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Autore: Adeia Di Elferas    13/06/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Giovanni aveva lasciato Rimini di primissima mattina, dopo aver salutato Guglielmo Altodesco, ambasciatore forlivese, che aveva chiesto di poterlo vedere prima della sua partenza.

Il Popolano era riuscito a evitare perfino Pandolfo, che, a quanto aveva capito, era ancora intento a gozzovigliare nei suoi appartamenti, ma non era riuscito a sfuggire all'uomo della Leonessa.

Il forlivese lo aveva braccato fino a indurlo a fermarsi e poi lo aveva squadrato con occhio critico e dopo qualche breve frase di rito lo aveva lasciato ripartire.

Una volta tornato nelle sue stanze, Altodesco aveva preso il necessario per scrivere e aveva vergato un messaggio per la sua signora, che aveva chiesto notizie del Medici.

'Non par godere di buona salute, a mio avviso – erano state le prime parole che gli erano venute in mente – ha viso tirato, occhi distanti e risponde con vaghezza estrema alle domande, come se qualche malessere particolare lo stesse portando con la mente lontano dal discorso presente. Sì io lo reputo non in grande salute, ma forse la corte di Pandolfo Malatesta è in grado di mettere a dura prova anche gli uomini giovani come il fiorentino. Gli ho detto che gradireste sapere la data del suo ritorno, per fargli trovare un alloggio adeguato e ha riferito che non mancherà.'

Finita la lettera con le ultime novità sui maneggi del Pandolfaccio, riferiti non senza un vago gusto per il pettegolezzo da comare, Guglielmo aveva chiuso con le solite dichiarazioni di imperitura fedeltà e devozione per la Tigre di Forlì.

 

Appena fuori dal confine riminese, Giovanni smise di fingere di stare bene. Aveva dovuto indossare la maschera della cortesia e della finzione per non sollevare troppe domande in Guglielmo Altodesco, ma si era comunque accorto del suo sguardo indagatore e sospettoso.

Adesso che era rimasto solo con la sua scorta, però, il Popolano non se la sentiva più di fingersi forte più di quanto non fosse.

L'idea di cavalcare fino a Cesena e, una volta lì, di affrontare un difficile scenario politico e diplomatico era semplicemente inconcepibile, nello stato in cui si trovava. Aveva fatto lo sforzo sufficiente a sottrarsi dalla pericolosa corte del Malatesta, ma non poteva fare più di quello.

“Fermiamoci alla prima locanda...” disse, rivolgendosi al capo delle sue guardie personali.

Il soldato annuì, senza fare domande, e passò l'ordine a tutti gli altri membri della scorta.

Dopo un'oretta abbondante di strada, proprio quando ormai il fiorentino era al limite della sopportazione, trovarono lungo la via una locanda un po' dimessa, ma sufficiente per i bisogni di Giovanni.

“Andate a chiedere se hanno delle stanze. Pagherò qualsiasi cifra.” fece il Popolano, stringendo i denti, desiderando più di ogni altra cosa smontare da cavallo e coricarsi.

Quando il soldato tornò con una risposta affermativa, Giovanni non attese oltre. Lasciò la sua bestia agli armigeri, dando loro la giornata libera e poi, zoppicando molto vistosamente, andò dall'oste, versò subito qualche fiorino per la stanza per sé e per le guardie per un giorno intero, promettendo che avrebbe pagato man mano che il soggiorno si fosse protratto, poi si fece accompagnare in camera.

Appena fu nell'angusta stanzetta con un materasso imbottito di paglia come letto, ringraziò il locandiere e lo congedò.

Si coricò e si tolse con cautela le spesse brache di cuoio che aveva scelto per il viaggio.

Entrambe le ginocchia erano rosse e gonfie e così le caviglie e pure le articolazioni del piede. Il dolore era incoercibile e Giovanni non ebbe nemmeno la forza di richiamare l'oste per farsi dare del vino da bere fino a cadere stordito.

Rivoltandosi nel letto come un pesce nella rete, il Popolano strinse i denti con forza, fino a farsi male, e pianse e gridò e attese che arrivasse qualcosa, il sonno o la morte, poco importava quale delle due, a dargli sollievo.

 

L'epidemia scoppiata a Forlì, fino a quel momento, non era riuscita a penetrare le spesse mura della rocca di Ravaldino. Come impensierita dalle guardie che facevano la ronda dietro alle merlature, la febbre era rimasta confinata al di là del fossato.

La Contessa, appena era stata messa in allerta dai suoi Consiglieri più fidati, aveva chiuso il portone e sollevato il ponte, in un atteggiamento molto diverso da quello che aveva avuto nel corso della peste di qualche anno prima.

I suoi sudditi l'avevano ferita troppo e troppe volte, non prendendo subito le sue parti durante la guerra civile contro gli Orsi, coprendo e in una certa misura avvallando la congiura messa in atto da Ottaviano e continuando a sparlare di lei anche dopo, malgrado il suo pugno duro.

Se prima era stata disposta a rischiare di contrarre la peste pur di curare il suo popolo, adesso non vedeva altro obiettivo se non mettere in salvo prima di tutto la sua famiglia.

La morte di sua sorella Bianca l'aveva resa di nuovo cosciente della fragilità della vita umana e non avrebbe sopportato di perdere un altro familiare così presto, tanto meno per un motivo così stupido.

Così aveva deciso di lasciar perdere la popolazione, limitandosi a diramare qualche breve editto in merito all'igiene pubblica, nella speranza che, se non altro per paura della morte, i forlivesi seguissero le sue direttive, limitando i contagi.

Come unica eccezione, aveva mandato a Bernardi del cibo, in modo che non dovesse uscire di casa per procurarsene, e uno scritto in cui gli indicava qualche metodo più sofisticato per non essere contagiato.

Quando il ponte era stato alzato, a Caterina era dispiaciuto solo per l'ambasciatore fiorentino, che era ancora fuori città e non aveva fatto sapere più nulla di lui. Se fosse tornato in quei giorni, si sarebbe trovato chiuso fuori dalla rocca, alla mercé di una città invasa da un morbo sconosciuto e potenzialmente letale.

Altodesco, il suo ambasciatore a Rimini, le aveva scritto per dirle che lo aveva incontrato, il giorno in cui era partito alla volta di Cesena, ma non aveva saputo dire quando sarebbe tornato a Forlì.

Lo aveva descritto come un uomo dall'aspetto malaticcio e questo aveva messo un po' in allarme Caterina, che però si era ricordata della confessione del Popolano, che le aveva confidato di soffrire di gotta. Magari a Guglielmo era parso fuori forma solo perché quella mattina aveva qualche reumatismo, nulla di grave.

“Mia signora...” Cesare Feo aveva bussato contro la porta aperta della sala delle letture, dove la Contessa era immersa in un vecchio libro dalla costa rovinata che parlava delle guerre tra i romani e i i barbari della Gallia.

“Ditemi.” fece la donna, sollevando lo sguardo dal volume.

Appena alzò gli occhi, Caterina comprese che qualcosa non andava. Il castellano era pallido, aveva la fronte aggrottata e si teneva allo stipite della porta, come se fosse troppo debole per starsene in piedi da solo.

“Io... Credo di non stare troppo bene...” sussurrò l'uomo, con uno sguardo un po' confuso.

La Tigre lasciò subito il divanetto su cui era seduta e si mosse verso Cesare Feo, appena in tempo per sorreggerlo, prima che cadesse in terra senza sensi.

“Aiuto!” gridò, verso l'esterno della sala e subito un paio di servi arrivarono a prendere il castellano per le braccia.

Caterina valutò in fretta lo stato di Cesare e la sua pelle, che scottava come un braciere. Cercò di risvegliarlo con qualche colpo sulla guancia, poi lo pizzicò sulla clavicola, ma in tutta risposta l'uomo grugnì senza riaprire gli occhi.

“Dobbiamo abbassare la febbre.” fece la Contessa, cercando di pensare in modo lucido e ridurre al minimo i rischi e le possibili conseguenze: “Portatelo...”

I servi erano in attesa, ma la Tigre non aveva finito la frase. Stava pensando che gli appartamenti del castellano erano troppo lontani da lì per riuscire a trasportarlo nello stato in cui si trovava. Meno lo spostavano, meglio era.

“Portatelo nella mia stanza, sono solo pochi passi...” decise alla fine e si mise assieme ai domestici, tenendo Cesare per le gambe, in modo da riuscire a raggiungere un letto il prima possibile.

Appena il castellano fu deposto sul giaciglio di Caterina, la donna chiese a uno dei due servi di aiutarla a spogliarlo, in modo da ridurre il più possibile la temperatura già con quel semplice metodo.

Poi disse all'altro domestico: “Corri nelle cucine, di' ai dispensieri di portare qualcosa di fresco, qualsiasi cosa, del ghiaccio sarebbe l'ideale. Poi corri dal medico, che venga subito nella mia stanza.”

Il ragazzo annuì e stava già per andare, quando Caterina lo bloccò per aggiungere: “E quando hai fatto quello che ti ho detto, raduna i miei figli e portali nell'ala più lontana possibile da questa e obbligali a restare lì fino a nuovo ordine!”

“Anche Bernardino..?” chiese scioccamente il servo, interdetto.

La Tigre sorvolò sul fatto che anche quel domestico, come quasi tutti, non si riferiva a Bernardino con il rispetto riservato ai suoi altri figli, e rispose: “Certo, anche lui, che domande!”

Appena il servo fu corso via, la Contessa si mise d'impegno assieme all'altro per spogliare il castellano. Era sudato fradicio, e, quando il suo grosso torace rimase esposto all'aria, cominciò a tremare un po'.

Il domestico guardò la donna spaventato: “Non dovremmo coprirlo? Ha freddo...”

“Se lo coprissimo faremmo solo il suo male.” ribatté in fretta la Contessa.

Poi notò il lieve tremito nelle mani del servo e capì che quel giovane aveva paura. Era comprensibile.

“Se temi il contagio, corri anche tu in una zona isolata della rocca e restaci.” gli disse, senza dare un giudizio morale a quel sentimento di autoconservazione che, a suo parere, a quel punto nulla aveva di disdicevole.

Il servo parve tentato da quella concessione, ma poi scosse con forza la testa e prese a tirare una gamba delle brache del castellano, mentre Caterina si occupava dell'altra, ed esclamò: “Se non avete paura voi, non ne avrò nemmeno io, mia signora.”

La Tigre fece un cenno di approvazione e poi venne distratta da uno dei dispensieri, che si era appena presentato con un sacchetto di tela pieno di ghiaccio: “Non ne abbiamo quasi più, mia signora...” spiegò, porgendole il prezioso carico con attenzione: “E poi...”

“E poi cosa?” chiese la donna, mentre applicava il ghiaccio sulle cosce del castellano.

“E poi anche una delle cuoche è stata male.” annunciò il dispensiere, gli occhi grandi pieni di terrore.

Caterina sentì il cuore mancare un colpo. Malgrado gli accorgimenti presi, non era riuscita a vincere quel silenzioso assedio.

L'epidemia era riuscita a oltrepassare le spesse mura della rocca di Ravaldino.

 

Ludovico Sforza, in cerca di frescura, si era ritrovato nei camerini. Aveva molte cose a cui pensare, quel 20 giugno, ma non voleva farlo.

Quella mattina si era proceduto con la trasductio ad maritum di Bianca Giovanna e il Moro non aveva potuto fare a meno di sentirsi malissimo, quando l'aveva vista lasciare la sua corte.

Beatrice l'aveva salutata come una sorella e le aveva detto qualcosa nell'orecchio, fittamente, come se stesse riassumendo un piano già più volte discusso, e alla fine l'aveva abbracciata con forza, augurandosi a voce alta di rivedersi molto presto.

Il Duca era stato molto più formale, con la figlia, benché in privato di solito sapesse essere con lei molto espansivo.

Era tanta l'apprensione nel lasciarla andare, che ogni parola pronunciata nel dirle addio era stata come una spada nel costato. E dunque aveva cercato di parlare e muoversi il meno possibile.

Si era assicurato che Bianca Giovanna avesse con sé la lettera per il Sanseverino che lui stesso aveva preparato. Con poche righe ricordava all'uomo il vero motivo dell'arrivo della moglie al suo palazzo e lo redarguiva sugli accordi che erano stati presi il giorno in cui la figlia del Dica gli era stata concessa in sposa.

Così, nell'aria torrida del giugno milanese, la gemma prediletta del Moro era partita alla volta di Bobbio, seguita dagli occhi curiosi e pettegoli di tutti i cortigiani che Ludovico aveva tirato a vivere al palazzo di Porta Giovia.

Una volta conclusa quell'ultima, infame, pratica legata al matrimonio, il Duca aveva subito cercato di distrarsi, per non rimuginare più su quello che sarebbe potuto accadere.

Era andato sulle tracce della Crivelli, ma aveva saputo che si era già recata nelle stanze di Beatrice, che l'aveva voluta al suo fianco, assieme alle altre dame di compagnia, mentre l'astrologo di corte parlava del figlio che la Duchessa avrebbe partorito per la fine dell'anno vecchio o per l'inizio dell'anno nuovo.

Per evadere dal blocco mentale in cui stava entrando, Ludovico era allora andato alla ricerca del maestro Leonardo, sperando che quello strano uomo potesse distrarlo con le sue dissertazioni a senso unico sull'arte o sull'inadeguatezza dei ceti meno abbienti nei confronti della vita, ma non lo trovò.

Chiese spiegazioni al suo cancelliere e questi gli riferì che il domine magister aveva chiesto un permesso per andare al sepolcro della madre, morta relativamente da poco.

Ludovico aveva sbuffato, indispettito. Possibile che la gente morisse sempre nei momenti meno opportuni?

“E gli avete detto che a questo modo perderà delle giornate di paga?” aveva chiesto, appoggiando le grosse mani sui fianchi, con fare bellicoso.

Calco aveva annuito e aveva precisato: “Ha addirittura interrotto i lavori nei camerini, dicendo che potevamo anche tenerci i soldi per quella commissione, dato che non aveva mai lavorato in un ambiente tanto scomodo e per un motivo tanto inutile.”

Ludovico aveva fischiato, irritato dall'atteggiamento supponente del maestro, ma anche colpito dalla sua lingua tagliente, la cui prontezza non smetteva mai di sorprenderlo.

Così il Duca si era ritrovato a vagare da solo per i camerini perfettamente affrescati dal domine magister, ma ancora incompleti. Più guardava in alto verso i soffitti dipinti, più Ludovico provava rabbia per la decisione di Leonardo di lasciare tutto a metà.

Quando fosse tornato, lutto o non lutto, lo avrebbe convinto a finire. Era un suo dipendente. Senza il mecenatismo del Moro, Leonardo avrebbe passato anni di fame.

Poteva darsi tutte le arie che voleva, ma era stato lui stesso a capire che solo una città evoluta e aperta come Milano avrebbe potuto accettarlo. Quando era arrivato alla corte del Moro la prima volta, come inviato speciale, come 'ambasciatore della magnificenza fiorentina' per conto del Magnifico, il domine magister era avvilito e sminuito dall'uso che Lorenzo Medici pareva intenzionato a fare di lui.

Se aveva chiesto, in modo arrogante e presuntuoso com'era suo costume, di poter lavorare per i Duchi, l'aveva fatto perché era praticamente scappato da Firenze.

Roma non l'avrebbe mai accettato. Troppe voci correvano sul suo conto, in troppi sapevano quanto rifuggisse la compagnia intima delle donne, preferendovi quella degli uomini, e nella terra del papa un crimine del genere non sarebbe potuto passare impunito.

Forse – pensava il Moro – un papa come Alessandro VI avrebbe chiuso non uno, ma due occhi, pur di avere un simile artista al suo servizio, ma, giustamente, Leonardo non sembrava intenzionato a rischiare.

Altre città come Mantova o Ferrara o Genova o Venezia non avevano né il modo né l'acume per cercare un uomo come il domine magister.

Dunque Leonardo non avrebbe dovuto sputare a quel modo nell'unico piatto in cui poteva mangiare.

Ludovico abbassò lo sguardo, smettendo di fissare gli affreschi scaturiti dal genio del maestro, e, allacciando le mani dietro la schiena, pensò che quei camerini fossero davvero un ambiente malsano e preferì farsi un giro all'esterno.

 

L'aria di Ravaldino e di Forlì erano immobili. Il ponte della rocca era stato di nuovo abbassato non appena era stato chiaro che il contagio era arrivato anche all'interno della fortificazione.

Pur sentendosi un po' opportunista e cinica a ragionar così, la Contessa aveva deciso quasi subito che, visto che ormai il peggio era accaduto, tanto valeva lasciar credere si forlivesi che il potere non si stava discostando dalla popolazione, cercando di ricavare il ricavabile da quella catastrofe almeno in termini di popolarità.

Pur desiderando mettere il cognato al corrente della situazione, Caterina aveva deciso di non mandare nemmeno un messaggero a Imola, nel terrore che bastasse un'unica staffetta per portare la pestilenza fuori da Forlì.

Aveva anche fatto chiudere le porte cittadine, con l'ordine che nessuno uscisse e che entrassero solo eventuali corrieri mandati da Tommaso Feo.

All'interno di Ravaldino le ore si inseguivano frenetiche e accalorate. Il finale di giugno era ruggente e molti abitanti della rocca erano caduti ammalati quasi contemporaneamente.

Esattamente come nel cuore di Forlì, anche nella dimora della Tigre la malattia stava colpendo in modo indiscriminato e improvviso.

“Dev'essere questo caldo...” disse abbattuta Caterina al medico di corte, mentre uscivano dalla camera in cui una delle serve più giovani era appena morta per via della febbre troppo alta, impossibile da controllare: “Anche se non è peste, è stata questa siccità e questo calore a scatenarla, proprio come l'altra volta...”

Il dottore annuì e si passò lo straccio imbevuto di unguenti sotto al naso: “Quale che sia la causa, mia signora, abbiamo anche meno armi che contro la peste. Se non pioverà, se non cambierà qualcosa, non so come andrà a finire. I più deboli non sembrano in grado di sopravvivere e questo mette a rischio una grande fetta di popolazione... Dovreste mettervi al riparo anche voi, ecco cosa dovreste fare.”

La Contessa scosse il capo e poi si congedò dal dottore: “Vado dai miei figli.” e si diresse fino alle scale, verso la stanza in cui aveva isolato Galeazzo, Sforzino e Livio, tutti e tre colpiti dalla misteriosa febbre di quei giorni.

Bianca, Bernardino e Cesare erano rimasti immuni, per il momento, da quella catastrofe e Caterina non li vedeva da giorni. Siccome era sempre in contatto coi contagiati, la donna aveva il timore di poter fare in qualche modo da tramite e di ungere anche i tre che non si erano trovati coinvolti in quell'epidemia. Dunque era meglio tenerli a distanza.

Ottaviano, per conto suo nella sua cella, pareva ancora in buona salute, a detta dei carcerieri che, su ordine di Caterina, gli avevano domandato da stare sulla porta come stesse. Egli aveva risposto che stava bene e che aveva fame. Così gli avevano portato da mangiare – benché quello fosse secondo la tabella di reclusione un giorno di digiuno – e poi avevano richiuso subito.

“Come stanno?” chiese la Tigre, asciugandosi la fronte e andandosi a mettere accanto alla madre Lucrezia, che stava seduta tra i letti di Livio e Sforzino.

“Galeazzo sta molto meglio. Adesso si è addormentato, ma ormai mi sembra che la febbre sia calata...” sussurrò Lucrezia, indicando il ragazzino che, con indosso solo una sottile vestaglia bianca, ronfava apparentemente rasserenato.

Caterina annuì e convenne: “Se quando si sveglierà sarà sfebbrato, lo sposteremo in un'altra camera, così non rischierà nuovi contagi.”

“Sforzino secondo me potrebbe rimettersi come Galeazzo, a breve.” continuò l'anziana, sistemandosi lo scialle di lana sulle spalle: “Mentre Livio...”

La Contessa, prima di guardare Livio, si prese un momento per osservare sua madre. Si accorse solo in quel momento che, nella penombra della stanza pregna degli odori della malattia e delle erbe medicamentose usate per far fronte alle febbri, la fronte della donna riluceva di sudore. In più, benché fosse coperta da spessa lana scura, Lucrezia tremava, come scossa da brividi di freddo e i suoi occhi color ghiaccio erano acquosi e un po' spenti.

Seguendo un impulso improvviso, Caterina le appoggiò il palmo della mano sulla fronte: “Mamma, scotti...” sussurrò, sentendo un morso a livello dello stomaco.

Lucrezia fece un debole sorriso e smentì: “Ma che dici... Fa solo un po' caldo, ecco perché sembro calda anche io... Piuttosto, guarda Livio... Non mi piacciono le occhiaie che ha...”

“Mettiti subito a letto.” ordinò Caterina: “Vieni con me, qua accanto c'è libero, potrai stare tranquilla...”

“No!” si ribellò Lucrezia, quando la Contessa provò a convincerla ad alzarsi afferrandola per un braccio: “Non lascio i miei nipoti! Ho dovuto seppellire una figlia meno di un mese fa, non voglio dover seppellire anche un nipote!”

La sua voce, per quanto arrochita, fu sufficiente a far svegliare Galeazzo, che fissò la madre e la nonna con occhi preoccupati.

“Stai male, non lo vedi? Vieni con me, avanti...” fece Caterina, tentando di suonare un po' più accomodante.

Lucrezia provò a divincolarsi di nuovo dalla stretta della figlia, ma quei gesti le indussero un forte accesso di tosse che durò molto a lungo.

La figlia la fissava in apprensione e alla fine l'anziana fu così stremata per il lungo tossire che si arrese e, con passo malfermo, lasciò che Caterina la portasse fino alla stanza accanto per mettersi a riposo.

“Spostate mio figlio Galeazzo al piano di sopra, assieme ai convalescenti.” disse la Tigre a due dei domestici che l'aiutavano, due stracci davanti a naso e bocca come lei stessa aveva ordinato: “E voi, invece – apostrofò una balia e una sguattera di cucina che si erano anch'esse prestate all'aiutare gli infermi – state dentro a vegliare su Livio e Sforzino. Chiamatemi, in caso di bisogno.”

Mentre guardava i due servi portare il suo erede designato fuori dalla stanza e le due domestiche prendere posto al capezzale degli ultimi due figli dal suo matrimonio con Girolamo Riario, Caterina ebbe un attimo di smarrimento.

C'erano già stati dei morti, anche dentro la rocca. E non solo persone già compromesse in partenza, ma anche giovani in salute. E ora due dei suoi figli non erano ancora fuori pericolo e anche sua madre era stata male.

Siccome nel corridoio non c'era nessuno, la Contessa si permise di indulgere in un breve gesto di fragilità. Si appoggiò con la schiena al muro e si lasciò scivolare lentamente fino a terra.

Si prese la testa tra le mani. Era stanca, sfinita. Non sapeva da quanto tempo non mangiava e non dormiva. Appena provava a mettersi tranquilla da qualche parte per riprendere le forze, qualcuno arrivava per darle brutte notizie.

Avrebbe solo voluto un attimo di pace, un istante senza dover pensare a nulla. E magari anche qualcuno che la capisse e che potesse darle la forza che sentiva venir meno ogni minuto di più.

Schiacciandosi gli occhi con i palmi delle mani, non si accorse che Achille Tiberti era appena arrivato al suo fianco: “Mia signora – le disse, inducendola a guardarlo e a rimettersi frettolosamente in piedi – Cesare Feo...”

“Cosa? Cosa gli è successo?” scattò subito Caterina, non riuscendo a decifrare il tono del suo Capitano.

“Si sta riprendendo. Chiede di voi.” fece il soldato e la Contessa fu così felice di sentire quelle parole che gli concesse addirittura un sorriso e, passandogli accanto, gli strinse per un attimo la mano.

Il castellano voleva ringraziare Caterina per essersi presa cura di lui fin dal primo momento. Le disse che durante tutti i giorni in cui era bruciato di febbre non era stato pressoché mai cosciente, ma che si era comunque accorto di essere seguito e accudito.

Sapere che anche il suo fidato Cesare Feo si stava riprendendo come Galeazzo aveva riaperto il cuore della Contessa, che ne approfittò per rilassarsi un momento.

Si sedette accanto al letto prestato al castellano e, su richiesta dello stesso Cesare, si mise a raccontare qualche aneddoto degli anni addietro, di quando era stata con gli Orsini in guerra e di quando aveva catturato Castel Sant'Angelo.

Cullato dalle parole della sua signora, il castellano si era assopito e così Caterina aveva osato accertarsi in prima persona del suo stato, tastandone con discrezione il polso e poi valutando la temperatura della pelle.

Il cuore batteva più lento, finalmente a un passo normale, e la fronte era ritornata fresca. Malgrado gli oggettivi segni di debolezza dovuti a giorni interi di digiuno e allettamento, l'uomo sembrava davvero essere guarito.

Con un sospiro rasserenato, la donna, da seduta com'era su una sedia accanto al letto, si appoggiò un momento con la testa al materasso e senza accorgersene si addormentò.

“Mia signora... Mia signora!” la voce solerte di Luffo Numai strappò Caterina dal suo sonno sordo e anche Cesare Feo si svegliò di colpo.

“Cos'è successo?” domandò la Contessa, ormai in automatico.

“Vostro figlio, messer Livio.” fece con gravità il Consigliere: “Fatica a respirare e il medico non sa come fare. Abbiamo spostato il povero messer Sforzino, perché si è spaventato nel vedere il fratello in quello stato... È meglio che veniate di là anche voi...”

La Tigre avvertì un senso di freddo scendere fino in fondo allo stomaco e poi, accusando un senso di vuoto che le dava le vertigini, lasciò la sedia, scambiò un rapido sguardo con il castellano, che fu incapace di dire anche solo una parola di circostanza, e seguì Luffo Numai nella camera in cui suo figlio Livio stava lottando per la vita.

 
   
 
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