Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |       
Autore: _Pulse_    03/07/2017    4 recensioni
Sherlock, immerso nel buio del laboratorio, fissò ancora una volta la parola che brillava di luce azzurrina sul retro del biglietto da visita: "Fede". [...]
Le luci al neon del laboratorio si accesero di colpo e Sherlock strizzò gli occhi, incrociando lo sguardo sorpreso di Molly, sulla porta.
«Non sapevo fossi qui».
Si alzò in fretta togliendosi gli occhiali di plastica arancione e senza dire una parola si infilò il cappotto, il biglietto ancora stretto in mano.
«Sherlock, stai...?».
«Scusami, devo andare», la interruppe e la superò, avvertendo uno strano peso sul cuore mentre le parole del Ladro Gentiluomo gli rimbombavano nel cranio: «L'amore... L'amore è e sarà sempre ciò che ci renderà diversi, mon ami».
[Post 4th Season - Crossover!]
Genere: Angst, Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Molly Hooper, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Cross-over, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
2. Faith


John si svegliò a causa del cellulare che stava vibrando sul comodino. Sollevò la testa e guardò Rosie nel suo lettino, poi sospirò e si puntellò su un gomito per prendere in mano il telefono. Il display luminoso lo accecò, ma riuscì comunque a leggere il nome di Sherlock. L'amico lo chiamava raramente, amante com'era degli sms, quindi non poté fare a meno di preoccuparsi. Rispose senza ulteriori esitazioni.
«Sherlock, stai bene?».
«Che ore sono?», farfugliò il detective.
John allungò una mano verso la sveglia e poi si portò le dita sugli occhi. «Le quattro e un quarto, di notte. Dimmi che non mi hai svegliato per chiedermi l'ora».
«Tu non mi hai svegliato quando tu e Rosie siete andati via. Non hai lasciato nemmeno un biglietto».
John si sentì all'improvviso sveglissimo. «Tu... tu ti sei preoccupato per noi?».
Il silenzio dall'altra parte fu eloquente e il dottore sorrise, promettendo: «Non lo farò più, okay? Stavi dormendo...».
«Non stavo dormendo», ribatté inacidito, come se lo avesse appena insultato. Si era dimenticato che per Sherlock dormire era uno spreco di tempo insopportabile.
«Va bene, come vuoi».
«John?».
«Sì?».
«Mentre io... er, riflettevo... è passato qualcuno? Mi è sembrato di sentire una voce».
John si ricordò all'improvviso di Bernard d'Andrésy, l'uomo biondo e raffinato che voleva vedere Sherlock. Il suo enigmatico bigliettino da visita era ancora sul comodino, lì dove l'aveva lasciato prima di imporsi di chiudere gli occhi.
«John?».
«Sherlock, è tardi», mormorò, sentendo un groppo in gola.
Perché esitava a dirglielo? Prima o dopo, in fondo, non avrebbe fatto alcuna differenza. O forse sì, dato che avrebbe preferito Moriarty, Magnussen e persino Culverton in confronto all'uomo misterioso. Almeno con loro sapeva con chi aveva a che fare.
«Domani mattina, cioè... tra un paio d'ore vengo lì per lasciare Rosie alla signora Hudson, facciamo colazione e parliamo».
«Perché aspettare? John?».
«Perché ho sonno, dannazione!», gridò dimenticandosi di Rosie, la quale si svegliò ed iniziò a piangere per lo spavento.
«Oh, no...», piagnucolò, passandosi una mano sul volto stanco. «Devo andare, Sherlock. A domani».
Il detective non rispose e John terminò la comunicazione. Posò il cellulare sul comodino, sopra il biglietto da visita, e si alzò rassicurando la figlia.
«Va tutto bene, papà è uno stupido», le disse e cercò di convincere anche se stesso.

***

Poco dopo le otto, John entrava al 221B di Baker Street con una grande borsa sulla spalla, il proprio zaino sulla schiena e Rosie stretta al collo, ancora un po' insonnolita.
«Buongiorno caro», lo salutò la signora Hudson con un sorriso, andandogli incontro per prendere Rosie ed accarezzarle il naso col proprio.
Il dottore lasciò la borsa su una delle sedie intorno al tavolo della cucina e chiese: «Sherlock?».
La padrona di casa sollevò le sopracciglia. «Ah, lasciamo perdere. Questa notte l'ho sentito andare avanti e indietro senza sosta».
«Mi dispiace, temo...».
«Ma ora sembra essersi calmato. C'è un cliente».
«Un cliente?», esclamò, guardando l'orologio. «Così presto?». Poi un terribile sospetto gli attraversò la mente. «Non è l'uomo di ieri, vero?».
«Oh no», rispose la signora Hudson, divertita. «È un tipo strano e piuttosto burbero, sulla cinquantina. Sherlock sembrava conoscerlo».
John lo trovò molto insolito. In meno di ventiquattr'ore si erano presentati alla porta di Sherlock due individui che lui conosceva e di cui, però, non gli aveva mai detto nulla. Quanti altri segreti possedeva, il suo migliore amico?
«Le dispiace se vado di sopra?», le chiese e senza attendere una risposta percorse gli scalini due a due.
Si fermò sulla soglia del salotto e guardò Sherlock seduto sulla sua poltrona di pelle nera, gli occhi chiusi e le punte delle dita unite di fronte alle labbra. Il suo cliente, invece, era in piedi davanti alla finestra socchiusa, una sigaretta accesa tra le labbra.
Come aveva detto la signora Hudson, quel tipo aveva un'aria davvero burbera: i capelli brizzolati tenuti in disordine; il volto belloccio, solcato di rughe d'espressione, sembrava accartocciato su se stesso; gli occhi castani arrossati e stretti in due fessure; le labbra sottili contratte in un ringhio muto. Per essere sulla cinquantina, li portava davvero male.
John aprì la bocca per introdursi, ma Sherlock lo fermò con un solo gesto della mano. Quindi tornò nella sua posa e con voce pacata lo presentò lui stesso: «Ispettore Ganimard, le presento il mio amico e collega, il dottor John Watson. Può fidarsi di lui, qualsiasi cosa dirà rimarrà tra noi». E dal modo in cui Sherlock lo fissò, capì che quella storia non sarebbe mai finita sul suo blog.
«Confermo», rispose irrigidendo le spalle. «Piacere di conoscerla, ispettore».
L'uomo gli rivolse un'occhiata astiosa, prima di scrollare le spalle e voltarsi per spegnere il mozzicone di sigaretta nel posacenere che Sherlock doveva aver tirato fuori per lui. Da quando c'era Rosie aveva smesso di lasciare in giro cose nocive per lei, e per quanto possibile cercava di tenere in ordine.
«Non mi ripeterò», esclamò con la voce arrochita, da fumatore incallito. «È già stato abbastanza umiliante».
«Lei è francese», notò John dall'accento, sbalordito. Come Bernard d'Andrésy...
Ganimard guardò Sherlock, le mani posate sullo schienale della sedia dei clienti. «Non ci voleva molto per intuirlo».
«Gli dia tempo, ispettore. Imparerà ad apprezzarlo».
John, punto nel vivo, si tolse il giubbotto e si sedette sulla poltrona di fronte a Sherlock, pronto a trattare quell'uomo come uno qualunque dei loro casi.
«Allora... Arsène Lupin non è più in prigione», ricapitolò Sherlock. «Lei era riuscito a mettercelo e lei l'ha fatto uscire».
Ganimard abbassò il capo, stringendo lo schienale tanto forte da sbiancarsi le nocche. «Sono stato raggirato».
«E nessuno lo sa perché Arsène la considera un amico».
«È quello che ha detto».
«E lei non ha nessuna intenzione di dirlo ai suoi colleghi. Immagino che diventerebbe lo zimbello di Francia, che la ripudierebbero...».
L'ispettore infilò una mano nella tasca del trench marrone ed estrasse una nuova sigaretta dal pacchetto rovinato. Si avvicinò nuovamente alla finestra e l'accese, aspirando avidamente.
«Perché è venuto da me, ispettore?», domandò ancora Sherlock, con una calma che preannunciava l'arrivo di una tempesta di dimensioni epiche.
John poteva dire addio alla tranquillità per un bel po'.
«Perché Lupin mi ha detto che sarebbe venuto qui, a Londra».
John strabuzzò gli occhi. «Mi faccia capire bene: questo Arsène Lupin è riuscito a fuggire di prigione...».
«È stato lasciato andare», lo corresse Sherlock a denti stretti, perdendo un po' di quella sua tempra granitica.
«... E le ha detto dove sarebbe andato, di sua spontanea volontà?».
«Tipico di lui», borbottò ancora il detective, toccandosi la tempia sinistra con la punta dell'indice e del medio.
«Sì, è esatto», rispose invece Ganimard, sconsolato.
Sherlock afferrò i braccioli della poltrona per darsi la spinta necessaria ad alzarsi con l’agilità di un felino ed allacciandosi i bottoni della giacca si avviò verso la porta, accanto alla quale si fermò per fissare il francese con aria gelida. Questo soffiò un'ultima boccata di fumo fuori dalla finestra e spense il mozzicone nel posacere con stizza, poi raggiunse il consulente investigativo e lo fronteggiò.
«Sono molto deluso, Ganimard. Ma ti scriverò se avrò sue notizie».
L'ispettore annuì e senza nemmeno salutare uscì, scese le scale a passi pesanti e si sbatté la porta alle spalle. Sherlock fece lo stesso con quella dell'appartamento, borbottando tra sé, mentre John correva alla finestra per guardare Ganimard accendersi la terza sigaretta ed allontanarsi a piedi, con le spalle curve sotto un peso insostenibile.
John doveva andare al lavoro, era già in ritardo, ma non poté non voltarsi verso Sherlock nella speranza di ricevere qualche dettaglio in più sulla questione.
«Perché dovresti avere sue notizie?», domandò, sentendo di nuovo quel groppo in gola.
«Ah, non farmi domande di cui sai già le risposte!», lo rimproverò, gli occhi azzurri di ghiaccio. Senza aggiungere altro, stese una mano verso di lui.
«Cosa?».
«Avanti, lo sai cosa voglio!», ringhiò. «Ieri sera, mentre dormivo, si è presentato qui uno sconosciuto, anche lui dall'accento francese visto il modo in cui ti sei stupito quando hai sentito parlare Ganimard. Tu non l'hai fatto salire e gli hai chiesto chi fosse. Lui deve averti dato un bigliettino da visita e da come il tuo pollice si è mosso all'interno della tasca direi che si trova lì. Dammelo, John».
«Quindi ammetti che stavi dormendo».
Sherlock, spazientito, voltò il capo verso lo specchio come alla ricerca di sostegno da se stesso. «Sì, stavo dormendo. E, come ho sempre sostenuto, è stato uno spreco di tempo incredibile».
«Quindi lo sconosciuto sarebbe Arsène Lupin?».
«Il fatto che sul bigliettino abbia scritto un altro nome non vuol dire che sia il suo».
«Come fai a conoscerlo?», insistette il dottore, sempre meno contento dell'arrivo di quello sconosciuto nelle loro vite.
«È una storia troppo lunga».
«Allora dimmi che cosa vuole da te».
«Questo dovresti dirmelo tu! Sei tu che l'hai incontrato! Tu mi hai tenuto all'oscuro del suo arrivo!».
John non abbassò lo sguardo di fronte a quello colmo d'ira di Sherlock, uno Sherlock che non vedeva in quello stato da tanto, tantissimo tempo.
Fu la signora Hudson ad interrompere il loro muto duello, preoccupata per le grida. Rosie era ancora tra le sue braccia, con un sonaglino di gomma in bocca.
«Va tutto bene, cari?».
«Se ne vada, signora Hudson», ordinò il detective, imperativo.
La sua mano era ancora tesa a mezz'aria e John, nonostante fosse furente di rabbia per come li stava trattando per via di quel dannato Arsène, infilò finalmente la mano in tasca e tirò fuori il bigliettino da visita tanto agognato. Gli occhi di Sherlock si illuminarono di una luce perversa e il dottore, vagamente disgustato, lanciò il cartoncino sulla poltrona del detective.
«Divertiti», mugugnò prima di raggiungere la signora Hudson e rassicurarla con un braccio intorno alle sue spalle.

***

Bernard d'Andrésy, un nome scelto appositamente per fargli capire che si trattava proprio di lui, del solo ed unico Arsène Lupin.
Arsène Lupin, l'inafferrabile ladro le cui prodezze venivano ampliamente raccontate sui giornali francesi, così ricche di dettagli da supporre che fosse lui stesso a spiegare i fatti.
Arsène Lupin, il gentiluomo che operava soltanto nelle ville e nelle gallerie più famose, e che, una notte in cui era entrato dal signor Schormann, ne era uscito a mani vuote lasciando il suo biglietto da visita bianco, su cui aveva scritto la frase: "Arsène Lupin, ladro gentiluomo, tornerà quando i mobili saranno autentici".
Arsène Lupin, l'uomo dai mille travestimenti: di volta in volta autista, giardiniere, ragazzo di buona famiglia, broker, vecchio, medico russo, torero spagnolo!
Arsène Lupin, ladro oltre che per professione per diletto. Lavorava per gusto e per vocazione, certo, ma anche per divertimento. Proprio come lui.
Bernard d'Andrésy, era quella l'identità con cui era finito in manette una volta sceso dalla nave da crociera che dalla Francia l'aveva portato sulle coste americane. E ora era libero di tornare ai propri giochi, ai tesori che collezionava come le figurine di un album, pubblicizzandosi sui giornali eppure rimanendo un totale mistero.
Sherlock, immerso nel buio del laboratorio, fissò ancora una volta la parola che brillava di luce azzurrina sul retro del biglietto da visita: "Fede".

Sherlock socchiuse gli occhi e fece segno alla guardia pesantemente armata di aprirgli la porta della cella. Era l'unica del blocco, immersa nel cemento delle fondamenta e la porta di solidissimo ferro era blindata.
«Mon Dieu!».
Arsène Lupin lo guardava affascinato, entusiasta come un bambino, seduto a gambe incrociate sul letto a due piazze e dalle lenzuola di seta.
Indossava la stessa divisa degli altri carcerati della Santé, ma sopra portava una vestaglia di velluto rosso. I capelli biondi erano puliti e tirati indietro, come se avesse appena fatto lo shampoo, e il suo viso perfettamente sbarbato.
«Ti trattano bene, vedo», esordì Sherlock, ammirando l'arredamento sfarzoso di quella cella ampia ed illuminata da un lampadario di cristallo. Ai quattro angoli del soffitto, le telecamere li stavano osservando attentamente.
Arsène si alzò e si avvicinò con cautela, esaminandolo. Sherlock rimase fermo mentre il ladro gli volteggiava intorno in punta di piedi, trattenendo a stento un risolino.
«Pensano che in questo modo non mi venga in mente di evadere», sussurrò con una mano vicino alla bocca. «Non hanno ancora capito che sono di passaggio».
Sherlock non riuscì a trattenere una risata e Arsène si fermò di fronte a lui, guardandolo con quei suoi occhi brillanti ed ammaliati.
«Mi hai fatto proprio una bella sorpresa. Il caro Sherlock, qui!».
«In persona».
«Non è che sei venuto per rimproverarmi, vero?».
Il detective corrugò la fronte. «Rimproverarti?».
«Sì, l'altro giorno ho detto al caro Ganimard che è il nostro miglior detective. Che vale quasi come Sherlock Holmes. Ed eccoti qui! Te la sei presa?».
Il detective strinse le labbra e alla fine rispose: «Non sono qui per questo».
«Lo sapevo, non dovevo dire quelle cose». Mortificato, Arsène si guardò intorno per cercare qualcosa con cui farsi perdonare. «Sono desolato, posso offrirti solo questo sgabello». Guardando verso la porta, gridò indignato: «Neanche una bibita fresca! Un bicchiere di birra!».
Sherlock osservò Arsène sistemare lo sgabello dietro di lui e spolverarlo con cura, poi al cenno del ladro si sedette, posando un piede sull'appoggio in modo da avere un ginocchio sollevato.
«Mon Dieu, come sono felice di posare i miei occhi sul viso di un uomo onesto!», esclamò Arsène, sedendosi sul bordo del letto. «Ne ho abbastanza di tutte queste facce di spie e di aguzzini che passano dieci volte al giorno a controllare le mie tasche e la mia modesta cella per assicurarsi che non stia preparando un'evasione. Caspita, questo governo ci tiene proprio a me!».
«E ha ragione. Tu sei unico nel tuo genere, Arsène».
Il ladro parve arrossire e chinò il capo, stringendosi nelle spalle. «Non dire così. Sarei tanto felice se mi lasciassero vivere nel mio angolino!».
«Con i gioielli, i quadri e gli artefatti degli altri».
«Almeno non sperpererei le tasse dei miei concittadini», rispose indicando tutto ciò che c'era intorno a sé. «Ma veniamo a noi, caro Sherlock. A cosa devo l'onore di una tua visita?».
«Il caso Cahorn», dichiarò Sherlock senza giri di parole.
Arsène alzò una mano e chiuse gli occhi, portandosi le dita dell'altra sulla tempia. «Aspetta, fammi entrare nel mio Palazzo Mentale e tirare fuori il dossier di questo Cahorn».
Sherlock digrignò i denti, infastito dall'imitazione. Gli occhi luminosi di Arsène lo costrinsero a tornare impassibile.
«Ah, ci sono! Scusami, è che ho così tanti affari in ballo... Allora, residenza Malaquis. Due Rubens, un Watteau e alcuni piccoli oggetti».
«Piccoli?».
«Nulla di così importante, ho visto di meglio. Dimmi, perché ti interessa tanto? Ganimard non riesce a raccapezzarsene?».
Il suo ghigno divertito tornò a stuzzicare i suoi nervi. Quando voleva, Arsène era un vero sbruffone.
Il ladro scosse il capo, amareggiato. «Lo sapevo che paragonarlo a te gli avrebbe dato alla testa».
«Ganimard ha chiesto il mio aiuto e sono venuto».
«Ma questo caso non è nemmeno un cinque!».
Sherlock deviò il suo sguardo, domandandosi come diavolo facesse a sapere del metodo che usava per classificare i casi e decidere così se valesse la pena di uscire di casa.
«So che l'hai già risolto. Non ne dubito. Quindi... Perché sei qui?», chiese a bassa voce, prendendosi il mento tra le dita. Il sorriso che gli incurvò le labbra all'improvviso lo fece agitare sullo sgabello.
«Volevi vedermi», dedusse. «Volevi vedere coi tuoi occhi il grande Arsène Lupin in una cella d'isolamento».
«Hai ragione», ammise Sherlock. «Non riuscivo a credere che ti fossi lasciato arrestare. In modo così docile, poi! Perché, Arsène? Non capisco».
Il ladro si alzò e si avvicinò di nuovo, si fermò davanti al celebre detective e poi, per qualche assurdo motivo, si inginocchiò ed infilò le mani nelle sue. Sherlock ebbe un fremito, scorgendo il proprio riflesso negli occhi verdi dell'avversario e sentendo la delicatezza di quelle mani, così diverse dalle sue, piene di cicatrici da elementi chimici. Ci volevano mani curate per trattare gli oggetti preziosi che adorava rubare.
«Una donna mi guardava, Sherlock, e l'amavo», sussurrò con dolcezza. «Lei mi guardava, il suo amore per me si sgretolava di fronte alla verità e tutto il resto non aveva più importanza, ti giuro. È per questo che sono qui».
«Continuo a non capire».
«No, certo che no. L'amore... L'amore è e sarà sempre ciò che ci renderà diversi, mon ami».
Sherlock ritrasse finalmente le mani e si alzò per dargli le spalle, un'espressione di scherno sul volto. «Guarda dove ti ha portato, l'amore».
«Non è l'amore che mi ha portato qui. Sono stato io».
Sherlock girò impercettibilmente la testa, porgendogli l'orecchio.
«L'ho persa per sempre e volevo dimenticarla. Tu hai il tuo lavoro per distrarti, lo so, ma con me non avrebbe funzionato. Ogni gemma, ogni dipinto, ogni cosa bella mi avrebbe ricordato lei. Così mi sono lasciato ammanettare, felice che Ganimard raccogliesse un po' della gloria che merita».
«Mi stai prendendo in giro», ringhiò Sherlock, mantenendo a stento la calma.
«Sherlock».
Il suo tono di voce fiero e determinato lo fece voltare.
«Fede».
«Non è il mio campo».
Arsène sorrise, di nuovo con quella sfumatura dolce. Si appoggiò allo sgabello per alzarsi e si avvicinò per porgergli la mano. Sherlock ebbe qualche remora, ma alla fine la strinse.
«Abbi fede in me».
«Non sei un dio, Arsène».
«No, ma uscirò da questa cella, presto o tardi. Non appena il mio cuore sarà guarito».
«Uscirai solo quando sarai scortato in tribunale, dopodiché non vedrai più la luce del sole».
Il sorriso di Arsène si ampliò, mostrando un qualcosa di maligno. «Non assisterò al mio processo, mon ami».
«Staremo a vedere», concluse ferale, lasciandogli la mano per picchiare il pugno contro la porta di ferro.
Lo spioncino scorrevole si aprì e la guardia annuì prima di iniziare ad aprire le varie serrature.

«Ah, Sherlock!», gridò Arsène, quando la porta era ormai aperta.
Il suo scatto improvviso aveva fatto sollevare i fucili automatici delle guardie, le quali iniziarono ad urlare ammonimenti in francese.
Il ladro alzò rapidamente le mani, fingendosi spaventato. «Scusate, io... volevo solo restituire al monsieur Holmes il suo cellulare».
Sherlock si tastò le tasche del cappotto, senza trovarlo. Maledetto Lupin.
Quando i loro sguardi si incrociarono, il volto di Arsène brillò di gioia. Il consulente investigativo tornò indietro e stese una mano verso di lui. Con movimenti calcolati, il ladro infilò una mano nella tasca della vestaglia e gli porse il cellulare. Le loro dita si sfiorarono e Arsène, chinandosi in avanti, sussurrò: «Fede».
Sherlock strinse i denti e una volta preso il cellulare gli diede le spalle per non voltarsi più indietro, nemmeno quando la porta blindata si chiuse con un tonfo che echeggiò per tutto il sotterraneo.

Le luci al neon del laboratorio si accesero di colpo e Sherlock strizzò gli occhi, incrociando lo sguardo sorpreso di Molly, sulla porta.
«Non sapevo fossi qui».
Si alzò in fretta togliendosi gli occhiali di plastica arancioni e senza dire una parola si infilò il cappotto, il biglietto ancora stretto in mano.
«Sherlock, stai...?».
«Scusami, devo andare», la interruppe e la superò, avvertendo uno strano peso sul cuore mentre le parole del ladro gentiluomo gli rimbombavano nel cranio: «L'amore... L'amore è e sarà sempre ciò che ci renderà diversi, mon ami». 


_______________________________________________________________________


Eccoci qui al capitolo due! :D 
Sono molto emozionata per questa storia e per il meraviglioso personaggio di Arsène Lupin, da me rivisitato perché potesse confrontarsi con lo Sherlock del ventunesimo secolo. Spero solo di averne mantenuto l'anima originale, perché è strepitoso. (Per chi non avesse mai letto le sue avventure, scritte da Maurice Leblanc, avete aspettato fin troppo!). A questo proposito ci tengo a precisare che ho preso molta ispirazione dai casi descritti da Leblanc, perciò, anche se io li ho riadattati in chiave moderna, tutti i crediti vanno a lui!
Detto ciò, adesso iniziamo ad entrare nel vivo della storia... Quale sarà il motivo per cui Arsène Lupin è a Londra? E quale rapporto lo lega a Sherlock Holmes? Spero di avervi incuriosito abbastanza. Fatemi sapere le vostre idee e se vi è piaciuto, ovviamente ;)
Grazie a chi ha messo questa storia tra le preferite, seguite e ricordate e a tutte le persone che hanno letto!
A presto!
   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: _Pulse_