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Autore: sabre    17/07/2017    8 recensioni
La piccola mano bianca stringe la sua e una voce sussurra al suo orecchio “Eccomi Andrè, sono tornata da te…. ”
Ripercorriamo l'adorata storia originale seguendo il sentimento che li lega, che è come una catena, che lega due individui rendendoli un’unità, forte come il più debole dei suoi anelli. Gli anelli di questa catena sono tanti: comprensione, affiatamento, complicità, condivisione, fiducia, pazienza, dedizione, passione… Ognuno è stato forgiato da quello che sono, da quello che hanno vissuto insieme e da quello che hanno portato delle loro esperienze personali…
Questa idea, probabilmente un po’ balorda, di rilettura della storia mi è venuta leggendo una recensione, in cui si sottolineava come la storia di Oscar e Andrè non fosse solo la storia di due innamorati separati dal destino.
Da tutto questo l’idea di questa raccolta di OneShot, ogni capitolo un anello, a partire ovviamente dal primo: “Amicizia”
P.S. Ho modificato il rating del capitolo solo per correttezza a causa di qualche dettaglio storico e espressione nei dialoghi
Fanart in cap1 e cap2.
Genere: Romantico, Slice of life, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Oscar François de Jarjayes, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Angolo dell'autrice: Una seconda giornata più 'privata' da accompagnare alla precedente...


Sabato 21 Giugno 1783, Palazzo Jarjayes

 
‘... una nemica degna di me, lo scopo che voglio raggiungere: “E si de l’obtenir je n’emporte le prix, J’aurai du moins l’honneur de l’avoir entrepris[i].” Si possono citare versi mediocri, quando sono firmati da un grande poeta…’
Gli occhi seguono la forma delle parole, l’inchiostro nitido sul foglio chiaro, fresco di stampa. Ha sempre trovato piacevole quella consistenza compatta, le lievi irregolarità lasciate dalla pressa, l’odore dolciastro e vagamente pungente di una rilegatura recente, il fruscio crepitante della carta nuova, ma non è certo per il gusto di farlo, che gira quella maledetta pagina, solo per tornare subito indietro con un gesto stizzito per l’ennesima volta.
‘Quali versi mediocri? Di quale grande poeta?’
Fissa di nuovo quelle poche righe, rincorrendo il nome che continua a sfuggirgli, prudendo sempre più fastidiosamente sulla punta della lingua.
Le rilegge ancora, per quanto sia assolutamente inutile, visto che ormai le sa a memoria, riuscendo solo a far aumentare il senso di frustrazione, impossessatosi anche del suo piede destro, che scalzo e irrequieto ha preso a battere sempre più insistente contro il bordo del letto.
“Dio solo sa perché mi sia incaponito…”
Si blocca, colto di sorpresa dal tono aspro della sua stessa voce.
Sbuffa e continua sconsolato “Bah… adesso parlo anche da solo!”
Posa il libro aperto sul petto, inspira profondamente e chiude gli occhi, cercando di riportare in sé la calma. Si sforza di scacciare i pensieri irrequieti, lasciando che a riempirgli le orecchie e la testa siano solo il cinguettio allegro degli uccelli e lo stormire carezzevole delle foglie. Lo raggiungono attraverso la finestra spalancata, come la brezza leggera e profumata, che agita la mussola delle tende e gli sfiora il viso delicata, soffice, solleticante. Un po’ alla volta le membra tornano a rilassarsi, abbandonandosi al contatto confortevole e familiare del suo vecchio materasso.
Non c’è ragione di ostinarsi su un dettaglio tanto irrilevante, se neanche l’autore si è preso la briga di inserire una nota[ii], che importanza potrà mai avere? Prima o poi gli tornerà in mente e certo si darà dello sciocco.
Risolleva le palpebre e il libro aperto, determinato a proseguire. Metodico scorre nuovamente la frase incriminata, poi la successiva, un’altra ancora, fino a che il volumetto si richiude  con uno schiocco secco, ricadendo abbandonato sulla coperta sgualcita.
Inutile illudersi, è dalla prima riga che segue il sentiero nitido delle parole stampate, senza riuscire a coglierne veramente senso. Fissa per un po’ il soffitto, come se potesse trovare una risposta tra le crepe dell’intonaco o nell’ombra di quella vecchia macchia giallastra, ravvivata dal baluginare di un riflesso scintillante e liquido, che deve arrivare dalla fontana del cortile. Si solleva velocemente a sedere e indugia per un po’ con lo sguardo basso sui piedi ancora nudi, saggia la superficie consumata e scabra del vecchio pavimento in legno, indeciso sul da farsi.
Non erano esattamente questi i suoi programmi. È riuscito a procurarsi una copia di quel nuovo libretto appena pubblicato, di cui tutti parlano o sparlano, ma di cui nessuno sembra mancare di essersi fatto un’opinione. Finalmente ha un intero pomeriggio libero da dedicarvi, come non capita da non ricorda più neanche quanto tempo, e invece, a quanto pare, la sua testa non ha alcuna intenzione di assecondare i piani.
Si alza di scatto e allunga il solo passo che lo separa dalla finestra. Posa i palmi sul davanzale e si sporge di slancio, respirando a pieni polmoni l’aria dolce e profumata.
Nel cielo di un azzurro intenso e terso il sole brilla alto, ma i raggi non hanno ancora nulla dell’impietosa violenza dell’estate. Nel fulgore di una lussureggiante e tarda primavera, regalano a ogni cosa toni freschi e sgargianti: il verde vibrante delle foglie, il candore puro, che sfuma in tutte le gradazioni del rosa fino al rosso più acceso sulle ricche corolle nelle affollate aiuole del giardino, persino la ghiaia polverosa sembra avere ricevuto in dono una sontuosa sfumatura dorata. Farebbe meglio ad approfittare della meravigliosa giornata e andarsene a fare una bella cavalcata, invece di starsene rintanato in camera con i suoi pensieri.
Risoluto, si ributta a sedere sul letto per infilarsi in fretta calze e stivali. Sta per alzarsi, quando lo sguardo incespica sulla copertina di quel bel color carminio, che spicca sul panno slavato. Indugia, poi si decide, allunga la mano e l’afferra.
In un attimo è fuori dalla stanza e trotterella giù per le scale soppesando il suo volumetto. Una bella cavalcata e un po’ d’aria fresca gli sgombereranno la mente e forse finalmente riuscirà a godersi la tanto agognata lettura, quando si sarà liberato di quell’immagine, che per qualche inspiegabile motivo sembra non volergli uscire dalla testa!
 
Doveva essere passata da poco l’una, quando aveva varcato i cancelli, e non lo aveva particolarmente sorpreso non trovare nessuno ad accoglierlo nel grande spiazzo inondato di sole sul retro. Tutta la servitù a quell’ora di norma era impegnata in casa, chi per il pranzo, chi a occuparsi dei servizi e delle stanze. Non era usuale rimanesse di vedetta neanche un mozzo di stalla, visto che a Palazzo Jarjayes non si era certo abituati ad aspettarsi visite non annunciate. Per quanto propenso ad assecondare per disciplina le regole della buona società, il Generale, per indole, non era mai riuscito a conformarsi a quell’usanza tanto di moda in qualunque altra magione aristocratica o borghese[iii].
Tutto sommato non gli era dispiaciuto affatto, per una volta, passare inosservato anche lì, come accadeva abitualmente alla reggia. Sicuramente gli avrebbe risparmiato di doversi sobbarcare qualsivoglia incombenza sua nonna non avrebbe certo mancato di appioppargli, preoccupata, come sempre, che l’ozio potesse peggiorare il suo carattere, che già considerava fin troppo intemperante. Inoltre, non era particolarmente impaziente di spiegare per quale motivo, quel pomeriggio, la sua presenza a corte non fosse più richiesta, nonostante Oscar fosse stata costretta a trattenersi per un impegno inderogabile.
Aveva condotto Alexander al passo fino al limitare dello spiazzo sul retro, nel punto in cui si apre il vialetto sterrato che conduce alle scuderie, opportunamente facile da raggiungere, ma sapientemente celate dietro una barriera di boscaglia solo apparentemente impenetrabile, così da non disturbare l’armonia del panorama dei giardini, offerto alle finestre di Palazzo.
Era smontato di sella e si era incamminato con tutta calma, conducendo il cavallo per le briglie e regalandogli di quando in quando un buffetto sul muso, visto che sembrava insolitamente desideroso di attenzioni. Si era anche attardato nell’ombra punteggiata di spiccioli di luce, per concedergli di brucare qualche filo d’erba fresca, sfuggito chissà come alla disciplinata falce dei giardinieri di Palazzo, prima di condurlo finalmente oltre la soglia del basso edificio in legno e mattoni.
Aveva vacillato appena, superando il varco dell’unica anta lasciata scosta, e gli era servito qualche secondo per abituarsi alla poca luce, che riusciva a filtrare tra le assi degli scuri abbassati. Si era crogiolato nella familiarità dell’odore del fieno fresco e degli animali ben accuditi, dei suoni sordi, attutiti dalla paglia e dalla terra battuta, mentre i contorni tornavano velocemente nitidi e i dettagli distinguibili. Era avanzato di un passo, bloccandosi quasi subito.
Non aveva idea di quanto fosse rimasto così, immobile come una statua di sale. Un po’ alla volta i pensieri razionali avevano ripreso a fluire, come il fiato, trattenuto a gonfiargli il petto. Si era forzato a respirare, piano, mentre la mente riusciva finalmente comporre la scena esposta agli occhi da qualche istante, sorprendente per quanto inattesa, eppure via via quasi ovvia nella sua armoniosa naturalezza: due figure allacciate nella quiete della penombra, dita delicate a sfiorare la nuca, a giocherellare con ciocche dorate, palpebre sognanti e chiuse mentre le labbra si sfioravano, si cercavano in un bacio che era quasi un sorriso.
Continuava a fissarli e ancora stentava a credere ai suoi occhi, Nanà e Philemon si stavano baciando[iv]! Lei gli circondava il collo, le braccia flessuose affidate alle sue spalle larghe; lui le cingeva la vita con una stretta apparentemente inespugnabile, eppure delicata, quasi arresa, in una strana commistione di possesso e protezione. Nanà appariva ancora più minuta in quell’abbraccio, ma inspiegabilmente era Philemon a sembrare più indifeso, quasi fragile. Forse era per la posizione, perché lei rimaneva in piedi e lui doveva sollevare il mento per raggiungere le sue labbra, seduto com’era su quel piccolo sgabello claudicante.
Era così vecchio quello sgabello. Lo aveva riconosciuto subito, era quello che usava da sempre Jean-Luc quando doveva prendersi cura delle zampe dei cavalli, lo stesso su cui si era arrampicato lui da bambino per arrivare a sellare Golia[v], quando era ancora troppo piccolo anche per il suo piccolo vecchio pony.
Non sapeva perché avesse attirato la sua attenzione, o perché fosse riaffiorato proprio in quel momento un ricordo tanto lontano. Sapeva solo che a un tratto era stato travolto dalla sgradevolissima sensazione, che nell’armonia naturale di quella scena ci fosse una nota stonata e che quella nota stonata fosse solo lui. Si erano rifugiati in quella tiepida penombra per sfuggire a sguardi indiscreti e lui era arrivato ad interrompere l’incanto.
Nei tanti anni trascorsi da quando era solo un bambino, gli era capitato spesso d’imbattersi, suo malgrado, in convegni clandestini di amanti a corte, o nei ruvidi amplessi venduti o rubati senza troppa vergogna nei vicoli di Parigi. Per la prima volta in vita sua, però, non si sentiva un osservatore involontario e incolpevole di vite estranee, ma un vero e proprio intruso. Avrebbe dovuto semplicemente distogliere lo sguardo e andarsene, senza farsi notare come ogni altra volta, ma non ci riusciva.
Era dovuto ricorrere a tutta la sua determinazione per costringersi ad arretrare silenziosamente di un passo, poi di un altro, ed era quasi pronto a voltarsi, quando uno sbuffo di froge e il colpo impaziente di uno zoccolo, subito seguiti da un nitrito nervoso, avevano infranto la quiete ovattata. Alexander, per nulla rapito dalla magia del momento, aveva deciso di dare un chiaro segno della sua insofferenza per la protratta immobilità, attirando inevitabilmente l’attenzione di tutti.
Erano rimasti immobili per un interminabile istante di pietrificato imbarazzo, fino a che Nanà, per prima, non aveva sciolto l’abbraccio e si era girata verso di lui, aggiustandosi la cuffietta con noncuranza, mentre Philemon scattava in piedi alle sue spalle.
“Bentornato, André.” la stessa dolce espressione di sempre, accesa però di una luce nuova e adorna del lieve rossore, che le imporporava le gote.
“Io non…” aveva stentato una replica, tolto subito d’impaccio da lei, che non gli aveva consentito di proseguire.
“Scusatemi ma ora devo proprio tornare alle cucine. Si staranno chiedendo dove sia finita.”
Si era avviata con passo svelto, andandogli incontro per guadagnare l’uscita senza nessuna esitazione, neanche quando, passandogli accanto, aveva aggiunto nella fretta di un timido e radioso sorriso “Siamo fidanzati.” per poi dileguarsi velocemente in un alone di luce oltre la soglia.
Senza fiato o parole si era girato di scatto verso Philemon, che ancora non si era mosso, ma aveva sostenuto serenamente il suo sguardo. Si era limitato ad aggiustare il panciotto, fino a che neanche lui aveva più potuto evitare di sorridere, confermando solo con un cenno del capo.
“Congratulazioni! È una notizia meravigliosa!”
Lo aveva detto di tutto cuore, felice anche di riuscire finalmente ad articolare una frase di senso compiuto.
“Grazie.” aveva risposto asciutto, prima di gonfiare d’aria il petto ampio, ravviarsi i capelli, raddrizzare fieramente la schiena e parlare, al dunque, con una sicurezza che non gli aveva mai visto prima “Devo parlare con il Generale[vi].”
 
Una lama di luce fende l’ombra placida, incuneandosi nel cuoio bruno della sella appena risistemata sulla groppa di Alexander. La percorre con lo sguardo a ritroso fino alla sottile crepa che le ha consentito d’irrompere nella tranquillità di quel rifugio. La fissa come incantato, poi si riscuote e si piega per assicurare il sottopancia. Fa scorrere una carezza rassicurante lungo il collo teso del cavallo e torna a osservare la pigra danza del pulviscolo in quel fascio pallido e dorato. Proprio non riesce a impedirsi di tendere le labbra in un sorriso malinconico.
Quante volte da piccolo si era incantato a contemplare quello spettacolo di luce, aria e polvere. Certe sere gli sembrava un’eternità il tempo che doveva trascorrere appollaiato sul grosso ceppo nell’angolo della bottega di suo padre. Aspettava che avesse finito il lavoro per riaccompagnarlo a casa per cena[vii], come sua madre era solita chiedergli, e bisticciava con la noia, cercando distrazione nelle impalpabili volute che animavano il quadro della piccola finestra poco distante. Lo incuriosiva come apparissero casuali, eppure in qualche modo sempre uguali, quasi fossero costrette a obbedire a un’imperscrutabile regola. Le studiava per un po’, dilettandosi di tanto in tanto a passarci in mezzo un dito o la piccola mano, solo per assistere ancora una volta a come, gradualmente, quelle pagliuzze insignificanti tornassero necessariamente al loro tragitto, incuranti della sua dispettosa ostinazione[viii].
Gli sfugge l’accenno di una risata al riaffiorare improvviso del ricordo di una buffa smorfia stampata sul volto di suo padre, nitido, come non riusciva più a metterlo a fuoco ormai da tanto tempo. Una sera gli si era accostato, fregandosi le mani in uno straccio e cogliendolo di sorpresa, mentre se ne stava lì ad agitare le mani nel vuoto.
“Cosa stai cercando di fare? Addomesticare l’aria?” aveva chiesto, sforzandosi di non ridere, ma era evidente, che quel suo strano gioco doveva divertirlo molto più di quanto non lo incuriosisse. Imbarazzato, non aveva risposto nulla, limitandosi a raccogliere frettolosamente le mani in grembo e a scrollare il capo, imbronciato.
“Beh, allora andiamo, che tua madre ci sta aspettando.”
Era saltato giù dal suo rialzo, prima che la grande mano del padre arrivasse a scarmigliargli i capelli, come faceva ogni volta, e si era avviato in fretta, precedendolo a piccoli passi veloci e indispettiti. Non aveva aperto bocca per tutto il breve tragitto fino alla porta di casa, dietro l’angolo. Era arrabbiato. Si annoiava a starsene lì seduto ad aspettarlo, ma non aveva nessuna voglia di dirglielo, per l’ennesima volta, solo per vederlo scrollare il capo e sorridere bonariamente, ricordandogli di non fare capricci. Lo faceva infuriare: solo perché era un bambino non poteva decidere o cambiare nulla. Poi all’improvviso un giorno era cambiato tutto.
Aveva imparato a Bourges quanto veramente durassero le ore, sempre uguali, interminabili, quando doveva starsene in un angolo della sartoria senza fiatare, cercando di rendersi invisibile per non disturbare le lavoranti e non indispettire Madame Durier. Era tutto così diverso, tanto da chiedersi cosa ci facessero lì, ma sua madre gli aveva detto che era la soluzione migliore e si era sforzato di obbedire, anche perché lo aveva capito da solo che non c’era più un’altra casa cui tornare.
Quella specie di gioco solitario era tornato a occupare il lento scorrere del tempo. I vortici inconsistenti continuavano a seguire il loro percorso segreto anche lì, incuranti di tutto, ma di nuovo tutto era cambiato, senza che lui volesse o potesse farci niente. Li aveva ritrovati ancora, immutabili, si avviluppavano anche nella livida luce della luna, le notti in cui non riusciva a dormire, perché faceva troppo freddo o perché un nuovo arrivato ancora non si era rassegnato e continuava a lamentarsi e singhiozzare nella soffitta buia dell’orfanotrofio.
Era stato portato via anche da lì e si era ritrovato a Palazzo Jarjayes, un altro mondo, mai neanche immaginato nelle sue più fervide fantasie di bambino. Eppure anche in quel luogo la polvere danzava nella luce, incurante e ignorata: nelle cucine sconfinate, affollate di estranei indaffarati; nella stanza, la prima che avesse mai potuto dire sua e dove si era sentito smarrito e solo; persino nel maestoso studio del Generale, adorno di legni e marmi preziosi e lucidi. Si era sentito così piccolo e fuori posto quella prima volta al cospetto del padrone, come lo aveva chiamato quella nonna, che conosceva appena. Quando gli si era avvicinato fissandolo dall’alto in basso con occhi freddi e severi, aveva dovuto abbassare lo sguardo, ritrovando però nell’aria tremula quell’impalpabile conforto. Almeno quello non sarebbe mai cambiato. Poi avevano bussato e, in mezzo a un raggio di sole, era comparsa Oscar, spazzando via le pagliuzze dorate.
Il petto vibra liberando un verso strano, sorride e scrolla il capo. Quanto aveva detestato da principio quel luogo e quel bambino bellissimo e insopportabile, che aveva mandato in pezzi le poche certezze, cui ancora credeva di potersi aggrappare. Poi, in qualche modo, quel bambino era diventata la sua Oscar e Palazzo Jarjayes la sua casa.
Allunga la mano alla cieca per afferrare i finimenti, trovandoli come sempre al loro posto, ma diversamente dal solito si gira per far scorrere lo sguardo sul cuoio, che già sente familiare e liscio sotto i polpastrelli. Poco oltre, ordinatamente aggrappati alla parete, sono allineati i ganci di ottone, che sorreggono il corredo di testiere e redini delle scuderie di Palazzo. Sopra a ognuno una piccola targa riporta un nome: Leonida, Augustus, Cassiopea, Orlando, Ippolita... Nomi di cavalli, che hanno occupato quelle scuderie molto prima del suo arrivo, prima ancora della sua nascita, prima anche dell’arrivo di Jean-Luc.
Il vecchio stalliere glieli aveva fatti notare la prima volta che era entrato lì per imparare come sellare un cavallo. Poi tante altre, mentre lavoravano, gli aveva raccontato la storia di ognuno, di come il fu Jean Antoine Reyner, Monsieur de Jarjayes, li avesse scelti uno a uno, quando aveva preso possesso di quella casa dopo avere conquistato il titolo di famiglia, di quanto ne andasse fiero e di come, da allora, quei nomi fossero rimasti a indicare la posizione dei finimenti: Leonida[ix] per quelli del padrone, Augustus per quelli dell’erede designato e così via.
Non era altro che una regola per mantenere l’ordine, come aveva capito in seguito, ma era rimasta indelebilmente impressa nella sua fantasia di bambino, affascinata e alimentata da quelle storie, che sapevano di tradizione, di appartenenza, di continuità e di certezze immutabili passate da una generazione all’altra. Da tanto tempo non è più quel bambino, lui e Oscar sono cresciuti, il Palazzo e la tenuta non sono più il loro piccolo mondo inesplorato da conquistare, e di quelle storie non è rimasto altro che il fascino malinconico di un tempo che non tornerà più.
Alexander apre la bocca appena avvicina il morso e lo asseconda docilmente, abbassandosi per infilare la testiera, incurante di dover indossare i finimenti quasi nuovi della nobile giumenta lipizzana appartenuta alla sorella più piccola del Generale. Per quanto sciocco possa sembrare, quando gli era stata assegnata la postazione di Aretusa, lui, invece, aveva sentito riaffiorare un vago moto di orgoglio, eco di quello che lo aveva travolto a otto anni, ricevendo dalle mani di Oscar la prima spada da allenamento dalla collezione di Famiglia per espresso ordine del Generale.
Aggancia le redini e lascia scorrere pigramente la mano lungo la criniera e lo sguardo tutto intorno sul sentiero dei ricordi. Fatta eccezione per gli animali, non è cambiato praticamente nulla nelle scuderie dal giorno del suo arrivo a Palazzo, così come nei giardini e in casa, in ossequio alla rigida disciplina imposta dal Generale, fatta di un numero infinito di regole insindacabili. O almeno così gli erano parse appena arrivato, quando la nonna non la finiva mai di riprenderlo e correggerlo.
“Non così, ma così!” lo richiamava all’ordine ogni volta con tono perentorio.
I primi tempi aveva timidamente tentato di chiedere spiegazioni, solo per sentirsi invariabilmente rispondere “Perché è così che si deve. Perché così vuole il Generale.”
Non c’era voluto molto perché smettesse di obiettare, limitandosi a obbedire, considerando le regole del Generale alla stregua di un’emanazione divina, esattamente come i tanti divieti che Padre Jacques, il vecchio cappellano di Palazzo, non mancava di enumerare a lui e a Oscar, quasi fossero nuovi comandamenti, di cui però nessuno si era premurato di renderlo edotto al convento di Saint Pierre[x].
In breve si era semplicemente adeguato, un po’ perché tutti a Palazzo sembravano muoversi in armonia, seguendo la corrente imposta dalle tacite direttive del Padrone, un po’ perché non ne poteva più del modo in cui Oscar lo guardava ogni qual volta si azzardava a manifestare qualche dubbio: gli rispondeva piccata, fulminandolo, come se fosse troppo insolente o stupido per capire, poi gli toglieva la parola e teneva il broncio per un po’. Ci era voluto qualche anno perché smettesse di annunciare la fine di quella cura del silenzio, aggredendolo anche fisicamente per sfogare la rabbia residua. Con il tempo anche questo ha assunto la ritualità di una consuetudine: lui ha imparato e ad attendere pazientemente che lei torni a rivolgergli la parola come se niente fosse e che tutto riprenda a scorrere secondo la loro rassicurante regolarità.
“Cosa ne pensi? Per una volta infrangiamo le regole e ce la squagliamo di nascosto?”
Ridacchia, sentendosi un po’ stupido per il tono cospiratorio rivolto al suo fido destriero. Alexander, però, da l’impressione di apprezzare, sbuffando rumorosamente e scuotendo il capo.
“Sì, sì… adesso andiamo, non ti entusiasmare troppo!”
Lo accarezza sul naso per tranquillizzarlo, ma troppo tardi per evitare che si muova abbastanza da sfregare contro il parafianco, facendo cadere la coperta.
“Ecco, guarda cos’hai combinato.” lo rimprovera scherzosamente, spingendolo per riuscire a passare accanto alla parete e a raccogliere il panno dalla paglia.
“E adesso? Te la vedi tu con Jean-Luc, se se ne accorge!” intanto scrolla e batte il feltro spesso prima di risistemarlo sulla paratia.
Alexander torna subito calmo e immobile, come se la finta minaccia avesse colto nel segno.
“Te lo ricordi anche tu, eh?” gli sussurra, premiandolo con una grattatina dietro l’orecchio.
Lui sicuramente, anche perché non gli era mai capitato di vedere il vecchio stalliere, solitamente imperturbabile quanto una montagna, tanto fuori di sé.
Era autunno inoltrato, o forse già inverno, perché il fiato condensava in aria in piccole nuvole, mentre seguiva il Generale lungo il sentiero verso le scuderie. Lo aveva convocato prestissimo quella mattina. La sera precedente era tornato da una lunga missione e desiderava essere informato su come procedesse il nuovo incarico di Oscar a Corte, prima di venire ricevuto in udienza dal Re.
Ecco sì, era inverno, l’ultimo inverno di Luigi XV.
Aveva fretta e gli aveva chiesto di finire di aggiornarlo lungo il tragitto.
Stranamente, appena varcato il portone, non avevano trovato Jean-Luc con il cavallo già pronto per farlo montare in sella e persino il Generale si era lasciato sfuggire un impercettibile segno di sorpresa e titubanza, ma subito lo aveva esortato “Andiamo.” e si era avviato a passo di marcia per aggirare l’ala sud del Palazzo, continuando ad ascoltarlo sopra lo scricchiolio della ghiaia.
Certo è che nessuno si aspettava di sentire la voce di Jean-Luc risuonare già lungo il vialetto, né, tanto meno, di assistere alla scena, che gli si era parata davanti entrando. Il capo-stalliere incombeva sul giovane apprendista, arrivato da poche settimane dalla Normandia, che sembrava volersi fare piccolo, quanto mai avrebbe potuto, e subiva silenzioso i sonori rimproveri, stringendo al petto una delle coperte dei cavalli.
“Cosa sta succedendo?!” aveva tuonato il Generale, più come richiamo all’ordine che come un’effettiva domanda.
Entrambi erano scattati sull’attenti, cercando di ricomporsi.
“Signore… scusate Signore, il mio comportamento è imperdonabile, ma…”
Un cenno della mano, tanto era bastato al Generale per bloccare la foga con cui Jean-Luc tentava di giustificarsi, tenendo il capo basso in segno di rispetto, ma forse anche per nascondere il viso arrosato per l’agitazione.
Uno sguardo a Philemon e un garbato ma fermo “Dunque?” erano bastati per ottenere una risposta dal giovane palesemente atterrito, che, nonostante la stazza, con quei grandi occhi sgranati sembrava un bambino.
“Dovete perdonarmi, Padr… Signore, è solo colpa mia.” era affannato e la voce gli tremava, mentre i pomelli rossastri, che segnavano sempre le guance del viso ampio e candido, si facevano di un tono più acceso “Io non… Monsieur Jean-Luc me lo aveva già detto che non si fa così qui con le coperte, ma per l’abitudine… mi sono sbagliato e ho fatto come … come facevo…” tutto d’un fiato.
“Sì, Signore, gli ho spieg…” di nuovo solo un cenno della mano per bloccare il solerte intervento.
“Le coperte?” un sopracciglio si era appena sollevato, manifestando un insolito interesse “Cosa eri abituato a fare di diverso con le coperte dei cavalli da Monsieur Rennard?”
“Sì, da Monsiur Rennard, Signore…” Philemon aveva alzato il capo di scatto e quasi sorriso, come rassicurato dal solo nome, di quello che fino a un mese prima era stato il suo padrone e che lo aveva raccomandato per le scuderie di Palazzo Jarjayes “Da Monsieur Rennard le coperte vanno appese sui parafianchi, una per ogni cavallo. Monsieur Rennard dice che è per questo che i suoi cavalli soffrono il raffreddore e le coliche meno di quelli di ogni altro allevamento di Francia” orgoglioso e fedelmente certo della veridicità di quell’affermazione arbitraria.
“Signore, ve lo assicuro, gli ho spiegato che qui ha Palazzo non si è mai fatto. Bisogna mantenere l’ordine e vanno impilate come d’uso sugli scaffali vicino ai finimenti. Da ora in poi si farà come si è sempre fatto, ve lo garantisco.”
Il Generale non lo aveva interrotto, apparentemente preso da altri tutt’altri pensieri.
“Dimmi, Monsiuer Rennard fa altro, che qui non si fa?”
“Beh… l’aglio!”
“Aglio?”
“Monsieur Rennard fa aggiungere aglio essiccato al pastone dei cavalli in autunno e per tutto l’inverno, così non prendono mai la tosse.”
“Signore, qui non…”
“Sì, lo so, ma Monsieur Rennard è certo un allevatore di grande competenza. Da anni ci serviamo da lui per le bestie migliori senza mai rimanere delusi. Non c’è ragione per cui non dovremmo adeguarci alle sue buone pratiche. Bene, è deciso, da ora in poi le coperte saranno tenute sui parafianchi e… quell’altra cosa… ”
“L’aglio, Signore.”
“Sì, certo… provvedi a procurartelo e fatti indicare dal nostro bravo giovane, qui, come somministrarlo agli animali.”
“Certo Signore, provvederò immediatamente.” aveva replicato il capo-stalliere senza battere ciglio.
La decisione del Generale era bastata a spazzare via ogni traccia di quello che solo pochi minuti prima era parso un dramma insormontabile e di cui rimanevano le ultime tracce solo nell’espressione ancora un po’ titubante del giovane Philemon.
“Vi preparo subito il cavallo, Signore. Dovete perdonare la mia inadempienza…” si era premurato di anticipare Jean-Luc, cercando di riportare la mattinata alla ritualità consueta.
“No, non serve. Fatemi preparare la carrozza. Oggi mi recherò in carrozza alla Reggia.”
“La carrozza, Signore? Sì, certo, provvedo immediatamente.”
“Dunque André… mi stavi dicendo? …”
Da quel giorno il Generale aveva continuato a prediligere la sella per i suoi spostamenti, limitando l’uso della carrozza a occasioni particolari, ma le coperte nelle scuderie di Palazzo erano state sistemate sui parafianchi e l’aglio era comparso tra la biada all’inizio di ogni autunno, senza obiezioni o discussioni, come se fosse stato da sempre parte della tradizione su cui si regge la perfezione di un meccanismo apparentemente immutabile.
Nonostante le apparenze e la rassicurante regolarità delle consuetudini, che ha contribuito a rendere quel luogo la sua casa, la vita scorre e le cose cambiano inevitabilmente a Palazzo come in qualunque altro luogo. Forse è solo lui a non volerlo ammettere o a non essere poi un così acuto osservatore. Certo a Versailles e a Parigi sembra cogliere tutto quello che Oscar, più o meno deliberatamente, finisce con l’ignorare, ma a Palazzo, è ormai evidente, sono parecchie le cose, cui non è solito prestare la dovuta attenzione.
Sicuramente lo aveva colto alla sprovvista la Colette giubilante, che qualche anno addietro[xi] aveva fatto irruzione nelle cucine, facendogli andare di traverso il vino. Non la smetteva di saltellare e ripetere “Me lo ha chiesto e il Padrone ha detto di sì!!... Me lo ha chiesto e il Padrone ha detto di sì!!”
“Ma cosa…” aveva cercato di articolare, tossendo.
“Oh, insomma un po’ di contegno! Non è certo questo il modo di comportarsi, fosse poi una gran sorpresa!” era intervenuta lapidaria sua nonna.
Subito si erano fatte intorno chiocciando le cameriere presenti e qualche altra, accorsa espressamente per l’occasione.
“Oh, che meraviglia!”
“Avete già fissato la data?”
“E dove andrete a vivere…”
“Oh, avrai certo della servitù!”
“Cosa?... Chi?” aveva tentato d’intromettersi lui, unico non a parte di un evento evidentemente noto a tutti.
“Oh,… il nostro bell’addormentato[xii]!!” lo aveva apostrofato con insolito garbo Yvette[xiii], innescando la reazione della truppa al suo comando, appena evasa dalla stanza della biancheria.
“Ooooohh…. povero piccolo…”
“Vieni che te lo spiego io…”
“Certo non vede altro…”
“Oh, piantatela e tornatevene al lavoro voi!!” le aveva riportate nei ranghi la capo-lavandaia, prima che sua nonna prendesse provvedimenti e ricorresse a misure più drastiche in virtù del suo grado.
Nanà era stata la sola tanto gentile da degnarlo di un minimo di attenzione e dedicare un momento ad aggiornalo. A quanto pareva, Monsieur Roger, nipote ed erede di Monsieur Gaultier[xiv], da sempre sarto dei Signori de Jarjayes, faceva da mesi la corte alla graziosa Colette e non si attendeva altro che la protratta frequentazione si concludesse con il fortunato quanto incerto esito auspicato da tutti, soprattutto da Colette.
“Ma ti pareva normale che per delle usuali consegne si presentasse ogni volta il nipote del padrone?!” si era limitata a osservare Nanà, palesemente divertita dalla sua espressione ancora perplessa.
La verità era semplicemente che non aveva prestato la minima attenzione alla cosa, anche se, a volerci ripensare, ricordava perfettamente il giovanotto educato e ben vestito, che era stato presentato ufficialmente dallo zio alla prima occasione.
Le ordinazioni periodiche della biancheria e delle camicie erano la sola attività domestica da gentiluomo[xv], cui Oscar era solita presenziare e a lui, di conseguenza, toccava assistere. Sapeva benissimo che, per quanto sua nonna non avrebbe mai osato prendere iniziative per il guardaroba del Generale, certo, se lasciata sola a decidere, non si sarebbe lasciata sfuggire l’opportunità di aggiungere al corredo della sua bambina qualunque frivola novità alla moda Monsieur Gaultier avesse avuto l’ardire di proporle.
Quel giorno, stavano giusto discutendo di una nuova rouche da aggiungere ai polsini, di cui Oscar non voleva neanche sentire parlare e che lui era pronto a giurare di avere già visto sbucare dalle maniche di Girodelle qualche settimana prima.
“Ma bambina… per una volta… ”
“No, ho detto che non li voglio!” al solito, Oscar l’aveva censurata con decisione, seppur sforzandosi di tenere la voce bassa e un certo contegno, per non dare spettacolo di fronte all’anziano e distinto sarto, che poco distante era intento a pescare una nuova pezza di finissimo lino da uno dei suoi bauli, mentre il nipote prendeva nota dell’ordine in un libricino.
“Insomma, nonna, quando ti rassegnerai…” l’aveva pungolata lui, prendendola in giro.
“Mai… mai!... e piantala tu, insolente! Cosa ne vuoi sapere…” lo aveva rimbrottato, riordinando sconsolata le camicie sparpagliate sul tavolo del salon nelle stanze di Oscar.
“Madamigella, è questa che desideravate?” si era compostamente fatta avanti Colette, comparendo dall’arco della camera da letto.
“Sì, proprio questa. Le desidero esattamente così, come sempre.”
“Ma bambina mia, ancora quella camicia così vecchia… ” aveva tentato di lamentare la nonna nonostante l’impedimento delle circostanze.
“Monsieur Gaultier, questo modello nel nuovo tessuto.” aveva incalzato Oscar, ignorandola.
“Sempre ai vostri ordini, Comandante, sarà fatto.” si era limitato ad assentire il sarto con un lieve inchino, lasciando ricadere la pezza appena trovata nel baule “Segna, Jeremy… e dieci in cotone egiziano ritorto… Jeremy?!... Jeremy!!” si era voltato solo un istante a fulminare con lo sguardo il nipote distratto, per poi tornare subito a sorridere rassicurante al Comandante de Jarjayes.
“Sì?... Sì, certo… perdonate Zio… mi ero attardato un attimo… sì, ecco e altre dieci… ho provveduto ad annotare ogni cosa.” ricomponendosi in fretta.
Monsieur Gaultier si era accostato al tavolo per recuperare i suoi campioni e riassumere con la governante quanto stabilito, sotto l’irrequieta supervisione di Oscar, che andava avanti e indietro, rivolgendo sguardi sempre più impazienti ora a lui, ora fuori dalla finestra.
Tutti erano tanto presi dalla liturgia dell’ordine stagionale da non accorgersi di ciò su cui il giovane Jeremy Roger si era attardato, tutti tranne lui e il più che cosciente oggetto di tanto irresistibile interesse. Colette se ne stava conveniente in disparte, con le mani raccolte in grembo, in silenziosa attesa di ordini, esattamente come sua nonna e chiunque altro in quella casa davano per scontato, ma ricambiava senza esitazione gli sguardi, che tornavano di sfuggita a più riprese, sempre più insistenti quasi non potessero farne a meno.
Aveva trovato piuttosto divertente che nessuno sembrasse accorgersi nemmeno del leggero tremito nella voce di Monsieur Roger, alimentato dal sorriso malizioso, che scintillava come oro nei grandi occhi nocciola di Colette. Si era sorpreso a considerare che nemmeno la castigata uniforme di Palazzo riusciva a penalizzare la grazia della figura snella e minuta, e che l’incarnato rosero e l’ovale armonioso, incorniciato di ricci scuri, ricordava la perfezione di una delle costose bambole di porcellana appartenute alle sorelle di Oscar. La conosceva da anni e l’aveva sempre considerata una ragazza graziosa, ma gli occhi nuovi di Jeremy Roger gliela mostravano in una luce diversa, facendogli cogliere per la prima volta quanto fosse effettivamente attraente la piccola Colette.
In ogni modo, non aveva dato particolar peso all’evento, assumendo che non avrebbe potuto comunque perturbare l’affidabile consuetudine della vita a Palazzo e trovandosi, suo malgrado, colto alla sprovvista dagli inattesi sviluppi.
Naturalmente aveva sollevato una certa sorpresa anche tra la servitù, che Colette fosse riuscita ad accalappiare un così buon partito, ma sua nonna si era premurata di puntualizzare che non poteva esserci migliore garanzia di merito e serietà di una posizione a Palazzo Jarjayes. Dal canto suo, Monsieur Gaultier non aveva mosso obiezioni una volta incassata l’approvazione di Padroni, da sempre suoi così buoni clienti. Con tutta probabilità, aveva giocato a favore anche la dote, che per regola la Contessa de Jarjayes faceva mettere da parte per tutte le giovani nubili che lavoravano a Palazzo. Non erano certo le 3000 livres garantite alle nobili allieve del Saint-Cyr, ma nel solco della tradizione della sua vecchia scuola, Madame voleva che, quando le ragazze avessero lasciato il servizio, fossero dotate di un piccolo patrimonio, tale da consentire loro un matrimonio dignitoso o l’ingresso in un convento rispettabile.
Era così che Madame Rogerce l’aveva fatta’, arrivando a incarnare la speranza di un futuro migliore per le tutte le ragazze a servizio presso il Palazzo, tanto più per quelle assunte in seguito, che non l’avevano mai conosciuta semplicemente come la capace e puntuale femme de chambre di Madamigella Oscar, quello che lui aveva dato per scontato sarebbe rimasta per tutta la vita.
D’altronde non c’era poi molto da sorprendersi. Non era stato certo più attento con Annette, la prima persona amica che lo aveva accolto a Palazzo ed era diventata per lui una sorella, più di quanto avrebbe mai potuto essere una del suo stesso sangue. Amico e confidente, testimone dall’inizio del lusingato e timido stupore per le cortesi attenzioni dedicatele dall’attendente del Generale, era stato in apprensione per i suoi primi sospiri d’amore, poi felice di vederla ricambiata da un affetto altrettanto sincero e onesto. Ciononostante, anche lei lo aveva lasciato di stucco annunciandogli che se ne sarebbe andata[xvi].
“Non sei felice per me?” gli aveva chiesto con gli occhi colmi di lacrime di gioia di fronte al suo silenzio attonito.
“C…certo, che lo sono!” si era affrettato a rispondere, stringendosela al petto con urgenza e baciandole e capelli “… Sono felicissimo per te e Jerome. Felicissimo, veramente!”
Annette aveva forzato l’abbraccio per guardarlo in viso, allora si era costretto a ricambiare il sorriso, anche lui con gli occhi traboccanti lacrime. Avevano giurato di scriversi ogni giorno e rivedersi ogni estate ad Arras. Lei gli aveva fatto anche promettere di fare da padrino per ognuno dei figli che Dio avesse mandato a benedire quel matrimonio.
Da quel giorno sono passati anni, gli intervalli tra le lettere si sono fatti settimane, poi mesi, e la piccola Camille ha già compiuto nove anni senza che lui abbia neanche visto l’ultima sorellina venuta al mondo lo scorso inverno, né i due maschietti che l’hanno preceduta, il secondo dei quali porta persino il suo nome. L’affetto e la tenerezza, che ancora prova per Annette, non sono certo stati intaccati dal tempo o dalla lontananza fisica, ma la vita, la sua vita fuori dal Palazzo, raccontata una lettera dopo l’altra, è diventata per lui sempre più distante, come qualcosa cui può assistere, ma non condividere. Non riesce, magari non vuole, forse semplicemente non osa.
Ed eccolo di nuovo, spettatore della vita di Nanà. Gli sembra solo ieri che si aggirava come uno scricciolo spaurito per le cucine, timorosa di tutto e pronta ad arrossire appena le si rivolgeva la parola e ora… gli viene da ridere. Certo l’interesse di Philemon non era da tempo più un segreto per nessuno, ma che lei lo ricambiasse… beh, questa è tutta un’altra storia.
Viste le circostanze, si era aspettato qualche confidenza da parte del giovane stalliere, mentre lo aiutava a occuparsi di Alexander, prima di accompagnarlo a chiedere udienza al Generale. Invece era rimasto in silenzio, impassibile, come se la sella, il morso e i finimenti, fossero le uniche cose ad occupare la sua mente.
Con estremo tatto si era arrischiato a chiedergli come fosse andata. “C’è voluto un po’.era tutta la risposta che aveva ottenuto. Poi però Philemon si era bloccato e, sopra la groppa ormai nuda del cavallo, si era girato a fissarlo negli occhi, risoluto e serio, come mai lo aveva visto prima, solo per lasciarsi andare a uno di quei larghi sorrisi, che gli illuminavano il volto di una gioia fanciullesca. Infine aveva di nuovo distolto lo sguardo, scrollando il capo come per schernirsi e tornando a crogiolarsi serafico nei suoi pensieri.
“Se sei pronto, adiamo.” gli aveva detto appena finito di sistemare.
Il giovane aveva annuito con decisione “Andiamo.” e si era avviato a lunghi passi, precedendolo lungo il vialetto verso il Palazzo.
Era così, che nella galleria illuminata dalle grandi vetrate, fissando assorto le ante chiuse, dietro le quali era scomparso Philemon, si era trovato a ripensare a tutti i piccoli grandi accadimenti più o meno trascurati, che dai primi impacciati e titubanti approcci li avevano condotti a quel momento.
Praticamente nessuno, da principio, si era accorto che la frequentazione delle cucine da parte del giovane stalliere era diventata via via più assidua e che, soprattutto, in questo non c’era proprio niente di casuale. Nonostante la stazza, sempre così taciturno e timido, non si prestava mai particolare attenzione alla sua presenza nei locali della servitù ed era servita tutta la vigile malizia di Inès per palesare quanto stava accadendo da qualche tempo, totalmente ignorato, sotto gli occhi di tutti.
“Oh, rieccolo!” era sbottata un giorno, entrando nelle cucine con una pila di stracci lavati “Che vi avevo detto?” aveva buttato la voce alle sue compari “Il cavalier servente di Nanà è qui anche oggi.” alzando il tono abbastanza, perché la potessero sentire distintamente dalla stanza del bucato e tanto da portare sconquasso nella pigra quiete, che ha sempre caratterizzato il dopo pranzo nelle cucine di Palazzo.
Thècle e Aglaè erano accorse, trovando evidentemente la cosa più urgente del portare a termine il loro consueto lavoro di stiratura.
“Ma guarda un po’… chi se lo sarebbe mai aspettato dalla piccola…”
“Guarda, guarda il bambinone!”
“Eh, ma si sa che le acque chete…”
Avevano preso a chiocciare, richiamando la stupita attenzione dei presenti.
Nanà da principio le aveva ignorate, probabilmente perché non si era neanche resa conto di essere lei, per la prima volta, il bersaglio dei loro commenti inopportuni. Aveva continuato a vigilare accanto alla stufa sulle sue pentole borbottanti, fino a che, sollevando lo sguardo per rivolgere un cenno di ringraziamento a Philemon, che lì accanto issava suoi fuochi un gigantesco paiolo colmo d’acqua, non si era accorta della platea di occhi puntati su di loro.
“Ecco qui, Mademoiselle Nanà, posso fare altro? Vi serve un altro sacco di farina dalla dispensa prima che me ne vada?” aveva chiesto lui, ignaro e servizievole, senza però ricevere risposta, ma solo un’occhiata nervosa, che lo aveva fatto girare di scatto.
“Sì, ‘Mademoiselle’…” gli aveva fatto il verso Ines “… cosa può ‘fare per Voi’?” lordando le stesse innocenti parole dei peggiori sottintesi e innescando le sconvenienti risate delle sue due complici.
Philemon era avvampato, arretrando e stringendosi nelle spalle, come era solito fare nel vano tentativo di scomparire.
“Philemon è sempre cortese con tutti.” era sbottata Nanà, dritta e contegnosa, senza però riuscire a trattenersi dal torcere il grembiule tra le dita.
“Sì,… ‘cortese’… dice lei!” aveva ribattuto Thècle supponente, incrociando le braccia al petto.
“… sé! Altro che sacco di farina nella dispensa… ” rincarato Aglaè, piegandosi in avanti con le mani sui fianchi e un sorrisetto insinuante.
“Oh, che sciocchezze… è assurdo che possiate anche solo pensare…” quasi tremava Nanà, fissandole incredula, tra l’ira e l’imbarazzo.
“Scu… scusatemi…” era riuscito a sputare Philemon, a malapena udibile, piegandosi in un profondo quanto frettoloso inchino per poi dileguarsi in tutta fretta.
Nanà per qualche istante era rimasta a fissare attonita la sua ampia schiena che scompariva oltre la soglia spalancata sul parco, poi aveva lanciato un’occhiataccia alle tronfie lavandaie, rinunciando però a qualunque replica. Aveva allargato platealmente le braccia, lasciandole poi ricadere lungo i fianchi per dirigersi verso la dispensa con gli occhi rivolti al cielo.
“Si può sapere cosa ci fate qui?” aveva tuonato Yvette arrivando dal corridoio “Tornate subito al lavoro!”
Le tre erano rientrate svelte nella loro stanza, restituendo ogni cosa all’apparenza della solita quieta regolarità, in cui però, oramai, si era insinuata quella rivelazione come un dettaglio quasi impercettibile, ma irrimediabilmente evidente.
Tutti erano tornati a dedicarsi alle loro mansioni con la consueta dedizione e sollecitudine, chi in casa e nei locali di servizio, chi nelle cucine, chi, più rumorosamente, nella stanza della biancheria. Come era sempre stato, Philemon trascorreva quasi tutto il suo tempo nelle scuderie, facendo la sua comparsa nell’ala della servitù solo per le ore dei pasti e a tarda sera per ritirarsi, timido e silenzioso, ma, suo malgrado, non più invisibile.
Certo nessun altro si era azzardato a fare commenti o battute, forse per umana comprensione, più probabilmente per il ben radicato timore delle prevedibili conseguenze, nel malaugurato caso un simile comportamento fosse venuto a conoscenza di Madame Marie. Come il migliore degli ufficiali in seconda, la nonna di André vigilava, affinché tra i ranghi della servitù vigesse la stessa disciplina che il Generale esigeva da tutti gli abitanti di Palazzo e mai avrebbe lasciato correre su una tale mancanza di riservatezza e decoro. Purtroppo la truppa agli ordini di Yvette rimaneva da sempre la più propensa all’insubordinazione[xvii] e, se non era Inés, erano Thaecle o Aglaè a provvedere a pungere il povero Philemon con qualche frecciata maliziosa, ogni qual volta lo trovavano a rivolgere la parola o anche solo a passare accanto a Nanà, che finiva inevitabilmente con l’accusare il colpo, per quanto di striscio.
Con il passare dei giorni, non c’era neanche più bisogno che si trovassero nei paraggi, quasi le loro insistenti malignità avessero finito coll’impregnare l’aria. Il giovane stalliere era sempre più incerto e guardingo nella sua devota opera di assistenza, Nanà sempre grata e cortese, ma tanto nervosa che bastava il casuale attardarsi dello sguardo di qualcuno o l’accenno di una risata o un chiacchiericcio in lontananza per far avvampare lei e battere in ritirata lui.
Un’intirizzita e pigra sera di gennaio, però, qualcosa era cambiato. Faceva freddo fuori, quel freddo che rende l’aria limpida e fragile come cristallo e si appanna per un soffio di fiato. Troppo freddo per nevicare, anche se si poteva annusare distintamente l’odore della neve imminente nell’aria. Sotto un cielo gravido, oltre la grande vetrata sul fondo delle cucine, i giardini apparivano immobili, gelidi e scuri, come sculture di onice, rischiarati a tratti dal baluginare delle fiamme nel grande focolare.
Era troppo freddo anche per attardarsi nelle scuderie; tanto freddo che persino il vecchio Jean-Luc aveva preferito trattenersi con gli altri nel tempore avvolgente delle cucine, invece di ritirarsi solitario nella sua stanza appena finita la cena, come faceva da quando era rimasto solo.
Nanà aveva avuto la premura di far preparare a Lorelie del vino caldo e speziato, che continuava a sobbollire in un pentolone, diffondendo il suo aroma invitante. André ne aveva riempito due tazze fumanti e si era accomodato sulla solida panca di legno accanto al focolare a fianco del vecchio stalliere, porgendogliene una.
Oscar era uscita in carrozza con il Generale per prendere parte a una cena organizzata dal Generale Bouillet e non sarebbe rincasata fino a tardi, per cui anche a lui non sarebbe rimasto molto altro da fare, se non ritirarsi da solo a leggere nella sua stanzetta gelida. Erano rimasti per un po’ così, in silenzio, fianco a fianco a soffiare sulle loro tazze e sorbire lentamente quel tiepido conforto con lo sguardo perso nel dimenarsi delle fiamme, il cui crepitio si mescolava ai gesti e alle voci delle cameriere raccolte intorno al tavolaccio grande, intente a completare qualche lavoro di rammendo e scambiarsi confidenze, dei valletti e dei lacchè seduti sugli sgabelli all’angolo opposto del focolare, qualcuno impegnato a lucidare una fibbia o un paio di stivali, qualcun altro a commentare i fatti della giornata e dare consigli, non necessariamente richiesti. Saltuariamente, dal fondo dello stanzone, deflagrava una risata sguaiata, la cui origine era irrimediabilmente l’angolo vicino al girarrosto[xviii], in cui si erano assiepate le uniformi bianche della lavanderia per ascoltare dalla viva voce del giovane Jules[xix] non si sa quale divertentissima storia, palesemente troppo allegre e sicuramente troppo indulgenti con il vino. In sottofondo, di tanto in tanto, sentiva affiorare un profondo sospiro dal lato opposto della panca, oltre l’ancora massiccia figura di Jean-Luc, accompagnato ogni volta da un fastidioso tremito, propagato lungo la seduta.
“Che c’è… non bevi? Non ti piace il vino caldo, Philemon?” aveva chiesto Jean-Luc, appoggiato ai gomiti in equilibrio sulle ginocchia, con la sua voce profonda e un po’ ruvida, senza distogliere lo sguardo dal fuoco.
La sola risposta era stata un vago e indecifrabile mugugno, tanto che André aveva dovuto sporgersi in avanti e girarsi per cercare qualche ulteriore indizio, che lo aiutasse a capire se si trattasse di un sì o di un no. Con tutta probabilità neanche Philemon lo sapeva, forse non si era neanche reso conto fosse vino il contenuto della tazza che continuava a rigirarsi inutilmente tra le mani, che si allungava ad appoggiare sui mattoni caldi del focolare, solo per riprenderla un attimo dopo. Curvo come il vecchio Jean-Luc sulle ginocchia e ben nascosto nel suo angolo, anche lui aveva lo sguardo rivolto alle fiamme, ma sicuramente non perso. I suoi occhi puntavano oltre, sul lato opposto a sinistra, dritti su Nanà che, al tavolo da lavoro vicino alla stufa, stava finendo di dare la forma alle pagnotte da mettere a lievitare per essere informate da Lorelie alle quattro della mattina successiva.
Philemon continuava a fissarla senza perdere il minimo gesto, il più piccolo dettaglio, serio e attento, silenzioso e immobile. Solo per un attimo gli era sfuggito un mezzo sorriso, ricacciato indietro a fatica, quando l’aveva vista ridere per un’impertinente sbuffo di farina, che aveva imbiancato il viso della sua giovane aiutante. D’un tratto i muscoli si erano tesi, come se fosse sul punto di alzarsi o spiccare un balzo, ma era stato solo un istante. Un’occhiata fugace e mesta intorno, un sospiro sconsolato e aveva rinunciato, per tornare a seguirla solo con lo sguardo, lasciando scaricare la tensione nel tremito convulso della gamba.
“Cos’hai intenzione di fare?” aveva chiesto di nuovo Jena-Luc, sempre senza guardarlo, prima d’ingollare un’altra lunga sorsata di liquido caldo.
“Io non…” un altro profondo sospiro “… è… difficile.”
“Affatto! Cos’hai mai da perdere?”
“Ma… se non…” ancora un sospiro, solo per abbassare lo sguardo sulla tazza oramai fredda che continuava a rigirarsi tra le grandi mani.
“Bah… sciocchezze.” Jean-Luc aveva battuto il pugno sul ginocchio, in un inatteso gesto di stizza, per continuare più calmo, ancora rivolto alle fiamme “Non puoi perdere quello che non hai.”
Philemon allora si era bloccato e aveva drizzato la schiena per dirigere un’altra occhiata guardinga in giro per la stanza, indugiando sul gruppetto delle lavandaie.
“Hai forse qualcosa di cui vergognarti?”
“N… no!... Niente!”
“Allora cosa c’è mai da decidere?” un altro sorso.
Il giovane si era fatto serio “Ma…”
“Di chi t’importa veramente? Cosa vuoi veramente? Non c’è altro da capire.”
Non era servito altro. Philemon si era alzato in piedi calmo e deciso, e senza alcuna esitazione aveva scavalcato la panca.
“Non c’è altro che importi. Tutto il resto… bah, sono solo scuse! … inutili scuse… lasciatelo dire da qualcuno che lo ha capito troppo tardi.” e in una vorace sorsata Jean-Luc aveva svuotato la tazza e appoggiato la mano grave sulla spalla di André per aiutarsi a tirarsi in piedi a sua volta. Ma Philemon oramai era troppo lontano per sentire e forse non erano destinate a lui quelle ultime parole.
“Buonanotte, ragazzo.”
“Buonanotte…” aveva risposto André, seguendo per un attimo con lo sguardo il suo passo incerto, mentre gli girava attorno e si dirigeva verso il corridoio scuro. Solo per un attimo, prima di scomparire nel buio, si era girato e aveva sorriso malinconico, come a un’immagine lontana, forse a un ricordo.
Philemon si era diretto dritto come un fuso dalla parte opposta e con le sue lunghe falcate non gli ci era voluto molto per arrivare a destinazione.
“Desiderate altro vino, Monsieur Philemon.” si era affrettata a chiedere sollecita Lorelie, trovandoselo vicino.
“No, vi ringrazio, Mademoiselle.” garbato lui, limitandosi a porgerle la tazza, per risollevare subito lo sguardo su Nanà.
“Oh, ma non avete bevuto niente!” un po’ delusa nel trovarsi tra le mani la coppa di coccio ancora praticamente piena “Non vi è piaciuto il mio vino speziato?”
“Oh, no Lorelie. Sono certa che non sia questo il motivo…” premurosa, Nanà si era affrettata a rassicurare la sua giovane aiutante.
Philemon aveva sorriso “Assolutamente! Era molto buono, solo…” aveva abbassato lo sguardo e si era passato una mano dietro il collo, un po’ in imbarazzo “… temo di non essere un grande bevitore. Sidro[xx]… al più…” facendo spallucce “… dolce se possibile… come i bambini.” allargando il sorriso e lasciandosi arrossire un po’.
La leggerezza di quella confidenza era riuscita a sciogliere l’apprensione di Lorelie e a strapparle una risatina, che si era affrettata ad arginare con la mano.
“Oh, scusate… non intendevo certo ridere di voi… “arrossendo anche lei tra le lentiggini.
“Non ti preoccupare…” sempre rassicurante Nanà, cingendole le spalle “Monsieur Philemon non è certo tipo da…”
Grassa e sguaiata, la risata che era rigurgitata dal fondo della sala, interrompendola e facendola sobbalzare.
“Ma guardate!” sgradevole quanto poteva essere la voce di Ines, vagamente impastata “Il nostro ragazzone che torna a offrire i suoi servigi alla sua bella… a quanto pare il vino infonde coraggio!” sollevando la coppa con tanta foga da farne traboccare un fiotto.
“Vuoi mai che sia la sera buona!”
“Sì… nei suoi sogni!”
Altre risate e altre battutacce, ignorate dalla maggior parte dei presenti, avvezzi a certe rare seppur non inusuali intemperanze, ma che erano inevitabilmente riuscite a far irrigidire Nanà e ad accendere come un tizzone il visetto paffuto di Lorelie. Per la prima volta, invece, sembravano non sortire alcun effetto su Philemon. Gli aveva rivolto un’occhiata distratta, come a qualcosa di vagamente fastidioso, ma del tutto irrilevante, solo per poi girarsi quel tanto da dar loro le spalle, abbastanza ampie da eclissarle alla vista di chi aveva di fronte.
“Posso esservi di aiuto?” aveva provveduto a chiedere.
“No… beh, troppo gentile… ma oramai abbiamo fatto…” si era affrettata a replicare Nanà, evidentemente ancora un po’ nervosa, ma forse non più tanto per gli schiamazzi delle lavandaie “… dobbiamo solo…” sistemando il candido telo di mussola sul pane con l’aiuto di Lorelie.
“Permettete, ve ne prego.” si era fatto avanti e senza indugi aveva afferrato l’asse su cui le pagnotte erano allineate, per sistemarla, senza sforzo, sui supporti in alto sopra la stufa, dove da sempre a Palazzo veniva messo il pane a lievitare, con il tradizionale impegno della cuoca in carica e di una sua aiutante, oltre l’immancabile ausilio di un paio di sgabelli.
“Gr… grazie… ”
“Piacere mio.”
“Uhuuuu…” aveva attaccato a ululare Thecle, fortunatamente interrotta prima di poter proseguire.
Come una valanga, era precipitata nelle cucine la nonna di André “Il guardaportone ha annunciato che la carrozza del Generale sta già arrivando… presto! Presto! Tutti ai vostri posti!” aveva fatto scorrere velocemente lo sguardo autoritario sui presenti, per bloccarsi interdetta sul gruppetto delle lavandaie “Si può sapere cosa ci fate voi ancora qui? Non avrete anche bevuto!? Con tutto quello che avete da fare domani! Ah, ma provvederò io a parlare con Yvette… forza muovetevi, subito a letto. Veloci!” accompagnando l’esortazione con un il battito delle mani, al cui ritmo le aveva fatte marciare spedite e silenziose fuori dalle cucine.
“Philemon…”
Si era girata per indottrinarlo, ma lui l’aveva anticipata “Sì, Madame. Vado subito, mi assisterà Jules.” richiamandolo con lo sguardo e facendolo quasi cadere dalla sedia, prima di dirigersi verso l’uscita, aspettandosi chiaramente di venire seguito.
“Ottimo.” un po’ sorpresa, ma certo la governante di Palazzo non avrebbe mai redarguito nessuno per l’eccesso di sollecitudine.
“Tu, Clodine.” scattata sull’attenti “... l’acqua calda da portare nelle stanze. È troppo tardi per un bagno, ma certo i Signori la gradiranno, con questo tempo.”
La cameriera era partita immediatamente a preparare le brocche.
“Ah, Nanà…”
“C’è il vino caldo già pronto. Provvedo subito a mettere sul fuoco la cioccolata. Desiderate che prepari anche del caffè?”
“Mmmm…” pensosa, quasi l’avesse colta alla sprovvista, ma subito aveva ripreso “No. è troppo tardi anche per il caffè. Il Generale non lo prende mai a quest’ora. In caso il vino andrà benissimo. Bene, su, non c’è tempo da perdere.” e così come era apparsa era scomparsa, per tornare a mettersi a servizio nell’ala padronale.
In mezzo alla servitù improvvisamente indaffarata, André aveva svuotato con calma la sua tazza, si era alzato e aveva sistemato con cura il panciotto e la giacca per poi raggiugere anche lui l’atrio principale e allinearsi in composta attesa di disposizioni.
Oscar era tornata stanca e di cattivo umore, e lo aveva congedato subito. Solo, nella sua stanza riscaldata a fatica dal piccolo camino, aveva visto scendere oltre la finestra i primi candidi fiocchi di neve. Era sprofondato in fretta in un sonno pesante ma inquieto, forse per il freddo, forse per il vino. La mattina successiva, al risveglio, ogni cosa era sommersa da una spessa e sorda coltre di neve.
 
“Vi ringrazio, Signore. Vi garantisco che non ve ne pentirete.” Philemon continuava a ringraziare e a profondersi in inchini anche fuori dalla porta spalancata dello studio.
“Non ne dubito.” aveva sentenziato da dentro la voce del Generale “Ora fai entrare, André.”
“Certo, subito.” un altro inchino, oramai nella galleria, lanciando ad André un’occhiata che tradiva tutto il possibile entusiasmo faticosamente trattenuto “Ancora grazie, Signore.” e dopo avergli assestato una pesante pacca sulla spalla, si era dileguato lungo la galleria, dando quasi l’impressione di non toccare terra.
“Permettete, Signor Generale?” aveva esordito, fermandosi opportunamente sulla soglia.
“Vieni avanti, André, e chiudi la porta.”
Come innumerevoli altre volte, come la prima volta da bambino, si era fermato al centro della stanza, in mezzo al grande tappeto a fiori, di fronte al Generale, seduto alla scrivania, intento a scrivere qualcosa.
“Come certo sai, Philemon è venuto a chiedermi il permesso di prendere in moglie la nostra cuoca, Nanà.” aveva sollevato lo sguardo per un attimo, intingendo la penna d’oca nel calamaio, per tornare subito a farla scorrere veloce e decisa sul foglio “Non vedo motivi per oppormi a questa unione, quindi gli ho accordato il mio permesso… anche se… certo sarà una seccatura trovare chi li sostituisca!”
“Non rimarranno a Palazzo?!”
Gli era uscito così, senza pensare, e il Generale aveva alzato gli occhi di scatto, incredulo di fronte a una simile intemperanza.
“Perdonate, Signore.” era corso ai ripari.
“Comprendo e condivido il tuo stupore.” indulgente “Non è certo comune rinunciare a due così buoni impieghi, tanto più che gli avevo anche offerto la possibilità di prendere possesso del villino al di là delle scuderie.” si era soffermato a ricontrollare lo scritto “Neanche Jean-Luc era stato capace di rifiutare una simile offerta a suo tempo.” aveva inarcato le sopracciglia, spargendo meticolosamente il polverino “Ma, a quanto pare, il nostro Philemon è irremovibile.” aveva cercato il suo sguardo, aspettandosi conferme in merito all’assurdità di una simile presa di posizione “Non vuole assolutamente che la sua futura sposa continui a rimanere a servizio. Non posso certo non ammirare un simile senso di responsabilità, ma come detto…” piegando il foglio per sigillarlo, aveva aggiunto rassegnato “… simili cambiamenti sono sempre una seccatura.”
Si era allungato per porgergli, quindi, quella che appariva come una missiva “Provvedi a far recapitare questa presso la tenuta in Normandia.”
“In Normandia, Signore?” un’altra poco ortodossa intemperanza “Se mi posso permettere, ovviamente.” accostandosi per prendere in consegna la lettera.
“Non vedo perché no. Non è certo un segreto.” si era sistemato più comodamente contro lo schienale imbottito “Philemon ha espresso il desiderio di tornare in Normandia, per stare vicino alla sua famiglia, e mi ha fatto una proposta che considero interessante. Come ricorderai un tempo lavorava da Monsieur Rennard e ha espresso l’ambizione di avviare un piccolo allevamento di cavalli. Certo al momento non ha il capitale, né il terreno necessario, ma a questo posso provvedere io.”
“Un allevamento dite?!” non riusciva a credere alle sue orecchie. Aveva passato anni al fianco del giovane stalliere di Palazzo e mai lo aveva neanche sfiorato l’idea, che nella sua immensa mitezza potesse coltivare una tale iniziativa.
“Sorprendente, vero?” aveva sorriso compiaciuto, il Generale “Chi mai avrebbe pensato che avesse tanta ambizione. In ogni modo, in questi anni ha ben dimostrato di sapere il fatto suo a proposito dei cavalli, se poi saprà far fruttare questa attività… beh, questo si vedrà. Per il momento gli ho concesso l’utilizzo di un discreto appezzamento di terreno e un piccolo capitale per cominciare. Se si dimostrerà capace, potrà godere dei profitti della vendita degli animali. Male che vada, avremo chi provvederà a riprodurre le bestie impiegate nelle proprietà di famiglia.”
Aveva concluso così, senza troppa enfasi, ma André era rimasto senza parole.
“Cambiando argomento… ” evidentemente il Generale invece no “… Oscar non è rientrata con te oggi?”
Questo inusuale minimo dettaglio sembrava lasciarlo decisamente più perplesso degli ambiziosi propositi del suo giovane stalliere.
“No, Signore. Si è dovuta trattenere per occuparsi del servizio di guardia durante i preparativi del ricevimento organizzato in onore di Re Gustavo[xxi]. Essendo al Petit Trianon, come comprenderete, la mia presenza non era considerata… opportuna.”
“Sì, sì… comprendo il problema… ” a dispetto delle parole, un cipiglio preoccupato tradiva il fatto che ancora qualcosa lo infastidisse “… anche se non riesco a capire perché insistere con quest’idea di organizzare un ricevimento ufficiale nella residenza privata… bah… ” aveva sventolato una mano in un gesto infastidito, come se potesse scacciare un pensiero sgradevole come una mosca “… e le livree?”
“Le livree, Signore?” stentava a comprendere il senso della domanda.
“Sì, le livree…” aveva ribadito, considerando evidentemente la cosa di estrema rilevanza “sai che livree indosserà la servitù per l’occasione?”
“Non saprei… ” si era sforzato di raccogliere le idee, sotto lo sguardo apprensivo del Generale “Quando Oscar mi ha congedato, la servitù impegnata nei preparativi indossava le livree rosse e argento.”
“Ah! Che follia, in presenza di un Re straniero[xxii]…” aveva esclamato, portandosi la mano alla fronte nello sforzo di trattenersi dal dire altro. Gli ci era voluto un attimo per ricomporsi, poi con un profondo respiro aveva continuato, seppur ancora accigliato e grave “Per quanto… non è certo nostro compito giudicare. Se il Re ha disposto in questo modo, sarà certo la scelta più saggia.”
“Naturalmente, Signore.” lo aveva rassicurato, anche se comprendeva perfettamente e per certi versi condivideva le sue preoccupazioni.
La scelta delle livree par ordre de la Reine diverse da quelle del resto della Reggia, aveva già destato notevole scandalo a suo tempo tra la nobiltà, e negli anni non aveva fatto altro che alimentare il malcontento: il rosso e argento che rivestiva la servitù del Petit Trianon era il simbolo del Regno della Regina, del fatto che la piccola Austriaca non fosse tenuta a sottostare alle regole e al protocollo, cui era sottoposto ogni altro suddito del regno, che lei sola tra tutti potesse sfuggire all’autorità del Re. Se questa non era una bella immagine da mostrare al popolo di Francia, certo lo era ancor meno da esibire di fronte a un Re straniero, per quanto amico, come Gustavo di Svezia.
“Se non avete più bisogno di me..” si era arrischiato, interrompendo un altro pensieroso silenzio.
“Certo… naturalmente…” si era riscosso “Puoi andare, Andrè.”
“Signore…” con un inchino si era congedato, tenendo il futuro di Philemon e Nanà leggero tra le mani.
 
“Allora, che ne dici? Ti va di fare una bella galoppata fino al laghetto?”
Alexander scrolla il muso, come in deciso segno di approvazione. Si è sempre chiesto se sia solo il tono della sua voce a farlo reagire o se capisca veramente quando gli parla, ma in fondo non ha molta importanza.
Tira appena le briglie, quel minimo perché un cavallo docile e ben addestrato si lasci condurre fuori dalla stalla, ma una voce alle sue spalle lo coglie di sorpresa.
“Hai sentito la novità?!”
Si gira di scatto, per trovarsi di fronte il volto familiare, consumato dal tempo, dalla fatica a dalle sofferenze di Jean-Luc, sorprendentemente sereno e sorridente nella mezza luce delle scuderie in quel pomeriggio di tarda primavera.
“Su Philemon e Nanà? Certo! L’ho accompagnato io a chiedere il permesso al Generale.” preferisce soprassedere sul modo in cui è effettivamente venuto a conoscenza della cosa.
“Sono così felice per loro… ” continua il vecchio stalliere abbassando lo sguardo, quasi tra sé e sé “… è la cosa migliore.”
“Il matrimonio?” lo richiama dai suoi pensieri “Sì… credo… credo che saranno molto felici insieme.” in realtà non sa perché, ma gli viene naturale dirlo. È una sensazione impalpabile, che sconfina nella certezza. Si è insinuata in lui con quell’immagine che non riesce a togliersi dalla testa dal momento in cui li ha sorpresi. Forse è perché apparivano così autenticamente sereni e felici… e perché in quel preciso istante aveva sentito qualcosa mordergli lo stomaco, qualcosa che somigliava tanto all’invidia.
“Credo anche io…” sorride ancora Jean-Luc, di tutto cuore, come non lo vedeva fare da anni “… e la decisione di tornare in Normandia, di dedicarsi all’allevamento dei cavalli… di portarla via di qui…” una parola alla volta sembra andare di nuovo alla deriva tra i suoi pensieri.
“Certo è un grande cambiamento. Ci è voluto un bel coraggio a rifiutare l’offerta del Generale e fargli una simile proposta.”
“Coraggio dici?...” sembra perdersi per un attimo, ma subito riprende con più foga “Bisogna osare per ottenere ciò che si desidera. Non è coraggio, è una necessità.”
“Forse… ma per quanto lo si desideri… a volte… non sempre è possibile.” ora è André a divagare.
“Si può perdere, certo… ma almeno si ha la consolazione di aver tentato. A chi non tenta… rimangono solo rimpianti.” Si rabbuia per un istante, ma torna subito a sorridere e si avvicina, abbastanza da battergli la mano sulla spalla “Felici… saranno molto felici, sì.” prima di avviarsi verso il fondo della stalla.
André lo osserva allontanarsi con passo un po’ incerto, come non era un tempo, gravato dal peso di un corpo, che una volta era la sua forza.
“Felici… felici, sì… via, la porterà via e saranno felici…” lo sente ripetere tra sé e sé, fino a che la voce non è più distinguibile e lo vede scomparire dietro un angolo.
Ora sono le sue parole a rigirargli in testa.
‘Rimpianti… solo rimpianti per chi non tenta… si può perdere, ma almeno si ha la consolazione di aver tentato’
Suonano così familiari e ripescano qualcosa dalla sua memoria
E si de l’obtenir je n’emporte le prix, J’aurai du moins l’honneur de l’avoir entrepris’
Versi mediocri di una grande poeta…
“Porca miseria, ecco chi è! È La Fointaine! Maledetto…” sbotta.
“Scusa, e cosa avresti contro La Fointaine, di grazia?”
E' la voce di Oscar a coglierlo, di nuovo, alla sprovvista. Ancor prima di girarsi, già se la immagina l’espressione a dir poco perplessa, che le trova stampata in volto mentre lo fissa dal varco d’ingresso delle scuderie, con la mano guantata a sorreggere le briglie di Caesar. Inevitabilmente scoppia a ridere.
“André, sei forse impazzito?!” esclama, vagamente oltraggiata, facendosi avanti.
“No… scusa… veramente io…” sforzandosi di smettere di ridere. Un profondo sospiro e finalmente riprende il controllo “Perdonami, ovviamente non ho niente contro La Fontaine, è solo che è tutto il pomeriggio che cercavo di ricordare di chi fossero dei versi… e quando sei arrivata… sì, insomma. Una lunga e inutile storia, che certo non ti interesserà.” taglia corto di fronte al suo sguardo sempre più spazientito.
“Sai, André, a volte credo abbia ragione tua nonna. Startene senza far niente non ti fa affatto bene.”
Le risponde con lo stesso sguardo torvo che le rivolgeva da bambino, quando voleva mostrarsi tremendamente offeso, e lei, esattamente come allora, si mette a ridacchiare compiaciuta.
“Lascia… lasciate che vi aiuti con il cavallo, Madamigella.” per un po’ sta al gioco, affrettandosi a legare nuovamente le briglie di Alexander, per prendere deferente quelle di Caesar, ma poi continua di nuovo serio “Non ti è venuto incontro Philemon all’ingresso?”
“Certo, ma essendo così presto ho detto che avrei fatto da sola… ed eccomi qua.” incrociando le braccia al petto e appoggiandosi con la schiena alla parete di legno.
“In effetti… pensavo che avrebbe richiesto più tempo la supervisione dei preparativi per tanta sontuosa magnificenza…”
Lo ammonisce con un’occhiata più che eloquente e lui sorride impertinente per poi piegarsi a slegare il sottopancia.
“Sicuramente… ed è per questo che ho lasciato Girodelle a occuparsene.”
“Oscar!” esclama, riemergendo da dietro il cavallo, ma lei non gli da il tempo di proseguire.
“La Regina ha compreso perfettamente, quando le ho fatto presente che forse non ero la persona più adatta a vigilare sulla disposizione dei fiori e della cristalleria.”
“E lei?” curioso, sollevando la sella.
“Ha riso e ne ha convenuto, facendomi promettere però di presenziare questa sera al ricevimento, dopo la cena.”
“Ma quale onore!” la prende un po’ in giro, sfilando la cavezza “Allora domani mi potrai riferire tutti i particolari di questo magnifico ed esclusivo evento!”
“Ah,… ” ribatte lei, alzando gli occhi al cielo “il solito pettegolo!”
“Uff… le solite calunnie…” ridacchia per il solito gioco, cominciando a passare la striglia sul manto bianco “Piuttosto, credi che l’ospite d’onore apprezzerà a dovere tanto fasto e stravagante ricercatezza?”
“Mah… ” si spinge via dalla parete, per avvicinarsi a carezzare la criniera di Caesar “come detto, non sono la persona più adatta a giudicare se apprezzerà lo sforzo per la scelta di decori e stoviglie. Credo che Re Gustavo apprezzerà sicuramente un tale impegno da parte della Regina per intrattenerlo e metterlo a suo agio.”
“Oscar…” cattura il suo sguardo oltre la groppa “…ti ho chiesto se l’ospite d’onore apprezzerà… sappiamo benissimo che non è per il Re di Svezia che sta facendo tutto questo…”
Un’occhiata basta a spazzare via tutta la spensieratezza.
“Non capisco veramente a chi tu ti riferisca.” gelida.
Si allontana in fretta, ma ritorna quasi subito, facendo finta di nulla, accostandoglisi dallo stesso lato del cavallo.
“Tu piuttosto… cos’hai fatto oggi?” ansiosa di cambiare argomento.
“Mah, in realtà… molto poco di quello che avevo in programma.” continuando a spazzolare energicamente il manto “Volevo leggere quel libro…” e indica con il mento il volumetto carminio, che sporge dalla tasca della sua giacca appesa a un gancio lì vicino “… ma non sono ancora riuscito ad andare oltre le prime pagine.”
Oscar sfila il libro dalla tasca e comincia a sfogliarlo distrattamente, per sobbalzare all’improvviso “André! Ma che roba leggi!” esclama, fastidiosamente divertita.
“Come sarebbe a dire? È un libro appena uscito e ne parlano tutti, ero curioso di farmi una mia opinione.”
“’Les liaisons dangereuses’... per carità! È un libro da donnicciole, il solito scandaletto passeggero.” lo liquida malamente.
“Tu lo hai letto?” la provoca.
“Non è questo il punto.” sulla difensiva.
“Tu lo hai letto?” la incalza.
“No… ” ammette suo malgrado “… e non vedo perché dovrei, io non leggo libretti per donnicciole.” si difende con gli stessi argomenti che avrebbe usato a dieci anni, un po’ per gioco, un po’ per partito preso. Per come la conosce, per evitare argomenti che preferisce non affrontare.
“Quando lo avrai letto, ne discuteremo. Fino ad allora, non accetto commenti a riguardo.”
“Ah, è così?!”
“Proprio così.” ostentatamente irremovibile, ma un po’ gli scappa da ridere.
“Se la metti in questi termini… suppongo di vedermi costretta a leggerlo…” rimettendosi a sfogliare le pagine sottili con apparente disgusto “… anche se sono certa che potrei impiegare molto meglio il mio tempo.”
“Può essere…” mette via la striglia e assesta una pacca sulla groppa di Caesar.
Si gira per sfilare, senza troppi complimenti, il volumetto dalle mani di Oscar, s’infila la giacca e lo rimette in tasca per poi dirigersi con pretesa indifferenza dal suo Alexander.
“E dove avevi programmato di andare leggere questo… ‘capolavoro’.”
Quell’ultima parola e il tono, bastano a riportarlo indietro e far riaffiorare un lontano ricordo: un altro libro, la stessa discussione, loro, due ragazzini, una sera… prima di tante scelte.[xxiii]
Si gira per guardarla negli occhi.
“Mai detto che sia un ‘capolavoro’…” risponde esattamente come allora, un po’ più esitante e gli sembra di cogliere una scintilla nel suo sguardo. Per un attimo vuole illudersi che anche lei ricordi.
Si schiarisce la voce “Volevo… fare una cavalcata, magari fermarmi al laghetto per leggere, approfittando della bella giornata.”
“Mi pare un ottimo programma…” distoglie lo sguardo in fretta e si allontana di un passo “… aspetta che mi cambi e vengo con te.” si affretta verso l’uscita, senza attendere la sua risposta. Un attimo prima di varcare la soglia si gira, presa da una strana euforia “… ma non ho voglia di leggere. Vado a prendere le spade, è un po’ che non ti do una bella lezione, André.”
Quel sorriso di sfida, lo stesso da quando erano bambini.
“Chissà, magari questa volta sarò io a dare una lezione a te, Oscar.”
“Sogna pure, André… certe cose non cambiano mai.”
La vede correre lungo il sentiero verso il Palazzo e lui rimane lì ad aspettare.
Forse è vero che certe cose non cambiano mai, o forse sono solo loro a volersi illudere che possa essere così.


 Angolo dell'autore: a presto spero, anche se prima intendo finire 'Cicatrici' sempre su queti lidi ;-). Per le prossime due giornate, torniamo a Versailles il 19 Settembre 1783 e poi... l'11 Agosto 1784 in Normandia, per una vacanzina estiva ;-) a presto... spero....

 
[i] “E se pure non avrò il premio di ottenerlo/ avrò almeno il premio di aver tentato.” Di chi e dove… non è questo il momento ;-)
[ii] In realtà nell’ultima edizione la nota c’è esplicativa c’è e i versi in questione dono di La Fontaine, ma il libro ha subito diversi rimaneggiamenti dalla prima pubblicazione, anche piuttosto sostanziali. Che libro??  Beh, se lo avete già capito dalla data e da quella singola frase chapeau! Altrimenti, pazientate, arriverà… e tornerà.
[iii] L’ho già detto altrove, ma quella che può essere considerata un’usanza un po’ fatua ed esibizionistica, e forse anche un’inutile spreco, ossia l’usanza di avere sempre la casa aperta e la tavola imbandita per ricevere a qualunque ora un numero arbitrario di ospiti, era in realtà una componente fondamentale del tessuto sociale dell’epoca ed aveva un ruolo assistenziale non umiliante per chi aveva la necessità di essere assistito in assenza di risorse. Delle tavole sempre aperte di chi se lo poteva permettere, oltre che altri nobili intenzionati a intrattenere rapporti sociali, beneficiavano anche intellettuali, artisti o nobili caduti in disgrazia. Intellettuali e artisti venivano così praticamente sostentati ripagando chi aveva disponibilità con le arguzie del loro talento e del loro intelletto, scambio piuttosto inusuale oggi giorni, ma ritenuto assolutamente equo all’epoca, mentre i nobili decaduti, a cui comunque non era permesso di lavorare per guadagnarsi da vivere, di non doversi umiliare per garantirsi la sussistenza. Da sfatare anche il ‘mito’, l’ho letto anche in qualche fic, che gli avanzi di queste sontuose tavole imbandite potessero andare buttati. Lo spreco del cibo è assolutamente una perversione moderna, in una società per tanti versi opulenta come quella dell’ancient regime il cibo non andava certo sprecato. Quello che avanzava dalle tavole dei ricchi (nobili o borghesi che fossero), diventava in prima istanza nutrimento per la numerosissima servitù (anche in questo caso, lusso per i padroni di casa, ma fonte di lavoro e sostentamento per tantissime persone, oltre al fatto che la ‘contrattualizzazione’ in una casa nobile sottostava a regole e retribuzioni codificate, violare le quali avrebbe macchiato irrimediabilmente la reputazione del datore di lavoro), dopo di che si passava alla distribuzione ai poveri, alle mense, agli orfanotrofi e consimili. Niente era buttato, anche i frutti delle velleità bucoliche delle principesse del sangue non andavano sprecati, i prodotti degli orti delle Mesdames venivano distribuiti giornalmente alle mense dei poveri di Parigi, così come il latte delle mucche delle stalle di Madame Elisabeth finiva negli orfanotrofi.
[iv] Ebbene sì, questa volta è Andrè il guardone di turno!! Lo so che è un escamotage che ho già utilizzato, ma vista la vita strampalata e immobile di questi due, e la loro propensione a ‘rimanere immobili’ piuttosto che crescere come le persone normali, non posso fare altro che costringerli ad assistere alla vita altrui per smuoverli un po’.
[v] Per chi non se lo ricorda, Golia era nel primo capitolo, il connemara che era stato dato ad Andrè appena arrivato a palazzo.
[vi] Visto che le donne erano legalmente delle perenni minorenni, per le fanciulle della servitù il padrone formalmente fungeva anche da temporaneo tutore, inoltre spesso il salario era pattuito, ma non veniva corrisposto regolarmente per la sua interezza, ma andava ad alimentare un credito che il dipendente poteva chiedere per necessità o al momento dell’interruzione del rapporto di lavoro. In realtà questo tipo di rapporto si è protratto a lungo, se qualcuna si ricorda anche in Assassinio sul Nilo di Agatha Christie, il movente della cameriera della deceduta sarebbe il fatto che voleva sposarsi, ma la sua padrona non approvava il ‘fidanzato’ e si rifiutava di darle il denaro dovuto, che costituiva la sua dote, e in quel caso di parla del periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale.
[vii] Così come nella vita di campagna fino a pochi decenni fa, erano le ore di sole a regolare le giornate per cui colazione al primo albeggiare e a nanna con il tramonto. Ovviamente questa regola la violava in città chi si poteva permettere il lusso di bruciare olio e candele, ma non certo ne classi meno abbienti.
[viii] Sfortunatamente per il piccolo André il grosso della formalizzazione delle leggi di base in ambito termo- e fluidodinamico e tutto ottocentesco.
[ix] Perdonate la stupidata, ma ce lo vedevo troppo bene il conte nel ruolo di un grande re spartano, trovo che gli si addica parecchio, o almeno alla visione che ho di lui ;-)
[x] Cedi cap.1, Il convento degli Oratoriani dove Andrè è andato a scuola prima di arrivare a Palazzo.
[xi] 3 anni per la precisione ;-)
[xii] ‘La bella addormentata’, nelle sue molteplici forme, appartiene alla tradizione delle storie di fate, che nella seconda metà del ‘600 vengono rimaneggiate e tramandate in forma scritta da un gruppo di donne colte e illuminate (alcune delle quali sono riuscite a guadagnarsi l’indipendenza economica, impensabile per il tempo, grazie alla srittura): storie in cui le figure femminili avevano potere e determinavano la loro sorte e in cui la conclusione non era sempre necessariamente ‘l’idillio matrimoniale’. Oggi sono più che altro sono note nella forma tramandata da Perrault (zio plagiario, desidero io definirlo, di una delle suddette scrittrici), che a fine ‘600 le ha ricondotte allo stereotipo della fanciulla che alla fine deve essere comunque salvata da un ‘principe’, anche se risultano certo più articolate e introspettive delle versioni moderne (La bella addormentata di Perrault poi, con la anche la sua seconda parte, la potremmo definire ‘Freudiana’ con più di 2 secoli di anticipo).
[xiii] Yvette è la capolavandaia di Palazzo, che ha fato la sua comparsa nel secondo capitolo si un’altra mia ff “Un sorso d’acqua di Fontebranda ovvero Giochi d’acqua”
[xiv] ma quanto sono scema ad aver dato questi nomi ed aver immaginato che Monsieur Gaurier sia signorino XD!?!?!?
[xv] La moda, con tutto ciò che comporta, è settecento, per cui ci si attendeva che un uomo, un gentiluomo in particolare, se ne intendesse e dedicasse attenzione alla cura del proprio aspetto e del proprio abbigliamento, dalla scelta della camicia e dell’abito, agli accessori, i pizzi, i ricami e i bottoni, per educazione e rispetto delle convenzioni sociali. Si, insomma l’uomo bestia che se la sua donna non lo veste va in giro con la tuta bucata non è settecentesco XD
[xvi] Per chi non se la ricorda Annette, era la giovane sguattera che lo aveva accolto e gli aveva fatto il bagno appena arrivato a Palazzo dall’orfanotrofio (anello1), quella che poi diventerà cuoca a Palazzo (anello 2 e 3), per poi trasferirsi a gestire la casa di Arras (anello 3) quando sposa Jerome, primo attendente del Generale in questa storia.
[xvii] La Compagnia B di Palazzo Jarjayes!!
[xviii] Per una dettagliata descrizione delle cucine rimando all’arrivo del piccolo Andrè a Palazzo all’Anello 1 ;-)
[xix] nuovo lacchè assunto un paio di anni prima… mi sa che questo ragazzo mi darà dei problemi…
[xx] Ricordiamo che Philemon viene dalla Normandia ;-)
[xxi] Nel Giugno del 1783 arriva in visita in Francia Re Gustavo di Svezia. In occasione di tale visita Maria Antonietta, normalmente così restia a occuparsi delle incombenze spettanti alla Regina per protocollo, pare essere colta dal desiderio irresistibile di organizzare lei stessa i festeggiamenti in onore del Re in visita e decide di organizzare un ricevimento estremamente sfarzoso e stravagante presso il Petit Trianon, anche se probabilmente la festa non era tanto per il Re quanto per il suo seguito. Il Conte di Fersen era infatti tornato dall’America (diversamente da quanto riportato nell’Anime), ma non era tornato in Francia, bensì si era messo a servizio di Re Gustavo come ambasciatore, dove rimarrà per 2 anni prima di tornare definitivamente in Francia e mettersi a servizio dei Reali (qui ci si riallinea con l’anime). Questa è un’altra deviazione di questa storia, allineata con la realtà storica e diversa dalla narrazione di fantasia, ma, come nel caso di Charlotte, non credo stoni in modo significativo, ma anzi aiuti ad approfondire i personaggi senza storpiarli (tanto poi Fessen sparirà cmq per altri 2 anni e tornerà a rompere le balle nel momento meno opportuno XD)
[xxii] Questa potrà sembrare una grossa cagata, in realtà è uno di quei casi in cui la forma sottende la sostanza. Il Re aveva regalato a Maria Antonietta il Petit Trianon perché fosse la sua piccola oasi fuori dal protocollo di corte, al di la del fatto che poi lei ne abbia ‘abusato’ disertando del tutto la vita di corte e le sue responsabilità, ci sono alcune cose che sicuramente si poteva risparmiare e una di queste è la scelta di adottare delle livree diverse per la servitù del Petiti Trianon. La livrea della servitù di Versailles (agli ordini del Re) era bianca-rossa-azzurra, mentre per ordine della Regina la livrea del Petit Trianon divenne rossa e argento. Al di la dell’aspetto formale, una simile decisione serviva ad affermare che il Re in quel luogo non aveva alcuna autorità, che era dominio esclusivo e assoluto della Regina… e questa non è per niente una bella cosa all’interno della reggia, in uno stato monarchico… e da parte di una che ha un ruolo solo in quanto moglie di quel Re! Si insomma, questa MA se la poteva decisamente risparmiare. Per quanto concerne il ricevimento, il Generale, da bravo militare, queste cose le capisce bene: di sicuro non è una brillante idea sbandierare ai quattro venti e soprattutto davanti a un Re straniero, per quanto amico come quello di Svezia, che il Re di Francia vale quanto il 2 di picche e che la sua consorte se lo rigira intorno al mignolo come e quando vuole… ma a questo MA non avrà neanche pensato, tanto lei la festa mica l’ha fatta per lui!
[xxiii] Lettura libro all’anello 2 prima della Grande scelta
   
 
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