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Autore: Adeia Di Elferas    18/06/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Quando Caterina si svegliò, trovò la stanza ancora immersa nel buio, ma accanto a lei, nel letto, non c'era più nessuno. Passò una mano laddove prima era stato Giovanni e poi inspirò con forza.

Tirandosi su a fatica, sentendo la schiena dolorante e la testa pesante, ci mise un po' a ricordarsi di tutto quello che era successo e del perché si trovasse nel letto dell'ambasciatore di Firenze.

Chiedendosi quanto avesse dormito, si alzò, si sistemò l'abito, che nel sonno si era sgualcito parecchio, e andò alla finestra. Quando scostò la tenda, un sole che aveva il sapore del primo mattino l'accecò per qualche istante.

Dunque il cielo era ancora limpido. Nemmeno la traccia di una nuvola. Di quel passo, l'estate avrebbe bruciato i campi e inasprito l'epidemia fino a fare allo stato della Sforza ciò che nemmeno i francesi erano riusciti a fare.

Con un nuovo peso sullo stomaco, la Contessa si massaggiò le tempie, strizzando gli occhi e cercando di rimettere insieme le idee. Aveva molte cose da fare e se solo provava a pensarci, tutto le andava insieme in un unico turbine confuso.

Appena prima di uscire, notò un appunto scritto sul primo foglio di una piccola risma sulla scrivania del Medici.

'Se mi si cerca, mi si trova nella rocca. Voglio dare un aiuto, se posso.' aveva scritto il Popolano, con una grafia che Caterina aveva imparato a conoscere quando aveva scambiato con Giovanni e con il fratello alcune lettere di stampo commerciale.

In fondo, quasi a piè pagina, c'era scritta anche un'altra frase, ma era stata cancellata con una serie di righe. La Tigre, curiosa di sapere che cosa il fiorentino avesse voluto dire, per poi pentirsene, prese il foglio tra le dita e lo guardò bene in controluce.

Dopo un po' di tentativi, la donna capì che sotto alle rigacce Giovanni aveva scritto: 'Chi è il Ludovico che avete continuato a nominare?'

Rimettendo al suo posto il foglio, Caterina emise un lento sospiro. Non ricordava nulla, di quello che aveva sognato.

A giudicare dalla luce del sole, doveva aver dormito per un giorno intero, ma di tutte quelle ore di sonno non avrebbe saputo dire nulla.

Evidentemente, senza accorgersene, aveva rivisitato una volta di più le segrete della rocca, aveva rivissuto ancora e ancora la morte del giovane Marcobelli e magari anche quella di altri.

Sperando di non aver dato al fiorentino l'impressione di essere pazza, parlando nel sonno, Caterina si controllò un'ultima volta gli abiti, si ravviò i capelli e infine uscì dalla stanza.

Cercò Giovanni per mezza rocca, ma, prima di trovarlo, si imbatté in Achille Tiberti: “Come state, mia signora?” chiese egli, guardandola accigliato.

La donna rispose che tutto sommato stava bene e il soldato le riferì che i resti di sua madre erano partiti per Imola quella notte, senza destare il sospetto della popolazione.

“Lo sappiamo solo io e i vostri altri più fedeli servitori.” specificò Tiberti, con un mezzo inchino.

La Contessa lo ringraziò e chiese che ne fosse stato di suo figlio.

“Il suo corpo è ancora nel suo letto. Non l'abbiamo spostato, per ora.” ammise Achille: “Ma sapete che tenendolo in città probabilmente sarà necessario...”

“Lo so.” fece Caterina, senza lasciarlo finire: “Piuttosto, avete visto da qualche parte l'ambasciatore di Firenze?”

Tiberti sollevò le sopracciglia, sorpreso da quella richiesta. Aveva incontrato non da molto l'inviato fiorentino ed stato lui stesso a riferigli che la Contessa stava riposando e che non voleva essere disturbata.

Quando Achille aveva chiesto dove stesse riposando, dato che nei suoi alloggi non era stata trovata, il toscano aveva sollevato il mento e aveva detto, ostentando una certa sicurezza: “In camera mia.”

“L'ultima volta che l'ho incontrato, l'ambasciatore stava portando su dalla cucine la zuppa per i convalescenti.” disse Tiberti, con una nota di ironia che alla Tigre parve del tutto fuori luogo.

“Si sta dimostrando molto prezioso, per noi.” disse la Contessa, con freddezza: “Dovreste prendere esempio dalla sua buona volontà.”

Il soldato non osò dire altro e Caterina, avvertendo all'improvviso una fame incredibile, andò verso le scale che conducevano alla dispensa, in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti.

Malgrado il lutto e malgrado i tormenti che la seguivano, la Tigre sapeva bene che le lunghe battaglie non si possono combattere a stomaco vuoto.

 

Pur credendo di poter continuare come i giorni prima a darsi da fare a tuttotondo, in realtà Caterina, dopo aver mangiato qualcosa e aver bevuto un po' di vino, aveva finito per andare nella camera in cui riposava il corpo di Livio.

Ne era uscita solo quando si avvicinava la sera.

Aveva ancora l'odore della morte nelle narici, gli occhi pieni della vista del corpicino livido e inerme di suo figlio e l'anima pesante come una pietra tombale.

Non aveva voluto parlare con nessuno e aveva rimandato ancora una volta tutti quegli impegni che nei momenti di lucidità le parevano pressanti e impossibili da rimandare, ma che poi, appena l'enormità di quello che era capitato le precipitava tra capo e collo, le sembravano improvvisamente facezie e cose da nulla.

Mentre il sole cominciava a tramontare, Caterina andò sui camminamenti. Le guardie di ronda erano dimezzate e la città sembrava deserta da quella postazione privilegiata.

Se non fosse cambiato in fretta qualcosa, almeno nel clima, quella avrebbe potuto essere la fine di Forlì. Anche se non si trattava di peste, quell'epidemia aveva paralizzato lo Stato.

In lontananza, dalla parte delle montagne, in contrasto col sole morente si intravedeva una striscia più scura di cielo. Se solo fossero state nuvole cariche di pioggia...

“Vi ho cercata, questo pomeriggio.” la voce di Giovanni Medici fece voltare di scatto la Contessa, che, appoggiata alle merlature, stava fissando la città con aria tetra.

“Avevo da fare.” mentì la donna, tornando a guardare verso Forlì.

Il fiorentino le si mise accanto, indirizzando gli occhi chiari verso l'orizzonte.

Con uno sguardo molto rapido, la Tigre notò che l'ambasciatore indossava una camicia bianca con qualche macchia, probabilmente la stessa che aveva addosso per dormire, e che la sua fronte era imperlata di sudore. Qualunque cosa avesse fatto per tutto il giorno, probabilmente non si era risparmiato, malgrado i suoi problemi di salute.

“Avete incontrato i vostri figli?” chiese Giovanni, passando distrattamente una mano sulla pietra ruvida della rocca.

Caterina scosse la testa: “No.” poi sospirò e aggiunse: “Ma sto cercando di pensare a un modo per sistemarli. Io ho continuato a perdere tempo, in questi anni, ma se il mio Stato dovesse venir spazzato via, loro devono avere un futuro assicurato lontano da qui.”

“Vostra figlia è sposata ad Astorre Manfredi.” notò il Popolano: “Faenza non è molto lontana da qui.”

“Mia figlia farà quindici anni in ottobre. Astorre ne ha poco più di undici. Lei vive qui con me e Astorre a Faenza con il suo tutore.” elencò con calma Caterina: “Si sono visti solo un paio di volte in tutto, e sempre con dei supervisori.”

Giovanni non ebbe bisogno di altre spiegazioni. Aveva capito che il matrimonio tra Bianca Riario e il signore di Faenza era solo una montatura e, soprattutto, era chiaro che la Tigre non avesse alcuna intenzione di permettere che diventasse qualcosa di più vincolante. Anche se, durante la sua visita alla corte di Manfredi, il Popolano aveva avuto il sentore che per Castagnino quelle nozze fossero una cosa molto più seria, di come le reputasse la signora di Forlì, c'era da ammettere che la Leonessa aveva giocato bene le sue carte e, almeno per il momento, aveva il coltello dalla parte del manico.

“State attenta a una cosa, però – disse solo, mentre le sue labbra si sollevavano in un piccolo sorriso di approvazione per la strategia messa in atto dalla Contessa – se Faenza cadesse in mano veneziana, siete certa che non pretenderanno subito la partenza di vostra figlia verso la casa del marito?”

“Che provino a farlo.” ribatté Caterina, gli occhi bassi e il mento un po' in fuori.

Il fiorentino trovò ammirevole quell'atteggiamento, ma sapeva che quelle parole sarebbero state vuote, se uno Staterello come quello della Sforza si fosse trovato contro al gigante che era Venezia.

“Dovreste coprirvi meglio le spalle, se volete rischiare di mettervi contro il Doge.” fece il Popolano: “Dovreste trovarvi qualcuno di più leale con cui allearvi.”

“Qualcuno come Firenze?” soffiò la Tigre, un sopracciglio alto e un velo di ironia in viso: “Potrei davvero fidarmi di una repubblica? Quando il potere è di tutti, ambasciatore, di norma poi le responsabilità non sono di nessuno.”

“Non conoscete Firenze.” ribatté il Medici, gonfiando il petto con un malcelato amor patrio.

“Forse avete ragione . Forse la vostra, più che una repubblica, è una tirannia ben mascherata. Quel pazzo di Savonarola fa ancora i suoi bei discorsi in Duomo?” attaccò Caterina.

Il fiorentino strinse i denti e rispose, a voce bassa: “Quel domenicano non è il padrone di Firenze.”

La Tigre avrebbe voluto insistere su quel punto, smontando la tesi del fiorentino, ma le mancavano le forze di farlo. Da tanto tempo non si scontrava con qualcuno che paresse capace di tenerle testa, almeno in ambito politico, e dopo quello che aveva passato nelle ultime ore, la Contessa non desiderava certo essere messa alle strette da un uomo, per altro più giovane di lei.

“E gli altri vostri figli? Avete già dei piani per loro?” chiese Giovanni, desideroso quando la donna di cambiare argomento, mentre un leggero vento cominciava ad alzarsi, scompigliandogli i ricci castani.

“Cesare diventerà un prelato. Cardinale, Vescovo, poco importa. Ormai è affare di suo cugino Raffaele.” iniziò la Tigre, ignorando la guardia che stava passando loro alle spalle, fissandoli incuriosito: “Per Sforzino cercherò una posizione. Nella Chiesa o imparentandolo a qualcuno, non lo so, lui è ancora piccolo. Galeazzo avrà bisogno di una moglie come si deve, una donna di lignaggio e possibilmente colta e intelligente, perché un giorno...”

La Leonessa si interruppe appena prima di dire che un giorno lo Stato sarebbe finito nelle mani di Galeazzo. Anche se Giovanni Medici sembrava in buona fede, un'informazione del genere non doveva trapelare. Se il papa avesse scoperto in qualche modo i piani di Caterina, di certo ci sarebbero state delle conseguenze pesanti.

Così, dopo aver scosso brevemente il capo, la donna concluse: “E invece il mio Bernardino farà il soldato. Appena sarà abbastanza grande, troverò il modo di farlo diventare cavaliere e allora la sua spada gli basterà per prendere la sua strada e andarsene da qui.”

Giovanni ascoltava in silenzio. Le gambe cominciavano a stare molto meglio e il lungo sonno l'aveva rigenerato, anche se poi era stato quasi tutto il giorno impegnato a portare pesi e spostare ammalati. Eppure c'era qualcosa nel modo di parlare della Tigre che aveva il potere di far desidere al Popolano di tornarsene a letto a dormire, stretto a lei, in silenzio, come aveva fatto il giorno e la notte appena trascorsi.

“E Ottaviano?” chiese poi Giovanni, vedendo che la Contessa non pareva propensa a dire altro.

Quella domanda indispose un po' Caterina, che stava per rispondere in modo graffiante, quando una folata improvvisa di vento le portò i capelli davanti al viso, zittendola.

Rimettendoseli a posto, propose: “Rientriamo?”

“Sembra che il tempo si metta a brutto.” commentò il fiorentino, guardando verso la riga grigia che si stava avvicinando: “Speriamo che piova.”

Quando furono al riparo delle mura spesse e impenetrabili di Ravaldino, Giovanni tornò alla carica, chiedendo: “Vostro figlio Ottaviano sa che sua nonna e suo fratello sono morti?”

Caterina strinse le palpebre e, arricciando le labbra come se avesse assaggiato qualcosa di molto amaro, rispose: “Non lo so e non mi interessa.”

Il fiorentino, dato che la Contessa aveva iniziato a camminare a passo spedito diretta chissà dove, accelerò e le si parò davanti per fermarla: “Vostro figlio Ottaviano è molto importante, lo sapete certo meglio di me. Il papa non vi ha punita solo perché c'è lui, vero?”

La Tigre puntò le iridi verdi in quelle più chiare e trasparenti di Giovanni e cercò di capire che cosa lo stesse portando su quel discorso: “Sì.”

“Fossi in voi, alla luce di quello che sta succedendo, lo libererei.” fece l'uomo, senza frenarsi.

La Contessa scosse con decisione il capo: “Mai.”

I due rimasero in silenzio, l'una guardando in terra, l'altro fissando il muro.

Caterina si chiedeva se Giovanni sapesse di cosa stesse parlando, se sapesse cosa sarebbe stato per lei liberare suo figlio.

Intanto il Popolano stava cercando il modo più efficace per far capire alla donna che aveva davanti che quello che le stava dicendo lo stava dicendo solo per il suo bene, per aiutarla, per darle una visione diversa della sua situazione, più distaccata e più realista.

Anche se Ottaviano era stato il mandante di un omicidio, per restare a galla era necessario perdonarlo, anche solo formalmente. Era necessario accettare un compromesso, per quanto difficile da digerire.

“Chi è il Ludovico che chiamavate nel sonno?” chiese a quel punto il fiorentino, colpito dall'improvviso ricordo delle lunghe ore passate tra le braccia della Leonessa di Romagna.

La donna aveva dormito come un sasso, all'inizio, ma poi, a intervalli regolari, aveva cominciato ad agitarsi nel sonno, farfugliando frasi senza senso e invocando sovente e con una certa disperazione il nome di quel misterioso Ludovico.

“Lasciatemi passare.” fece a quel punto Caterina, cercando si scansare Giovanni e andare oltre.

“Ragionate, vi prego – insistette il Popolano, ritornando sulla questione di poco prima – liberate vostro figlio. Trovategli una moglie. Rendetegli il titolo e...”

Nel dire quelle parole, istintivamente, il fiorentino aveva allungato una mano verso la Contessa e aveva intrecciato le sue dita a quelle della donna con urgenza.

Se in un primo momento Caterina pareva aver accettato quel gesto, quando si sentì rivolgere quella serie di forzosi consigli, la Tigre scansò di colpo la mano del Popolano e sbottò: “Non crediate di poter venire a dare ordini in casa mia!”

“Non è quello che intendevo fare...” si scusò Giovanni, facendosi da parte.

Malgrado avesse finalmente la strada libera, la Contessa non si mosse. Al contrario, questa volta fu lei ad avvicinarsi all'ambasciatore. L'uomo non abbassava lo sguardo, sostenendo quello della Tigre come pochi altri avrebbero osato fare. E fu questo dettaglio a placare in parte l'ira che stava rimontando in Caterina.

“Solo perché vi ho permesso una volta di avvicinarvi a me, non significa che tra noi ci sia qualcosa di più di quello che deve esserci tra il capo di uno Stato e un ambasciatore straniero.” disse la Leonessa di Romagna, senza far troppo caso alle voci che arrivavano da fuori, attraverso le finestre spalancate, concitate e incalzanti: “State al vostro posto, Medici. Lo dico per voi.”

Quando la donna fece per rimettersi in marcia, Giovanni si morse il labbro e poi, siccome, malgrado tutto, l'unica cosa che voleva era stare in sua presenza, provò a trattenerla: “Io posso esservi d'aiuto. Se solo vi fidaste di me, io potrei...”

Dato che il fiorentino pareva non aver capito, Caterina si rimise dinnanzi a lui e dichiarò, sperando di chiudere la questione una volta per tutte: “Voi credete di conoscermi solo perché conoscete il nome che porto e perché avete studiato come un educando la storia mia e della mia famiglia, prima di presentarvi qui. Credete di conoscermi solo perché avete sentito dire delle cose su di me. Ma non sapete nulla. Io ormai sono come una pianta secca: non si sa se vivo ancora o se mi limito a stare in piedi. Dentro di me non è rimasto più niente. Io ho fatto cose orribili, Medici. Non ho solo fatto giustiziare della gente. Non mi sono limitata a dare ordine ad altri di spezzare vite al posto mio. Io ho ucciso. E non sempre per un motivo valido, ve lo posso assicurare. Questa mano – disse, sollevandola e mostrandola al Popolano – la stessa che prima avete stretto con tanta accoratezza, è una mano che ha ucciso. Più di una volta e anche senza altre armi se non la sua semplice forza.”

Giovanni ascoltava in silenzio, le iridi verde chiaro immobili e i muscoli della mascella contratti. In tutta onestà, la Contessa non avrebbe saputo dire se quel che stava dicendo stesse impressionando, spaventando, incuriosendo o orripilando l'ambasciatore di Firenze.

Le voci, intanto, si stavano facendo più vicine e così la Tigre sentì il bisogno di concludere quello spiacevole siparietto prima che arrivassero dei testimoni: “Ludovico Marcobelli – proseguì, mentre nel pronunciare quel nome la bocca le si seccava – è stato solo il primo.”

Giovanni forse stava per esprimere il suo pensiero ad alta voce, ma quelli che stavano parlottando tra loro all'esterno erano giunti nel corridoio in cui stavano lui e la Contessa e reclamarono subito l'attenzione di Sua Signoria.

“Che cosa è successo?” chiese Caterina, allontanandosi da Giovanni e raggiungendo i suoi soldati.

“Una cosa che ha dell'assurdo, mia signora – cominciò Mongardini, i piccoli denti perlacei che si mostravano mentre faceva una smorfia indecifrabile – per colpa del vento.”

“Parlate.” lo spronò la Tigre, che proprio non era in vena di giri di parole.

“La testa di Pavagliotta...” proseguì il Capitano, tormentandosi le mani l'una nell'altra, mentre gli armigeri che aveva alle spalle puntavano gli occhi sgranati sulla Contessa: “Il vento l'ha tirata giù dalla torre e l'ha sbattuta a terra!”

Non sapendo nemmeno lei per quale motivo, la Tigre scoppiò a ridere, trovando quell'immagine grottesca, ma comica.

Giovanni, a poca distanza da lei, la stava fissando, serio e accigliato.

Mongardini notò quella strana situazione e si chiese che cosa frullasse in quel momento nel cervello del fiorentino. Nemmeno a scommetterci sopra un sacco d'oro si sarebbe riusciti a capire che cosa stesse pensando, nel guardare la Leonessa ridere di una simile notizia.

Quando tornò padrona di sé, Caterina ordinò: “Se la pece s'è rovinata, rispargetela, se qualche pezzo s'è staccato, riattaccatelo, e poi rimettete la testa di quell'assassino in cima alla torre con le altre.”

“Come volete, mia signora.” fece Mongardini, aggiungendo poi, con una vene di timore che non si addiceva a un soldato tanto temibile: “Non sarà un segno..?”

La Contessa lo guardò per un lungo istante e poi osservò gli altri uomini, una dozzina in tutto. Le loro facce tradivano il timore antico che era proprio di quasi ogni truppa. I soldati erano superstiziosi, la Tigre lo sapeva bene.

E sfruttò la sua conoscenza a suo favore, come sempre: “È certo che si tratti di un segno. È il segno che questa perniciosa epidemia ci è stata mandata per vendetta dai traditori morti, ma adesso Dio è riuscito a sconfiggerli e presto pioverà e a Forlì tornerà la prosperità e la malattia se ne andrà.”

Gli armigeri, con grande sorpresa del Popolano, che aveva trovato quell'affermazione quanto meno fantasiosa, parvero molto rincuorati e concordi con quella versione.

“Andate a fare quello che vi ho detto.” concluse Caterina: “E dite a tutta la popolazione che questo è un segno della benevolenza di Dio.”

Mongardini chinò il capo e, seguito dagli altri, lasciò il corridoio, già vantandosi a mezza bocca di aver capito anche prima che quello era solo un segno positivo e che non c'era nulla di cui aver paura.

“Un segno divino?” chiese Giovanni, con una specie di sorrisetto scettico, appena fu di nuovo solo con la Contessa.

“Oh, per favore, state zitto.” lo liquidò Caterina, passandogli accanto.

Il Medici la lasciò andare, senza trattenerla più. In quei minuti, mentre la osservava parlare con i suoi uomini, aveva ragionato su quello che si erano detti poco prima e sugli atteggiamenti a volte indecifrabili della Leonessa.

E aveva capito che, se non voleva rovinare tutto, avrebbe dovuto stare più attento.

Un gatto selvatico graffia e morde, se gli ci si avvicina troppo in fretta.

Così, allacciandosi le mani dietro la schiena, Giovanni andò fino alla sua stanza, per scrivere a suo fratello la lettera che aveva fino a quel momento rimandato, in modo da spiegargli gli eventi di quell'ultimo periodo.

 

Tommaso Feo si fece il segno della croce e poi guardò la pietra tombale della moglie.

L'aveva commissionata a uno dei migliori scultori di Imola, eppure trovava ugualmente che l'effige di Bianca fosse solo una pallida imitazione di quello che era stata in vita.

“Hai visto?” disse, rivolgendosi al volto di pietra: “Adesso c'è tua madre, con te.”

Da qualche giorno aveva preso l'abitudine di andare alla chiesa di San Michele, mettersi davanti alla tomba di Bianca e parlarle. Era una cosa stupida. Avrebbe dovuto parlarle di più quando era viva, non adesso che era morta. Però quel misero espediente lo faceva sentire meno solo.

Il giorno prima, poco dopo la lettera che ne annunciava l'arrivo, era giunto in città un carretto dimesso, che portava però un illustre carico.

Tommaso aveva fatto tumulare la suocera dopo un breve funerale, tenuto in forma privata, per evitare di suscitare l'interesse della folla. Aveva anche fatto dire qualche preghiera per il povero Livio, visto che nella lettera si accennava anche a lui e alla sua prematura scomparsa.

Il Governatore era sempre andato d'accordo con quel bambino, quando viveva a Forlì. Gli dispiaceva pensare che non ci fosse più. Se proprio qualcuno doveva morire, Tommaso avrebbe preferito che fosse uno degli altri figli della Contessa. Ottaviano, per esempio.

Nel messaggio d'accompagnamento si spiegava che Lucrezia era morta, come il nipotino, per via dell'epidemia che aveva colpito Forlì e che il suo corpo avrebbe dovuto subire la sorte degli altri infetti, venendo bruciato o sepolto fuori dalle mura assieme a tutti gli altri. Caterina, però, aveva voluto per sua madre un sepolcro degno di quel nome.

“Adesso che c'è lei con te – sussurrò Tommaso, dando un'ultima occhiata alla pietra che custodiva le spoglie mortali di sua moglie – non devi più avere paura.”

Si fece di nuovo il segno della croce, fece un breve inchino rivolto alla tomba della suocera e poi si avviò verso l'uscita.

Appena oltre il portale della chiesa, si rimise il cappello, coprendosi i capelli ancora abbastanza folti, ma ormai del tutto grigi, e guardò il cielo. I suoi occhi, venati di rosso per le ore di insonnia e per il pianto, che andava a visitarlo quasi ogni notte, si persero per un momento all'orizzonte.

Verso Forlì, fin da stare lì a Imola, si potevano vedere i segni di una tempesta in avvicinamento. Le nubi scure creavano un'unica linea nera che altro non poteva portare se non pioggia e magari grandine.

In altri frangenti Tommaso sarebbe stato preoccupato per quella visione, ma non quel giorno.

Chiudendosi il bavero con una mano, accorgendosi solo in quel momento del vento fortissimo che spirava con furia, il Governatore si rivolse a Dio e lo pregò di mandare la pioggia da sua cognata e, con la pioggia, di portarle anche un po' di pace.

 
   
 
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