Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    14/06/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

Michelangelo si tolse il cappello, stringendolo tra le mani rovinate dai colori, e si diede una rapidissima sistemata ai corti capelli ricci e alla barba scura, portata abbastanza lunga sul mento aguzzo.

I suoi occhi non sapevano dove posarsi. Quelli che lo avevano accolto all'ingresso lo avevano messo ad aspettare nel salone d'attesa del palazzo dei Riario di Roma.

Aveva sentito dire che quella magnificenza sarebbe in realtà appartenuta dei figli della Tigre di Forlì, ma di fatto era da molto tempo nelle mani del Cardinale Sansoni Riario, che aveva approfittato della lontananza dei parenti per abitarvi, con la scusa di curarne la manutenzione.

L'artista ventunenne era arrivato in città quel giorno stesso e si era subito presentato a casa del suo nuovo mecenate, come richiesto espressamente dal Cardinale.

Era ancora un po' provato dal viaggio, dato che per essere solo il 25 giugno, il caldo era davvero sconvolgente, ma la voglia di conoscere quel nuovo mondo batteva anche il senso di stanchezza.

Il palazzo dei Riario era finissimo e curato nei minimi dettagli. Così come l'intera Roma, quella dimora sembrava traspirare arte e grandezza.

Quando Raffaele arrivò nella saletta in cui era stato messo in attesa il giovane artista giunto da Firenze, lo trovò con il naso per aria, intento a studiare con attenzione gli stucchi e gli intonaci del soffitto.

“Che piacere conoscervi, maestro Buonarroti.” fece il Cardinale, sorridendo e allargando le braccia in segno di benvenuto.

Michelangelo ricambiò il saluto, passando gli occhi pensosi dagli intarsi dorati al porporato.

Lo trovò diverso da come se l'era immaginato. Il Cardinale era un uomo abbastanza alto, secco, sui trentacinque anni, con pochi capelli che coprivano a mala pena la nuca e i lati della testa. Aveva un naso notevole, lungo e affilato, due labbra molto rosse e uno sguardo a metà strada tra lo spaventato e l'entusiasta che suscitò una vaga ilarità in Michelangelo.

Tuttavia l'artista riuscì benissimo a trattenere le risate quando si rese conto della ricchezza che il Cardinale portava con sé. Aveva al collo un crocifisso d'argento tempestato di ogni genere di pietre preziose. Portava sulle spalle un mantellino di seta di un rosso meraviglioso. Il suo abito talare era lungo fino in fondo ai piedi e non aveva nemmeno una piega. Perfino gli anelli che portava al dito gridavano opulenza.

Michelangelo, sporco del viaggio e con addosso vestiti di bassa lega e usati da anni, si sentiva infinitamente piccolo e insignificante, dinnanzi allo sfoggio di potere di Santa Madre Chiesa.

“Sarete stanco – cominciò Raffaele, giungendo le mani al petto e tenendo gli occhi fissi sul suo nuovo dipendente – ma vi prego, fatemi una cortesia, prima di andare a sistemarvi nei vostri alloggi.”

“Quello che desiderate.” fece subito il giovane, incuriosito dal tono entusiasta eppure modulato del Cardinale e non molto desideroso di andare a casa di Jacopo Galli, che l'avrebbe ospitato almeno per i primi tempi.

Dopo aver visto la grandezza e la bellezza del palazzo dei Riario, qualunque altro alloggio sarebbe stato di certo deludente.

Il porporato non trattenne un piccolo verso di eccitazione nel dire: “Benissimo! Venite con me nelle stanze in cui tengo le opere d'arte del passato! Ho una collezione invidiabile e voglio che la vediate subito.”

Michelangelo annuì: “Lo farò con piacere...”

Raffaele gli fece strada e, mentre apriva personalmente con una grossa chiave la porta dietro la quale stava la sua preziosissima collezione di statue greche e romane, spiegò: “Resterete ammaliato dalla grandiosità dei classici... Voglio che li osserviate con attenzione.”

“Posso sapere a cosa devo questa particolare gentilezza?” chiese Michelangelo, mentre la porta si apriva, mostrandogli un lungo corridoio stipato di opere d'arte.

“Voglio che le osserviate con attenzione – ribadì il Cardinale, invitandolo a seguirlo per visionare le prime statue della collezione – e che, dopo averci ragionato, mi diciate se ve la sentite di produrre qualcosa di simile.”

 

Caterina arrivò nella stanza di Livio e dovette farsi strada tra i domestici per arrivare fino al letto del figlio.

Benché avesse già undici anni, il bambino era magrolino e minuto, e dimostrava meno della sua età.

Era seduto, sorretto da una delle balie. Respirava a fatica, facendo molto rumore e il suo colorito cereo era peggiorato dalla sfumatura bluastra che cominciava a farsi strada sul suo volto.

Quando vide la madre farsi avanti, Livio spalancò gli occhi e aumentò il ritmo con cui il suo torace si allargava e si restringeva. A fatica, allungò le braccia magre verso Caterina e questa reagì nell'unico modo che le parve sensato.

Facendo spostare la balia, che le lasciò immediatamente il suo posto, la Contessa si mise vicino al figlio, che la strinse a sé con tutta la forza che gli era rimasta.

La donna poteva sentire contro di sé il lavoro frenetico e quasi inutile dei muscoli del torace del piccolo. Riusciva quasi a distinguere ogni costa che si alzava e si abbassava, mentre lo teneva stretto tra le braccia.

Livio aveva affondato il viso, caldo come il resto del suo corpo, contro il petto della madre e non riusciva più a nascondere la paura che lo attanagliava.

“Falli uscire, tutti quanti...” sussurrò Caterina, rivolta alla balia.

La donna annuì e invitò tutti i presenti a lasciare la camera, in modo da permettere a Livio di respirare meglio e poi, dopo un attimo di esitazione, anche lei uscì, permettendo alla Contessa di restare sola con il figlio.

Il bambino continuava a respirare a fatica e la madre avrebbe voluto staccarsi da lui, per vedere se, libero dal suo abbraccio, avrebbe potuto respirare un po' meglio.

Però sapeva che quella crisi era diversa da quella che aveva preso gli altri contagiati dall'epidemia.

Si trattava di una reazione personale di Livio, i cui polmoni non erano mai stati realmente in salute.

Fin da piccolo, aveva passato mesi interi preda di malanni di stagione e di riesacerbazioni respiratorie e, forse, una febbre violenta come quella aveva infine fatto crollare il precario equilibrio del suo gracile organismo.

“Non avere paura, ci sono io con te...” disse piano Caterina, parlando nell'orecchio del figlio: “Non avere paura...”

Quando provò ad allargare l'abbraccio, in modo da lasciarlo coricare, Livio si avvinghiò ancora di più a lei, come per non lasciarla scappare e la forza che seppe tirar fuori per quel piccolo gesto fu troppo per i nervi scossi della Tigre che, senza potersi trattenere, cominciò a piangere in silenzio.

Lo tenne stretto ancora per parecchio tempo fino a che, senza che quasi vi fosse una vera avvisaglia, il corpo di Livio venne attraversato da una contrazione improvvisa e poi, tutto d'un colpo, dopo un gemito spezzato, si rilassò.

Caterina aveva capito benissimo cos'era successo, ma non voleva arrendersi alla realtà. Non subito.

Rimase con Livio tra le braccia ancora per qualche minuto. Sentiva la testa del figlio riversa all'indietro, senza più tensione nel collo, le membra abbandonate e il torace non si muoveva più.

A un certo punto il peso di quel corpo inanimato fu troppo.

Con lentezza e delicatezza, la Contessa lo staccò da sé e lo adagiò con il capo sul guanciale.

Il volto del bambino era scuro, sofferente. Per la seconda volta nel giro di poche settimane, la Tigre di Forlì si trovò a pensare che chi sosteneva che la morte desse la pace, non aveva mai visto certe cose.

Pur sapendo di non poter fare più nulla per quel figlio che, in vita, aveva trascurato troppo e senza nemmeno accorgersene, Caterina rimase ancora un po' seduta sul letto.

Si asciugò metodicamente le lacrime dalle guance e dagli occhi e aspettò fino a che si sentì pronta ad affrontare quelli che di certo erano in attesa fuori dalla porta. Voleva essere in grado di annunciare loro quel che era successo senza cadere in pezzi davanti a tutti.

Si alzò, diede un ultimo sguardo a Livio, chiedendosi che senso avesse la morte di un bambino della sua età, e andò alla porta.

Appena aprì, molte paia di occhi si puntarono prima su di lei e poi scrutarono oltre le sue spalle.

In quel desiderio di sapere, però, Caterina trovò solo sincera preoccupazione e attaccamento e quello bastò a placare la rabbia che stava per riaffiorare in lei.

“Se n'è andato.” disse solo, e poi lasciò che le donne della rocca e alcuni dei domestici entrassero per accertarsi coi propri occhi della morte di Livio e magari dire una preghiera per la sua anima.

“Occupatevi di lui.” fece la Contessa con la balia, prima che seguisse gli altri verso il capezzale del piccolo: “Lavatelo e vestitelo e chiamate un prete. Quando sarà possibile, lo farò seppellire...”

In realtà Caterina sapeva che probabilmente il corpo di Livio avrebbe dovuto seguire la sorte di quello di tutti gli altri, ma avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere, pur di concedergli una sepoltura degna di quel nome.

Lasciando il corpo del figlio alle cure dei servi, la Tigre cominciò a camminare senza meta, tanto stranita da non accorgersi nemmeno di aver imboccato la strada che portava alla cella di lusso in cui aveva rinchiuso Ottaviano.

Quando vi fu davanti, la tentazione di chiedere alle guardie di aprire la porta e di lasciarla entrare, in modo che potesse dire al suo primogenito che il fratello Livio era morto, fu molto forte.

Tuttavia, quando stava per aprir bocca e dire qualcosa ai due soldati che stavano dinnanzi all'uscio della cella, la donna non se la sentì.

Per giustificare il suo passaggio da quelle parti, chiese ai due armigeri: “Tutto come sempre?”

I due annuirono e quello più anziano confermò: “Come sempre, mia signora.”

A quel punto Caterina li ringraziò e, immersa nella confusione gelida che la consapevolezza di aver perso un figlio aveva portato con sé, decise di andare da sua madre.

 

Giovanni Medici aveva i capelli incollati alla fronte e sentiva che non avrebbe sopportato un giorno di più in quella sudicia stanza di locanda, ma, anche se l'attacco acuto di gotta era ormai passato, le sue gambe ancora non gli permettevano di mettersi a cavallo.

Aveva mandato una staffetta a Forlì, per aggiornare la Contessa Sforza in merito al suo stato di salute, rincuorandola sul fatto che stava già meglio e che contava di tornare in città molto presto.

Aveva deciso di interrompere il suo viaggio, contando soprattutto che oltre a Cesena non gli mancava nessuna città importante e che la Signoria avrebbe dovuto accettare le sue obiezioni in merito all'inutilità di parlamentare con un governo temporaneo.

“Vi ringrazio molto...” fece il Popolano, quando l'oste gli portò direttamente in stanza una brocca di acqua e del pane.

L'uomo fece un sorriso sdentato e si esibì in un goffo inchino: “Per un Medici..! Vi dico che è un vero onore avere un uomo come voi nella mia locanda.”

Giovanni ricambiò a stento il sorriso, pensando che, malgrado il suo cognome importante, in quel letto altro non era che un povero uomo tormentato dai dolori e con addosso abiti sudici. La miseria della condizione umana sapeva appianare le differenze di classe come null'altro.

“Siete molto gentile con me. Vi ripagherò adeguatamente.” assicurò, mentre il locandiere usciva.

“Dio vi benedica.” ricambiò l'uomo, richiudendosi la porta alle spalle.

Il fiorentino fece per cominciare a spiluccare qualcosa, quando qualcuno bussò alla porta.

“Avanti.” disse, rimettendo subito il pane sul vassoio di legno.

La staffetta che aveva mandato a Forlì era già tornata. Entrò in camera e posò un ginocchio in terra, mentre si levava la cuffietta di cotone.

“Dunque? Siete riuscito a parlare con la Contessa? Siete tornato presto...” fece Giovanni, sistemandosi meglio il cuscino imbottito di paglia che teneva dietro la schiena come aiuto per stare seduto.

“Non ho parlato con la Contessa – cominciò la staffetta, facendo una strana smorfia – non ho potuto.”

“Come mai?” chiese il Medici, teso.

“Hanno chiuso le porte della città per un'epidemia. Non mi hanno lasciato entrare.” spiegò la staffetta, rammaricato: “Ho provato a dire che mi mandavate voi, ma mi è stato risposto che non c'era modo di entrate, chiunque io fossi. Ho chiesto di poter parlare con la Contessa almeno dalle mura della rocca, ma mi è stato detto che l'epidemia aveva colpito anche la famiglia di Sua Signoria e che quindi ella non avrebbe parlato con nessuno.”

Giovanni, con un certo sforzo, gettò le gambe a lato del letto e provò ad alzarsi. Il soldato lo fissava attonito, chiedendosi come facesse a reggersi in piedi, malgrado le smorfie di dolore che gli contorcevano il viso.

Il Popolano si rimise seduto, ma riuscì a valutare in modo abbastanza preciso che entro sera sarebbe riuscito a mettersi a cavallo.

Ormai si conosceva molto bene e capiva i tempi della sua malattia. Ogni volta le crisi duravano di più, erano più intense e la ripresa era più lenta. Tuttavia, ormai era in remissione e, con un po' di buona volontà, in meno di un giorno sarebbe stato a Forlì.

“Va bene, andate pure. Riferite agli altri che partiremo presto, che si tengano pronti.” fece Giovanni, massaggiandosi un po' le ginocchia: “Vedrete che le porte di Forlì a me le apriranno.”

“Perché volete andare in una città dove imperversa un'epidemia che ha già fatto dei morti?” chiese la staffetta, senza riuscire a capire la smania che aveva chiaramente preso il fiorentino, pronto a mettersi in viaggio malgrado i tormenti della gotta pur di rientrare in Forlì al più presto.

Il Popolano guardò un momento il soldato. Doveva avere una ventina d'anni, a esser generosi. Ma sembrava sveglio e abbastanza di mondo. Si chiese se potesse già capire. Magari sì.

Così gli rispose: “Avete mai amato qualcuno? Se sì, allora capirete perché voglio tornare subito a Forlì. Altrimenti, è inutile che perda tempo a darvi spiegazioni.”

 

Lucrezia aprì pian piano gli occhi. Un po' si sorprese nel vedere sua figlia seduta in poltrona accanto al suo letto.

La stanza era immersa nel buio. Doveva essere piena notte. L'unica luce era quella di una candela, sufficiente appena a lasciar intravedere i contorni degli oggetti. C'era un grande silenzio, l'aria era immobile e anche Caterina pareva far parte della stasi generale che vigeva in quel momento.

“Oh, ti sei svegliata...” disse la Tigre, accorgendosi del breve movimento della madre.

Lucrezia fece un suono gutturale di assenso e si rese conto subito di essere incredibilmente debole.

Anche se era stesa, si sentiva così affaticata dal solo dover respirare da chiedersi per quanto sarebbe riuscita ad andare avanti.

I reumatismi alle spalle e alle braccia che l'accompagnavano ormai da anni si erano acuiti e anche star ferma sembrava una tortura.

Si sentiva un po' rintronata, tanto che dovette far mente locale più di una volta, prima di ricordarsi che cosa ci facesse lì e cosa fosse successo.

“Livio come sta?” chiese, raccogliendo tutta la voce che riuscì a trovare nella sua gola secca.

Caterina non rispose. Teneva i formidabili occhi verdi bassi, rivolti al pavimento e la sua espressione era assente.

“Bambina mia...” provò a richiamarla la madre, sforzandosi di parlare più forte: “Come sta Livio?”

A quel punto la Tigre sollevò le sopracciglia e schiuse le labbra. Si chiese se avesse senso dire la verità, in quel momento. Sua madre sembrava uno spettro, in quel letto. Era in quelle condizioni da quasi due giorni e quella era la prima volta in cui si risvegliava.

Il medico, quando lei si era risolta a chiedergli un parere, aveva detto chiaramente che secondo lui non sarebbe sopravvissuta.

“Livio sta bene. Adesso sta bene.” rispose allora la Contessa, cedendo alla volontà di non turbare la madre senza che ve ne fosse un reale motivo.

Lucrezia annuì una volta, apparentemente molto rinfrancata da quella notizia: “Ne sono felice.”

Caterina dovette deglutire molto volte, per evitare alle lacrime di tornare a farsi vedere. Non aveva ancora avuto il coraggio di dirlo nemmeno ai suoi altri figli. Forse qualcuno lo aveva già fatto al posto suo, ma lei personalmente temeva quel momento e stava tentando con tutta se stessa di rinviarlo.

Sforzino si era ripreso e Galeazzo era ormai fuori pericolo. Bianca, Cesare e Bernardino, poi, non erano nemmeno stati sfiorati da quelle febbri. Solo Livio, il pulcino più debole di tutti, non ce l'aveva fatta.

“Livio ti vuole molto bene...” disse Lucrezia, con un sussurro roco, le mani sul petto e gli occhi color ghiaccio che rincorrevano i suoi pensieri: “Sai cosa dice sempre di te?”

La Contessa avrebbe voluto mettere a tacere sua madre. Non voleva parlare di Livio, non voleva ricordare nulla, in quel momento. Non voleva affrontare più nulla.

Però Lucrezia non poteva saperlo e dato che Caterina non la fermò, la donna proseguì: “Dice che sei la persona più forte e coraggiosa che esista.”

Mentre la madre faceva un lungo respiro per riprendere fiato dopo quella frase, per lei troppo lunga, la Tigre si trovò a rimembrare di quando Livio era nato.

“Dice che un giorno vorrebbe essere forte e coraggioso come la sei tu.” concluse Lucrezia, estendendo un po' il collo, nel tentativo di far meno fatica a respirare.

“Ricordo quando ho preso Castel Sant'Angelo.” disse Caterina, sorprendendosi per prima.

Non aveva mai parlato di certe cose con sua madre. La guerra, la sua vita a Roma, quello che era stato veramente il suo matrimonio con Girolamo Riario, erano tutti argomenti che con lei aveva solo a volte sfiorato.

Lucrezia si corrucciò impercettibilmente e parve sul punto di dire che non era il momento di parlare di quelle cose, ma la Contessa finse di non vedere la sua smorfia.

La stanza buia, calda e silente, sembrava invitarla a raccontare dettagli che non aveva mai rivelato a nessuno, nemmeno agli uomini d'arme con cui a volte si era persa a ripercorrere le sue imprese militari.

“Livio era ancora nella mia pancia – raccontò Caterina – e c'è stato un momento, una notte, mentre guardavo Roma da Castel Sant'Angelo, in cui mi sono sentita potente come Dio.”

Lucrezia le aveva lanciato uno sguardo, incerta su come interpretare il tono feroce con cui la figlia aveva parlato, ma aveva visto solo il suo profilo, reso rosso e nero dalla luce incostante della candela.

“E Livio era nella mia pancia.” ribadì la Tigre, quasi risentendo la sensazione incredibile che aveva provato quella notte in Vaticano: “Mentre combattevo accanto agli Orsini. Sul campo di battaglia. E poi a Castel Sant'Angelo. Livio era dentro di me.”

Si ricordava ancora la fatica, il ventre enorme che reclamava riposo. Ricordava benissimo anche la sottile paura che aveva avuto. Non solo di morire, ma anche di perdere quel figlio. Benché fosse frutto dei soprusi di Girolamo, quel bambino aveva passato con lei i ponti di Roma, era entrato con lei al castello e con lei aveva minacciato la curia.

In quei giorni passati lontano dall'ombra di Girolamo, il bambino che portava in grembo era stato solo suo, unicamente suo, e non anche di suo marito.

“Per quella notte, Roma è stata solo mia e di Livio.” concluse Caterina.

“Adesso – sussurrò Lucrezia, la voce sempre più minuta – devi fare la madre, per lui.”

La Tigre restava immobile e l'anziana interpretò quell'atteggiamento come l'ennesima dimostrazione della sua testardaggine.

“Non puoi odiare i tuoi figli in eterno, Caterina... Basta odio. Basta.” anche se ogni parola le costava molto, Lucrezia voleva che il concetto fosse chiaro, una volta per tutte: “Non trascurarli più, ti prego. Soprattutto Livio... Dedicagli più tempo, finché puoi.”

La Contessa strinse i denti e poi si sporse verso la madre e le accarezzò la fronte: “Adesso riposati.”

Lucrezia, sorpresa da quel gesto da parte della figlia, avrebbe voluto dire ancora molte cose. Anche lei, per quanto avesse appena dato delle raccomandazioni alla sua Caterina, sapeva di aver commesso degli errori, come madre. Avrebbe voluto scusarsi per molte cose, chiarirne molte altre, metterla a parte di ricordi che non aveva mai condiviso con nessuno, raccontarle di quando lei e suo padre, Galeazzo Maria, erano stati giovani e si erano amati.

Però la stanchezza che provava nel cuore la stava spegnendo poco alla volta. Si sentiva come la candela che si stava assottigliando sul tavolo.

Ogni momento che passava, la fiammella la erodeva un po' di più e la cera si scioglieva. Alla fine, nonostante la volontà del fuoco di continuare ad ardere, la corda sarebbe finita e la fiamma si sarebbe spenta comunque.

“Caterina...” bisbigliò Lucrezia, come volendo aggiungere ancora qualcosa, ma chiuse gli occhi e si riaddormentò.

La Tigre rimase al suo fianco fin quasi all'alba.

Nel sonno, lentamente, un respiro dopo l'altro, la vita aveva lasciato Lucrezia e la morte l'aveva accolta in silenzio, rendendola immobile come l'atmosfera della stanza in cui si trovava. Il suo viso era disteso e per una volta la Contessa capì cosa intendevano dire, quelli che parlavano della serenità dei morti.

Caterina appoggiò una mano sul petto della madre e sentì che oltre al respiro, anche il cuore si era fermato. Allora lasciò la poltroncina. Andò alla candela, che stava per esaurirsi, e la spense con un soffio.

Uscì dalla camera e chiuse la porta.

Andò a cercare Luffo Numai, lo tirò giù dal letto di fortuna in cui si era messo a riposare e gli chiese di scrivere a Tommaso Feo da parte sua: “Ditegli che preparino un posto per mia madre a San Michele. Accanto a mia sorella, se possibile. E poi, dopo aver scritto la lettera, predisponete affinché il suo corpo venga portato il prima possibile a Imola. State attenti, però, a non farvi vedere dalla popolazione. Nessuno deve veder uscire un cadavere da Forlì. Potrebbe creare uno spiacevole precedente e potrebbero insorgere problemi con l'osservanza della legge.”

Poi andò a cercare Francesco Oliva. Lo trovò già sveglio, malgrado l'ora antelucana e così non perse tempo e gli chiese se fosse possibile per lui scoprire dove viveva di preciso Bona di Savoia.

“Potrei farcela.” soppesò l'Oliva, la mente già all'opera nel ricercare i nomi di chi avrebbe potuto aiutarlo.

“Quando lo scoprirete, fatele recapitare una lettera.” fece allora Caterina.

“Il contenuto della lettera..?” domandò il capo delle spie, mettendosi alla scrivania e annotandosi già il da farsi sul suo taccuino.

“Ditele che mia madre Lucrezia è morta stanotte.” disse solo la Contessa: “Solo questo.”

L'Oliva sollevò un momento la punta della penna dalla carta e guardò la sua signora. Si trovò davanti una maschera impassibile. La conosceva abbastanza, ormai, da capire che non era il momento di fare domande, tanto meno di porgere delle condoglianze.

“Va bene.” asserì: “Vi terrò informata.”

“Grazie.” fece Caterina e gli augurò un buon lavoro.

“Mia signora...” Mongardini, accaldato e accompagnato dal rumore metallico delle armi che portava addosso, la raggiunse di corsa mentre stava per arrivare alle scale: “Vi ho cercata fino a ora...”

“Cosa c'è?” chiese la Contessa, che avrebbe solo voluto rintanarsi nella sua spelonca da strega e dimenticarsi di tutto, una volta per tutte.

“Alla porta della città c'è un gruppo di uomini che chiede di entrare. Abbiamo cercato di mandarli via, ma dicono che voi sareste d'accordo a farli entrare.” spiegò il Capitano.

“E chi sarebbero?” domandò la donna.

“Li guida l'ambasciatore di Firenze, Giovanni Medici.” rispose Mongardini.

Caterina trasse un profondo sospiro e ordinò: “Fateli entrare. Scortateli fino alla rocca. E dite all'ambasciatore che lo aspetto nello studiolo del castellano.”

 
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas