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Autore: IShallWearMidnight    17/04/2005    6 recensioni
La Tokyo di oggi. La città che incarna i sogni e le speranze di molti, giovani o adulti che siano. Che invece, quando ogni faro effimero si è spento, non rimanga che il buio? Che, dietro alle vicende quotidiane che attraversano ogni giorno, un gruppo di adolescenti ben noti nascondano dentro di sé disillusione e disgusto? Ancora una volta, non avere nulla. Ancora una volta, non essere schiavo di nessuno. Ancora una volta, non avere legami. Ma vivere semplicemente per la tua vita è possibile se, quando chiudi gli occhi, qualcosa o qualcuno bisbiglia dal passato, o forse dal presente? O forse non puoi ignorare quei frammenti che ti trapassano il cuore, provenienti da quello specchio rotto che è il passato? La vita, alla fine, è davvero solo un inutile e disperato tentativo di resistenza?
@Iniziata la revisione dei capitoli. Capitoli rivisitati: 1/6, 11/13, 30/39@
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Cho Hakkai, Genjo Sanzo Hoshi, Nuovo Personaggio, Sha Gojio, Son Goku
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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//Rebirth//

//Rebirth//


Capitolo 23 – Touch


Jin fermò la moto davanti il portone. Hakkai si chiese se Gojyo sarebbe stato in grado di scendere, ma prima che potesse avvicinarglisi, il rosso saltò giù agilmente, e poi si sfilò il casco. Teneva il borsone in spalla.
Non ho parole. L’ultima cosa che gli ha raccomandato il medico è stata di non sforzare le costole.
Le carte di dimissione le aveva firmate il padre di Gojuin, tutore legale di Gojyo. Lui e la moglie erano stati a trovarlo un paio di volte, mentre era ricoverato, e gli erano sembrati sinceramente preoccupati. Hakkai pensò che dovevano essere due brave persone, ma non avevano mai fatto i conti con i disagi di Gojyo, che si era trovato ad abitare con i parenti della madre adottiva che aveva tentato di ucciderlo. La coppia gli aveva caldamente proposto di andare a stare da loro per qualche giorno, ma Gojyo aveva categoricamente rifiutato. Gojuin li aveva salutati appena, invece. Mio padre è così, si diverte a dispensare carità, gli aveva detto una volta Gojuin. Gojyo non era figlio suo, e nemmeno io, in realtà. Non c’è possibilità di errore, lui non può averne. Ma in quella famiglia tutti fingono di vivere nel paese delle meraviglie: mia madre non poteva permettersi un divorzio e suo marito non le ha permesso di abortire. In fin dei conti, lui di figli non avrebbe mai potuto averne, quindi è stata un po’ un’adozione. Gojyo e io non siamo tanti diversi: non amiamo la carità. Mia madre ha insistito per tenerlo in casa: avendo tradito anche lei, provava pena per quel bambino che la sorella aveva tentato di uccidere. Mio padre non si è opposto.
“Gojyo, vedi di non agitare troppo quel borsone”, borbottò Shinobu, appoggiata al portone. “Se ti si rispaccano le costole, ti toccano altre due settimane in ospedale”
Gojyo esibì un sorriso a trentadue denti. “Non sottovalutare la mia forma fisica, ragazzina! Potrei usarti per far sollevamento pesi”
“Più che altro, penso che vorrai tornar presto a dedicarti alle flessioni sul materasso, giusto?”
Hakkai sbarrò gli occhi, stupito e divertito, dato che il rimbecco era venuto da Goku. Shinobu si accasciò sul marciapiede, ridendo, mentre Gojyo minacciava Goku con il borsone. “Ti mancavano proprio le legnate, allora, scimmia? Sanzo, dovresti educare un po’ meglio il tuo animale domestico”
“E’ stata la cosa più sensata che gli abbia sentito dire nell’ultimo mese”, ribatté sdegnosamente il biondo. Hakkai considerò argutamente che non si era fatto pregare eccessivamente, per venire.
“Se iniziate a far così prima ancora che tiri fuori la birra, non oso immaginare il seguito”, s’intromise Koji, slegando la cassa di birre dal bauletto della moto.
Il gruppetto, a cui si era unito anche Gojuin, si trasferì dalla strada nella saletta dell’appartamentino di Gojyo. Si stava un po’ stretti, ma non importava: Hakkai si rese conto che molti di loro, nella breve vita che gli era toccata, non avevano sperimentato un simile calore molto spesso. Alla categoria apparteneva anche lui. In quel momento non si stava festeggiando Gojyo, ma la vita stessa.
“Questa casa è troppo pulita e ordinata. Chi ci ha pensato?”
“Io e Shinobu”, gli rispose Hakkai. “Ah, tranquillo, non abbiamo buttato nulla, a parte il cibo andato a male nel frigo.”
“Considerati onorato”, s’intromise la ragazza. “Non capita spesso che mi metta a fare le pulizie, specie in un appartamento tanto schifido”
Ognuno aveva la sua birra alle labbra, escluso Goku che non era abituato a bere. E ognuno aveva trovato una propria sistemazione nella stanza: Shinobu, con il braccio ingessato penzoloni dietro la schiena, stava raccontando qualcosa di divertente a Koji e Jin, che sghignazzavano lanciando ogni tanto uno sguardo a Gojyo, il quale si accapigliava con Goku riguardo a un certo ultimo dango rimasto nella confezione. Hakkai sedeva nel divanetto, con Gojuin da un lato e dall’altro Sanzo, il quale fumava silenziosamente. A tratti scambiavano qualche parola.
La sua attenzione, principalmente, era concentrata su Gojuin. Non avevano avuto molte occasioni di parlare seriamente, eppure gli premeva sapere se anche lui fosse, in un certo modo, collegato ai sogni. Shinobu aveva assicurato che sì, aveva fatto precisi riferimenti, ma non aveva voluto raccontare nulla.
Ha praticamente detto che non è il momento. Che c’è un tempo per tutto e per tutti. Ma sono sicura che abbia riconosciuto il nome di Shioka. E mi ha chiesto se avessi…ricordato. Non ho chiesto altro, e non penso che ne avrebbe parlato in nessun caso. Ma io so che è così, Hakkai. Ne sono sicura. Lui c’era. In quel posto e in quel tempo, lui c’era.
Hakkai ricordò le parole di Shinobu. E ne era quasi certo anche lui. Di qualunque cosa si trattasse, Gojuin ne faceva parte. Si guardò intorno, accertandosi che nessuno degli altri stesse ascoltando.
“Shinobu è certa che, di quella storia, tu ne sappia più di noi, Gojuin. E io sono d’accordo con lei, sebbene noi due non ne abbiamo mai discusso”
Gojuin volse la testa verso di lui. Aggrottò la fronte, come se stesse riflettendo, ma il suo sguardo distante non cambiò. “Pensavo che avesse smesso di interrogarsi”
“Cerca di andare avanti senza pensarci, come un po’ tutti noialtri. Ma ogni tanto arriva qualche deja-vu…e la mente vi ritorna senza posa. Personalmente farei volentieri a meno di dar peso a tutta questa faccenda. Sono solamente sogni, in fondo. Se anche ci fosse un motivo per cui sembrano essere collegati tra loro, non mi preoccuperei di scoprirlo. Ma ogni tanto penso che un giorno scopriremo qualcosa che non ci piacerà poi tanto. E mi chiedo se noi tutti potremo ignorarla”
Sanzo si mosse sul divano, accanto a lui. Non li guardava direttamente, ma Hakkai era sicuro che non si stesse perdendo una parola, le sopracciglia corrugate in un’espressione pensierosa. 
Gojuin si strinse nelle spalle. “Se vuoi sapere cosa penso al riguardo, non lo so. Non ne ho idea. Non so se sono cambiato, ma ho capito un po’ di cose. Non mi sento peggio, ma per me è diverso. Io…” Smise di parlare, come se avesse detto troppo. Per un attimo, un’espressione aveva fugacemente attraversato i suoi occhi, sbalordendo Hakkai. Qualcosa di molto simile a una malinconica rassegnazione. “Lascia perdere, Hakkai. Tanto, immagino che prima o poi succederà. E allora, magari, ne parleremo tra di noi”
Hakkai non poté fare a meno di notare che, da quando avevano iniziato a parlare, il suo sguardo era andato spesso a Shinobu, che continuava a chiacchierare con Koji e Jin inconsapevolmente. Che Gojuin non fosse attratto da lei era fuori discussione. Ma lui credeva che ci fosse qualcosa di più. E, comunque, non aveva dubbi su dove sarebbe andata a parare quella situazione, non appena Shinobu e Gojyo avessero messo da parte l’orgoglio.
“Ti invidio. Il tuo sguardo è puramente fraterno”
Hakkai si rese conto che anche lui si era messo a fissarla, e che l’albino se n’era reso conto. Gojuin affermava di non essere cambiato, ma lui aveva idea che lo strato di ghiaccio che l’aveva sempre circondato si fosse leggermente sfaldato.
“Sì, è vero”, rispose divertito. Gojuin non immagina nemmeno quanto comicamente inappropriata sia stata la sua frase. Per mia sorella provavo tutto, meno che affetto fraterno. Shinobu è per me una vera sorella, molto più di quella che ho perso.

“Ehi, Hakkai!”
, l’aveva chiamato Gojyo una sera, quando ancora lavorava nel locale il cui proprietario gli aveva presentato proprio lui. Stava asciugando i bicchieri da cocktail, lo faceva ogni sera, poco prima dell’apertura. E spesso arrivava lì, Gojyo, con i suoi amici, appena chiusa l’officina, a chiedere un tavolo. Il proprietario gli serviva alcolici, anche se non c’era uno tra loro che fosse maggiorenne. Hakkai sospettava che Gojyo, o qualcuno dei suoi, gli avesse fatto spesso qualche favore non proprio lecito. Gli dava spesso il tavolo più vicino al bancone, perché ordinavano in continuazione, e a volte, se non c’era troppa gente, permetteva a lui di sedersi con loro a bere qualcosa. Se invece del servizio ai tavoli Hakkai si occupava del bancone, Gojyo trascorreva buona parte della serata lì, a chiacchierare con lui, invece che con gli amici con cui era arrivato. Anche quella sera, Gojyo, che oltre a Jin e Koji frequentava al tempo altri due studenti del loro liceo, prese posto al bancone piuttosto che al tavolo. “Allora...vedo che ti trovi bene qui al locale!”, aveva esclamato accendendosi una sigaretta. Era già un mese che Hakkai lavorava lì, e anche se gli orari non erano molto agevoli non poteva proprio lamentarsi. “Già...e lo devo tutto a te, Gojyo. Grazie per avermi presentato il proprietario...”. Gli aveva risposto con quel suo sorriso malizioso, che Hakkai aveva già imparato a conoscere e ad apprezzare, perché nella maggioranza dei casi andava a sostituire una qualche reazione di cui si sarebbe vergognato, come imbarazzo o contentezza. Al tavolo, insieme ai suoi compagni di cagnara, risuonò una voce femminile. E lì la vide. Era minuta, molto chiara di carnagione e dal tono vivace. Gojyo aveva seguito il suo sguardo fino a lei. “Ori Shinobu”, gli aveva spiegato, “Frequenta il primo anno della nostra sezione, forse la conosci di vista”. In effetti non gli era sconosciuta, probabilmente l’aveva già incrociata diverse volte nei corridoi. Due occhi verdi in un liceo giapponese non passano inosservati. Anche perché erano appena di qualche tonalità più sbiaditi dei suoi. Si chiese come fosse finita al tavolo con Gojyo. Non è la prima, né probabilmente l’ultima ragazza, che porta qui, ricordò di aver pensato. Ma solitamente, quando veniva con una donna per offrirle da bere, non lo faceva in compagnia degli amici. Inoltre, almeno fisicamente, non sembrava il classico tipo che faceva perdere la testa a Gojyo: troppo poco appariscente.
Hakkai si era domandato se Gojyo fosse già stato a letto con lei. Non che gli interessasse granché, probabilmente la sua figurina si sarebbe fusa nella sua memoria con tutte le altre ragazze che Gojyo gli aveva presentato nell’ultimo mese. Gojyo, sorprendentemente, era parso intuire i suoi pensieri, perché gli rispose immediatamente che non era la sua ragazza, né aveva la minima intenzione di portarsela a letto.
“Allora, Hakkai, vieni a prendere le ordinazioni o no?”, gli aveva gridato Koji dal tavolo presso cui sedevano. Gojyo si scostò dal bancone, con l’apparente intenzione di andare a prendere posto al tavolo. Alzatosi dallo sgabello, si era chinato sul bancone verso di lui, le mani ben distese sul piano di legno. “Non l’ho incontrata in una situazione molto felice. Non so fino a che punto si sia resa conto della situazione, ma sono entrato in palestra con una ragazza e ho trovato lei con due tipi che non ti raccomando. E non sembrava che stare lì le piacesse molto. Ho mandato via la mia tipa e, naturalmente, ho invitato gentilmente i due ad alzare i tacchi: non mi piacciono quelli che insistono con le ragazze. Loro non erano tanto felici, ma quando li ho pestati hanno deciso di andarsene.”. Gojyo, aveva già capito dopo un mese, era un donnaiolo incallito. Non aveva mai visto mancargli una ragazza da sotto le coperte, e non era una situazione tanto ordinaria dato che non aveva nemmeno diciassette anni. Non era neanche lontanamente uno stinco di santo, ma era particolarmente sensibile quando si trattava di cavalleria nei confronti del gentil sesso. Ad Hakkai la cosa sembrava divertente. In ogni caso, la ragazza doveva essersela vista brutta, e non gli sembrava così strano che si fosse, in qualche modo, affezionata a Gojyo. “Ho compreso la situazione, ma da qui a portartela in giro a ordinare alcolici c’è un bel passo”. Il rosso gli aveva risposto con un sorriso sornione: “Come avrai intuito, ultimamente me la trovo spesso alle costole. Non credo che sia interessata a me in quel senso, ma quando la incontro fa le feste come un cagnolino da salotto. E gli altri la trovano adorabile. Hakkai, ti rendi conto? Sono tutti più alti di un metro e ottanta, vanno per i novanta chili, e si inteneriscono per una ragazzina di sedici anni dalla voce squillante”. Hakkai aveva riflettuto che, quando Gojyo voleva, sapeva benissimo come sbarazzarsi di una ragazza troppo invadente; specialmente se, come in quel caso, non v’erano implicazioni di tipo sessuale. E sospettò che Gojyo, in fin dei conti, non si sentisse poi tanto infastidito dalla sua presenza. Prese le ordinazioni al tavolo –la ragazza gli era stata presentata, e l’aveva subito pregato di chiamarla per nome: Shinobu-, e tornò pochi minuti dopo con il vassoio. Il padrone del locale, come si era aspettato, gli aveva dato il permesso di sedere con loro, essendo un giorno feriale con ben pochi avventori. Prese posto tra Gojyo e la ragazza, con un tocco di vodka liscia nel bicchiere.
Aveva compreso quasi subitaneamente cosa intendesse Gojyo riguardo ai suoi amici. Erano prevalentemente ragazzi di strada, abituati ad essere malvisti. Indifferenza e timore, spesso disprezzo, dagli estranei come dalle famiglie. Avevano scelto quella vita e la accettavano.
Ma quella ragazza rideva con loro, aveva un sorriso per tutti, non disprezzava il loro contatto. Trasmetteva calore, sincero e spontaneo. Suo malgrado, anche lui si era ritrovato a sorridere.
Ogni tanto Gojyo le lanciava una battutina provocatoria, che lei apprezzava ridendo e rispondendo a tono. In ogni caso, alla fine del suo bicchiere di vodka lemon, ad Hakkai parve un po’ brilla. L’alcool le aveva colorato graziosamente le guance, e rideva spesso, di gusto.
La conversazione era entrata momentaneamente in stallo, dato che Gojyo si era alzato con Jin e Koji per andare a prendere da bere direttamente al bancone. Hakkai notò che lei lo stava osservando con un sorriso, e ancora una volta si ritrovò a pensare che aveva occhi davvero inusuali. Non avevano nemmeno il tipico taglio giapponese. Era graziosa, non esattamente il tipo di ragazza che si definisce bella, ma aveva un viso piacevole da guardare.
“Sai Hakkai, hai due occhi davvero belli”, gli aveva detto a voce bassa, e lui non poté fare a meno di ridacchiare della coincidenza. “Peccato che siano così tristi”. Gli aveva sorriso ancora, appoggiando il mento sul dorso della mano. Una mano piccola, da bambina. “Ultimamente ho incontrato un sacco di persone tristi. Persone che ridono o sorridono di continuo, ma che non si aspettano niente dalla vita. Vanno avanti come fantasmi, alla cieca, senza sapere bene dove e quando smetteranno di camminare. Aspettano qualcosa. Una disgrazia o una salvezza, un’occasione per vivere o per morire.”. Stava guardando la schiena di Gojyo seduto al bancone, ovviamente. Hakkai comprese immediatamente perché quella ragazza fosse lì, con quei ragazzi che apparentemente così poco si adattavano alla sua compagnia: lei era attratta da quel modo di vivere. Gojyo non era stato solo il suo salvatore: lui rappresentava un mondo lontano, ed eppure distante un braccio da lei. Un mondo in cui un sorriso non è mai regalato, ma conquistato.
Istintivamente, si sentì nudo; proprio come quando aveva incontrato Gojyo, sul ponte. E provò, nei confronti di quella ragazza con cui aveva scambiato solo poche parole, qualcosa di molto simile alla dolcezza, sgorgante da una fonte sconosciuta.

Hakkai rifletté che, probabilmente, in quel momento aveva provato uno dei suoi primi deja-vu. Non c’entravano i corridoi della scuola: Shinobu era sempre stata presente nel suo dna. Una sensazione pazzesca e inspiegabile, ma che forse adesso iniziava a trovare un suo incastro.
Strappato ai suoi ricordi, Hakkai controllò l’orologio: erano le nove e mezza. Shinobu era adesso seduta sul pavimento, a gambe conserte, e chiacchierava allegramente con Gojyo. Hakkai vide che lo sguardo di Gojuin si soffermava ancora, di tanto in tanto, su di lei.
Mi spiace per te, Gojuin, ma ormai credo che sia troppo tardi.
“Sanzo, io andrei. Voi vi trattenete?”
Sanzo scosse la testa. “Domani c’è lezione per tutti a parte lui e Goku, direi”. Controllò anche lui l’orologio. “Scimmia, tu non hai il turno di notte oggi?”
Goku alzò lo sguardo, e Hakkai comprese che qualcuno gli aveva fatto bere una birra: aveva il viso arrossato, e gli occhi lucidi. “Ah, sì. Non avevo pensato completamente all’orario! Tu resti, Sanzo?”
“Neanche per sogno. Sono rimasto anche troppo”
Gojuin si alzò con loro, risistemandosi la camicia. “Shinobu, rientri con noi?”
“No, resto un altro po’”, rispose giulivamente portandosi alle labbra quella che doveva essere la sua terza birra. “Non preoccupatevi per me, andate pure!”
Hakkai annuì con un sorriso. Notò che Jin e Koji erano indecisi sul da farsi, quindi risolse per la prima volta in vita sua di fare l’indiscreto impiccione.
“Io credo che a Gojyo non dispiacerebbe restare da solo con Shinobu”, mormorò loro, a voce appena udibile. I due si squadrarono immediatamente con un sogghigno d’intesa, e annunciarono che sarebbero andati via anche loro, come Hakkai aveva ampiamente pronosticato. Il gruppo si diresse, dopo i saluti e le battute di rito, verso la porta d’ingresso.
Hakkai fu l’ultimo a chiudersi la porta alle spalle, non prima di aver lanciato un’eloquente occhiata a Gojyo, che rispose con un noto gesto di taglio all’altezza della gola.
Se non chiarite stasera, per me potete andare a quel paese.  

Quando la porta si fu chiusa alle loro spalle, Shinobu si alzò dal pavimento, iniziando a raccogliere le lattine vuote in giro per la stanza. Gojyo rimase appoggiato alla parete, la sigaretta in bocca, con sguardo distratto. “Tutto bene?”, gli chiese, raccogliendo le lattine vuote nel box di cartone che le aveva trasportate fin lì.
“Naturalmente”, rispose il rosso, distrattamente. Spense la sigaretta nella lattina vuota, gettata a pochi centimetri dal suo ginocchio sinistro, e andò a prendere posto sul divano.
“Gojyo”, interloquì Shinobu, grattandosi un sopracciglio, e lasciando andare la scatola. “Chi vuoi prendere per i fondelli?”
“Che finezza, Shinobu, giuro che non ci sono abituato…”
La ragazza aggrottò la fronte. “Smettila di sviare il discorso, signorino. Sono dieci minuti che ammicchi, e forse non te ne sei nemmeno reso conto. Sei uscito dall’ospedale nemmeno tre ore fa, e dovresti metterti a letto”
Gojyo reclinò il capo sulla testiera del divano, lasciandosi sfuggire un sospiro. Shinobu osservò il suo torace alzarsi e abbassarsi regolarmente: quel movimento regolare la tranquillizzava leggermente. Se gliel’avessero detto, lei stessa non ci avrebbe creduto: ma erano i residui del panico totale che l’aveva colta quando lui aveva rischiato la vita. Ciononostante, era praticamente sicura che Gojyo non stesse troppo bene.
Il rosso le restituì lo sguardo, sorridente. “Ho solo un po’ di mal di testa. Niente di preoccupante, mocciosa. Capita, dopo essersela spaccata”
“No”, lo contraddisse lei, stizzita. “Non deve capitare a un ragazzo che è stato in punto di morte e che abita da solo. Gojyo, se ti senti male stanotte, o domani, o tra una settimana, delucidami: chi chiamerà il pronto soccorso per salvarti il culo?”
La voce del ragazzo fu polemica. “Shinobu, piantala di fare la crocerossina. Mi hanno dimesso. Rilasciato. Stop. Sto bene, d’accordo? Sono convalescente, penso sia normale un po’ di mal di testa”
Shinobu non poteva credere alle sue orecchie. Come poteva essere così superficiale, dopo la dannata strizza che le aveva fatto prendere? “Gojyo”, risolse infine. “O chiami il pronto soccorso, o il medico che ti ha seguito, e ti fai vedere per un controllo, o ci penso io”
Gojyo scattò d’improvviso seduto. E Shinobu fu improvvisamente certa che quel gesto gli avesse causato una fitta piuttosto violenta. Ma l’altro si fece in avanti, e le bloccò il polso.
“Mia madre non si curava di me, è vero. Ma il fatto che te ne abbia parlato non vuol dire che tu debba sentirti in diritto di sostituirla. Credo di essere abbastanza cresciutello per quello, Shinobu.”
Centro.
Shinobu si sentì improvvisamente ferita, e imbarazzata, e anche incazzata. Ferita perché il suo tono era stato più tagliente che mai, e perchè Gojyo, nonostante l’atmosfera di complicità che si era instaurata a seguito degli ultimi avvenimenti, aveva ora chiaramente posizionato un paletto di Divieto d’accesso. Imbarazzata, perché appariva ormai lampante che, probabilmente incoraggiata dalla suddetta atmosfera di complicità, si era spinta troppo oltre con la confidenza. Incazzata, anzi, incazzata nera, perché nonostante tutto ciò, Gojyo era un cretino.
Cretino forte.
“D’accordo”, sputò, risentita. Al momento, rabbia e imbarazzo combattevano in meandri non tanto reconditi del suo cervello una battaglia senza esclusione di colpi. Per evitare di palesare l’una o l’altro, decise che sarebbe stato meglio tornare a casa. “Comprendo quando la mia intromissione non è gradita. Ci vediamo domani, Gojyo. O almeno lo spero.”
Con stizza, agguantò la borsa sul divano, agganciandosela alla spalla corrispondente al braccio sano. Le comunicazioni erano terminate, per quanto la riguardava.
“Smettila”, fece lui, ma la voce si era ammorbidita. “Sono le dieci, e la zona non è bella, lo sai. Se proprio vuoi andartene, ti accompagno. Non mi piace l’idea che vaghi da sola quand’è buio, in una zona simile”. Si schernì con un sorriso tirato: “E non mi sento ancora pronto per una scazzottata, nel caso in cui dovessi venire a recuperarti da qualche parte”
Secondo centro, ancora più preciso del primo.
Shinobu fu colta da un brevissimo e improvviso accesso di nausea. L’odore del gesso nel magazzino. Il dolore al volto e ancora un altro odore, quello del proprio sangue. La sensazione di dita sporche sulle sue cosce. Aveva smesso di andare in giro da sola quand’era tardi, dopo quell’episodio, e Gojyo lo sapeva benissimo. L’unico motivo per cui, quella sera, era rimasta a casa sua quando tutti gli altri erano andati via, era per timore che potesse star male, senza nessuno in grado di soccorrerlo in tempo. E no, quello Gojyo poteva immaginarlo solo fino a un certo punto.
“Ti spiace se resto, stanotte, allora?”
Vide Gojyo spalancare leggermente gli occhi. L’aveva detto con voce così tranquilla, che doveva essersi stupito del suo repentino cambiamento d’umore.
Non mi importa se mi considera una stracciapalle. Meglio questo, che saperlo solo in casa.
“E’ una proposta oscena, Shinobu ♥?”, chiese lui con voce improvvisamente faceta. “E’ la seconda in poco tempo, inizio a preoccuparmi”
Shinobu gli rispose con una punta d’imbarazzo che non avrebbe mai provato, in precedenza, nei confronti di una battutina così semplice e provocatoria. “Seh, ti piacerebbe. Resto soltanto per amore della tua salute, Gojyo. Lasciami solo fare una telefonata a casa per avvertire che non rientro”
“Sì, sì. Intanto è meglio che vada a cercar la chiave della camera da letto, non si sa mai: la notte è galeotta, e potresti cader preda del desiderio di concupire un così bell’uomo”
La ragazza gli rispose gonfiando le guance, in un’espressione di comico sarcasmo. Quindi, come sempre, fece per afferrare la zip della borsa con la mano sinistra, dimentica della sua momentanea menomazione. Con una smorfia, rimise giù il braccio e usò invece la destra per cercare il cellulare. Gojyo, intanto, fischiettava dal corridoio, probabilmente diretto in camera da letto. Shinobu notò con divertimento che il motivetto era Superman dei Five for fighting. Le sembrava trascorso un secolo dalla sera in cui l’aveva suonata con la chitarra.
Meno divertente fu la telefonata a casa. Di scuse non ne aveva: sua madre sapeva fin troppo bene che difettava di amicizie femminili presso cui trascorrere la notte. Decise di essere sincera, insomma, in buona misura: Hakkai (al top della personale classifica di gradimento di sua madre, come di molte altre donne di una certa età) era preoccupato che Gojyo trascorresse la prima notte a casa da solo, e le aveva chiesto gentilmente di restare anche lei. C’era stata qualche protesta, ma il nome di Hakkai era risultato decisivo.
Spense il cellulare, abbastanza soddisfatta. E Gojyo tornò nella saletta proprio in quel momento, con in mano la sua vecchia Tervis. Fischiettava ancora lo stesso motivetto, e Shinobu notò con piacere che sembrava star bene, adesso.
“Non ti fa più male la testa, vero?”
“No, mocciosa. Te l’avevo detto, che era una cosa da niente. Vuoi che ti accompagni a casa?”
Shinobu soppesò l’idea per un istante, più che altro perché ultimamente erano aumentate le occasioni in cui si sentiva in imbarazzo quando si trovava da sola con lui. Poi scosse la testa. Non osava ammetterlo neanche a se stessa, ma era contenta
smettila di dire idiozie, Shinobu, sei giubilante
di poter passare del tempo con lui, tranquillamente e senza puzzo di disinfettante o viavai di medici. Senza le restrizioni dell’orario visite, e anche senza il continuo arrivo degli altri, sì. Del buon vecchio, sano tempo da soli, com’erano soliti fare.
“Resto.”

Cantarono per quasi un’ora, sorseggiando una birra tra un testo e l’altro. Buzzlip, Do as Infinity, Dir en Grey, ma anche canzoni americane dei SoaD, e con sommo divertimento di Shinobu Gojyo attaccò persino a cantare un enka.
Gojyo pizzicava abilmente le corde della chitarra, terminava un brano, prendeva qualche sorso di birra e ne attaccava un altro. Si sentiva euforico all’idea di non trovarsi più in quella pesante camera d’ospedale, e, perché non ammetterlo?, era anche contento di trascorrere quel tempo con Shinobu, come ai vecchi tempi. Non provava più quel fastidioso pulsare alla testa che era iniziato dieci minuti prima che andassero via gli altri, e che aveva preoccupato tanto la ragazza. E ammise a se stesso che forse si era accalorato un po’ troppo. Ma non aveva la minima intenzione di tornare in ospedale per farsi trattenere per altri accertamenti. Inaspettatamente, poi, Shinobu aveva deciso di restare. E lui si era sentito improvvisamente contento
smettila di sparare cazzate, Gojyo, sei giubilante
di poter trascorrere la sua prima serata a casa in compagnia.
Posò la chitarra di lato, piegando le dita per far schioccare le nocche. Contemplò Shinobu che sorseggiava la sua birra, accucciata sul pavimento davanti il divano, e prese qualche altro sorso anche lui dalla sua lattina, con una smorfia. L’avevano lasciata svaporare.
“Perché sei voluta rimanere, Shinobu?”
Non gli piaceva sondare i pensieri altrui, per quello c’era Hakkai (che non aveva nemmeno bisogno di chiedere), ma la domanda gli era sorta spontanea alle labbra.
Shinobu ruotò la testa verso di lui, con la lattina in mano. “Te l’ho detto. Non mi andava che restassi da solo, non mi sembrava che stessi tanto bene”
La ragazza poggiava le spalle alla base del divano. Da lì, Gojyo poteva vederne la nuca, dato che si era spostata i capelli sulla spalla destra. Provò una deliziosa sensazione raschiante al ventre; non era ancora eccitazione, non credeva che sarebbe mai arrivato al punto di eccitarsi per pochi centimetri di pelle visibile sotto l’attaccatura dei capelli, ma era deliziosa lo stesso. E quella era Shinobu.
La serata si rivelava alquanto originale.
Non seppe mai perché, ma provò il desiderio di scusarsi. Di scusarsi perché la sua pelle sotto l’attaccatura dei capelli lo stimolava, ma ovviamente non era una scusa che potesse essere manifestata ad alta voce; quindi la sua mente inconsapevole operò un transfert.
“Mi dispiace per quella frase su mia madre”
Non era ancora il clima adatto, ma Shinobu indossava una canotta azzurra. Provò il desiderio di sfiorarle la pelle. Si chinò leggermente e le toccò una spalla. Shinobu, inaspettatamente, sobbalzò. Gojyo si era reso conto fin troppo bene che, ultimamente, la ragazza si sentiva spesso a disagio con lui, quando erano da soli. Inizialmente aveva imputato il suo impaccio all’incidente, o a qualcosa che da esso derivava, ma ciò contrastava con le sensazioni che aveva provato quando lei era sbucata da sotto il suo letto, in ospedale, e si era distesa accanto a lui. Eppure, a volte non riusciva a cacciarsi dalla mente l’idea che fosse stato il racconto della sua infanzia a turbarla. Oppure era qualcosa che aveva a che fare con i sogni.
“Non importa”, rispose lei, ma si fece scivolare i capelli nuovamente sulla nuca, come imbarazzata. “So di essere veramente pesante, a volte, ma ero preoccupata. Hai ragione tu: non sono tua madre né ho il diritto di comportarmi come tale.” Abbassò la voce. “Forse ti ho fatto pesare troppo le mie attenzioni, ultimamente”
“Sei sempre stata impicciona, non è una novità”
E non te ne sei mai preoccupata. Si può sapere cos’è cambiato?
La sua sensibilità aveva sempre lasciato alquanto a desiderare, ma quel leggero cambiamento l’aveva registrato. Pensieroso, riprese tra le mani la chitarra, attaccando un motivo senza porvi attenzione. Forse è solo nervosismo.
“Oh, è quella dell’altra volta…quella che hai composto tu, vero? Avevo completamente dimenticato una cosa…”
Gojyo vide che tornava a frugare nella borsa. In mano aveva il suo registratore, quello che le aveva prestato secoli prima per registrare la stessa melodia che stava strimpellando in quel momento. E un foglio di carta.
“Quando hai scritto il testo?”
“Qualche giorno fa. E’ solo il ritornello, però”
Il rosso le sfilò il foglio dalle mani, e lo lesse con un fischio ammirato. “Da dove l’hai copiato? Confessa, dai!”
Shinobu si strinse nelle spalle in un gesto di ampia modestia. “Ne deduco che non ti dispiace”
Lui lo rilesse. Poi le restituì il foglio, riattaccando il motivo con la chitarra. “Avanti, fammi sentire”

Let go, let yourself free of you and your soul / Lasciati andare, liberati da te stesso e dalla tua anima
And then you'll come to see all the truth in your eyes / E allora arriverai a vedere tutta la verità nei tuoi occhi
Don't try to be someone you can't be / Non provare ad essere qualcuno che non puoi essere
All you gotta do is let go, just let go of yourself- / Tutto ciò che devi fare è lasciarti andare, lasciarti andare da te stesso
and then you'll see... / E allora vedrai... 

Don't try, try to pretend that it doesn't hurt / Non provare, provare a fingere che ciò non ti ferisca
You don't have to be perfect, cause no one can be / Non devi essere perfetto, perchè nessuno può esserlo
If your tears can't stop fallin', just reach out your hand / Se le lacrime non si fermano, allunga la mano
All you gotta do is believe, just believe in yourself- / Tutto ciò che devi fare è credere, solo credere in te stesso
and just let go... / E lasciarti andare...

“Dai, Gojyo, non guardarmi così. Lo sai che sono intonata quanto una iena in calore.”
“E’ vero, ma non è questo. Stavo pensando che non è affatto male”. Lo pensava sul serio. C’era qualcosa che gli toccava una qualche corda, dentro. “Te l’avevo detto, che ne avevi le capacità. In genere si pensa che le parole siano il modo più esplicito di comunicare un concetto, ma non è sempre così. Bisogna saperle usare.”
Shinobu rispose con un sorriso, che gli parve lievemente imbarazzato. Si accomodò sul divano, accanto a lui, le gambe unite e ripiegate sotto il busto. Appoggiò il braccio ingessato su una coscia. “Te la faccio sentire un’altra volta, poi la cantiamo insieme, e poi voglio sentirla con la tua voce. Secondo me andrebbe suonata con una tonalità più grave, e io non ci arrivo”

Gojyo la ascoltò cantare una seconda volta, pensando che la sua voce effettivamente non era un granché, ma le sue labbra che si arcuavano o contraevano per modulare una nota erano decisamente sensuali. Non vi aveva mai prestato la minima attenzione, ma adesso che l’aveva notato, mentre lei cantava, non riusciva a pensare ad altro.
Gojyo, non ci pensare nemmeno.
E invece lo fece.
Mentre lei voltava la testa per dirgli qualcosa, chinò il busto e la baciò. Non si pentì di non averlo chiesto, anche se si aspettava violente conseguenze. Lo fece e basta, e fu un bacio smaliziato, privo della minima connotazione sessuale, solo un desiderio di labbra. Quello che un po’ meno si sarebbe aspettato, fu che Shinobu non lo respinse, anzi, gli poggiò la mano destra sulla spalla. E schiuse le labbra. La mano le tremava leggermente.
Fu più bello e spontaneo di quanto si sarebbe immaginato, come se, in tanti anni, non avesse aspettato che questo. Come se una parte di sé lo desiderasse da secoli.
Quando si staccarono, nessuno dei due osò parlare. Il silenzio divenne presto pesante, anche perché Shinobu, con un’espressione indecifrabile, aveva voltato la testa e sembrava non volerlo guardare in faccia. Gojyo si scervellò, doveva dire qualcosa, qualsiasi cosa, o sarebbe impazzito.
“Mi dispiace”
Di non avertelo chiesto, completò mentalmente. Perché non gli era dispiaciuto affatto. Anzi. Era una delle cose che meno gli era dispiaciuto fare in tutta la sua vita.
“Ho fatto un cazzo di sbaglio dopo l’altro, per tutta la vita. E questo sicuramente è l’ennesimo. Ma per favore, non dirmelo adesso. Perché questo sbaglio mi è piaciuto un casino”. Forzò un sorriso, che non gli doveva essere riuscito tanto bene, ma tanto lei non lo vide.
“Perché cazzo l’hai fatto, Gojyo?”
La sua voce tagliente lo ferì come un colpo in testa.
Se non lo volevi potevi semplicemente tirarti indietro. Perché hai ricambiato, allora?
Si sentiva irritato, e quel che lo irritava ancora di più era non sapere perché.
“Perché avrei dovuto farlo, secondo te?”. Il suo tono si adattò a quello della ragazza.
“Dimmelo tu. Eri in astinenza da labbra femminili? Come hai potuto fare una cosa del genere proprio a me?”
Gojyo provò la forte tentazione di urlare. Adesso si sentiva anche un po’ umiliato, la qual cosa innalzò la sua irritazione di un buon centinaio di gradi. Sì, il punto era proprio quello. Come poteva pensare che avrebbe fatto una cosa del genere proprio a lei? Allungare sessualmente le mani su di lei, l’unica ragazza tra i suoi amici?
Piantala, Gojyo, ormai è chiaro che nei suoi confronti il tuo affetto non è più esattamente solo fraterno. Quando ti ha appoggiato la mano sulla spalla, il tuo basso ventre si è decisamente risvegliato.
Questo non giustificava la sua insinuazione. Lei era…lei era Shinobu, diamine!
Ebbe un’improvvisa voglia di fumare. Potente, irresistibile. Vide un angolo bianco del pacchetto di Hi-Lite sbucare discretamente da sotto il divano, proprio accanto al suo piede sinistro, e si chinò per afferrarlo. Le costole gli dolsero a quel movimento, ma le ignorò bellamente. Aprì il pacchetto e lo avvicinò alle labbra, traendone una sigaretta. Ecco fatto. Almeno adesso aveva le labbra occupate, e si sarebbe risparmiato altre tentazioni simili a quella di poc’anzi. Non che ce ne sarebbero state altre, s’intende. L’accendino era nel pacchetto, che scosse fino a farlo cadere. Si accese la sigaretta.
“Sono lieto di constatare l’opinione che hai di me. Non sono uno stinco di santo, lo sai, ma non pensavo che proprio tu avresti mai pensato che potessi usarti per soddisfare le mie voglie sessuali. Me ne farò una ragione, e saprò come regolarmi per il futuro”. Si alzò dal divano, decisamente vicino al boiling point. “Esco. Non credo che tu abbia voglia di dormire da sola con un simile maiale, né di farti accompagnare a casa. Dormi pure nel mio letto, e chiudi bene domani, quando esci.”

“E perché l’hai fatto, allora?”. La voce di lei risuonò lamentosa, e solo allora Gojyo si accorse che lei evitava accuratamente di mostrargli il volto perché non voleva che la vedesse piangere. “Vorresti farmi credere che ti interesso?”

Gojyo ebbe voglia di tirarsi una manata sulla fronte, ma non lo fece. Nessuno, probabilmente, l’aveva mai messo in difficoltà fino a un punto simile. “Sei sempre stata ricettiva, Shinobu. Non capisco perché tu debba essere così ottusa proprio in un momento simile. In quest’ultimo periodo…insomma…"
Cristo...interrompimi. Tirami un oggetto in testa. Qualunque cosa: sto diventando uno spettacolo vergognoso.
Gojyo si sentì come un soldato, l'unico rimasto sul campo di guerra, che, dopo essere uscito allo scoperto, si accorge che non può più nascondersi da nessuna parte. Aspettava la fucilata da un momento all’altro. O di mettere il piede su una mina.
Porca troia, Gojyo, possibile che tu non capisca niente? Se mi sono incazzata così tanto, è perché anch’io lo volevo. Sono due settimane che a stento riesco a guardarti in faccia, poi ci sono quei sogni del cazzo, e adesso tu che mi baci all’improvviso. Cosa devo pensare?". Lo disse tutto d’un fiato, frastornandolo, e gridando. E lo fece guardandolo dritto negli occhi.
Gojyo si lasciò ricadere sul divano. Gettò la sigaretta nella lattina di birra, nonostante avesse preso solo un paio di tiri. Non ce la faceva. Doveva ridere. Rise, sollevato, compiaciuto, imbarazzato. Quella…cretina si era incazzata perché temeva che lui l’avesse presa in giro. Non aveva capito granché di quell’accenno ai sogni, ma non importava. Rise, e poi si allungò verso di lei. Prima che avesse il tempo di protestare, la baciò un’altra volta, sperando che il suo gesto risultasse più eloquente di qualsiasi altra cosa avesse potuto dire.
"Penso che, tra tutti e due, sia meglio tacere, Shinobu", le disse poi, il viso vicino al suo. "Abbiamo rovinato il primo, non roviniamo anche gli altri"
Shinobu tirò su col naso, sollevando il braccio sano per asciugarsi le lacrime. Con suo piacere, lei sorrise.
"Hai ragione. E’ meglio tacere".

Gli carezzò il mento, sporgendosi per baciarlo ancora. Gojyo sorrise sotto le sue labbra, prendendola tra le braccia. Le costole protestarono ancora, ma non ci badò.

Se ci sarà da pentirsene, spero di accorgermene il più tardi possibile.

 

Continua…

[leggermente riveduta e corretta in data 19/07/09]

   
 
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