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Autore: Adeia Di Elferas    16/06/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Giovanni attraversò il ponte levatoio abbassato di Ravaldino con il cuore in gola. Il Capitano Mongardini aveva detto che l'avrebbe scortato di persona fino alla rocca e così aveva fatto.

Erano passati per le vie della città in silenzio e il Popolano non aveva potuto evitare di vedere i segni dell'epidemia che aveva colpito Forlì fin nel profondo. Si sentivano persone piangere e gemere, molte finestre erano chiuse, le porte delle botteghe erano sbarrate e in strada non c'era praticamente nessuno, se non qualche mendicante.

“Ho pensato che doveste saperlo, prima di vederla.” fece Mongardini, che aveva appena messo a parte Giovanni della morte di Livio e Lucrezia.

Il fiorentino annuì e, con l'andatura un po' claudicante, confermò: “Sì, avete fatto bene.”

“La troverete nello studiolo del castellano. Ha detto che vi aspetta lì.” concluse il soldato, fermandosi quasi di colpo non appena furono entro il perimetro della rocca.

A quel punto l'ambasciatore guardò un attimo alle sue spalle. Le sue guardie li avevano seguiti fino a Ravaldino e stavano già prendendo accordi con uno degli armigeri della rocca, forse per sapere dove alloggiare in un momento tanto delicato.

Prendendo una profonda boccata d'aria, Giovanni si passò una mano sul petto, nel tentativo di calmarsi un po' e poi andò verso lo studiolo in cui la Contessa lo stava aspettando.

La porta era chiusa. Per un istante il fiorentino esitò. Non sapeva se fosse o meno il caso di bussare.

Non sapeva cosa avrebbe trovato di preciso dall'altra parte. Già il fatto che la Tigre avesse detto di volerlo incontrare subito lo aveva un attimo spiazzato.

Malgrado le parole che si erano scambiati la sera prima della sua partenza, Giovanni non era ancora sicuro che quella donna lo considerasse più di quanto non avrebbe considerato un qualunque dignitario straniero.

Si passò la lingua sulle labbra secche e si trovò a pensare ai suoi abiti impolverati e allo stato pietoso in cui il viaggio doveva aver ridotto i suoi capelli e la sua faccia e pensò che avrebbe fatto meglio prima a darsi una rassettata.

Ma non aveva altro tempo da perdere. Recuperò in fretta il buon senso, dicendosi che quelli erano solo dettagli e che non avrebbero avuto peso. Non era mai stato un uomo vanitoso, dunque non era il caso di cominciare a esserlo proprio in un simile frangente.

Così aprì la porta, lento, come non volendo disturbare.

Lo studiolo del castellano appariva sospeso nel tempo e nello spazio. La luce fresca e tenera del sole appena sorto si stava facendo largo attraverso i vetri della finestra e un paio di candele erano ancora accese sopra al bordo del camino, a segno della notte ancora non del tutto passata.

Giovanni trovò Caterina immobile, in piedi davanti a lui, nel centro della stanza.

Si guardarono a lungo e nessuno dei due riuscì ad aprire bocca.

Il Popolano aveva nella mente tutta una serie di frasi che avrebbe voluto dire, di conforto e di sostegno, ma non riusciva neppure a schiudere le labbra, figurarsi fare dei discorsi.

Riusciva solo a guardare il viso scavato e stanco della donna che aveva dinnanzi e il dolore che traspariva dai suoi occhi. Era così intenso che egli stesso avvertì una fitta profonda all'altezza del cuore.

Caterina avrebbe voluto dire qualcosa. Qualunque cosa, tanto per non restarsene lì in silenzio a fissarlo, ma non ci riusciva.

Alla fine, l'unica cosa che fu in grado di fare fu muoversi verso di lui e tuffarsi nel suo abbraccio.

Il fiorentino la strinse a sé con forza, appoggiando il mento alla sua testa e passandole protettivo una mano sulla schiena.

La Tigre, invece, si aggrappava a lui come una naufraga a uno scoglio nel mezzo della tempesta, le mani che si stringevano sulla stoffa della sua leggera giacca da viaggio con tanta veemenza da metterne alla prova le cuciture.

Dopo un bel po', mentre ancora stavano abbracciati, Giovanni sentì le spalle di Caterina scosse dal pianto e così, malgrado stare in piedi al quel modo gli stesse facendo dolere e non poco le gambe, la strinse ancora più forte e semplicemente aspettò.

Trascorsero infiniti momenti, fino a che, quando non ebbe più lacrime, la Contessa si allontanò dal fiorentino abbastanza repentinamente.

Giovanni avrebbe voluto tenerla tra le braccia ancora, benché fosse in difficoltà nello stare in piedi così a lungo, ma quando provò a muoversi di nuovo verso di lei, la donna fece un mezzo passo indietro.

Passandosi quasi con rabbia una manica sul viso per asciugarlo, Caterina disse, la voce resa bassa e roca dal pianto: “Perdonatemi. Non volevo fare così... Non ho mai permesso a nessuno di vedermi così. Vi prego, non giudicatemi debole.”

A quelle parole, il Popolano agì di rimando abbassando lo sguardo, come a darle una parvenza di privatezza e provò a dire: “Come potrei giudicarvi debole?”

La Tigre aveva smesso di tamponarsi gli occhi e guardava l'ambasciatore con la stessa diffidenza con cui un animale ferito avrebbe guardato un essere umano che cercava di avvicinarsi per curarlo.

“Quello che vi è successo avrebbe spezzato il più coriaceo tra i forti. Il fatto che siate ancora in piedi malgrado tutto la dice lunga sulla vostra forza. Se qualcuno vi giudica debole, allora non sa cosa sia la debolezza e cosa sia la forza.” disse Giovanni, mentre le sue labbra piene assumevano una linea dura.

Sentendosi dire quelle cose, Caterina si trovò un po' rinfrancata e si schiarì la voce, andando verso la finestra.

Pareva assurdo, ma dopo quello sfogo si sentiva meglio. Molto meglio di quello che avrebbe creduto possibile.

Di certo il dolore sarebbe tornato a martellarla, ma almeno per qualche minuto la presenza di Giovanni avrebbe potuto sollevare il macigno che aveva sul cuore, permettendole di respirare.

“Perché avete voluto entrare in città a tutti i costi?” chiese la Tigre, appoggiandosi al davanzale con la schiena.

Solo in quel momento si accorse che il fiorentino teneva una gamba un po' piegata e che tutto in lui lasciava intendere quando fosse affaticato. Portava i segni del viaggio recente e delle occhiaie abbastanza pronunciate indicavano che anche gli ultimi giorni non dovevano essere stati molto rilassanti.

“Quando ho saputo dell'epidemia e che anche la vostra famiglia era stata colpita, non ho potuto non precipitarmi qui.” rispose l'uomo, spostando il peso da un piede all'altro con una smorfia.

“Sedetevi.” lo invitò Caterina, indicando la poltrona che era stata di Giacomo, permettendo per la prima volta a qualcun altro di usarla: “Ma perché l'avete fatto?” insistette, non trovando sufficiente la spiegazione.

L'aveva buttata lì come una cosa normale. Come se per un semplice ambasciatore fosse la prassi forzare il blocco delle porte di una città chiusa per un'epidemia solo perché la famiglia che deteneva il potere era stata colpita dal male.

Giovanni si sedette con cautela sulla morbida poltrona, trovando subito ristoro per le sue articolazioni: “Perché volevo correre in vostro soccorso.”

L'espressione della Contessa venne attraversata per un secondo dall'ombra di un sorriso e il fiorentino travisò: “Non ridete di me. So di non essere un grande aiuto, ma...”

“Non ho riso di voi. Non potrei mai.” si affrettò a riparare la donna: “Mi fa piacere sapere che volevate essermi d'aiuto, davvero.”

“Peccato che non possa fare nulla, in concreto.” ribatté il Popolano, mostrando i palmi delle mani.

“Avete già fatto più di quel che credete.” gli assicurò Caterina, incrociando le braccia sul petto e osservandolo con attenzione: “Come mai siete stato via così tanto? Credevo che il vostro viaggio sarebbe durato meno.”

Giovanni sospirò e si specchiò negli occhi della Contessa, ancora lucidi per il pianto, bellissimi nella luce del primo mattino: “Di ritorno da Rimini ho avuto un attacco di gotta.”

“Il mio ambasciatore Altodesco mi aveva riferito che non sembravate in salute.” commentò la Tigre, senza troppa enfasi.

Il fiorentino non si sorprese più di tanto nello scoprire che tra le altre cose quell'uomo aveva parlato anche di lui nelle sue lettere, perciò continuò come nulla fosse: “Mi sono dovuto fermare per giorni in una locanda, nella speranza di riprendermi. Appena ho saputo dell'epidemia, dato che ero in remissione, sono partito subito. Comunque avevate ragione: Pandolfo Malatesta è pazzo.”

“Spero che non vi abbia infastidito troppo. So che Pandolfo sa essere molto invadente, quando ha ospiti.” soppesò la Tigre: “Avete ancora dolore?” chiese poi, pensando che, dall'atteggiamento un po' sofferente che l'uomo aveva assunto doveva essere così.

Giovanni invece scosse il capo: “Nulla di che.”

“Se volete posso darvi qualcosa che vi aiuti.” propose Caterina.

“Assolutamente no, ve ne prego. Sarebbe l'assurdo... Io corro in vostro aiuto e finisco per essere aiutato da voi!” esclamò il fiorentino, alzandosi, come a dimostrare di non aver alcun bisogno di soccorso.

“E che male ci sarebbe?” fece la donna, muovendosi in fretta per aiutarlo, mentre un ginocchio gli cedeva, costringendolo a rimettersi seduto.

Il Popolano un po' si vergognava di mostrarsi così indifeso. Quello che provava per la Contessa era un sentimento forte e devastante, cresciuto in lui senza che potesse far nulla per ridimensionarlo, e mostrarsi ai suoi occhi in quello stato lo feriva profondamente.

Come tutti, avrebbe voluto apparire alla donna che amava come una roccia, come un uomo forte e capace, come qualcuno su cui contare sempre e comunque e non come un malato, un debole e un inetto, in poche parole, una palla al piede.

“Davvero, non mi serve nulla.” si incaponì, serio, mentre lei ancora lo teneva per il braccio che aveva afferrato nel sorreggerlo.

“Come volete. Siete un uomo orgoglioso.” notò Caterina, mentre le sue labbra si schiudevano in un sorriso compiaciuto: “È una caratteristica che apprezzo.”

Ci fu ancora un lungo silenzio, durante il quale la Tigre si rimise appoggiata alla finestra e Giovanni, il collo un po' arrossato per l'inatteso complimento, si massaggiò le gambe, nella speranza di rimetterle in funzione per quel tanto che sarebbe bastato per rimettersi in piedi.

“Dovreste riposare.” fece a un certo punto la donna: “Siete stremato dal viaggio ed è chiaro che soffrite ancora per la crisi che avete avuto nei giorni scorsi. La vostra stanza è libera e non ci sono più malati in quelle vicine. Solo il castellano era in quell'ala della rocca, ma stato nella mia camera, e adesso è guarito e non la occupa più.”

“Dovreste riposare anche voi.” disse Giovanni, puntellandosi sui braccioli della poltrona e alzandosi per guardarla negli occhi.

“Ho ancora molte cose da fare.” controbatté la Contessa.

“E cosa?” fece l'uomo, sollevando le sopracciglia.

“Ci sono ancora dei malati, in questa rocca. E devo scrivere a mio fratello Piero per dirgli cos'è successo. Devo sistemare la questione dei contadini. Devo pensare a come risolvere la carenza di sale a cui andremo presto incontro. Devo mettere al sicuro una volta per tutte i sei figli che mi restano.” elencò Caterina: “E poi devo...” ma il fiorentino non la lasciò finire.

Mettendole le mani sulle spalle, la fissò dritto nelle pupille e le disse: “Voi non dovete niente. Non adesso. Non dopo quello che vi è capitato. È vostro diritto prendervi del tempo per voi, adesso.”

La Contessa restò senza fiato. Era la prima volta che qualcuno le diceva una cosa simile. Era la prima volta che qualcuno la sollevava, anche solo a parole, dai suoi obblighi.

In più, si rese conto con uno strano senso di stordimento di avere il viso a pochi centimetri da quello di Giovanni. Poteva vederne ogni dettaglio, dalla barba vecchia di un paio di giorni che gli velava il mento e le guance alla fronte spaziosa e al naso dritto come quello di una statua classica e trovò, con un'estrema facilità, nei suoi occhi di un verde chiarissimo qualcosa che aveva cercato per troppo tempo e con troppa fatica: comprensione.

“Mio fratello ha perso un figlio, pochi mesi prima che io partissi per venire qui.” proseguì lentamente il Popolano, mentre la sua stretta sulle spalle di Caterina si allentava un po', facendosi meno decisa e più morbida: “Mio nipote Averardo era come un figlio, per me. So cosa si prova. So che sembra che qualcuno vi stia strappando l'anima un pezzo per volta. Non posso dire come ci si senta a perdere una madre, perché come vi ho detto l'ho persa prima di avere coscienza, ma conosco bene il vuoto che lascia non averla più.”

La Tigre poteva vedere gli occhi del fiorentino velarsi, fino a che una lacrima sfuggì alle ciglia, ricadendo sulla guancia, mentre le sue labbra carnose si sollevavano in una smorfia di quella che poteva essere tanto rabbia quanto dolore. Esattamente l'insieme di sentimenti che in quel momento agitavano anche lo spirito di Caterina.

“Andiamo a riposare.” convenne allora la Contessa, dato che l'uomo sembrava aver perso la voce per il nodo che gli era salito alla gola.

Così, con Giovanni che zoppicava un po', la Contessa e l'ambasciatore lasciarono lo studiolo del castellano e raggiunsero le rispettive camere.

Prima di entrare nella sua, la donna si ricordò che le lenzuola non erano state cambiate.

Certi l'avrebbero presa in giro, soprattutto i grandi preti del Vaticano, dicendole che le malattie erano un castigo divino e non una questione di contatti e trasmissioni da una persona a un'altra, ma la Tigre non si sentiva tranquilla, a dormire in un letto in cui era da poco stato coricato per giorni un malato.

Anche se in quelle ore aveva abbracciato Livio, respirato la stessa aria di sua madre e toccato molti altri contagiati, adesso che poteva, preferiva stare al sicuro. Aveva ragione Giovanni. Era il momento di pensare anche un po' a se stessa.

“Cosa c'è?” chiese il fiorentino, dopo aver aperto il suo uscio, nel vedere il tentennamento della Tigre, che stava ancora ferma dinnanzi alla porta chiusa.

“È che ho fatto stare nel mio letto il castellano, mentre aveva la febbre. Non vorrei che fosse pericoloso dormire tra le stesse lenzuola.” riassunse la donna, sorvolando sui suoi pensieri rancorosi circa le idee di Santa Madre Chiesa.

“Vi cedo il mio letto.” si offrì all'istante il Popolano, allargando un braccio e indicandole la sua camera.

“Non se ne parla, ne avete bisogno anche voi.” si oppose Caterina.

“Allora facciamo a metà, tanto è un letto abbastanza grande.” provò Giovanni, con una certa sfacciataggine.

La Tigre lo guardò perplessa e non disse nulla. Pensò, tuttavia senza dirlo a voce, che era in quel genere di cose che emergeva la toscanità del suo ospite.

“La mia era una proposta innocente. Ho pensato che non vi sareste formalizzata. Una donna come voi, che è anche stata in guerra... Ho creduto che vi fosse già capitato di usare giacigli di fortuna. Ve lo assicuro, era una proposta senza altro fine se non essere gentile.” si scusò il fiorentino, visibilmente mortificato: “Ed è ancora valida. Non sto più in piedi dal sonno, quindi se volete, vi cedo volentieri mezzo materasso, altrimenti...”

“Va bene.” cedette Caterina, che desiderava quanto Giovanni coricarsi e dormire.

L'ambasciatore la lasciò entrare per prima in stanza. Chiuse con la sicura la porta, pensando a quanto sarebbe stato sconveniente per i domestici trovarli insieme, anche se non in atteggiamenti equivoci e anche se scusati dal momento di crisi che la rocca stava vivendo.

Nel frattempo, la Contessa aveva chiuso le tende pesanti che drappeggiavano la finestra, piombando la stanza nel buio.

Senza nemmeno la forza di allentarsi i lacci dell'abito, la donna si cavò le scarpe e si buttò sul letto, sopra alle coperte, tanto faceva così caldo che non sarebbe stato necessario usarle, e, imitandola, dopo essersi tolto la giacchetta ed essere rimasto in brache e camicia, lo stesso fece Giovanni, prendendosi l'altro lato.

Nel buio, dandosi le spalle, l'uomo e la donna chiusero gli occhi, cullati dal silenzio interrotto solo dai loro respiri, e provarono a prendere sonno.

“Medici..?” sussurrò Caterina dopo qualche minuto, per accertarsi che l'altro fosse ancora sveglio.

“Sì?” fece lui prontamente, mettendosi a pancia in su e cercandola con lo sguardo nel buio.

Le tende erano tanto pesanti da impedire del tutto alla luce del sole di entrare nel piccolo ambiente e Caterina ne fu felice. Non voleva che Giovanni la vedesse piangere per la seconda volta nell'arco di una sola giornata.

Avvicinandosi a lui nel buio, appoggiò la testa sul suo petto e, incurante delle lacrime che andavano a bagnargli la camicia, lo strinse a sé e sussurrò: “Grazie.”

Il fiorentino le avvolse le spalle con il braccio e sospirò: “Non mi dovete ringraziare.”

Benché facesse molto caldo, la Tigre sentiva il bisogno del tepore del corpo di Giovanni e, seguendo il suo stesso consiglio, che la voleva più egoista, non si chiese nemmeno se a lui facesse piacere o meno trovarsela così addosso in quell'aria afosa e pesante.

Passando dal pianto silenzioso direttamente al sonno, Caterina si addormentò come un sasso, sfinita e sconfitta, e altrettanto, poco dopo, fece anche Giovanni.

 

Alessandro VI sporse in fuori il mento e guardò la spia con aria talmente truce, che l'uomo dovette distogliere lo sguardo, perché non riusciva a sostenere due occhi tanto penetranti.

Il papa soffiò dal naso con fare pensieroso e infine disse, più a beneficio dei Cardinali che stavano in sua presenza in quel giorno di udienze che altro: “Questa è chiaramente e senza dubbio una punizione di Dio.”

La spia chinò il capo, come a dare ragione al Santo Padre e molti dei porporati annuirono e commentarono con decisione ribadendo la sentenza papale.

“La Tigre di Forlì – esclamò Rodrigo, che più di tutto avrebbe voluto togliersi la papalina per far respirare un po' la testa, in quell'afosissimo pomeriggio – ha spaventato la Romagna intera coi suoi crimini e ora Dio l'ha punita con una piaga biblica: la malattia!”

Mentre i Cardinali si perdevano via in frasi a effetto e scambi d'opinioni a voce alta, Alessandro VI fece un cenno con l'indice al delatore affinché si avvicinasse.

L'uomo lo fece e quando fu a poca distanza dal papa, questi gli chiese, quasi in un sussurro: “Ci sono dei morti illustri?”

“Non che si sappia, per ora, Vostra Santità.” fece la spia, che non era riuscita a carpire molto circa la reale entità dell'epidemia, dato che nessuno sembrava poter entrare o uscire da Forlì.

“Cercate di scoprire se il mio figlioccio Ottaviano è ancora in vita.” concluse il papa, mentre il chiacchiericcio dei Cardinali si spegneva.

La spia fece un profondo inchino: “Lo farò, Vostra Santità.”

Rodrigo fece un'espressione affranta, a beneficio di quel credulone del delatore e poi dichiarò tolta la seduta.

Non gliene sarebbe importato un fico secco, di Ottaviano Riario, se non ne fosse stato il padrino.

Se quel ragazzino inutile fosse morto di peste, o colera o qualunque altra cosa avesse colpito Forlì, per il papa sarebbe stato solo un vincolo in meno.

La presenza di Ottaviano era l'unico freno che bloccava la mano implacabile del papa. Non poteva scagliarsi apertamente contro uno Stato formalmente retto dal suo figlioccio.

Però, se il figlioccio fosse morto, chi avrebbe impedito a Sua Santità di esercitare il suo sacro potere e calare la scure sulla dannatissima Leonessa di Romagna?

“Preparatemi il necessario per scrivere.” ordinò stancamente a uno dei suoi tirapiedi.

Mentre i Cardinali lasciavano la sala, Rodrigo si avvicinò alla scrivania, apparecchiata ad arte dal suo servo.

Impugnando svogliatamente la penna, intinse l'inchiostro e si preparò all'ennesima lettera per Giovanni Sforza. Da quanto tempo cercava di farlo tornare a Roma? Minacce, promesse, parole di miele... Niente sembrava poterlo convincere.

Si comportava come qualcuno che temesse di imbattersi in un fantasma non appena avesse messo piede in Vaticano. Che atteggiamento infantile...

“Ah, maledetti Sforza...” bofonchiò tra sé il Santo Padre: “Vituperio del papa, ecco cosa siete.”

 

 
   
 
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