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Autore: Acqua e Alloro    14/07/2017    4 recensioni
Fanfiction interattiva: iscrizioni chiuse
E se George non avesse perso solo un orecchio in battaglia? Se non fosse proprio ritornato a casa?
George è stato catturato e l'unico modo che ha per tornare a casa è quello di intraprendere un lungo viaggio insieme ai suoi compagni, braccato dai mangiamorte e con quasi nessuna possibilità di sopravvivere.
"Tu non sei morto. Non dimenticarlo mai."
Genere: Angst, Avventura, Dark | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Bellatrix Lestrange, George Weasley, Maghi fanfiction interattive, Mangiamorte, Voldemort
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da VII libro alternativo
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The Black Witch

Si prese il suo tempo per riprendere conoscenza. Sentiva lo stomaco in gola e la testa vorticava pericolosamente, quasi fosse stato appena colpito da un bolide durante una partita di Quidditch. Era come se una mano tozza e invisibile gli stesse premendo il cervello, mandandogli continue fitte di dolore. Respirava con fatica e ad ogni boccata d’aria i muscoli dell’addome si contraevano, spezzandogli il fiato.
I suoni attorno a lui somigliavano alle tempere di un dipinto: vaghi, sfuocati, indefiniti. George non riusciva nemmeno a cogliere l’origine di quei rumori.
Provò ad aprire gli occhi, ma la stanchezza lo costrinse a mantenere le palpebre chiuse. Doveva aver battuto molto forte perché gli sembrava di poter cadere nel vuoto sotto di sé e precipitare per altri mille metri, nel buio. Il lato sinistro del viso bruciava ancora come magma bollente, ma George non riusciva a muovere un muscolo. Era troppo stanco per controllare il danno.
Nella sua mente i ricordi si mescolavano l’uno all’altro. Aveva come un abisso al posto dei pensieri e le immagini del suo passato erano lontane, irraggiungibili.
Cercò di concentrarsi sulle sensazioni che provava per riprendere il controllo e si ancorò al dolore fisico che incendiava tutto il suo corpo. Lasciò che il suo braccio urlasse fino a lacerargli i timpani, contò l’andatura claudicante del suo cuore mentre arrancava nel suo petto e si forzò di aprire gli occhi.
Ci volle qualche secondo perché si abituasse alla luce soffusa della stanza. Si trovava disteso su un freddo pavimento di marmo grigio, sotto un soffitto perlaceo che si articolava in decorazioni e rifiniture. Non riusciva a intravedere con chiarezza il mobilio di legno che tappezzava la stanza, ma era sicuro di non aver mai messo piede lì dentro prima di allora.
Combatté contro l’istinto di chiudere nuovamente le palpebre e lasciarsi sprofondare in un sonno profondo, e  tentò di mettere a fuoco ciò che lo circondava. Non c’era alcun candelabro appeso al soffitto, anzi la luce era debole e proveniva unicamente dalle file di candele che aleggiavano nell’aria come per incanto. C’era un tavolo in cedro a qualche metro di distanza e la superficie era ingombra di vecchi volumi di magia dalle pagine sgualcite e un paio di ampolle maleodoranti che impestavano la stanza.
La sua bocca si contrasse in una smorfia involontaria. Il solo pensiero di cosa avessero messo dentro il calderone per produrre quelle pozioni gli fece accartocciare lo stomaco su se stesso.
Il fetore era così acido da fargli pizzicare il naso. Avrebbe voluto alzarsi e lasciare quella stanza il più in fretta possibile, ma era troppo stanco, così si lasciò andare a uno sbuffo esasperato.

«Povero, piccolo Weasley.» gracchiò una voce nell’ombra. George sobbalzò, aveva già udito quel tono accorato in passato, solo non ricordava dove.
Non si era accorto di non essere solo finché la donna non aveva cominciato a parlare, avvicinandosi. Ora il pavimento era scosso da uno stock di passi ritmati e ogni volta che il tacco nero delle scarpe si scontrava col marmo, George sussultava, in parte curioso e in parte diffidente.
Emise un suono flebile, simile a un mugugno, ma non riuscì a fare altro. Voleva chiedere aiuto, domandare se per carità di Merlino quella donna potesse aiutarlo in qualche modo.
Provò a parlare, ma aveva la gola secca e le sue labbra si rifiutavano di articolare le parole. Una fitta al braccio lo costrinse a stringere i denti e gli sfuggì un gemito.
La serie di calpestii si bloccò mentre gli occhi della donna vagavano sul corpo del giovane che aveva ai piedi.
«Oh, Georgie, ti sei fatto la bua?» Ancora quel tono mellifluo.
George tentò di non darci troppo peso e provò nuovamente a muoversi, meno bruscamente. Tutti i suoi tentativi, però, risultarono vani. Il suo respiro aveva un’andatura affaticata e i muscoli si contraevano ad ogni minimo sforzo. Parte della sua maglia era zuppa di un liquido scuro, vermiglio, e la stoffa era sgualcita e appiccicosa come la pelle di una biscia.
Mosse le pupille di qualche millimetro per scrutare meglio ciò che riusciva a intravedere, dato che la donna non era ancora entrata nel suo campo visivo, ma non trovò nulla di interessante. I colori che percepiva erano freddi e opachi, austeri, e le pareti erano spoglie e tristi. Sentiva un che di asfissiante permeare ogni sua fibra, ma non aveva la forza mentale di ragionarci sopra. Quel posto non gli piaceva, di questo era sicuro.
«Georgieee» cantilenò di nuovo la sconosciuta riprendendo a camminare. La sua voce era velata di un che di malsano, constatò il ragazzo. Provò a passare in rassegna tutti i volti che conosceva, ma quel tono invadente e gravido di freddo umorismo non si collegava a nessuno di loro.
L’unico modo per svelare l’arcano era guardare la donna in volto.
Ascoltò i tacchi muoversi fino a lui e un’ombra oscurò finalmente la luce delle candele, che si spensero dietro il groviglio di ciocche scure che ricoprivano il capo della donna come un insieme di infidi serpenti neri. Gli occhi di George scattarono verso quelli più larghi e folli della strega, e per la prima volta in vita sua a George mancò il respiro.
Bellatrix Lestrange lo fissava con bramosia e crudeltà dall’alto del suo metro e settanta, il corpo ancora leggermente emaciato dalla prigionia ad Azkaban. Aveva sulla pelle i segni di cicatrici profonde e il suo volto, solcato appena dalle rughe, esibiva due abbaglianti occhi color pece e labbra carnose e nere, ora piegate in un sorriso di puro godimento.
George sentì un brivido percorrergli tutta la spina dorsale mentre un singolo frammento di consapevolezza gli faceva sgranare gli occhi. Per un attimo dimenticò tutto il dolore e scattò indietro in preda al terrore, tentando di sfuggire alla strega. Le fitte che lo rivestirono furono atroci, ma erano niente in confronto alla paura.
Si mosse impacciato e boccheggiò per un istante, alla ricerca di aria. Sentiva i polmoni bruciare, bisognosi di ossigeno. Percepiva la necessità di abbandonare quella stanza e correre fuori all’aria aperta, per rigenerarsi, ma sapeva che non ci sarebbe mai riuscito.
Sussultò quando Bellatrix si mise a cavalcioni sul suo addome, afferrandogli il viso con le sue lunghe unghie smaltate di nero.
«Credi davvero di poter scappare?» domandò con una punta di scherno, «Tu sei mio, adesso.»
George impallidì. All’improvviso tutti i pezzi andarono al loro posto. Ora ricordava cos’era successo, ricordava tutto: la battaglia, il cielo sferzato dai bagliori, i frastuoni, la vetrata … Era successo tutto molto velocemente, qualcosa doveva averlo preso in pieno perché non ricordava nient’altro che una lunga, immobile e agonizzante caduta verso il basso, e un impatto violento che gli aveva tolto vista e udito per qualche secondo. Il sangue era colato sul pavimento, i vetri si erano disseminati come una pioggia di cristalli e poi tutto aveva avuto fine. Loro lo avevano preso.
Sentiva le unghie di Bellatrix scavare le sue guance arrossate. Faceva dannatamente male, tanto che George avrebbe voluto divincolarsi dalla sua presa e materializzarsi il più lontano possibile da lei, ma era a pezzi e non aveva più la bacchetta.
Sentiva il marmo ruvido sotto i polpastrelli, il gelo di quel luogo era attutito dal solo –e vago- intervento delle candele, George poteva già sentire la pelle rivestirsi di brividi. Tentò di muovere la bocca per articolare qualche parola, ma Bellatrix lo bloccò prima ancora che ci provasse.
«Abbiamo molto di cui parlare, Georgie.» non gli piaceva il suono del proprio nome pronunciato da quelle labbra. «E resteremo insieme per un bel po’.»
George strinse gli occhi mentre il suo corpo ancora non si decideva a eseguire i suoi comandi. Non aveva abbastanza forze per accettare la situazione, sembrava solo un orribile incubo.
Bellatrix scoccò la lingua sul palato, la schiena ingobbita sul ragazzo.
«Dov’è Potter?» la sua voce soffiava, pericolosa, come una scia di insetti morti che ti entrano in bocca e ti mangiano la lingua. George non era pronto per questo, quella era una cosa più grande di lui, lo sapeva.
Non rispose alla domanda e anche se voleva pregarla di lasciarlo andare, la sua cocciutaggine gli fece tenere la bocca chiusa.
Voleva tornare a casa, un desiderio così ardente che George sentiva il cuore fremere nel petto fino a fracassargli le costole con i suoi battiti. Voleva aggrapparsi al ricordo della sua famiglia, ma la stretta di Bellatrix non faceva che riportarlo bruscamente alla realtà.
«Dov’è Potter?» domandò di nuovo Bellatrix sfiorandogli le labbra con un’unghia. Le sue mani erano del colore dell’avorio e avevano dita lunghe e affusolate che si intrecciavano, nodose, agli artigli d’ossidiana.
George non sapeva che rispondere. La verità era che non ne era sicuro; non sapeva quanto tempo era rimasto incosciente, quanti giorni o ore fossero passati dalla battaglia. Nella sua testa non c’era che il buio, ma anche se l’avesse saputo, George dubitava che avrebbe mai tradito Harry.
Il sangue che raggrumava sui suoi vestiti babbani sapeva di metallo sporco, era a questo che George pensava mentre storceva il naso, disgustato.
«Lasciami andare!» sbottò in un impeto di coraggio.
La strega mosse il lungo indice della mano sinistra in tre semplici rintocchi, la lingua che schioccava sul palato come quella di una madre che rimprovera il figlioletto spericolato. «Risposta sbagliata.»
«Io…» cominciò il ragazzo, ma un lampo oscuro attraversò il volto di Bellatrix Lestrange, qualcosa di molto simile alla rabbia.
«Dov’è Potter?» gridò a pochi centimetri dal volto del più giovane. Strinse la mano fino a fargli sanguinare le guance e George chiuse gli occhi.
«Guardami!» gli ordinò con tono grave, «Guardami!»
George avrebbe voluto scappare, ma quello non era un incubo e il dolore che percepiva era reale. Tremando appena, aprì nuovamente le palpebre e si perse nelle pupille scure e maligne della strega.
«So che lo sai.» bisbigliò la donna. C’era un ghigno folle sul suo volto e George d’un tratto capì di non potergli sfuggire nemmeno col pensiero. Lei lo voleva , in quella stanza, sotto le sue grinfie e lui non avrebbe potuto fare niente per sfuggirle.
Sentì gli occhi inumidirsi di qualcosa di simile al pianto, ma nessuna lacrima solcò il suo volto quella sera.
Inspirò aria col naso, ossigeno tremolante che vibrò fino ai suoi polmoni e gli permise di non soffocare.
Avrebbe preferito che si scostasse di qualche centimetro permettendogli di respirare senza sentirsi strangolare dal suo sguardo di mangiamorte.
«Dimmi dov’è, Georgie. Non costringermi a farti male … perché te ne farò, lo sai.»
«Lasciami andare!» avrebbe voluto apparire più sicuro, ma la verità era che la paura regnava sovrana in quel momento e la sua voce era incrinata quanto il suo braccio destro. Avrebbe voluto avere Fred al suo fianco, era sempre più coraggioso quando erano insieme.
«Lasciami,» mugugnò la strega muovendo la bocca a simulare un piccolo broncio, «Voglio la mamma, lasciami.»
Scoppiò a ridere, una risata amara e spettrale che gli fece accapponare la pelle.
Poi tornò a guardarlo.
«Sono io la tua mamma, adesso.» si chinò fino a toccargli le labbra con le proprie «E giocheremo insieme per molto tempo, Georgie
Era piegata su di lui, bloccato a terra, e la mano libera vagava sul suo braccio. In quel frangente, George poté quasi vedere la vita fermarsi e il futuro che aveva sempre sognato infrangersi come le schegge di uno specchio rotto. In quel momento non esisteva nulla al di fuori di loro; non aveva un passato, non aveva sogni o speranze, non aveva famiglia e non aveva neanche un nome. Dentro di sé qualcosa si era spezzato e George stava affogando nel mare del proprio sconforto.
Bellatrix si allontanò dal suo volto con un vago sorriso e tirò fuori la bacchetta. Era piegata come una rivoltella, opaca come la morte, di un legno semiflessibile che le permetteva di non spezzarsi. Per un attimo George pensò che fosse la fine.
Poi una luce sfuocata proruppe dalla punta della bacchetta e si infranse sul suo braccio inerme. Sentì distintamente il suono delle sue ossa che si rimettevano a posto e poté nuovamente muovere le dita della mano. Sbatté le palpebre, attonito, e fissò il braccio guarito con un’occhiata stranita.
«Come si dice?» domandò Bellatrix con voce affabile, una punta di velato pericolo nella voce.
George inghiottì a vuoto, ma balbettò un grazie poco deciso e ascoltò i battiti celeri del suo cuore mentre rimbombava nel petto.
Finalmente, Bellatrix  lo lasciò andare e le sue guance cantarono di sollievo, ma non per molto. Gli occhi di George fissavano ancora con timore la bacchetta della sua carceriera. Si muoveva lenta nell’aria come una libellula, ma sapeva bene che avrebbe potuto essergli fatale in un secondo.
Avrebbe voluto essere libero da ogni catena, prendere la scopa e volare fino a casa in un colpo solo, ma il suo corpo rimase fermo e immobile come una statua, inerme sotto il voglioso sorriso che deformava il volto di Bellatrix Lestrange.
Lei gli afferrò strettamente il polso, forse più del necessario e le labbra del rosso si incresparono in una smorfia. La vide avvicinare la bacchetta al suo braccio come se impugnasse una piuma dalla punta affilata e d’un tratto tutto divenne rosso. Poteva percepire quello stiletto scavare la sua carne e incidere i segni di un’ottusa calligrafia sulla pelle. Tentò di divincolarsi, ma più ci provava e più la bacchetta andava più a fondo. Gli occhi di Bellatrix lampeggiavano di bramosia e il pavimento si tingeva di un rosso vermiglio. Sentiva il braccio ardere di fuoco e sangue, le forze che si raggrumavano fino a disperdersi. La diga era stata infranta e una marea rossa si riversava fuori dalle vene del ragazzo. Aveva già perso troppo sangue per un taglio del genere e la sua vista si imbrattò di nero. Provò a urlare, a pregarla di fermarsi, ma il dolore continuò e un suono simile a un fischio cominciò e invadere i suoi timpani. Si morse la lingua e poi le labbra, tentò di aggrapparsi a quella realtà orrenda con tutte le forze che gli rimanevano ancora in corpo, ma invano. La testa ciondolò sul pavimento come un guscio vuoto, i ricordi che appassivano nuovamente e un vago silenzio che lo riportò giù nelle tenebre.






#Angolo Pandacornoso
BUM! Torture già di prima mattina è.è (o pomeriggio inoltrato, dipende dai punti di vista)
So che George potrebbe apparire un po’ OOC in questo capitolo, ma provate voi a svegliarvi sotto le grinfie di Bellatrix Lestrange, tutt’al più se ricoperti di sangue ormai rappreso. Non lo augurerei quasi a nessuno.
Tornando a noi, è chiaro che nel prossimo capitolo compariranno gli altri prigionieri e so che non vedete l’ora di vederli approcciarsi l’un l’altro ù.ù
Non preoccupatevi, verrete accontentati ;)


 
   
 
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