Storie originali > Introspettivo
Segui la storia  |       
Autore: Nina Ninetta    29/06/2017    2 recensioni
Roberta è una giornalista caparbia, sicura di sé e del suo talento che aspira al successo, ma il suo caporedattore le affida un compito che lei ritiene degradante e indecoroso per una con la sua competenza: scrivere la biografia di uno sportivo.
Terza classificata al contest "Stelle d’Oriente” indetto da Dollarbaby sul forum di EFP, a pari merito con "Il destino di un boia" di Airalila". Premio speciale "Cuore del Dragone" nello stesso contest.
Quinta classificata al contest "Zodiac Game" indetto da Emanuela.Emy79 sul forum di EFP.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo 3
Sii felice

"... non possono vedere..."
 
Vedere Robbie in quel letto d'ospedale mi scosse fortemente. Strinsi lo stelo di quel bouquet di margherite bianche fino a farmi penetrare le unghie nel palmo della mano destra. 
Sapevo che era stato il suo ex fidanzato ancor prima che me lo dicessero i suoi occhi azzurri. Provai l'incontrollabile desiderio di prenderlo a calci e pugni e fargli ancor più male di quanto ne avesse fatto a lei, semmai fosse stato possibile. Immaginai la paura che doveva aver provato la mia Robbie e la rabbia aumentò, non solo nei confronti di quell'animale, ma anche nei miei.
Già. Ero in collera con me stesso perché se non l'avessi lasciata sola, se le avessi confessato il motivo per cui ero andato a casa sua quella sera, se avessi bussato di nuovo alla sua porta, invece di starmene imbambolato su quel pianerottolo, molto probabilmente non avrebbe dovuto sopportare tutto quello che venne, e questo mi faceva un gran male.
In ogni caso scorgere il suo sorriso, mentre era intenta a conversare con l'infermiera, mi sollevò appena. La stessa, una donna tonda e bionda, si avvicinò a me euforica offrendosi di riporre quel fascio di margherite in un vaso. Accettai, perlomeno avevo evitato l'imbarazzo di porgerli a Roberta. Con lei non potevi mai sapere quale reazione avrebbe avuto.
Mi avvicinai al letto, sempre con circospezione, dovevo andarci piano se non volevo essere cacciato in malo modo. Subito notai il cerotto sul sopracciglio destro e non mi importò più di nulla, né di quello che avrebbe potuto dire, né di quello che avrebbe potuto fare, semplicemente la collera mi ribollì dentro, offuscando una parte della razionalità. Vedere i segni di quelle percosse e sapere della profonda ferita riportata all'addome mi fece desiderare ardentemente non solo di ucciderlo, ma di farlo con lentezza.
Per i primi minuti non parlò, lo fecero i suoi occhi per lei, sembravano implorare solo un po' di tranquillità e io ero disposto a concedergliela, ma prima dovevo conoscere come erano andate le cose, sapere se in qualche modo, seppur recondito, ne ero colpevole.
Sì, purtroppo lo ero!
Le mie dita sembravano avere un'anima a sé, sfiorandole il cerotto sopra l'occhio, a quel punto le chiesi se fosse stato lui. Si voltò verso la finestra senza rispondere alla mia domanda, allora glielo chiesi di nuovo, questa volta con un tono più duro. Scorsi la sua immagine riflessa nel vetro e vidi una lacrima solcarle la guancia sinistra.
Avrei potuto abbracciarla e consolarla, ma sapevo quanto fosse orgogliosa quella scrittrice ferita già troppe volte, fisicamente e spiritualmente, quindi mi costrinsi a fingere di non averla notata. Continuai a farle domande forse inopportune in quel frangente, tuttavia  non potevo vivere e illudermi che tutto quello non fosse accaduto anche per causa mia.
L'infermiera tornò un vaso, nel quale se ne stavano i fiori che avevo scelto per lei. Commossa Roberta si nascose il viso come meglio poteva e pianse. Posai una mano sul suo capo e la tenni stretta contro il mio addome. Non mi lasciai intenerire dalle sue lacrime, non potevo, poi finalmente mi raccontò che Marco la stava spiando e che si era indispettito dopo avermi visto uscire dal suo palazzo. Mi disse che si era fatto delle strane idee su di noi, soprattutto dopo il nostro bacio al pub. Fece per dire qualcosa a proposito di quella sera, ma non mi andava di ascoltare le sue scuse o quel che sia, promisi a me stesso che avrei riaperto l'argomento (e che lo avremmo affrontato a modo mio).
Mi confessò che non erano mai tornati insieme e mi chiesi perché mai mi avesse lasciato credere una cosa simile, ma non glielo domandai: forse aveva paura quanto me di quei sentimenti che provavamo l'uno per l'altra. Le annunciai che sarei tornato il pomeriggio successivo per riprendere i nostri consueti incontri, almeno riuscii a dirle che volevo fosse lei a scrivere il mio libro e mi sembrò soddisfatta: avevo dato una bella pacca sulla spalla al suo orgoglio.
 
Il giorno seguente tornai e Robbie non era sola, con lei c'era Marco.
Non credo di aver mai provato quella furia che si scatenò in me quando lo vidi. Fu come se la mia mente si fosse svuotata, non riuscivo a pensare a nient'altro, non vedevo che lui. La sovrastava con la sua stazza, entrambi in piedi dinnanzi alla porta del bagno.
Ho ricordi più o meno offuscati di quel momento, a volte nei sogni rivivo con angoscia quegli attimi, chiedendomi cosa sarebbe accaduto se non fossi arrivato in tempo. Senza preavviso lo afferrai per le spalle sbattendolo contro il muro, mentre gli stringevo una mano intorno alla gola. Lo guardavo dal basso, mi superava di dieci centimetri almeno. Sorrise tracotante e la sua voce irrisoria esclamò:
«Oh, è arrivato il fidanzatino!»
Avvicinai il mio viso al suo, digrignai i denti intimandogli di andarsene, ma lui scoppiò in una risata e protese una mano verso Robbie, che era lì in piedi accanto a me e teneva le dita adagiate sul mio avambraccio, come a dirmi di lasciarlo andare. Altri cinque o sei millimetri e l'avrebbe toccata, prontamente gli afferrai il polso, voltandolo con la faccia contro il muro:
«Você não deve tocar!»
Sentii gli occhi di Robbie su di me e, attratto, mi voltai a guardarla.
Brillavano. I suoi occhi brillavano.
Non la devi toccare!” avevo pronunciato quelle parole d'istinto, senza rifletterci, mi erano uscite così spontaneamente che mi stupirono e spaventarono insieme. Marco mi spintonò all'indietro liberandosi della mia morsa, lo vidi estrarre un coltellino svizzero dalla tasca dei jeans e puntarmelo contro. In quel momento compresi con cosa l'aveva ferita e provai un inarrestabile istinto omicida.
Come poteva esser stato così vigliacco? Come può un uomo essere così meschino?
Al rallentatore osservai Robbie mettersi fra noi, urlandogli di andarsene e mi chiesi quanto coraggio dovesse possedere per fronteggiare di nuovo quell'arma impugnata dall'uomo che l'aveva già ferita una volta.
Marco allungò di nuovo la mano intento a  sfiorarle il viso.
«Robbie, amore. Torna con me, io ti am- »
Lo fermai appena prima che potesse anche solo sfiorarla.
«Ti ho detto que não deve tocar ribadii il concetto di poco prima, mentre con la mano libera gli sferravo un pugno. «Isto é para o punho al pub» ovviamente mi riferivo alla serata all'Osiride Club, quando ancora scioccato per il bacio non ero stato in grado di reagire, poi lo colpii di nuovo. «E isto é para Robbie!» ero consapevole che un solo pugno non avrebbe potuto rendere giustizia a tutto il male che le aveva fatto, eppure vederlo cadere ginocchioni, con il sangue che gli colava dal naso e le lacrime agli occhi per il dolore, fu abbastanza soddisfacente. Si alzò, farfugliando qualcosa che non compresi, quindi uscì dalla stanza e dalle nostre vite: qualche settimana dopo scoprimmo che si era trasferito in un altra città.
Roberta se ne stava immobile, gli occhi fissi sul coltellino che Marco aveva perso quando lo avevo colpito. Lo raccolsi  e glielo porsi, con il palmo aperto.
«Vuoi tenerlo?»
«No.»
«Bem» mi avvicinai alla finestra, l'aprii e lo gettai di sotto. Solo allora mi accorsi che il vaso con le margherite era stato rovesciato. Ai miei piedi si mischiavano pezzi di vetro, fiori e acqua. Non ci voleva una cartomante per indovinare chi l'avesse scaraventato a terra.
In lontananza vibrò un tuono. Robbie fissò il cielo plumbeo, illuminato a tratti da lampi verdastri, gli occhi lucidi di lacrime.
«Non fa che piovere» esclamò quasi in un sussurro, come in trance. Raccolsi una margherita e gliela offrii.
«Non so nel vostro paese, ma nel mio si dice che dopo un temporale nasce sempre l'arcobaleno» di nuovo notai quella luce brillare in fondo ai suoi occhi. Prese la margherita sfiorandomi la mano con le dita, quindi si sistemò sul letto d'ospedale, un tantino goffamente, poi adagio aprì il primo cassetto del mobiletto sulla destra, estraendone un piccolo quaderno e una penna.
«Allora, signor Cruz, di cosa mi vuole parlare oggi?»
Abbozzò un sorriso che trovai bellissimo, perché nato dalla sofferenza. Ricambiai a mia volta, accomodandomi su quello stesso letto.
 
Oramai ho abbandonato l'idea di riaddormentarmi. La mia mente è un frullio di ricordi che si sovrappongono. Ripenso a quella margherita che gli porsi e che ancora conserva.
Robbie fu dimessa dopo sei giorni dal ricovero; riprendemmo a vederci per gli ultimissimi accorgimenti alla mia biografia. Ai seguenti appuntamenti al "Caffè del Borgo" smise di indossare tailleur classici rigorosamente neri o grigi; qualcosa era indubbiamente mutato in lei e mi piaceva di più adesso che portava i capelli sciolti e jeans chiari. Un giorno, mentre parlava velocemente gesticolando molto mentre mi spiegava come avrebbe impostato la narrazione del libro, io non facevo che fissare i suoi boccoli e a immaginarmi di farvi sprofondare dentro le dita. Lei se ne accorse e mi agitò una mano davanti al volto.
«I miei capelli hanno qualcosa che non va per caso?»
«Como?»  fu come se mi svegliassi da un lungo sonno. Sospirò.
«Se non la smetti di fissarmeli, li lego!»
Le sorrisi, pensando che alcune cose non sarebbero mai cambiate.
«Sono bellissimi» mi ritrovai a dire senza averci pensato su. Quel pomeriggio compresi che Robbie non gradiva molto i complimenti, la mettevano a disagio e tendeva a mettersi sulla difensiva. La adoro anche per questo. Arrossì e cominciò a cercare qualcosa nella borsa che portava sempre con sé. Mi porse alcuni fogli, fu in quel momento che scorsi la margherita rinsecchita – ma intatta – scivolare sul pavimento. La raccolsi abbozzando un sorrisetto, lei non tardò a strapparmela di mano, imbarazzata.
«L'ho tenuta perché è il simbolo del mio addio a Marco» non le avevo chiesto spiegazioni, eppure evidentemente sentì il bisogno di giustificarsi.
«Ovviamente» affermai, senza smettere di sorridere e il suo rossore aumentò. Mi chiesi dove fosse finita la Robbie sprezzante e sicura di sé che avevo conosciuto alla redazione giornalistica. Avrei ottenuto la risposta quella sera stessa: stava solo facendo una pennichella.
Presi a leggere i fogli che avevo davanti a me, dopo le prime righe (da cui riuscii a comprendere solo poche parole, tra cui il mio nome) le dissi che non ci capivo niente, che non era come quel libro per bambini che mi aveva dato.
Se li riprese con impeto, sbottando che ero un disastro, con me non si poteva fare nulla.
Mi portai le braccia sul petto e mi intestardii, volevo sapere quello che c'era scritto, mi rispose che non erano fatti miei.
Ne dubitavo largamente.
Qualche ora più tarda la rincontrai all'Osiride Club.
Ero in attesa che il barista mi servisse la birra che gli avevo chiesto, intanto mi guardavo attorno. Non c'era molta gente, forse perché era solo un giovedì qualunque. Pagai la birra e ne bevvi subito un sorso, assaporando il suo retrogusto al miele, poi notai i suoi riccioli. Distrattamente mi asciugai le labbra con il dorso della mano e mi avvicinai: al tavolo con lei c'era il suo collega Clark Kent.
Sentii subito vibrare la gelosia, feci fatica a fingere che non mi importasse della situazione, come se non mi stessi chiedendo cosa ci facevano quei due insieme. Li osservai da lontano alzarsi e uscire, lui le tenne aperta la porta e fece il cenno universale del “prego, prima le signore”, poi sparirono. Bevvi un altro sorso di birra, annunciai alle persone che erano con me quella sera che ero dispiaciuto, ma dovevo scappare. Non diedi loro il tempo di replicare che ero già fuori dal locale. Mi accinsi a percorrere la distanza che ci divideva, intanto Roberta gli stava posando una mano sulla spalla, mentre gli parlava.
«Clar… ehm, cioè, Fabio, tu sei un caro collega per me, però non credo che tra di noi possa funzion… Fabrìcio?»
Facevo fatica a trattenere le risa e l'espressione di Clark Kent non mi aiutava affatto; scorsi Robbie scuotere il capo, quasi supplichevole, a lasciarmi intendere di non ridergli in faccia. In effetti non sarebbe stato carino nei confronti di quel ragazzo che aveva appena incassato un rifiuto. Lui chinò la testa bisbigliando che sarebbe tornato a casa e Robbie lo salutò dandogli appuntamento all'indomani in redazione, io invece lo salutai in tono cantilenante.
«Lo stavi chiamando Clark Kent! Seis insensìvel!»
Si accigliò appena, trattenendo un risolino.
«Ehi! Io non sono insensìvel!» esclamò, marcando il mio accento. 
«Oh, si che lo sei. Devo ricordarti quando ci hanno presentati, oppure quella volta che…» mi mostrò il palmo, in segno di stop.
«Ok! Ho capito! Sono insensìvel!» aveva uno splendido sorriso. «Per farmi perdonare mi lascerò offrire un caffè all'Osiride» indicò il locale alle nostre spalle.
«Excusa, non dovresti essere tu a dover offrire allora?»
Mi colpì all'addome e mi disse di fare il cavaliere, seppur di principesco avevo ben poco, tra orecchini sfavillanti e tatuaggi sparsi per il braccio. Fui più che orgoglioso di farle da cavaliere quella sera.
 
Gettai la bottiglia di birra – vuota solo per metà – nel primo cestino della spazzatura e mi inoltrai con lei nel locale. Seduti al tavolo le chiesi da quanto tempo Clark Kent era innamorato e se si fosse mai accorta di quei sentimenti. Mi raccontò che doveva esser cotto di lei dal primo giorno che si erano conosciuti, ma lui non si era mai dichiarato, probabilmente aveva preso coraggio dopo l'uscita di scena di Marco. In fondo ero un po' come Clark Kent: anche io stavo man mano prendendo coraggio ora che Marco era scomparso dalle nostre vite e soprattutto da quella di Robbie.
La osservai avvicinare la tazzina di caffè alle labbra, inevitabilmente riaffiorò il ricordo del bacio avvenuto proprio in quello stesso luogo. Giocherellando con la mia tazza  provai ad introdurre il discorso.
«A proposito del nostro bacio...» alzò di scatto lo sguardo su di me, prendendo a toccarsi l'ultima curva di un ricciolo.
«Credevo ne avessimo già discusso, ricordi? In ospedale...» tentò di abbozzare un sorriso, chiaramente a disagio.
«Oh, lo ricordo eccome. Però sei stata la sola a giustificarsi e… » arrestò la frase sul più bello.
«Davvero, è acqua pass-»
«Robbie?»
«S-si» non riusciva a guardarmi per più di qualche secondo negli occhi, distoglieva continuamente lo sguardo.
«Ti sei mai chiesta perché risposi al tuo bacio quella sera?»
Chinò definitivamente lo sguardo sul fondo della tazzina e sospirò, ma non era uno dei suoi soliti sbuffi indispettiti, era il sospiro di una persona che si è arresa e pensa “se proprio dobbiamo parlarne, allora facciamolo”.
«Ogni santo giorno» fu la sua risposta. Sentii lo stomaco in subbuglio, ma Robbie rimaneva sempre Robbie e guardandomi con circospezione affermò: «E se questo fosse un film d'amore adesso sarebbe il momento di massima tensione, dove mi afferri il viso e mi baci» si alzò in piedi, senza smettere di fissarmi. «Ma questo non è un film, quindi non lo farai perché io adesso me ne tornerò a casa mia a terminare quel tuo stupido libro!» Si infilò velocemente il cappotto scuro e afferrò la sua borsa, mentre io sogghignavo con amarezza, incredulo, scuotendo il capo.
«Sai cosa penso?» La mia domanda riuscì ad arrestarla. «Penso che tutto ciò di cui hai bisogno è bilanciare le passioni del cuore e le ragioni della mente.»
Mi augurò la buona notte e andò via, senza aggiungere altro. I suoi modi ambigui di porsi nei miei confronti e i suoi improvvisi sbalzi d'umore, cominciavano a stancarmi sul serio.
Eppure di lì a qualche settimana sarebbe cambiato tutto.
 

 
Sapevo di aver solo rimandato quel bacio. Intorno a noi c'era l'atmosfera ideale perché accadesse. Stavo uscendo da un periodo buio durante il quale lui mi era stato accanto più di chiunque altro, più degli amici di vecchia data, più della mia stessa famiglia, e io desideravo tremendamente perdermi nelle sensazioni che quel bacio mi avrebbe trasmesso, sentirmi amata e desiderata come non mi era mai capitato. Nonostante ciò ero consapevole che se quella sera mi fossi lasciata sopraffare dalle emozioni il mio giudizio, in quanto autrice della sua biografia, non sarebbe più stato imparziale. In quegli ultimi giorni mi veniva già difficile, figuriamoci dopo un bacio e Dio solo sa cos'altro! Ecco perché aveva avuto dannatamente ragione quando mi aveva detto che tutto ciò di cui avevo bisogno era bilanciare le passioni del cuore e le ragioni della mente. In una sola frase era riuscito a racchiudere tutte le fisime mentali che in quel periodo mi avevano portato all’esaurimento nervoso. Come se non bastasse, la data di pubblicazione del libro si avvicinava inesorabilmente. Trascorrevo le giornate in casa a scrivere di lui e della sua vita che giorno dopo giorno mi aveva raccontato, ripercorrendo con la memoria tutti i momenti passati insieme. Era sempre al centro dei miei pensieri, fuori e dentro la vita lavorativa.
Smettemmo di incontrarci al bar e fu inevitabile vederlo solo di rado e per lo più in redazione, quando non facevo altro che chiedergli qualcosa circa la biografia. Avrei voluto conversare con lui come facevamo un tempo, bearmi dei suoi splendidi sorrisi, ma dopo avergli rivolto le domande che avevo annotato sul quaderno mi guardava seriamente e mi chiedeva se avessimo finito, se potesse andare. Mi dava un dolore al cuore che nemmeno immaginava, ma l'avevo voluto io, non potevo prendermela che con me stessa. Allora annuivo e lo osservavo mentre si allontanava da me - in tutti i sensi - senza che io potessi far nulla per fermarlo. Fingevo che tutto andava bene, che io stavo bene. Invece mi mancava terribilmente.
La mattina del gala per la presentazione della biografia di Fabrìcio Cruz, lasciai le mie dimissioni sulla scrivania di Giovanni De Angelis. Mi guardò sconvolto. Sprofondato nella sua poltroncina mi parve vecchio e stanco. Mi disse che non poteva accettarle, gli spiegai le ragioni che mi avevano portato ad una decisione così drastica: avevo bisogno di prendermi cura di me stessa, di staccare un attimo dal lavoro e trovare nuovi stimoli. Lo ringraziai per tutto, anche per quell'ultimo incarico che mi aveva affidato. Non rispose, mi fissava dispiaciuto, ma io avevo fatto la mia scelta.
Al Royal Palace Hotel la sala era gremita e ne rimasi meravigliata. La maggior parte dei presenti erano ragazzi, probabilmente compagni di squadra di Fabrìcio. Tra questi ne riconobbi alcuni dei più noti. Avanzando nella sala finalmente lo intercettai. Era in smoking nero, dannatamente affascinante. Scherzava con un gruppetto di conoscenti, sembrava a suo agio come non l'avevo mai visto. Per la prima volta provai la recondita paura di perderlo: non volevo che la nostra storia finisse ancor prima di cominciare. Incrociò il mio sguardo e alzai una mano in segno di saluto, distendendo le labbra con timidezza. Lui si limitò a ricambiare mostrando il palmo, nient'altro, poi tornò a dedicarsi ai convenuti.
Mi si gelò il cuore.
 
Il caporedattore era al centro del piccolo palco, montato per l'occasione, aveva un microfono e ciarlava, ma la sua voce era solo un brusio poiché la mia mente era impegnata su altro. In piedi, accanto all'uomo che un tempo era stato il mio capo, lo vedevo sorridere imbarazzato ai complimenti che gli venivano rivolti e ridere alle consuete battute degli amici da basso.
Cielo! Cosa avevo fatto? Lo avevo mandato via, lo avevo allontanato. Mi chiesi se avessi avuto un'altra opportunità, chiedevo solo un’altra chance. La segretaria bionda della redazione mi scrollò delicatamente: Giovanni mi aveva appena invitato a raggiungerlo sul palco. Mi mossi fra gli invitati come farebbe un robot arrugginito. Avevo le guance in fiamme e lo sguardo di Fabrìcio fermo su di me non mi aiutava affatto.
Sarei sprofondata all'inferno se fosse servito a salvarmi da quella situazione.
De Angelis, dopo vari convenevoli, mi chiese di leggere dinnanzi a tutti la parte del libro che avevo scritto e che preferivo. Feci per rifiutarmi, ma le decine e decine di occhi puntati su di me non me lo concessero. Fabrìcio mi offrì una copia della sua biografia, evitando di incontrare il suo sguardo la presi e sospirai: avevo evitato i suoi occhi, però ce n'erano un altro paio che mi fissavano dalla copertina del libro, perciò mi affrettai ad aprirlo.
Per un attimo temetti che il mio cuore potesse uscirmi dal petto, tuttavia rimase al suo posto e questo mi costrinse a proseguire con la lettura, mentre il caporedattore mi sorreggeva il microfono.
«Vi leggerò i primi versi dell'introduzione» dissi alla sala, immersa in un innaturale silenzio. «Perché credo che racchiuda in poche parole tutto ciò che hanno significato per me questi mesi» presi un bel respiro profondo e lo feci, lessi a voce alta e leggermente incrinata dall'emozione. «Fabrìcio Joaquim De Sousa Cruz è una di quelle persone che non ti aspetti.
È una forza della natura, una forza buona, come il sole che sa donarci i colori, anche dopo una tempesta. Sa regalarci l'arcobaleno. Voleva che gli insegnassi tante cose sull'Italia, ma alla fine è stato lui ad insegnare qualcosa a me. Mi ha insegnato ad essere una persona migliore. Come disse Victor Hugo: c'è uno spettacolo più grandioso del mare, ed è il cielo, c'è uno spettacolo più grandioso del cielo, ed è l'interno di un'anima.» Chiusi la biografia con un tonfo prima di aggiungere: «E io sono d'accordo con lui».
Le lacrime mi avevano offuscato la vista. Partii un applauso ordinato, mi chinai in avanti in segno di ringraziamento, sperando vivamente che Giovanni non mi chiedesse altro. Non lo fece, forse si era reso conto della mia profonda commozione. Mi defilai abilmente, ancora una volta evitando il suo sguardo. Lui non stava applaudendo. In quel momento mi detestavo, mi sentivo vulnerabile e vigliacca, come un coniglio che si nasconde nella tana, ma non potevo fare di meglio.
 
Uscii in giardino, muovendomi come un ladruncolo. La piscina illuminata dai faretti rifletteva la mia immagine. Alzai gli occhi al cielo, provando a scorgere le stelle. Ne vidi una sola, piccola piccola e abbandonata al suo desolato destino, soffocata da nubi grigi e imponenti. Mi immedesimai un po' in quel puntino luminoso, disperso nello spazio immenso. Quando riabbassai lo sguardo notai la sua figura stendersi sul letto dell'acqua e, lentamente, avvicinarsi alla mia. Avvertii una sensazione di vuoto allo stomaco. Mi porse un calice con dello champagne, lo presi sfiorando le sue dita. Quella sensazione allo stomaco s'intensificò. Senza che nessuno dei due pronunciasse parola lasciammo che i nostri bicchieri tintinnassero, quindi bevemmo un sorso di spumante.
«Alla tua biografia!» Ricordo che ero così nervosa che se non avessi detto qualcosa sarei implosa, poi provai a sorridergli. Lui non ricambiò la mia benedizione, né il mio sorriso stentato.
«Giovanni mi ha detto che questa mattina hai dato le renùncia»  distolsi lo sguardo dal suo viso e confermai. «Por quêPossibile che solo in quel momento mi resi conto di adorare la sua cadenza quasi cantilenante?
«Ho bisogno di prendermi cura di me stessa per un po' » mi voltai a guardarlo. «Magari farò un viaggio».
«No Brasil
Mi scappò un risolino sincero a quella sua domanda ironica.
«Perché no! Così finalmente potrei imparare la tua lingua» questa volta fu lui a sorridermi, un sorriso che aveva un retrogusto amaro. Eravamo sul tramontare di quella nostra storia mai nata, un'amicizia durata troppo poco. Avevo le lacrime agli occhi.
«Robbie ascolta, io…»
«No» lo interruppi, accostandomi a lui e posandogli una mano sul cuore. Lo sentii battere. «Va bene così» mi alzai sulle punte dei piedi e posai le labbra sulle sue.
Non so cosa mi aspettassi, forse che reagisse come quella prima volta, travolgendomi in un impeto di passione imprevista e meravigliosa. Fatto sta che rimase impassibile. Mi allontanai da lui perdendomi ancora nei suoi profondi occhi castani striati del colore del miele, quindi parlai con voce strozzata.
«Sii felice, Fabrìcio» gli accarezzai la guancia destra e andai via, mentre in lontananza echeggiava il rombo di un tuono.
 

 
Osservo il cielo al di là del vetro. Ha smesso di piovere, ma le nubi grigie vengono ancora attraversate da lampi furiosi. Cosa stai facendo Robbie? A cosa stai pensando? Ricordi quando ti dissi che dopo un temporale nasce sempre l'arcobaleno?
Abbi fede, amor. Credici.
Ascoltare la sua voce palesemente commossa mentre leggeva quelle frasi scritte da lei mi procurò una miriade di sensazioni. Non sapevo come comportarmi, desideravo che fosse una persona più semplice, ma in questo modo non sarebbe stata la stessa Robbie che, nonostante i suoi modi e i suoi sbalzi d'umore repentini, mi aveva fatto innamorare. Notai la sua mano tremare appena quando prese il libro che le porgevo, avrei voluto fare un cenno per lasciarle intendere che se non le andava di leggere davanti a tutti l'avrei tolta da quella situazione imbarazzante, ma Robbie non mi guardò neanche in faccia. Ascoltai con grande emozione le sue parole, chiedendomi il vero significato di quelle frasi, semmai ce ne fosse stato uno. L'applauso che seguì mi sembrò provenire da miglia e miglia di lontananza, io non mi unii al resto della sala, troppo preso ad osservarla mentre accennava un leggero inchino in direzione degli ospiti. Adesso che la storia della biografia era giunta al termine cosa ne sarebbe stato di noi?
La cercai con lo sguardo quando la sala cominciò a svuotarsi, però non riuscii a trovarla. Chiesi a Giovanni se sapesse dove fosse e - complice qualche bicchierino di troppo - rammaricato mi confessò delle sue dimissioni. Mi mancò il respiro: perché mai aveva preso una decisione simile?
La vidi al bordo della piscina, stretta nel suo stesso abbraccio. Ricordo il vestito aderente, lungo poco sotto il ginocchio, e le scarpe di pelle lucida con tacchi alti; i capelli legati sul capo mi scaraventarono indietro nel tempo. Mi avvicinai piano, porgendole un calice di champagne. Brindò al mio libro e confermò il suo addio alla redazione: disse che aveva bisogno di prendersi cura di sé. Fui sul punto di controbattere che mi sarei preso cura io di lei, se solo me lo avesse permesso. Mi fermò poggiandomi una mano sul petto e affermando che qualsiasi cosa fosse, andava bene così.
Per lei forse, ma non per me.
Posò la sua bocca sulla mia e andò via, augurandomi di essere felice.
Davvero potevo ancora essere felice anche senza di lei?
Non la seguii, ero come paralizzato, mente e corpo ibernati e confusi in un miscuglio di pensieri e sensazioni che si sovrapponevano. Quando tornai dentro lei non c'era più. La segretaria bionda della redazione mi disse che era appena andata via in taxi, annunciando di avere un forte mal di testa. La ringraziai e corsi alla mia macchina: dovevo arrivare in città prima di Robbie.
Dopo qualche giorno mi sarebbe arrivata una multa per eccesso di velocità, tuttavia ne è valsa la pena…
Il portone era chiuso, allora lo colpii con entrambi i palmi, inveendo nella mia lingua.
«Hai deciso di sfondarlo?»
Mi voltai di scatto e Robbie era proprio lì davanti a me, interdetto vidi il taxi sgommare e andare via, tornai a fissarla. Sentivo l'indignazione crescere verso quella ragazza, misto a sollievo perché qualcuno, lassù in cielo, mi stava dando un'altra possibilità. L'afferrai per le spalle.
«E quello alla piscina cos'era, un adeus?» Mi parve stralunata, non riusciva a comprendere la paura che avevo provato al solo pensiero di perderla.
«Ok, adesso calmati e...»
«No!» la interruppi con impeto. «No! Ma ti sei mai davvero chiesta perché ti baciai quella sera?»
«Ti ho già risposto mi pare!» Riusciva ad avere un autocontrollo da far invidia, mentre io avevo la mente offuscata da tutte quelle sensazioni e il desiderio che avevo di lei.
«Allora chiedimelo» voltò lo sguardo di lato e io la scossi appena. «Chiedimelo! Para Deus!»
«Non mi interessa» la sentii bisbigliare, ma non potevo crederle.
«Dimmelo guardandomi negli occhi, Robbie! Dimmi che tra di noi non c'è niente e non sentirai più parlare di me» abbassai il tono di voce in un sussurro. «Eu juro». 
Tornò a guardarmi negli occhi, sforzandosi di sorridere. I secondi che mi divisero dalla sua risposta mi parvero anni e anni di attesa. Alzò una mano non proprio ferma, arrestandola all'altezza del viso, titubante, poi raggiunse i miei capelli e vi passò attraverso le dita. Quel tocco mi corse giù, oltre la nuca e lungo la schiena. Volevo baciarla, ma obbligai me stesso ad ascoltare ciò che aveva da dire, sapevo che le sue parole sarebbero state il punto di svolta, nel bene e nel male.
«Ho così tanta paura di quello che provo per te» lasciò scendere la sua mano alla base del collo. «E tu adesso mi minacci, giurandomi che non ti vedrò più… al solo pensiero mi crolla il mondo addosso» sorrise in maniera dolcissima, sentivo che se mi fossi trattenuto ancora sarei esploso. «Mi crolla tutto il tuo Brasile addosso» adagiai la fronte contro la sua e a entrambi scappò un risolino nervoso, poi chiusi gli occhi e la baciai, avido delle sue labbra.
Quelle dita sottili mi solleticavano la nuca e il collo, sfiorando la pelle del viso; stringendola fra le mie braccia la avvertì terribilmente piccola e vulnerabile. Il suo odore dolce mi riportò al nostro primo bacio, quando me ne inebriai per la prima volta, tuttavia sapevo che questo bacio era ancora più speciale dell'altro: era l'inizio di qualcosa, qualsiasi cosa fosse. 
Una leggera pioggerellina prese a bagnarci i capelli, scivolando in rivoli sul volto, nonostante ciò nessuno se ne curò, troppo presi dall'euforia del momento; poi la pioggia s'intensificò, allora Roberta mi guardò con occhi scintillanti. Aveva il viso bagnato e alcune ciocche di capelli le si erano appiccicate sulle guance. Risposi al suo sorriso.
«Vieni» mi disse, prendendomi per mano, ci riparammo nell'atrio del palazzo. Senza sciogliere l'intreccio delle nostre dita prendemmo a salire le scale, in silenzio, entrambi consci del desiderio che bruciava in noi. Ci chiudemmo la porta del suo grazioso appartamento alle spalle, estraniandoci dal resto del mondo.
Tutto il nostro universo era rinchiuso in quei 50 mq.
Un tuono mi rinviene dal ricordo di quella notte, lentamente mi trascino fuori dalla camera da letto.
 

 
Il terrore di perderlo, per una volta, fu più grande del mio orgoglio. Più grande della paura che mi facevano i sentimenti che provavo nei suoi confronti. Dichiararli apertamente mi donò un senso di sollievo, mi sentivo come una persona che per troppo tempo aveva dovuto sopportare un fardello da sola e, finalmente, poteva condividere il suo peso con un’altra persona. Sentivo la pioggia bagnare il mio viso, qualche ricciolo mi ricadeva sulla fronte, ma nulla aveva importanza, le nostre labbra erano congiunte e tutto mi sembrava perfetto. Non potevo fingere che il tocco delle sue mani sui miei fianchi e la furia di quel bacio che era esploso,non mi provocassero un inarrestabile desiderio di lui, allora lo presi per mano e insieme raggiungemmo il mio monolocale.
Mi aggrappai al suo collo, accarezzandogli ora i capelli, ora la schiena, mentre la sua lingua tornava prepotentemente nella mia bocca, pronta ad ospitarla con passione. Uno dopo l'altro slacciò gli alamari del cappotto che ancora indossavo, vi infilò sotto le mani e afferrandomi per la vita mi spinse contro la parete. La mia mente non riusciva che a pensare all'idea di noi due insieme, ai nostri corpi nudi e sudati, fusi in un unico essere.
Con un gesto repentino mi liberai dell'ingombrante soprabito, lasciando che scivolasse sul pavimento, quindi lo spogliai della giacca che lui stesso gettò via, senza smettere di cercare le labbra. Sciolsi velocemente il nodo della cravatta e i bottoni della camicia bianca, con le mani sfiorai il suo addome, percorrendolo con i polpastrelli. Mi sentivo attratta da lui come se non avessi mai toccato il fisico di un uomo adulto prima di allora. Avvertii concretamente il suo piacere crescere quando mi sollevò da terra, le gambe strette intorno al suo bacino. Tornai con le mani fra i capelli, carezzandogli il viso bagnato dalla pioggia, mentre la sua lingua prendeva a lambire il mio collo scoperto. Gettai la testa all'indietro, contro il muro, morsicando il labbro inferiore per trattenere un gemito.
Accennai di spostarci in camera da letto.
 
Si sedette sul bordo letto e mi attirò a sé, sciogliendomi i capelli mentre gli accarezzavo le guance. Lasciò scorrere la lampo del vestito che cadde ai nostri piedi, in un volo muto. Lo scostai con un calcio, liberandomi anche delle scarpe. Lo invitai a sdraiarsi e lo ricoprii con il mio corpo seminudo. Le sue mani erano ovunque, bramose di passione. Baciai i muscoli del suo ventre, scoprendo altri tatuaggi che ritraevano volti di donne indigene e mani giunte in segno di preghiera; raggiunsi la cintura che slacciai senza esitazione, quindi infilai la mano fin dentro la patta dei pantaloni classici. Lo sentii sussultare e gemere. Mi capovolse sulle coperte del letto che iniziavano a stropicciarsi, mi baciò fugacemente, quindi prese a far scivolare la sua lingua lungo il collo, fra i seni, seguitando sino all'ombelico. I nostri corpi fremevano di desiderio, oramai i miei ansimi di piacere si diffondevano in tutto l'ambiente e quando fece per sfilarmi le mutandine, fu come se il cuore si fermasse.
In quell'istante il cordless sul comò accanto prese a suonare all’impazzata.
«Devo rispondere» dissi e la voce tremolante tradì tutta la mia eccitazione.
«Você não pode» mi rispose, continuando a languire la mia pelle, rasentando il merletto della biancheria intima.
«Non ci metterò molto» affermai prima di prendere il telefono e aprire la conversazione. Lo sentii sbuffare e tornò a solleticarmi il collo, mi lasciai sfuggire un risolino.
«Pronto?»
«AMORE MIO! Indovina chi è…»
Scattai a sedere, mettendo una mano in faccia a Fabrìcio per allontanarlo da me. Farneticò qualcosa di incomprensibile nella sua lingua, ma non credo siano state parole gentili.
«Papi!» esclamai, mentre lui si liberava dalla mia zampata sul viso, tutt'altro che eccitante.
«Tesoro! Sto venendo a casa tua. Ma tranquilla, prima sono passato a far rifornimento al giapponese!» Dopo ventinove anni dalla mia nascita mio padre ancora non ha compreso la differenza fra la cucina cinese e quella giapponese e il fatto che io amo la prima, non la seconda.
«Papi, ma sai che ore sono?» Fabrìcio mi guardava con un'espressione ebete sul viso.
«Certo amorino mio, ma so che per te è un momento difficile e...»
«Papi, sto benissimo, credimi» ed era la pura verità, con quel ragazzo latino sul mio letto, mezzo nudo ed eccitato, stavo più che bene, non avevo bisogno di involtini primavera o sashimi.
«C'è una cosa di cui dobbiamo discutere, amore di papà...»
Le dimissioni! Accidenti a me! Pensai. Quando feci per replicare ancora il mio caro paparino aveva ormai chiuso la conversazione. Stava arrivando!
Fabrìcio riprese a sbaciucchiarmi il collo e le spalle, circondandomi con le braccia provò a distendermi sotto il peso del suo corpo, ma riuscì a liberarmi con slancio. Mi guardò interdetto.
«Te ne devi andare!» sbottai, raccogliendo il mio abito dal pavimento e cominciando a vestirmi.
«Como?» Uscii dalla camera e mi seguì a ruota. Lo aiutai ad indossare velocemente la giacca. «Robbie, che stai facendo?»
«Mio padre sta venendo qui! È convinto che la sua unica e adorata figlia sia caduta in depressione» mi baciò con impeto, cogliendomi di sorpresa.
«Ma tu non sei depressa» mi disse guardandomi dritto negli occhi.
Quegli occhi, cielo e che voglia di fare l'amore con lui, di perdermi nel suo sguardo e inebriarmi del suo profumo. Gli abbottonai la camicia controvoglia ma alacremente e gli porsi la cravatta.
«Se prendi le scale rischi di incontrarlo…»
«Ma non mi conosce» lo osservai come chi ha appena detto un'assurdità.
«Credi che mio padre non conosca il protagonista del mio ultimo libro?» Scossi la testa e mi venne un'idea. «Siamo al secondo piano, potresti scendere dalla finestra.»
«Sai quanto valgono queste gambe, querido? Se me le rompo…» sospirai, non aveva tutti i torti in fondo.
«Ok, ok!» Aprii la porta e lo spinsi sul pianerottolo. «Fai presto e cammina a testa china.»
Mi sorrise divertito, mi sfiorò una guancia con il dorso della mano e mi bacio delicatamente.
«Boa noite» sussurrò, prima di andare via.
 

 
Robbie mi diede buca per ben due volte il giorno successivo a quella notte pazzesca, dove tutto era accaduto e dove tutto sarebbe potuto accadere se il suo telefono non avesse preso a strimpellare. Cosa ancora peggiore suo padre aveva deciso che la sua figlioletta aveva bisogno di lui e di cucina giapponese. Lo incontrai fuori dal portone, aveva gli occhiali sulla punta del naso per cercare il nome di sua figlia sui citofoni. Inizialmente mi guardò con aria stralunata, poi sorrise mentre gli tenevo aperta l'anta del portone.
«Grazie figliolo!»
Feci un cenno con la testa e andai via. Mi sembrò da subito una persona simpatica.
La mattina seguente chiamai Robbie per chiederle se avesse impegni all'ora di pranzo. Avevo scoperto un locale fuori città adiacente ad un maneggio: avevo proprio voglia di una galoppata salutare. Inoltre trascorrere un po' di tempo insieme era una buona occasione per parlare di noi e di quello che stava per accadere. Era successo tutto così in fretta ed ero confuso, sapere cosa ne pensasse Robbie mi avrebbe aiutato, ma – soprattutto - avevo voglia di vederla e baciare di nuovo quelle labbra rosate e morbide. Rispose al telefono con un filo di voce, mentre intorno a lei c'era un brusio di voci e musica. Le chiesi dove fosse e mi disse che era in un negozio con suo padre, l'aveva praticamente costretta a comprare abiti nuovi. Si era rifugiata in un camerino per rispondere alla mia telefonata. Risi e le raccontai che uscendo dal suo palazzo la sera precedente lo avevo incontrato. La sentii urlare qualcosa tipo "no papi, questo vestito non mi sta bene" sospirò e compresi che non aveva colto una parola di quello che le avevo appena detto, pazienza. A quel punto le proposi di pranzare insieme. Mi sembrò entusiasta.
«Oh, sì, magari! Così potrei liberarmi di lui per un po'!» Mi sfuggii un nuovo risolino e le confermai che sarei passato a prenderla sotto casa.
L'aspettai per più di venti minuti nell'abitacolo della mia macchina, parcheggiato sul retro del quartiere in cui abitava, provando a contattarla sul cellulare e quando non rispose alle prime sette telefonate cominciai ad adirarmi sul serio. Mi richiamò lei dopo i miei vani tentativi, scusandosi all'infinito: paparino non aveva voluto sentire storie, desiderava che pranzassero insieme e non aveva potuto rifiutare il suo invito. Le dissi che andava bene, che non doveva preoccuparsi, peccato che il mio tono di voce lasciasse trasparire l'indignazione che non poté passarle indifferente. Quella storia del papà venuto da chissà dove iniziava a stancarmi. Mi disse che il nostro incontro non era stato cancellato, solo rimandato alla sera. Sinceramente indugiai, tuttavia la voglia di riabbracciarla era troppo forte e alla fine acconsentii.
La scena fu più o meno la stessa di quella avvenuta a metà giornata: mi telefonò per scusarsi e disdire la nostra serata insieme. Perlomeno si era preoccupata di avvertirmi con un'ora di anticipo:
«Mi dispiace tanto Fabrìcio. Mio padre ha prenotato in un ristorante e non ho saputo dirgli di no» ero nervoso, ciò nonostante mi costrinsi ad essere gentile. «Ci vediamo domani?» In lontananza udii una voce maschile invocare il suo nome Robertinaaa”. «Scusami, devo chiudere» non attese la mia risposta, la salutai con un freddo ciao e spensi il telefono.
Per quella giornata non volevo più sentir parlare di lei. Un attimo dopo però stavo infilando il giubbotto, un'ultima acconciatina ai capelli, chiavi, I Phone e via. Le telefonai una volta in macchina, pregando gli dei affinché rispondesse ai primi squilli. Lo fece e dalla sua voce capii che era meravigliata, ciò nonostante rispose alla mia domanda, quindi chiusi la conversazione con un ok.
Avevo quello che mi serviva.
Quando entrai nel ristorante un cameriere impettito mi venne incontro, domandandomi se avessi prenotato. Gli dissi di sì, che ero semplicemente in ritardo per la cena, li vidi e glieli indicai. Il cameriere mi fece un leggero inchino e mi invitò ad accomodarmi.
Sedevano vicino ad un enorme finestra con i tendaggi color panna. Accorgendosi della mia presenza il sorriso di Robbie si spense e assunse un'espressione stupefatta. Si alzò dalla sedia e avanzò di un paio di passi, suo padre la seguiva con lo sguardo, confuso a sua volta.
«C-che…» balbettò.
Era bellissima, con un velo di trucco sul viso, i capelli sciolti e solo alcune ciocche legate all'indietro. Indossava un top candido e una giacca blu, corta in vita, jeans chiari e decolté beige. Le strizzai l’occhio mentre porgevo la mano all'uomo accomodato al tavolo.
«Piacere, sono Fabrìcio Cruz» questo ricambiò la mia stretta continuando a guardarmi interdetto. «O amigo di sua figlia» il papà di Roberta scoppiò in una risata fragorosa, alzandosi e battendomi una mano sulla spalla, mi invitò a sedere con loro. Il resto dei presenti ci guardavano incuriositi.  Robbie teneva una mano sul viso, le guance infuocate, non riuscii a decifrare il suo sguardo, sorrideva a stento alle battute di suo padre.
Forse avevo reagito in maniera irrazionale, ma era quello che avevo sentito di fare e lo avevo fatto.
  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Introspettivo / Vai alla pagina dell'autore: Nina Ninetta