non era accaduto. E la sera precedente si era premurato di mandarlo a casa a riposare, probabilmente non era riuscito a nascondere il suo turbamento. Non che ci avesse provato, gli mancavano le forze. Il Capitano credeva nella sua innocenza? Il nodo allo stomaco si strinse ancor di più: come poteva vivere con un simile peso sulla coscienza? Soprattutto con la consapevolezza che quella notte sarebbe dovuto morire e per mano di uno degli amici di suo padre. Invece Gregory Carter l’aveva spinto di lato, beccandosi la sua maledizione. In quel momento ogni sua certezza era andata a farsi strabenedire. Suo padre non aveva fatto altro che ripetergli che considerati i suoi natali e l’attuale situazione l’avrebbero allontanato molto presto. Non l’aveva fatto nessuno, probabilmente per ordine del Capitano; ma salvargli la vita era tutta un’altra cosa. Se gli amici di suo padre avessero solo sospettato che li stava tradendo, non avrebbero esitato un attimo a eliminarlo. In questo caso, però, non correvano alcun rischio: l’avevano costretto a stringere il Voto Infrangibile e se avesse pronunciato una sola parola di troppo, sarebbe morto all’instante.
Si prese la testa tra le mani. Si sentiva perso e impotente come non mai. L’unica volta in cui era riuscito a imporsi sul padre era stata quando si era inscritto all’Accademia Auror, ma solo perché l’aveva fatto di nascosto e se l’avesse costretto ad abbandonare sarebbe potuto scoppiare uno scandalo. I Purosangue e le loro idee non erano ben visti dopo la sconfitta di Colui-Che-Non-Doveva-Essere-Nominato. Suo padre l’aveva odiato in quel momento, ma si era arreso. L’avvento di Bellatrix Selwyn gli aveva dato l’occasione di sfruttare la scelta del figlio. E così aveva rovinato l’unica cosa che si era costruito con le sue mani e grazie alla quale si sentiva finalmente libero dal giogo famigliare.
Ma i suoi compagni e i suoi superiori erano stati una famiglia per lui molto di più di quella vera. E lui li stava tradendo. Le indagini degli Auror era ferme perché mancavano le prove per colpire coloro che facevano parte del Consiglio dei Purosangue dietro al quale ormai si nascondeva la Selwyn.
Non era mai stato felice. Mai. Anche quando era a Scuola i suoi avevano trovato il modo di manipolare le sue amicizie. Nel momento in cui aveva tentato di svicolarsi da Antonin Dolohov, comprendendo che era una pessima compagnia, per avvicinarsi a Teddy Lupin, con cui alla fine in Accademia era riuscito a stringere una sincera amicizia, l’avevano costretto a ritornare su suoi passi. Era stato un fifone per ventitré anni, ma adesso doveva tirare fuori il coraggio.
Se lui non era destinato a essere felice, lo sarebbero stati gli altri. Lo sarebbe stata sua sorella.
Come in preda a una strana frenesia cercò nei cassetti una fialetta di vetro per le pozioni. Dopo aver preso fiato, si puntò la bacchetta alla tempia e ne estrasse dei lunghi fili argentati, che poi depositò nella fiala. Un giorno, quando avrebbe avuto l’età giusta, anche sua sorella avrebbe compreso la sua scelta.
Impiegò più tempo di quanto avrebbe voluto nello scrivere due lettere. Non mancava molto all’alba e lui doveva uscire da quella casa molto prima. Non aveva mai imparato a mentire a suo padre. Per quanto ci avesse provato, il solo suo sguardo riusciva a mandarlo in confusione e terrorizzarlo.
Il maniero era terribilmente tetro e silenzioso a quell’ora. Fortunatamente ne conosceva i corridoi a memoria, cossicchè non impiegò che qualche minuto a raggiungere la camera della sorella. Vi entrò senza fare il minimo rumore. Vedendola rannicchiata sotto un lenzuolo leggero, gli si strinse il cuore. Voleva realmente caricarla di un peso simile? Aveva a malapena dodici anni. Scacciò quei pensieri e la scosse. Sarebbe stata meglio, lo faceva anche per lei. Soprattutto per lei.
«Eddie?» mormorò la ragazzina assonnata.
«Sarah, svegliati. Devo parlarti di una cosa importante» disse il ragazzo scuotendola di nuovo. Alla fine Sarah si sedette sul letto e lo fissò spaventata.
«Che succede?».
«Devo andare».
«Hai una ronda notturna?» chiese poco convinta.
«Non proprio. Ma devo fare una cosa per gli Auror, in effetti. Ho poco tempo, però. Ascoltami bene». Attese che la sorellina annuisse e continuò: «Prendi questa busta. Non farla assolutamente vedere ai nostri genitori. Appena loro usciranno domani mattina, vai al Ministero. Devi consegnare la busta al Capitano Potter e a nessun altro. Al Capitano in persona, capito?».
Sarah era confusa. «No. Perché devo farlo io? Tu dove vai?».
Il fatto che fosse una Corvonero e nient’affatto stupida non rendeva per nulla facile realizzare il suo piano. «Te l’ho detto. Devo fare una cosa. Una cosa fondamentale. Tu fai come ti ho detto o la mia missione sarà vana. Capisci?».
«Sì, ma se nostra madre o…».
«Non devi dire nulla. Tanto lo sappiamo entrambi: non verranno a chiedere nulla a te, non verranno a dirti che stanno uscendo. I nostri non sono mai stati quel tipo di genitori. Vuoi bene a zio Laurence, vero?».
«Non lo so… Non lo vediamo mai… Nostro padre lo odia, non lo sai? Non ti aveva proibito di parlarci?».
«Sì, ma zio Laurence è un Auror più anziano di me e quindi devo rispondere anche ai suoi ordini. Non ha più importanza quello che i nostri genitori ci hanno detto, è chiaro?».
Sarah lo fissò terrorizzata, ma annuì. «Mi stai dicendo di andare dallo zio dopo?».
«Sì, ma probabilmente lo troverai già al Quartier Generale o comunque il Capitano Potter lo farà chiamare. Hai capito tutto ciò che ti ho detto?».
«Sì, ma tu quando torni?».
Eddie non rispose, l’abbracciò stretta e sussurrò: «Ti voglio bene. Te ne vorrò sempre».
*
Dorcas sbadigliò e si sedette al tavolo della cucina. La casa era molto silenziosa. Gettò un’occhiata all’orologio che segnava sì e no le dieci. I suoi fratelli ancora dormivano: ecco perché c’era silenzio. La madre aveva lasciato la tavola apparecchiata per la colazione in modo da non dover accorrere quando si fossero decisi ad alzarsi dal letto. Si riempì la tazza di latte e vi bagnò i biscotti. Scorse rapidamente le lettere arrivate quella mattina e prese l’unica indirizzata a lei. Fece una smorfia: era delle gemelle Danielson, sue compagne di Casa e di classe. La solita festa di compleanno in cui sbandieravano ai quattro venti la loro ricchezza e il lavoro prestigioso dei loro genitori. La sua attenzione ritornò quasi subito ai biscotti al cioccolato. La invitavano solo perché erano compagne di Dormitorio, in caso contrario l’avrebbero esclusa come facevano con molti altri.
«Buongiorno, tesoro».
«Nonna! Mi hai fatto saltare!» borbottò.
«Esagerata».
Dorcas evitò di commentare e la fissò mentre scorreva le lettere, come aveva fatto lei poco prima.
«Sono tutte per papà» l’avvertì, mentre beveva un altro sorso di latte. La donna, però, non la stava ascoltando e fissava con attenzione una delle buste. La intascò.
Dorcas strabuzzò gli occhi chiedendosi se stesse ancora dormendo. Era sicurissima che tutte le lettere fossero indirizzate al padre. Si pizzicò, ma era sveglia. Completamente.
«Nonna, ma quella è di papà!».
Joanne Fenwick si mordicchiò il labbro nervosamente. «Tesoro mio, vuoi che io e tuo padre litighiamo?».
«Certo che no. Ma la lettera è sua! Non gliela puoi prendere di nascosto!».
«Ti assicuro che c’è un buon motivo. Ti devi fidare. Al momento giusto, parlerò con Gabriel».
«Che cosa gli stai nascondendo?» insistette Dorcas.
«Abbi pazienza, tesoro… A te chi ti ha scritto?».
Dorcas fissò l’invito delle gemelle che indicava la nonna e scrollò le spalle: «Le gemelle Danielson mi hanno invitato alla loro festa di compleanno».
«È una bella notizia no?».
Va bene che voleva cambiare argomento, ma seriamente che cosa c’era di bello? «Tanto mamma e papà non mi daranno il permesso. Dai nonna, lo sai come la pensa papà. E poi lui non sopporta il suo collega Erik Danielson. In più sta facendo gli straordinari e ha i nervi a fior di pelle. Non è proprio saggio discutere con lui».
«No, eh?» commentò la nonna, ma per un attimo a Dorcas sembrò che stesse pensando più alla sua situazione che alla festa. Chissà che cosa stava nascondendo a suo figlio. Erano sempre andati abbastanza d’accordo. «Posso provare io a parlargli. Sono sicura di poterlo convincere!».
«Non credo che sia una buona idea, nonna. Comunque grazie» borbottò Dorcas. Insomma stava nascondendo qualcosa di grosso a suo padre e voleva aiutare lei? Non molto saggio e lei era un’ex-Corvonero.
*
«Non così in fretta, ragazzina. Dove credi di andare?».
Sarah si era illusa di poter insinuarsi all’interno del Quartier del Generale degli Auror senza essere vista, ma decisamente era stata troppo ingenua. Non aveva neanche mosso un passo all’interno che l’avevano fermata. Sollevò gli occhi sull’uomo che l’aveva apostrofata e per un attimo rimase immobile incapace di proferir parola.
«Ti sei persa?» insistette l’Auror.
«No. I-io h-ho bisogno di parlare con il Capitano Potter» mormorò timorosa.
«Il Capitano è occupato. Che cosa vuoi da lui?».
Sarah lo fissò. Ricordava perfettamente le istruzioni di suo fratello. «No, grazie signore. Devo parlare con il Capitano. Devo consegnargli una lettera».
«Gliela consegnerò io» ribatté l’uomo inflessibile. Sul suo volto non scorgeva alcun sentimento.
«Devo consegnarla a lui personalmente» ripeté.
«Chi ti manda?».
La ragazzina rifletté e decise di dire la verità: suo fratello non le aveva detto di tener segreto il suo nome. «Mio fratello. Edward Burke».
Finalmente l’Auror ebbe una reazione, si spostò verso uno dei cunicoli e chiamò qualcuno. Pochi secondi dopo un uomo alto, che dimostrava più di cinquanta anni, si palesò e scrutò Sarah, che deglutì a vuoto un paio di volte.
«Hai una lettera per il Capitano da Edward?».
«Sì, signore» mormorò.
«Vieni» disse dopo aver riflettuto. Sarah obbedì. «Signora Matthews, ho bisogno di vedere il Capitano» annunciò l’Auror a una signora china su una pila di pergamene.
«Un attimo solo, signor Lewis». La donna bussò alla porta dell’ufficio, l’unico che non si trovava in un cunicolo, fece capolino all’interno con la testa e solo dopo disse: «Vi aspetta».
Lewis fece un cenno di ringraziamento con la testa.
«Harry».
«Rick, che succede? Novità?» chiese Harry Potter, seduto a una scrivania ingombra di carte. La stanza era piccola e spoglia. In realtà Sarah si aspettava un ambiente più sfarzoso.
Sarah non l’aveva mai visto così da vicino: era normale, una persona normale. Quando questi le sorrise, si accorse che lo stava fissando con la bocca aperta. La richiuse e abbassò lo sguardo imbarazzata.
«Allora signorina, che cosa devi consegnarmi?» le chiese gentilmente.
«Mio fratello ha detto di darla solo a lei» mormorò tirando fuori la lettera da sotto la felpa. Solo a mattina inoltrata la madre era uscita e lei era riuscita a sgattaiolare via.
Harry prese la busta sorpreso e l’aprì. Il messaggio non era molto lungo, ma la pergamena era macchiata di inchiostro come se chi l’aveva scritta non fosse riuscito a trattenere le lacrime.
 
Maniero dei Burke
Wiltshire
Caro Capitano Potter,
è molto difficile per me rivelarle quanto segue, ma non posso più stare a guardare. Sono io la spia. Mi dispiace, per quello che può valere a questo punto. Non potevo fare altrimenti: mio padre mi ha costretto a stringere un Voto Infrangibile con lui. Mi sono stancato di essere la sua marionetta, per questo motivo le consegno i miei ricordi. Sono sicuro che ne fare l’uso migliore.
Ho tradito la fiducia dei miei compagni e la sua, ma le assicuro che non sono un ingrato. Non ho il diritto di chiedere nulla, ma mi appello al suo senso di giustizia e le chiedo di proteggere mia sorella Sarah dalla valanga che inevitabilmente colpirà la mia famiglia. È solo una bambina.
La seconda lettera nella busta è per mio zio Laurence, la prego di consegnargliela.
Grazie. Di tutto.
Edward Burke
 
Harry si tolse gli occhiali e si mise le mani in faccia. Quella era una lettera d’addio. Aveva miseramente fallito.
«Harry?» lo chiamò preoccupato Rick.
«Manda un gruppo di ragazzi a cercare Edward» sussurrò. «Dopo torna qui insieme a Ron, Adrian, Dora, Gabriel e Laurence Burke… ah, forse è meglio che avverti anche la Ministra».
«Perché dovete cercare mio fratello?» mormorò Sarah, mentre l’Auror si affrettava a obbedire all’ordine.
Harry la fissò dritta negli occhi, ma comprese di non essere in grado di farlo a lungo. Distolse lo sguardo e rispose: «È in pericolo». Era una bugia. Sicuramente era troppo tardi.
«Harry!? Che diavolo succede?» sbottò Ron fiondandosi nell’ufficio. Il Capitano non rispose, ma evocò delle sedie. Furono immediatamente occupate dagli Auror convocati. Il più confuso era sicuramente Laurence Burke: «Sarah? Che fai qui?».
La ragazzina lo fissò incerta e poi sussurrò: «Eddie, ha detto che posso stare un po’ con te. Non mi ha detto dove è andato però».
L’Auror incrociò lo sguardo grave di Harry e impallidì. «Certo che puoi stare con me. Perché non dai un’occhiata al mio cunicolo?».
«Posso vedere quello di Eddie?».
«Certo che puoi, Sarah» intervenne Harry. «Laurence, dì alla signora Matthews di farle fare un giro di tutto il Quartier Generale e di farle compagnia».
In attesa del ritorno di Laurence tirò fuori la fiala con i ricordi dalla busta e se la passò nervosamente da una mano all’altra. I suoi uomini lo fissavano tesi e curiosi. Infine, sedutosi Laurence e lanciati alcuni incantesimi sulla porta in modo che nessuno potesse sentire nulla, iniziò: «Laurence, questa lettera è per te. Da parte di Edward. Questa, invece, l’ha mandata a me». La breve missiva passò dalle mani di tutti. Diede loro il tempo di metabolizzare e poi riprese: «I ricordi sono questi» mormorò mostrando la fiala. «Che facciamo? Non conosciamo il giuramento nei minimi dettagli, ma sono convinto che solo quando noi vedremo i ricordi si spezzerà».
Tutti si voltarono verso Laurence Burke, che si era alzato all’improvviso come incapace di star fermo. Quella fiala conteneva risposte a molte loro domande. In caso contrario Edward non gliel’avrebbe inviata.
«No! Non mi chiedete questo. Non so se è ancora vivo o…» deglutì vistosamente. Era fuori di sé. «Capitano…» cominciò quasi volesse pregarlo.
«Vai a casa Laurence. Porta Sarah con te. Appena sapremo qualcosa, te lo faremo sapere».
«Che intenzioni hai, Harry?» chiese Gabriel non appena il collega fu uscito.
«Aspettiamo. O qualcuno di voi ha il coraggio di condannare un ragazzo? Forse possiamo ancora salvarlo da sé stesso».
«Ma potrebbero esserci delle informazioni fondamentali!» obiettò Ron.
«Prego, fai tu» disse Harry porgendogli la fiala senza smettere di fissarlo dritto negli occhi. Ron distolse lo sguardo e non la prese.
*
«Brian?» biascicò Gregory Carter con la voce impastata.
«Papà!» strillò il ragazzino. Brian vedendolo sveglio e vigile si sentì scivolare di dosso un peso enorme, che non si era accorto nemmeno di avere. Maxi, il suo padrino, lo riprese: «Non urlare».
«Mi scoppia la testa, in effetti» borbottò Gregory. «Maxi, io… cos’è successo?».
Brian lo fissò spaventato: non ricordava? Ma l’aveva riconosciuto! E la maledizione non l’aveva colpito alla testa ma all’addome. Com’era possibile? La medimaga non aveva detto che sarebbe potuto accadere. Maxi, però, non sembrava turbato. «Avevi una promessa da mantenere» rispose laconico, accennando a Brian, che ricambiò il suo sguardo senza sapere di che stesse parlando. «Ti ho dato una mano. C’è mancato poco che venissi meno alla parola data. Per un Grifondoro sarebbe stata una tragedia, no?».
Brian vide il padre chiudere gli occhi. Aveva un’espressione amara, ma quando tentò di muoversi mugugnò dal dolore. «Ma che?» farfugliò tastandosi l’addome fasciato.
«Una nuova invenzione dei nostri cari amici. È una maledizione che crea una ferita che non può essere curata con la magia. Almeno i medimaghi non hanno trovato ancora nulla. L’unica cosa che sembra funzionare è il metodo babbano. Per fortuna negli ultimi tempi i nostri medimaghi si sono interessati alla medicina babbana» spiegò Maxi, mentre Brian, rimasto fino a quel momento ai piedi del letto, si avvicinò al padre.
«Vuoi acqua?» mormorò incerto.
«Aspetta che lo aiuto a sollevarsi» disse Maxi, Brian gli fece spazio e lo osservò con attenzione. Gregory mugugnò ancora. «Non ti lamentare» disse Maxi alzando gli occhi al cielo. «Che razza di Auror sei?».
«Che cosa mi hanno fatto?» ribatté l’altro indicando la fasciatura.
«Ti hanno messo parecchi punti», ma di fronte al suo sguardo interrogativo, spiegò: «Ti hanno ricucinato con ago e filo».
«Che cosa?» sbraitò. Brian sobbalzò e gli versò l’acqua addosso. «I Babbani sono matti?».
«Scusa» mormorò Brian terrorizzato fissando la fasciatura bagnarsi.
«Se non hanno la magia, si arrangiano in altro modo, no?» rispose Maxi sbuffando. La discussione fu interrotta da delle grida provenienti dal piano di sotto. «Devo andare. Tua figlia è super viziata. Se ti mette i piedi in testa a sei anni, non voglio sapere che cosa farà a quattordici» borbottò. «E mi raccomando», aggiunse prima di aprire la porta, «Brian deve cambiarti la fasciatura. Non fare i capricci».
Gregory sbuffò: «Non sono un bambino».
Brian dondolava e lo fissava. La sua espressione doveva riflettere il suo stato d’animo, perché il padre lo tirò in un abbraccio. Poggiò la testa sulla sua spalla e scoppiò in lacrime. Eppure credeva di essersi già sfogato a sufficienza, mentre il padre era ancora incosciente e Maxi era impegnato con la sua sorellina.
«Scusa, scusa» mormorò non riuscendo a trattenersi.
«Va tutto bene, Brian. Scusami tu…» biascicò debolmente Gregory.
Brian si costrinse a staccarsi da lui e contenere le lacrime, ma non era bravo per nulla. Si passò una mano sugli occhi e si interessò alle bende bagnate e lievemente sporche di sangue. Si morse la guancia interna e si mise a lavoro. La ferita era arrossata e non era bella da vedere, ma i punti non erano saltati fortunatamente. La disinfettò come gli aveva spiegato la medimaga e la rifasciò il più delicatamente possibile. Per tutto il tempo non proferì parola, quando finalmente alzò gli occhi del padre vide una smorfia sofferente su sul viso. «Ti ho fatto male?» chiese spaventato.
«No. Sei stato bravo» mormorò in risposta. «Potresti diventare un medimago» aggiunse provando a sorridere.
«No» ribatté turbato il ragazzino. L’ultima cosa che voleva era aver ancora a che fare con una persona ferita.
«Perché no? Te la caveresti bene con la testa che hai».
«Ho portato la cena!» annunciò Maxi entrando all’improvviso nella stanza. «Ho interrotto qualcosa?» chiese poi squadrandoli.
«Vado di là» replicò immediatamente Brian filandosela.
«Tra poco ceniamo anche noi» gli gridò dietro Maxi, ma neanche lo ascoltò. Dopo essersi chiuso alle spalle la porta della stanza, tirò un sospirò di sollievo. Come glielo spiegava a suo padre che non dormiva da più di ventiquattro ore? Aveva chiuso gli occhi per pochissimo e solo perché era stato sopraffatto dal sonno, ma si era svegliato in uno stato d’angoscia quasi peggiore di quello con cui si era addormentato. Maxi aveva portato il padre ferito a casa e lì aveva fatto andare una medimaga, per nulla contenta. Gliene era grato, vederlo con i suoi occhi non era la stessa cosa che pensarlo al San Mungo. Ciò non toglieva che fosse tutto troppo difficile. Ogni volta che chiudeva gli occhi rivedeva il sangue sulla divisa del padre. Disobbedendo a Maxi e di fronte a una medimaga basita, aveva preteso di sapere come prendersi cura di lui. Ma non l’avrebbe fatto per nessun altro. Non era egoismo. Semplicemente non avrebbe retto il peso di essere responsabile delle vite altrui. E poi non si sentiva veramente all’altezza. Era contento, però, che suo padre fosse orgoglioso dei suoi risultati scolastici. Soprattutto dopo la pessima esperienza alla scuola babbana. Recuperò il cuscino e si buttò sul letto stringendolo al petto. Appoggiò la testa al muro e osservò il cielo terso fuori dalla finestra. Mancavano ancora delle ore al tramonto, ma la sola idea lo turbò: la notte rendeva più vivide le sue paure. Nascose la testa nel cuscino. Rimase in quella posizione per un bel po’ e ignorò il richiamo di Maxi nella vana speranza che non lo costringesse a scendere al piano di sotto, ma lo conosceva abbastanza ormai da non sorprendersi quando irruppe nella sua stanza.
«Brian! Ti ho già detto che quando ti chiamo, voglio che mi rispondi!» lo rimproverò. Il ragazzino strinse più forte il cuscino, ma non alzò gli occhi su di lui. Lo sentì sospirare: «Avanti, scendi. La cena è pronta».
«Non ho fame» tentò debolmente.
«Come ti ho detto ieri sera, non mi interessa. Ti voglio di sotto. Immediatamente».
Brian non reagì subito, ma percepì nuove lacrime scendergli sulle guance. Non poteva lasciarlo in pace? Per un attimo pensò di pregarlo, poi si ricordò la sgridata che si era beccato la sera prima per lo stesso motivo. Maxi poi si era scusato per aver alzato la voce, in fondo l’aveva fatto principalmente perché anche lui era stanco e molto nervoso. Non aveva intenzione però di provocarlo di nuovo. Quando poco dopo scese in cucina trovò sia il suo padrino e sia sua sorella Sophie già seduti a tavola.
«La signora Scott ha preparato il pollo al forno con la patate. Ha detto che è il tuo piatto preferito» lo accolse Maxi.
Brian annuì e tentò di sorridere. In effetti quel piatto era una gradevole sorpresa. «Grazie» mormorò. Mangiò silenziosamente, tentando di ignorare le punzecchiature della sorellina che voleva attirare la sua attenzione. La comprendeva in fondo, per anni erano sempre stati insieme poi improvvisamente lui era partito per Hogwarts ed era sparito per mesi e ora non le stava dedicando tante attenzioni; ma proprio non ne aveva voglia. Fortunatamente Maxi intervenne distraendola. Alla fine della cena fece per sparecchiare, ma Maxi decise di usare la magia e gli fece cenno di lasciare perdere. Non aveva alcuna intenzione di andare a letto, così recuperò il manuale di Incantesimi e si mise a studiare, lasciando che il padrino si sorbisse da solo i soliti capricci della bambina che non voleva andare a letto.
«Ce l’hai fatta?» chiese quando l’uomo si gettò sul divano accanto a lui.
«Sì. Sophie è tutta vostro padre».
«Anche papà dorme?».
«Sì, ci metterà qualche giorno per recuperare le forze. Anche tu dovresti andare a letto però».
Brian lo fissò palesemente turbato. Non voleva comportarsi come una bambina piccola, ma neanche affrontare i suoi incubi.
«Che studi?».
«Sto ripetendo Incantesimi. La professoressa Shafiq ha detto che durante la prima lezione dell’anno ci farà fare una verifica su tutto il programma del primo anno. Drew pensava che lo abbia detto solo per spaventarci. Eleanor, la sorella di Margaret, però dice che secondo lei è vero».
Maxi si strinse nella spalle. «Conoscendo la mia collega ne è capacissima. Comunque non mi sembra che tu abbia testa per studiare in questi giorni».
«Non voglio pensare» ammise.
«Capisco. Però devi credermi, è tutto apposto».
«Sì, ma ho paura lo stesso di dormire».
L’uomo lo fissò con gravità per alcuni secondi. «Sei un ragazzino forte, ma se vuoi per stasera puoi prendere una Pozione Sonno Senza Sogni».
Brian lo fissò incredulo. «Sul serio?».
«Sì, ma solo per stasera. Con queste pozioni non si scherza, è chiaro?».
«Sì» disse Brian e lo abbracciò di slancio, cogliendolo di sorpresa. Era la prima volta che lo abbracciava.
Maxi sbuffò: «Quando stai male, lo devi dire. Quante volte bisogna dirtelo? Secondo te non mi sono accorto che hai trascorso la notte scorsa in bianco? I libri non sono sempre la soluzione».
«Grazie» sussurrò Brian e non si riferiva solo alla sua presenza, ma anche e soprattutto al fatto che aveva riportato suo padre a casa.
*
Harry era stanco, ma non perché non dormiva per bene dalla notte dell’evasione e nemmeno perché, naturalmente, tutta la comunità lo incolpava. No, era stanco di combattere. Aveva creduto che dopo tutto l’orrore e il dolore causati da Voldermort e dai suoi seguaci la gente si fosse stancata. Invece si era clamorosamente sbagliato. E non solo su quello. Sospirò.
«Siamo pronti» disse Gabriel prendendo posto in una delle sedie intorno alla scrivania.
«Prima di procedere, fatemi rapporto».
«Ci sono stati quindici morti. Tutti Babbani. Sono morti a causa dell’esplosione» lo informò Adrian. «Gli Obliaviatori, il Dipartimento delle Catastrofi e degli Incidenti Magici e il Comitato Scuse ai Babbani sono al lavoro».
«Non so che se ne possano fare delle nostre scuse» borbottò amaro Harry.
«Non darai le dimissioni, vero?» chiese turbato Ron. Parte della comunità magica quel pomeriggio aveva chiesto a gran voce la testa di Harry Potter.
«No. E non perché mi interessi qualcosa mantenere questo posto, ma sappiamo tutti, che chi sta spingendo non vuole nessuno di voi al mio posto. Devo proteggere la mia famiglia, non lascerei mai questo compito nelle mani di un corrotto o di un incapace. Emmanuel Vance?».
«Non lo sappiamo ancora. Si è consegnato immediatamente, è questo va al suo favore, ma ha commesso un altro omicidio davanti ai tuoi occhi» mormorò Rick.
«Ha ucciso un Mangiamorte» sputò Ron con rabbia. «E ti ha salvato la vita probabilmente. Un buon magiavvocato potrà ancora aiutarlo».
«Forse» concesse Harry versando i ricordi di Edward Burke nel Pensatoio. «Fatto sta che Azkaban ha solo esacerbato il suo desiderio di vendetta. Spero che almeno per il figlio riuscirà a mettere da parte questi sentimenti. Siete pronti?». I cinque compagni annuirono. «Bene, perché ho l’impressione che non sarà piacevole».
Fu il primo a immegersi. Fu catapultato in una stanza, la cui unica fonte di illuminazione era un raggio di luna che penetrava da un’ampia finestra. Ron, Rick, Dora, Adrian e Gabriel apparvero uno alla volta alle sue spalle. E ora non restava che aspettare. I suoi occhi si abituarono rapidamente al buio. Si trovavano in un salotto dall’aspetto austero e antico. E non era vuoto come aveva ritenuto a primo acchito. Seduto su una poltrona vi era un ragazzino, che non dimostrava più di undici anni. I suoi vestiti erano fini ed eleganti. Era Edward. Harry lo riconobbe immediatamente. Era identico al bambino, che un imbronciato Teddy gli aveva indicato alla stazione di King Cross il primo giorno di vacanze natalizie. Le vesti erano leggere, conseguentemente doveva mancare poco al suo ingresso a Hogwarts. Il bambino sembrava in attesa di qualcosa o di qualcuno. La risposta ai loro interrogativi non tardo ad arrivare.
Phineas Burke fece il suo ingresso nel salone.
«Padre!». Edward saltò dalla poltrona così velocemente da far pensare che vi fosse una molla sul cuscino. Harry strinse i pugni, sentendo borbottare e sospirare anche i suoi colleghi. Adorava essere accolto da Jamie, Al e Lily quando rientrava a casa. Ed era sicuro che fosse lo stesso per loro. Burke, invece, fissò il figlio con freddezza. Edward non apparve sorpreso. Doveva essere abituato.
«Mi è arrivata la lettera di Hogwarts» annunciò con una punta d’orgoglio.
«Che cosa ti aspettavi? Sei un Burke! Non avrei mai messo al mondo un Magonò! E se disgraziatamente fosse accaduto, non sarebbe vissuto a mie spese» ribatté brusco.
Il ricordo cambiò e si ritrovarono alla stazione di King Cross. Harry ebbe un tuffo al cuore. Quel primo settembre del 2009, c’era anche lui lì. Aveva accompagnato Teddy, ma non aveva minimamente fatto caso ai Burke. Focalizzò la sua attenzione sul ragazzino che in quel momento aveva un’espressione angosciata.
«Edward» lo chiamò con voce dura il padre. Il ragazzino gli si accostò. Ogni emozione era sparita da sul volto. Aspetta che avrebbe mai insegnato l’Occlumanzia ai suoi figli pensò Harry, già era difficile capire cosa li passasse per la testa! Ma certo a Phineas Burke non interessava. «È ora. Mi raccomando, non frequentare la feccia, finisci a Serpeverde e non mettere in nessun modo in imbarazzo la nostra famiglia. È chiaro?».
«Sì, signore».
La scena si dissolse e si riformò. Questa volta erano a Hogwarts. Edward era ancora piccolo, ma sulla sua divisa scintillava un serpente argentato. Doveva essere trascorso qualche giorno dallo Smistamento. Si trovavano vicino alla serra numero uno. Con una smorfia si rese conto che i ragazzini che attendevano erano Tassorosso e Serpeverde. Non era sicuro di voler vedere, aveva la vaga impressione di conoscere già il finale. Edward era accanto a due coetanei: uno biondino e l’altro moro come lui.
«Antonin, non mi sembra il caso» mormorò Edward rivolgendosi al biondo. Sembrava spaventato. Quello doveva essere Antonin Dolohov. 
«Che cosa ti spaventa? I Tassorosso?» ribatté quello con arroganza.
«No, no figurati. Ma vi ricordo che il professor Paciock è il Direttore di Grifondoro… insomma vorrà solo la scusa per prendersela con noi, no?». Harry era sicurissimo che Neville non l’avrebbe mai fatto.
«È vero» mormorò l’altro ragazzo, guardando verso il castello temendo che l’insegnate apparisse da un momento all’altro.
«Abbiamo tempo» tagliò corto Dolohov muovendosi verso i Tassorosso che chiacchieravano tranquilli. Harry scorse all’istante la chioma colorata del figlioccio. «Ehi sfigati!» li apostrofò il Serpeverde attirando l’attenzione su di sé.
«Sfigati sarete voi» ribatté una ragazzina, palesemente infastidita.
«Silenzio, mezzosangue» sibilò Dolohov.
«Come osi?!» strillò la ragazzina, che per buona misura, nonostante fosse più piccola rispetto a lui, lo spintonò.
«Ferma!» intervenne Teddy. «Stai facendo il loro gioco. Ignoralo».
«Ma cosa gli hai insegnato?» borbottò Ron.
«Sono i geni di Remus, non ho alcuna responsabilità. E dovresti sapere che Andromeda… beh la conosci…».
«Ma loro ci vogliono mettere i piedi in testa!» s’intromise un’altra ragazzina.
«Dai, Charlie!» disse un altro ragazzino tirandola indietro.
«Il prof» sussurrò un’altra Tassorosso.
I Serpeverde si voltarono verso Neville che stava sopraggiungendo.
«Teddy, Enan mollate la vostra compagna. Che sta succedendo qui?».
Charlie fissò in cagnesco Dolohov, che con arroganza scrollò le spalle, ma proprio mentre Neville apriva la bocca per rimproverarlo intervenne Edward: «Nulla di importante, signore». Gettò un’occhiata ai Tassorosso, ma loro non sembravano della stessa opinione.
«Mi hanno chiamata mezzosangue!».
Harry seguì con poco interesse il battibecco che ne seguì. A suo tempo un Teddy irritato gli aveva raccontato ogni cosa. Conservava ancora la lettera.
«Non capisco chi vi credete di essere!» sbottò a un certo punto Teddy con in capelli tra il nero e il rosso. Mai un buon segno per chi lo conosceva abbastanza. E Neville lo sapeva. «Mia nonna è una Black. Io sono l’ultimo erede dei Black. Non ho nulla di meno di voi! Lo dite solo perché non sapete su cosa attaccarci».
Conosceva anche questo sia perché Teddy turbato gliel’aveva raccontato sia perché Neville gli aveva scritto esortandolo a raccontare ogni cosa a Teddy sulla famiglia della nonna. Non era più un bambino piccolo le cui domande potevano essere eluse facilmente. Ciò che non capiva è perché Edward avesse inserito anche quel ricordo. Che importanza aveva? La risposta la trovò poco dopo: l’espressione confusa del ragazzino a seguito della ramanzina di Neville.
«Ma che?» chiese Ron, mentre la scena si dissolveva di nuovo.
«Per la prima volta Edward ha avuto dubbi sugli insegnamenti paterni» rispose semplicemente.
Il ricordo si stabilizzò e si ritrovarono nell’aula di Incantesimi. Edward era più grande, dimostrava tredici-quattordici anni. Sembrava nel panico. Un pergamena con quelle che sembravano le risposte della verifica gli fu passata da dietro. Quando sorpreso si voltò trovò Teddy chino sul suo foglio e concentrato.
La scena cambiò e mostrò il ragazzino intento a spiare Teddy e i suoi amici. Questa volta erano presenti anche Corvonero e Grifondoro. Sembrava volersi avvicinare, ma alla fine non trovò il coraggio. Scribacchiò un grazie su un pezzo di pergamena e lo lanciò in testa al Metamorphomagus. Edward fuggì. La scena cambiò di nuovo. Questa volta erano di nuovo al maniero dei Burke.
«Rispondimi! È vero?» gridò Phineas Burke.
«No, padre. No» ma la sua voce tremò. Era più grande. Doveva avere quasi quindici anni.
«Bugiardo! Ti avevo avvertito che non l’avresti passata liscia se non l’avessi smessa di frequentare Lupin e i suoi amici. Feccia! Come hai potuto?! Crucio!».
Il ricordo lasciò spazio al successivo: erano di nuovo a Scuola.
«Burke, allora che pensi di fare dopo i M.A.G.O.?». Candida Macklin, all’epoca professoressa di Trasfigurazione e Direttrice di Serpeverde, fissava l’allievo con la consueta serietà.
Edward teneva gli occhi fissi sulle mani che teneva strette in grembo. «Entrerò al Ministero» mormorò con voce atona.
«Sai già in quale Dipartimento?».
«Applicazione della Legge sulla Magia».
«È quello che vuoi veramente?».
«Non lo so. Si credo di sì».
La scena cambiò. Edward era ormai grande, doveva avere almeno diciotto anni. Il suo volto era più serio e cupo. Bussò alla porta di un ufficio ed entrò. Era di nuovo quello della Macklin.
«Signor Burke, non mi aspettavo di vederla. Non dovrebbe essere nel parco con i suoi amici a festeggiare la fine della Scuola e il diploma?».
«Non ho amici» rispose lapidario. La donna assunse un’espressione contrita. «Professoressa, come si fa a diventare Auror?».
La scena si riformò.
«Un Auror! Un Auror! Come hai osato mischiarti a quella feccia? Come? Sei una delusione! Crucio!» urlò Phineas Burke.
Harry non fu l’unico a distogliere lo sguardo. Fortunatamente il ricordo fu breve.
Quello successivo, lo riconobbe immediatamente: era presente anche lui. Era molto emozionato quel giorno: Teddy nella sua divisa scarlatta aveva pronunciato il giuramento al Ministero della Magia. Remus e Dora ne sarebbero stati orgogliosissimi. Quella volta erano presenti i coniugi Burke. Solo per mantenere le apparenze, naturalmente.
La scena si dissolse e si riformò. In principio non riconobbero il posto.
«Non siamo in Inghilterra» mormorò Gabriel.
«Siamo in Germania. E scommetto che quello è il castello di Bellatrix Selwyn» replicò Rick.
«E lì ci sono Edward e suo padre. Ci siamo» disse Harry indicando due figure che avanzavano al buio verso l’ampio cancello. Li seguirono dentro il castello. I due Burke furono introdotti in una sala già affollata.
«Questo sì che è interessante» disse Rick.
Harry annuì: Edward li aveva consegnato su un piatto d’argento le teste di noti membri del Ministero della Magia. I ricordi successivi li mostrarono alcune riunioni cui il ragazzo era stato costretto a partecipare. A un certo punto si ritrovarono sul Tower Bridge, su cui più di un anno prima si erano scontrati con i Neomangiamorte, guidati ancora una volta da Rabastan Lestrange.
«Imperius» pronunciò Edward. Gli occhi di Leonard Minchum si svuotarono e poco dopo sciolse l’incantesimo antismaterializzazione che Harry gli aveva ordinato di lanciare. Poco dopo, quando ormai avevano sconfitto i Neomangiamorte, Edward liberò il collega e gli modificò la memoria. Ed ecco come Minchum era finito a farsi due mesi di guardie ad Azkaban. Altre riunioni si susseguirono sotto i loro occhi. Scambiò un’occhiata con i colleghi: avevano un sacco di informazioni.
Quando tornarono al presente nel suo ufficio trovarono Hermione. Ron le si avvicinò subito e la baciò.
«Allora?».
«Firma un mandato d’arresto per Thomas Rosier, gli Olivander, Pansy e Richard Parkinson, gli Avery, i Burke, Lucius Malfoy e Denver Green. Ragazzi preparatevi. Stanotte saremo noi a farci quattro risate» annunciò Harry. Oh, sì si sarebbe tolto qualche bella soddisfazione. E l’avrebbe fatto anche per Edward.
 
   
 
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