THE
STRANGER
Una
giovane donna camminava per le strade innevate di una tranquilla
città. Ogni
passo era esitante, ed ogni sospiro addolorato. Teneva tra le braccia
un cesto,
e lo stringeva gelosamente al suo petto come se fosse la cosa
più preziosa al
mondo. Era completamente coperta da un mantello sgualcito, ma chi
osservava
bene poteva notare dei lunghi capelli neri e delle lacrime solcare il
suo volto
pallido.
Passando,
veniva guardata in modo diffidente dai nobili abitanti che anche a
quell’ora
della notte si ritrovavano per chiacchierare. La donna li sentiva
mormorare
alle sue spalle, e dentro di sé aveva capito che
l’avevano riconosciuta. Non le
rimaneva molto. Non aveva più tempo per i dubbi. Si
fermò qualche secondo per
prendere un gran respiro, per poi riavviarsi a passo spedito.
Ogni
tanto si guardava intorno con ansia, controllando se qualcuno la
seguisse.
Lanciava anche occhiate occasionali al posto in cui si era diretta:
c’erano
piccole case, e tutte avevano l’aspetto di ville di campagna.
Non c’erano
strade vere e proprie, solo sentieri fatti di ciottoli. Oltre quello,
solo
distese d’erba. Gli abitanti erano tutti in armonia tra loro,
sembravano tutti
felici. Doveva ammetterlo. La natura si era ripresa in modo
strabiliante da
quando il pianeta non era più sotto il controllo degli
Umani. Riusciva a
percepirlo, era come se la natura stesse parlando e le stesse dicendo
che ora
andava tutto bene. Però percepiva anche altro. Sentiva
ingiustizia e odio verso
la loro specie ovunque, e sentiva paura nelle persone più
sagge. Gli altri non
volevano accettarlo. Pensavano che tutto fosse perfetto. Ma nel
profondo
sapevano che non sarebbe durato.
Continuando
a mantenere la calma e un atteggiamento sicuro per non dar ancora di
più
nell’occhio, avanzò verso un uomo. Aveva un
aspetto regale, ed appena lui le
rivolse la parola, tutti gli sguardi diffidenti svanirono, e nessuno le
prestò
più attenzione.
L’uomo
si diresse verso un sentiero secondario, un posto molto isolato, nella
quale
però li aspettavano una seconda donna, anch’essa
vestita in modo lussuoso. A
differenza dell’uomo, che rivolgeva alla giovane sguardi
calorosi, lei la
guardava in modo spregevole, quasi la disgustasse la sua presenza.
“Mia
cara…” disse lui. La giovane gli sorrise e si
tolse il mantello, asciugandosi
le lacrime occasionali. Si scorgevano sul suo viso pallido degli occhi
color
verde acqua e sulla guancia un simbolo dello stesso colore*.
“Mio
Rothek… lei non sa quanto le sono grata per il favore che mi
sta facendo…”
disse lei con un fil di voce. Il re le sorrise.
“Mia
cara Helen, dopo che suo marito sacrificò la sua vita per
salvare la mia…
sarebbe il minimo” le disse lui.
Il
sorriso di Helen si piegò per un’istante, mentre i
suoi occhi si inumidirono.
Strinse nuovamente il cesto a lei, e l’uomo le mise una mano
sulla spalla per
confortarla.
“Giuro
sul mio onore che finché io sarò ancora in vita,
non le accadrà niente.” Le
promise.
Lei
sorrise, mentre una lacrima scendeva fino al mento. Si
separò lentamente dal
cesto e, tremante, glielo affidò. La donna, Helen suppose
fosse la sua nuova
moglie, si avvicinò per vedere.
All’interno
si trovava una piccola bambina. Dimostrava circa un anno, e nonostante
fosse
ben sveglia, non si azzardava a far rumore. Aveva i corti capelli neri
come
quelli della madre, ma a sua differenza, gli occhi e il simbolo che
aveva sulla
guancia erano blu cobalto.
“Lei
è… lei è Gwen.” Disse con
voce debole, per poi guardare la regina. Gwen era un
nome da Umano, e lei li disprezzava con tutto il cuore. Infatti, come
si
aspettava, assunse un espressione disgustata.
“Non
si chiamerà Gwen finché vivrà da
noi.” Disse con voce fredda. Il Rothek la
guardò con disappunto, mentre Helen abbassò lo
sguardo.
“Mia
Rothetin…” provò a dire, ma venne
zittita dalla donna.
“Andiamo,
mio caro” disse la Rothetin a suo marito, che guardava la
piccola. Helen si
fiondò un’ultima volta sulla bambina, mettendole
le mani sul viso.
“Piccola
mia…” disse con voce spezzata “ricorda
chi sei” la baciò sulla fronte, mentre
delle lacrime le sfioravano le guance “ricorda che sei una
Lyrothiem, e dovrai
andarne sempre fiera”.
La
madre cominciò a singhiozzare, e con suo dispiacere si
separò dalla figlia, che
con gli occhi ancora aperti e vispi, guardava incuriosita il Rothek.
Helen
prese il mantello da terra, e se lo riavvolse intorno. Sapeva che era
corsa
incontro alla morte venendo a Pymessek. Era la capitale del regno dei
Setholyrem, e i Lyrothiem erano esiliati dai loro territori. Sarebbe
stata
uccisa appena scoperta.
Però
aveva dovuto farlo. Voleva che la sua Gwen vivesse, e non era al sicuro
con
lei.
Guardò
la Rothetin, che ricambiava il suo sguardo. Il Re e la sua bambina
erano già
lontani, mentre una piccola figura era comparsa. La riconosceva come la
figlia
del Re, e da quel che si narrava aveva preso la bontà del
padre.
La
guardò con sguardo implorante, e lei, sorridendo triste,
annuì. La piccola
avrebbe fatto in modo che sua figlia sapesse, sapesse tutto.
Inaspettatamente,
la Rothetin disse qualcosa in Lyrico, lasciando la figlia perplessa.
Non
parlava la sua lingua dai tempi della Grande Battaglia, ma appena delle
guardie
le si avvicinarono, capì. Sospirò affranta. Se lo
aspettava.
Si
girò verso di loro, dicendo con voce decisa una delle poche
parole che si
ricordava della sua lingua madre: Syrem, cuore.
Lentamente,
si inginocchiò, portando le braccia dietro la schiena ed
alzando la testa. Uno
dei soldati tirò fuori un arco e una freccia.
Quest’ultima venne incendiata, ed
Helen si ricordò di quando i Lyrothiem prigionieri venivano
bruciati dai Figli
del Sole. Si diceva che fosse il loro modo per dire che il calore e la
luce
avrebbero sempre sconfitto il freddo e le tenebre.
Sorrise
nostalgicamente pensando ai tempi in cui Sole e Luna vivevano ancora in
armonia.
Ripensò
a suo marito, che si era così coraggiosamente sacrificato
per salvare il più
valoroso dei suoi nemici. Poi a sua figlia, che sotto la custodia di
quell’uomo
non avrebbe potuto che avere una vita degna di essere chiamata tale.
Con
il ricordo delle persone che aveva amato e la voce della piccola
principessa
che implorava la madre, chiuse gli occhi e lasciò che il
Sole le bruciasse il
cuore.
Era
notte fonda, e, attraverso dei corridoi
poco illuminati, stava correndo una ragazza minuta, di forse 12 anni.
La
suddetta indossava un lungo abito lilla, aveva occhi color argento e
portava i
chiari capelli biondi in una treccia ordinata. Teneva stretta al petto
due
libri dalla copertina blu, tra i quali spuntava una lettera ormai
ingiallita.
Dopo
qualche minuto riuscì ad arrivare alla
sua meta, una semplice stanza dalla porta nera, forse più
trascurata delle
altre.
All’interno
c’erano un letto dalle coperte
sbiadite, una libreria colma di libri e una scrivania piena di fogli e
matite
sparse anche a terra. Sopra la scrivania, in punta di piedi, si trovava
una
piccola bambina che non dimostrava più di 5 anni, che invano
provava ad
affacciarsi ad una finestra
posta troppo
in alto. La ragazza
ridacchiò.
“Gwen,
per favore, è troppo in alto per te,
rischi di farti male” disse con voce calma, avvicinandosi
alla scrivania e
prendendola in braccio.
“Ma
io voglio vedere la luna!” disse la
piccola con voce sognante.
La
bionda sorrise e la poggiò sul letto,
sedendosi di fianco a lei. Gwen si lasciò cadere
all’indietro, ridendo, per poi
scompigliarsi i capelli.
“Guarda
Dylhes, mi sono tagliata i capelli da
sola!” affermò rimettendosi seduta e scuotendo la
testa. Dylhes si accigliò e
sorrise.
“Si
vede, piccola mia. Ma credo tu gli abbia
tagliati un po’ troppo corti” le disse
ridacchiando. Sentendola, la piccola si
alzò e raggiunse uno specchio lì vicino. Appena
si vide, assunse un’espressione
delusa.
“Dylhes?”
disse con voce triste
“Si,
piccola?”
“Mi
mancano i miei capelli lunghi” affermò
con tristezza, mentre l’altra scoppiò a ridere.
Gwen
si imbronciò e provò a spintonare la sua
amica.
“Non
ridere di me!” disse, mentre l’altra
continuava a ridere. Si risedette sul letto mantenendo il broncio
finché la
bionda non smise.
La
più grande si avvicinò per abbracciarla,
scompigliando i corti capelli neri e accarezzando il simbolo blu che
aveva
sulla guancia finché non tornò a sorridere.
“I
capelli cresceranno presto, e tu resti
comunque bellissima” le disse con voce dolce, ma presto si
accorse che
l’attenzione della piccola non era più su di lei.
La
luna si era alzata maggiormente in cielo,
e ora era ben visibile da quel punto della camera. Gwen si
alzò in piedi e
restò a guardarla incantata, completamente catturata dalla
sua bellezza.
I
raggi luminosi passavano dalla finestra,
colpendola in pieno viso, facendole storcere il naso divertita e far
brillare
il simbolo blu. L’amica la guardava dolcemente. Per tutto
quello che sua madre
aveva provato a fare, Gwen era e sarebbe rimasta una Figlia della Luna,
e
niente l’avrebbe fatta cambiare.
“Vieni,
sdraiati qua” le disse, indicando il
posto vicino a lei. La corvina si riscosse dai suoi pensieri ed
obbedì, però
sdraiandosi sulle gambe dell’altra, che le sorrise.
“Sorellona?”
disse dopo un po’ con voce bassa
e guardando il soffitto spoglio.
“Si,
Raggio di Luna?” rispose, facendola
ridere, come sempre faceva quando la chiamava così.
“Perché
tu mi chiami Gwen e la Rothetin mi
chiama Zyria?” chiese incuriosita. La sorella
pensò a come poterglielo
spiegare, senza che la bambina si facesse ulteriori domande.
“Perché
Zyria è un nome tipico del nostro
popolo, mentre Gwen è un nome che usavano gli umani. Gwen
non è però lo stesso
nome che è Zyria. Come dire… non è la
sua versione in lingua umana, come lo è
Dawn per il mio nome ” rispose, sperando di non ricevere
altre domande.
“Cosa
vuol dire Zyria?” domandò, guardandola.
La bionda scosse la testa e ricominciò a pensare. Come dirle
il vero
significato? Sconosciuta. Estranea. Come dirglielo senza che le
chiedesse chi era lei?
“Significa
straniera” rispose una terza voce.
Le due bambine si girarono verso la porta, dove si trovava il Rothek,
appoggiato ad una parete. Gwen sorrise a trentadue denti e gli corse
incontro,
mentre lui si era inchinato alla sua altezza per abbracciarla. Si
rialzò con
lei in braccio e si avviò verso il letto, per poi sedersi di
fianco alla
figlia.
“Straniera
perché non sappiamo da dove vieni.
Però non imbronciarti, non è un male, piccola
mia” le disse il re, mentre lei
la guardava prestandogli tutta la sua attenzione.
“Non
è un male, venire da terre sconosciute.
Vuol dire che sei speciale.” Finì toccandole il
naso e facendola ridere.
“Però
io chi sono?” disse alzandosi in piedi e tenendosi aggrappata
alla barba del
re, che lasciò un lamento di dolore.
“Perché
pensare a chi eri se puoi pensare a
chi diventerai?” disse sorridendo provando a togliere le mani
della bimba da
lui.
Lei
sembrò pensarci su. Dopo qualche secondo
si convinse e ritornò sulle gambe della sorella, prendendo
uno dei due libri
che aveva portato.
Prima
che la maggiore potesse dirle di cosa
parlava, la Rothetin comparse davanti alla porta.
“Mio
Re, è il caso che lei torni nelle sue
stanze” disse con tono freddo, tenendo lo sguardo gelido
puntato sulla bambina.
Il Rothek sospirò dispiaciuto e si alzò dal letto.
“Hai
ragione, si è fatto tardi. Dylhes, vieni
anche tu” ordinò. La ragazza provò a
ribattere, stringendo a sé la sorella
minore, ma il padre non volle sentire storie.
“Andiamo
figlia mia, non è un bene per una
Figlia del Sole stare così vicino… alle
Tenebre” aggiunse la madre in tono
spregevole, continuando a guardare Gwen, mentre la Seth la guardava di
sottecchi.
Diede
un bacio sulla fronte alla piccola Lyr e
se ne andò con il padre. La donna restò a
guardare la piccola straniera, fino a
che lei non si alzò di scatto, correndo verso a porta.
Appena le passò vicino
la afferrò con forza per il braccio, ignorando i suoi
lamenti di dolore.
“Dove
credevi di andare?” chiese a voce bassa
guardandola in cagnesco. La piccola rimase in silenzio, senza osare
aprir bocca
o alzare lo sguardo per la paura che le incuteva.
“Allora?!”
richiese, scuotendola
violentemente, facendola sobbalzare e singhiozzare.
“Dylhes
ha… ha scordato i libri” rispose con
voce tremante, senza osare ancora guardarla. La Rothetin
sbuffò irritata, e,
alzandola, la scaraventò verso il letto, facendola urlare di
sorpresa e dolore,
quando la sua testa andò a sbattere contro la parete.
Dopo
averle detto delle parole in Lyrico che
la piccola non aveva mai sentito, se ne andò, lasciando la
piccola Gwen con il
viso pieno di lacrime tra le coperte e il sangue blu sulla parete che
lentamente svaniva.
ME
SALVE!
Sono
tornata con
questo nuovo progetto a cui tengo molto, e spero che vi piaccia.
Piccole
precisazioni:
simbolo
di Gwen:
http://24.media.tumblr.com/tumblr_lonswrwpez1r06jffo1_r1_500.png
la lettera G
Parole
nella lingua:
-Lyrothiem=
popolo,
Figli della Luna
-Setholyrem=
popolo,
Figli del Sole
-Lyrico=
lingua
parlata dai due popoli
Zyria=
straniero, “soprannome”
di Gwen
Dylhes=
Dawn
Syrem=
cuore
Rothek=
re
Rothetin=
regina
Forse
è tutto un po’
confuso, sulla faccenda delle due dinastie e della Guerra, ma
verrà spiegato
tutto nei prossimi due capitoli.
Spero
sinceramente
che vi piaccia!
-Akai
Hasu