Anime & Manga > One Piece/All'arrembaggio!
Segui la storia  |       
Autore: WillofD_04    25/07/2017    2 recensioni
Questa storia è il seguito di "Lost boys". Per leggerla non è necessario aver letto "Lost boys", ma è consigliato.
A quanto pare, l'avventura di Cami non è affatto finita, anzi, è appena cominciata! Che cosa le è successo? Sarà in grado, questa volta, di risolvere la situazione? Questo per lei sarà un viaggio pieno di avventure e di emozioni, che condividerà con persone molto speciali.
Non posso svelarvi più di così, se siete curiosi di sapere cosa le è capitato, leggete!
DAL TESTO:
Poco ci mancò che non caddi all’indietro dall’incredulità. Infatti dovetti reggermi agli stipiti della porta che era dietro di me per rimanere in piedi. Dieci paia di occhi mi fissavano, tutti con un’espressione diversa. C’era chi era divertito, chi indifferente, chi curioso e chi stupito.
«Oh cazzo...è successo di nuovo!» esclamai, al limite dell’esasperazione.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mugiwara, Nuovo personaggio, Pirati Heart, Trafalgar Law
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Erano passati cinque giorni da quando Ivankov era venuto a farci visita e ci aveva iniettato i suoi ormoni, e i tre giorni successivi erano stati tre giorni di intensa sofferenza per me e per Law. Era vero, lui non era un normale essere umano ed aveva tempi di ripresa più rapidi, ma aveva preso una bella botta e sospettavo che stavolta non se la sarebbe cavata tanto facilmente. Nella stessa misura in cui io avevo perso la mia voce, lui aveva perso la sua capacità di muovere gli arti e non appena aveva smesso di sentire dolore – il dolore causato dagli ormoni – aveva provato a muovere braccia e gambe, senza risultati. Avevo evitato di infierire per non infastidirlo, ma speravo che potesse guarire e recuperare tutta la mobilità che aveva prima.
I restanti due giorni erano state giornate di calma piatta. Non ci eravamo scambiati molte parole, in parte perché eravamo un po’ in imbarazzo, in parte perché eravamo stanchi. E poi, scrivere su quella maledetta lavagnetta mi faceva affaticare molto.
«Emporio Ivankov è senza dubbio una persona particolare» commentai, persa nei miei pensieri, dopo aver sbuffato una risata.
Spalancai gli occhi e guardai il capitano, esterrefatta. Poi iniziai a sorridere come un’ebete, mentre allo stesso tempo sospiravo ripetutamente, decisamente sollevata. Non me ne ero praticamente accorta, ma mi era tornata la voce! Non avrei potuto essere più felice. Non vedevo l’ora di ritornare a parlare. Ero in estasi. Adesso finalmente potevo fare quello che progettavo di fare da tempo. Tediare il Chirurgo della Morte continuando a cantare ripetutamente e per tutto il giorno “È un mondo piccolo” e “Ho tante noci di cocco splendide”. Non potendo muoversi – e di conseguenza non potendomi tappare la bocca con il lenzuolo o peggio, uccidermi – doveva sopportare quella che per lui sarebbe stata sicuramente una tortura.
Law mi osservò, in un modo diverso da come mi aveva guardato le altre volte. Quasi avrei potuto dire che mi stesse rivolgendo uno sguardo dolce. Mi sorrise e da quel sorriso percepii che anche lui era contento che avessi ritrovato la voce. Ma lo era solo perché ancora non sapeva quali fossero le mie intenzioni diaboliche. Ghignai, in modo ambiguo. Avevo imparato dal migliore.
Riportai lo sguardo dritto davanti a me e mi sfiorai la gola con le dita. Allora gli ormoni che mi aveva somministrato il rivoluzionario avevano davvero fatto effetto. Quasi non ci credevo. Del resto, noi medici siamo sempre un po’ scettici quando si tratta di cose “mistiche”. Il polso sinistro e il fegato erano ancora messi male, ma l’aver riacquistato la capacità di emettere suoni bastava per rendermi felice. Dopotutto, il trans-formato faceva i miracoli fino a un certo punto. Era risaputo che quello della guarigione fosse un processo lento e doloroso e non si poteva pretendere troppo dal proprio corpo.
«Te l’avevo detto» dissi rivolgendomi al chirurgo e stupendomi di me stessa ancora una volta. Non avevo intenzione di pronunciare quella frase. C’erano tante cose che avrei voluto dire al mio capitano non appena avessi ripreso a parlare, e adesso che l’avevo fatto, mi era scappata proprio l’ultima cosa che pensavo che avrei mai affermato. Evidentemente era stato un riflesso involontario, era il mio subconscio che mi spingeva ad iniziare quel discorso.
Il moro mi guardò storto.
«Te l’avevo detto» ripetei leggermente offesa «ti avevo detto che il sogno che ho fatto tempo fa era reale. Ma non mi hai ascoltato. Nessuno lo fa mai» sputai fuori tutto d’un fiato, quasi senza rendermene conto. La voce, fino a quel momento, mi era uscita un po’ roca, come era normale che fosse.
Sentii Law sbuffare, seccato.
«Se mi avessi ascoltato, se mi avessi dato retta, a quest’ora non saremmo...»
Fui interrotta dalla voce calma e piatta del mio capitano.
«Fare la vittima, lamentarti ed accusare me di essere stato negligente, non allevierà i tuoi sensi di colpa».
Trasalii e boccheggiai per qualche secondo. Finii per abbassare la testa, senza sapere bene che dire. Aveva fatto centro con poche parole, come sempre.
«Come fai a sapere che mi sento in colpa?» gli domandai, rialzando il capo e fissandolo con un aria da cane bastonato.
«Tu ti senti sempre in colpa» sentenziò senza aspettare nemmeno mezzo secondo.
Sospirai. Aveva ragione. E io avevo ragione quando sostenevo che il Chirurgo della Morte fosse la persona che meglio mi conosceva al mondo; che fosse quello da cui provenivo o quello in cui mi trovavo ora.
«Mi hai disubbidito» tuonò all’improvviso dopo alcuni minuti di silenzio tombale, facendomi istantaneamente voltare verso di lui. Sembrava molto arrabbiato.
«Lo so. Perdonami» gli risposi. Supponevo che quello fosse un argomento molto delicato da affrontare e che lo avesse preservato fino a quel momento proprio perché voleva discuterne a voce. Dopotutto, gli avevo fatto un affronto enorme. Non solo avevo bellamente ignorato i suoi ordini, ma mi ero anche finta la sua fidanzata. Per non parlare del fatto che gli avevo intimato di stare zitto in più occasioni e lo avevo chiamato con il nomignolo che tanto detestava. Forse avevo sbagliato, tuttavia lo avevo fatto a fin di bene e per una causa più che giusta. Almeno questo, avrebbe dovuto riconoscermelo.
«Saresti potuta morire» rincarò la dose dopo un po’. Evidentemente questo pensiero era diventato il suo chiodo fisso. La domanda era...con chi di noi due ce l’aveva di più?
«Ti sembro morta?» gli chiesi, con un tono a metà tra l’ironico e l’infastidito.
«Ti accorgerai molto presto delle conseguenze» quasi mi minacciò, freddo e calmo. Aggrottai la fronte, non sapendo che pensare. Dovevo avere paura? O dovevo ridere delle sue intimidazioni infondate? Non c’era motivo di spaventarsi, ora che il peggio era passato. E le uniche conseguenze che c’erano state erano l’accorciamento della mia vita e la permanenza in un letto d’ospedale, che tanto mi andava stretto. Tuttavia, ammettevo che il pensiero che ci potessero essere altre conseguenze – e da come lo aveva detto Law, che era uno che sapeva il fatto suo, specialmente su queste cose – mi metteva addosso un po’ di inquietudine.
«Sono viva. È questo ciò che importa» gli dissi convinta poco dopo.
«Ma a quale prezzo sei viva?» mi domandò, sempre impassibile.
«La vita. La vita è un prezzo più che sufficiente» replicai scettica e senza guardarlo, non capacitandomi di come facesse, proprio lui, a non capire le mie motivazioni. Non c’era bisogno che lo informassi sui miei obiettivi da raggiungere e su tutte le cose che avevo ancora da fare e per cui non potevo assolutamente mollare, perché li conosceva benissimo. Mi aveva sentito ripetere tutto almeno mille volte in quei due anni.
«Non era la tua battaglia. Perché lo hai fatto?» volle sapere, cambiando argomento repentinamente. Aspettava di chiedermelo da tanto, ne ero sicura.
«Perché sei il mio capitano. È mio dovere proteggerti. E poi, te lo dovevo» affermai, evitando il suo sguardo inquisitorio e concentrandomi sul pollice che mi stavo mordicchiando.
«Perché. Lo. Hai. Fatto.» ripeté arrabbiato, scandendo bene le parole ed alzando la voce. Non c’era cascato. Dovevo fare qualcosa, stavo diventando troppo prevedibile. Avevo perso il mio tocco magico. O forse, eravamo stati a contatto l’uno con l’altra per così tanto tempo che ormai non avevamo segreti.
Esitai qualche istante prima di rispondere, dedicandomi al mio povero pollice, che stavo martoriando. Mi ci volle un’enorme forza di volontà per dichiarare quello che dissi e per non scoppiargli a piangere in faccia. Mi morsi un labbro e piegai la testa da un lato, fissandolo quasi afflitta. Le mie sopracciglia si incurvarono, facendo formare rughe d’angoscia sulla mia fronte. Presi un paio di respiri profondi, nel tentativo di mascherare la mia commozione.
«Perché, al momento...tu sei tutto ciò che ho» risposi con voce rotta, stavolta sinceramente, sull’orlo di una crisi di pianto. I miei sforzi di mantenermi impassibile erano stati vani. «Tu, i Pirati Heart. Tutti voi. Siete parte di me. Non posso perderti. Non posso perdervi» mugolai, sprofondando la testa nel cuscino e affossando il collo nelle spalle. Ma non avevo ancora finito, così presi coraggio e parlai di nuovo.
«Se fossi rimasta lì a guardare mentre quell’abominio ti massacrava e poi fossi scappata alla prima occasione utile...non avrei avuto il coraggio di ritornare sul Polar Tang, di guardare in faccia i miei compagni uno ad uno e di dire loro che tu eri morto. Che tu eri morto perché io ero stata troppo codarda per intervenire. Ma soprattutto...non avrei avuto il coraggio di guardare me stessa allo specchio, giorno dopo giorno. Il rimorso mi avrebbe lentamente consumata e allora, la mia, non sarebbe più stata una vita. E credimi quando ti dico che ci sono già passata e che in quei momenti avrei preferito la morte» feci, mentre una lacrima scendeva delicatamente lungo la mia guancia destra. Le mie corde vocali tremolavano un po’, ma non era per lo sforzo. Era perché nel petto sentivo uno strano senso di malinconia che ben presto si era diffuso anche nel resto del mio corpo. Law non mi aveva mai guardata. Per tutto il tempo in cui avevo parlato, lui era rimasto a fissare la porta del bagno davanti a sé.
«Come vedi, la mia è stata una scelta facile. Piuttosto sofferta, ma relativamente facile. Perché io non sono più la persona che ero una volta. Nel bene e nel male. Ti prego di capirlo e di accettarlo. Anche perché tu hai contribuito a rendermi diversa e mi hai aiutato a diventare una persona migliore» continuai, nella speranza di ridestarlo dallo stato catatonico in cui era piombato. Non sarei tornata indietro sui miei passi, nonostante le mille difficoltà che avrei dovuto affrontare. Perché Zoro mi aveva insegnato che se non fossi neanche riuscita a proteggere il mio capitano, le mie ambizioni sarebbero state senza valore.
Seguì qualche minuto di tormentante e pesante silenzio, in cui mi sforzai di scacciare le lacrime che premevano per uscire.
«Sei una stupida» mi disse con disprezzo ad un certo punto, facendomi sbuffare una risata e scuotere la testa.
«Sapevo che me lo avresti detto» iniziai, con tono saccente «Ma sai che c’è? Questa stupida ti ha salvato il culo» continuai risentita. Di certo adesso non avrei pianto.
«Non ti ho chiesto di farlo» sibilò, quasi come se fosse offeso.
«No, infatti. L’ho fatto perché volevo farlo. Perché ci tenevo a farlo» precisai, iniziando a picchiettare le dita della mano destra sulla sbarra metallica del letto. Mi stavo innervosendo.
«È vero, forse ho sbagliato a farti ingerire il siero, ma almeno sono intervenuta. Ho fatto qualcosa, nonostante fossi completamente paralizzata dalla paura. Ho agito e così facendo ho messo entrambi nei casini, ma ti ho dato abbastanza tempo perché tu non morissi miseramente davanti ai miei occhi» sputai. Stavo iniziando ad agitarmi sul serio. Se avessi potuto, mi sarei alzata dal letto e me ne sarei andata dalla stanza.
«Non voglio stare a discutere per una cosa così futile, ora che ho appena recuperato la voce. Ma, mi dispiace dirlo, non ti saresti salvato se non fossi intervenuta. Così facendo ho fatto guadagnare abbastanza tempo ad entrambi perché Dragon e il resto dei Rivoluzionari potesse raggiungerci e sconfiggere quell’immondo mostro. Se fossi scappata o se fossi rimasta a fare la bella statuina, tu saresti crepato» proclamai, cercando di mostrarmi fiera e sicura «A pensarci bene, non mi sarebbe dispiaciuto così tanto, visto che così avrei evitato questa stupida e scomoda conversazione» borbottai poco dopo. Ero passata dalla commozione alla rabbia in meno di un secondo netto. Solo lui aveva la capacità di rendermi così umorale.
«Se disobbedirai un’altra volta ad un mio ordine o oserai fare una cosa del genere, ti ucciderò con le mie mani» dichiarò serio, facendomi alzare un sopracciglio «Ma suppongo che per questa volta io debba dirti grazie» continuò poi, rilassandosi.
Feci per alzare il dito medio, ma ci ripensai e lo riabbassai subito. Invece sospirai.
«Prego» replicai. Anche io mi ero calmata.
Seguirono istanti di silenzio in cui riflettei a fondo su quello che dire.
«Senza di te che mi fai da insegnante bacchettone o che mi insulti, mi esasperi e mi rompi le scatole, non ha senso vivere» affermai infine, abbassando la voce fino a ridurla ad un mero sussurro – nella speranza che quell’affermazione sfuggisse all’udito canino di Law – e roteando gli occhi «Me lo volevi proprio far dire, eh?» gli chiesi retoricamente, con l’aria scocciata di chi aveva appena detto qualcosa completamente controvoglia.
Scosse la testa e sbuffò una risata. Per un po’ non parlò. Forse stava pensando a quale fosse il modo più giusto per rispondermi.
«Ti ringrazio» ripeté, anche lui riluttante all’idea di dover ammettere che in fondo, molto in fondo, mi era grato per quello che avevo fatto. Ritirai in dentro le labbra per nascondere il sorriso che stava spuntando sulle mie labbra ed annuii, con l’espressione di chi stava aspettando quelle parole da tanto ma anche di chi era contento di sentirsele dire. Tornai seria nel momento in cui ripercorsi mentalmente tutta la vicenda.
«Oh, non c’è di che. Ti ho quasi ucciso con piacere» feci, sarcastica. Ero consapevole del fatto che il mio intervento gli avesse fatto guadagnare tempo e gli avesse garantito la salvezza, ma mi sentivo comunque responsabile per quanto accaduto. Sapevo di aver fatto tutto il possibile, sapevo di essermi spinta fino ai limiti delle mie capacità, ma in un certo senso sentivo che avrei potuto fare di più.
«Dovresti chiamare i medici e comunicare loro che hai recuperato l’uso delle corde vocali» mi consigliò poi Law, troncando la discussione sul nascere.
Gli rivolsi un’occhiata fugace e poi asserii. Per sicurezza era bene che controllassero la situazione. Nella mia mente lo ringraziai anche per quello. Se non altro qualcuno di noi si ricordava che ci trovavamo in fottuto ospedale. Ma non c’era bisogno che sapesse della mia gratitudine, c’erano stati fin troppi ringraziamenti per quel giorno.
Cercai il pulsante per chiamare i dottori, che era scivolato sotto le coperte e ci era rimasto per giorni, a tastoni e quando lo trovai lo premetti senza indugiare. Poi aspettai giusto un paio di minuti che arrivassero, diedi loro la lieta notizia e lasciai che mi visitassero, sotto gli occhi vigili ed attenti del mio capitano.
 
C’era da dire che quei medici non erano molto efficienti. Ma a quanto avevo capito quello era un ospedale immenso ed il personale scarseggiava. E comunque, di certo non erano impreparati, sapevano bene quello che facevano, ci mettevano solo un po’ di più per arrivare quando venivano chiamati. Si vedeva la passione con cui si adoperavano per curare i loro pazienti e la dedizione con cui aiutavano i feriti e i malati. Correvano come matti – spesso avevano il fiatone – da una stanza all’altra, ma nonostante questo erano quasi tutti sempre sorridenti ed era senza dubbio una bella cosa.
«Dragon-sama sarà felice di sapere che hai ripreso a parlare!» esclamò sorridendo il dottore occhialuto. Lo guardai poco convinta.
«Ci ha chiesto di informarlo sulle tue condizioni» si giustificò, leggermente imbarazzato.
Mi scambiai un’occhiata perplessa con Law ed annuii. Ancora non sapevo cosa volesse da me il Capo dell’Armata Rivoluzionaria, e quella maniacale ossessione che sembrava aver sviluppato per me mi faceva stare decisamente in ansia. Da un lato volevo assolutamente capire quali fossero le sue intenzioni e perché stesse mostrando tanta premura nei miei confronti, lui che apparentemente non ne aveva avuta nemmeno con suo figlio, dall’altra, proprio per questo motivo, non ci tenevo affatto a scoprire che cosa avesse in mente quello che al momento era considerato l’uomo più pericoloso del mondo.
I medici mi diedero le ultime raccomandazioni, ci salutarono ed uscirono, quasi senza che me ne accorgessi. Ero troppo impegnata a macchinare assurde teorie su quale ruolo potessi giocare in quella confusionaria scacchiera di eventi e persone che costituiva l’Armata Rivoluzionaria.
«Lo scoprirai quando uscirai da qui, smettila di preoccuparti» mi intimò asciutto il chirurgo. Lo fissai a bocca semischiusa, con quella che mi rendevo conto essere un’espressione a metà tra lo sconcertato e l’ebete. Cos’era? Mi leggeva nel pensiero? Ero davvero diventata così scontata e penetrabile? O aveva dei superpoteri di cui non ero a conoscenza? Forse erano stati gli ormoni di Ivankov ad averlo reso così sensibile e accorto. Non è che si sarebbe trasformato in una donna di lì a breve? Scossi la testa, cercando di scacciare quel pensiero infausto. Law, come donna, sarebbe stato decisamente sprecato. Stava benissimo – si faceva per dire – come stava.
Sospirai e mi persi di nuovo nei miei pensieri. “Smettila di preoccuparti”, mi aveva consigliato – o meglio, ordinato – il medicastro. La faceva facile, lui. Come facevo a smettere di preoccuparmi quando non avevo fatto altro dal momento in cui ero nata? Rufy. Avevo bisogno di più Rufy nella mia vita. Eravamo stati distanti per troppo tempo e cominciavo ad accusare il colpo. Doveva aiutarmi a vivere in maniera un po’ più leggera e spensierata, come aveva fatto in passato. Era lui la mia unica cura. Ma supponevo che così come io non sarei mai riuscita a convincere Cappello di Paglia a diventare vegetariano, la sua vicinanza non sarebbe mai riuscita a cambiarmi del tutto. Questo era quello che ero. Come tutti avevo i miei pregi ed i miei difetti, e ne andavo fiera. Dopotutto, l’imperfezione fa parte dell’esperienza umana, giusto?
«Non puoi chiedermi questo. Mi conosci, sai come sono fatta» lo rimproverai a mia volta. Rimanemmo immersi a lungo nel silenzio, a contemplare e riflettere su quanto incasinati fossimo davvero. Nonostante tutto, però, mi sentivo di dire che quello era un casino fottutamente bello. Non sapevo perché lo pensassi, sapevo che era così e basta. In fondo non mi dispiaceva di essermi cacciata in quel guaio. No, non mi dispiaceva affatto. Non se così facendo avevo contribuito a salvare una persona a cui tenevo. Forse le conseguenze di cui parlava Law erano solo stronzate che mi aveva propinato in un momento di incazzatura, perché si sentiva offeso dal fatto che avessi osato scavalcarlo. Doveva essere decisamente così. Ero tranquilla e fiduciosa del fatto che saremmo guariti presto.
 
«Smettila di guardarmi in quel modo.» quasi mi rimproverò dopo un po’. I suoi taglienti occhi grigi si erano posati su di me ed ora mi squadravano da capo a piedi con aria seccata.
Corrugai le sopracciglia, assumendo un’espressione interrogativa. “In quel modo” come? Con quale sguardo lo stavo fissando? A dire la verità, non mi ero neanche resa conto che lo stavo fissando, per di più con insistenza, a suo dire.
Nel dubbio continuai a fissarlo per un altro po’, tamburellando le dita sulla sbarra metallica del letto. Effettivamente c’era qualcosa che mi tormentava. C’era qualcosa che dovevo dirgli, da giorni. Aspettavo solo di recuperare la voce. Non potevo scriverglielo su una misera lavagnetta. Ma ero indecisa, non sapevo se fosse il caso o meno di farlo.
«Che c’è?» chiese avendo notato il mio nervosismo. Non c’era nulla che gli sfuggisse, neanche in quelle condizioni.
«Law» iniziai titubante, richiamandolo, sebbene avessi già la sua attenzione. Volevo che quello fosse un momento solenne. Mi incitò a continuare con un debole gesto della mano – che ancora aveva a difficoltà a muovere bene – ma che captai subito, facendomi intendere di saltare i convenevoli.
«C’è una cosa che devo dirti» gli comunicai «Anzi, che sento il bisogno di dirti, da giorni ormai. Te lo voglio dire per correttezza perché devi e hai il diritto di saperlo» continuai, seria «e tu la devi sentire almeno una volta perché...perché sì. Ci tengo che sia così».
«Avanti, allora» mi sollecitò. Iniziava ad essere impaziente.
Deglutii e mi feci coraggio. Avevo pensato tante volte a come affrontare quel discorso in quei giorni di silenzio e sofferenza, ma ora che ero sul punto di farlo non sapevo da dove cominciare. Era una cosa molto delicata da trattare, per quanto mi riguardava.
«Vuoi sapere perché ho fatto quello che ho fatto? Intendo oltre alle motivazioni che ti ho già dato» chiesi dopo qualche minuto al mio interlocutore, con un’espressione molto seria. Law rimase zitto, ma sapevo che era desideroso di conoscere le mie ragioni.
«Mi costa molto dirlo, perciò cerca di essere comprensivo» feci, sempre molto seria.
«Non dovresti parlare troppo, infatti. Potresti causare ulteriori danni alle tue corde vocali» mi ammonì, altrettanto solenne.
«Non è per quello» replicai io, secca ed infastidita. In un altro momento sarei stata contenta che lui si fosse preoccupato per me, ma non ora. Oltretutto non c’era motivo di stare in apprensione, stavo bene. Era vero, i dottori mi avevano detto di non parlare troppo in quei primi giorni, ma era una questione che se non avessi affrontato quel giorno non avrei affrontato mai più. E non potevo lasciare che cadesse nel dimenticatoio della mia mente.
«È una questione di orgoglio» specificai dopo poco. Con la coda dell'occhio vidi il mio capitano assumere uno sguardo seccato.
«Mi rendo conto di aver agito con avventatezza e di essere stata stupida. Ho messo in pericolo non solo la mia vita, ma anche la tua, che era già sul filo del rasoio, nonostante mi avessi ordinato di nascondermi e non fiatare e poi di fuggire» mi pronunciai dopo aver inspirato ed espirato a fondo.
«Già» confermò lui, assorto. Non sapevo a cosa stesse pensando, ma sembrava che non mi avesse ascoltato attentamente. La sua testa era altrove. Forse era stanco di discutere di quell’argomento, e potevo capirlo. Non ci sarei ritornata più, tuttavia quello dovevo dirglielo.
«Ma non sono intervenuta nello scontro per insubordinazione o perché sei il mio capitano, come ti ho già detto. E nemmeno perché una minima parte di me prova dell’affetto per te» feci una pausa, aveva iniziato a farmi terribilmente male la gola.
«Taglia corto» mi impose. Odiava chi lo teneva sulle spine, era sempre stato un tipo sbrigativo. Ma quella volta, nel suo tono c’era più apprensione che fastidio. Proprio perché ai suoi occhi attenti e vigili non sfuggiva niente.
«Sapevo bene di non poter vincere e che stavo andando incontro a morte certa, ma ho agito lo stesso, perché...non potevo sopportarlo» dissi, mordendomi poi un labbro.
«Cosa non potevi sopportare?» chiese, innervosito da tutta quella suspense.
«L’espressione sulla tua faccia. Ti ho guardato e sul tuo volto ho visto sofferenza e disperazione. E non potevo sopportare di vedere tale scena, né di rimanere con le mani in mano mentre tu venivi annientato. Non potevo sopportarlo allora, quando per me eri solo inchiostro su un foglio, figurati quando eri a pochi metri da me in carne ed ossa» gli confessai, fissandolo intensamente nelle sue iridi di ghiaccio «Tu...tu ti eri arreso. I tuoi occhi erano vacui. E io...» continuai, tuttavia dovetti fare una piccola pausa per cercare di riprendere il controllo dell’improvviso senso di costrizione che si era impossessato del mio petto. Odiavo essere così emotiva. Soprattutto davanti a Law. Tuttavia non potevo farne a meno, quando si trattava di lui.
«Non potevo permetterlo, non dopo tutto quello che abbiamo passato insieme. Sarei stata una cattiva subordinata, una cattiva persona e soprattutto una cattiva amica» affermai fiera dopo essermi ripresa «Sempre che siamo amici...» riflettei poi, a voce un po’ più bassa.
«Non ti saresti dovuta immischiare. Non c’era comunque niente che tu avessi potuto fare» lo disse con una durezza tale che mi spiazzò. Non capivo se era arrabbiato con me per avergli disubbidito o se invece ce l’aveva con se stesso, per non essere stato capace di proteggermi. Avrei voluto rassicurarlo e dirgli che non doveva sentirsi in colpa, perché ero stata io stessa a prendere quella decisione; sapevo bene a cosa andavo incontro ed implicitamente ne avevo accettato tutte le possibili conseguenze. Invece, non so per quale assurdo motivo, mi arrabbiai.
«Te lo ripeto. Ho trattenuto Doflamingo abbastanza da impedire che ti trucidasse.» lo pronunciai tutto d’un fiato. Stavo iniziando ad alzare la voce ed ad alterarmi anche io, ma non avrei dovuto farlo, perché una fitta dolorosa alle corde vocali mi fece fare un piccolo sussulto. Sperai che Law non se ne fosse accorto.
«Smetti di parlare» ribadì, freddo, fulminandomi con lo sguardo.
Mi azzittii all’istante, annuii e lo guardai con la coda dell’occhio. Quello che mi faceva uscire dai gangheri più di tutto, era che non riuscivo a comprenderlo. Non riuscivo a leggere il mio capitano. Non sapevo mai che intenzioni avesse, se fosse grato del fatto che gli avessi salvato la vita o se fosse arrabbiato perché ero intervenuta nello scontro nonostante mi avesse ordinato di non farlo, oppure ancora se quando mi diceva di stare zitta era perché era preoccupato per la mia salute o infastidito dai miei commenti probabilmente fuori luogo. Sospirai, in parte per la frustrazione, in parte rassegnandomi al fatto che non lo avrei mai compreso del tutto. In fondo sapevo che anche per lui era lo stesso con me. Buffo, non è vero? Eravamo due persone incomprese e parzialmente incapaci di comprendersi, che si erano ritrovate a condividere lo stesso destino. Ma d’altronde, come si suol dire, “mal comune, mezzo gaudio”. Giusto?
 
***
 
Mi svegliai di soprassalto e gridai, forte. Il cuscino era fradicio del mio sudore, come quasi tutte le altri notti dopo la colluttazione. Avevo il fiato corto, mi sembrava di non riuscire a respirare e tremavo. Erano passati altri dieci giorni dopo il dialogo che avevo avuto con il capitano. Avevo recuperato la voce senza problemi, i medici mi avevano detto che la mia gola stava benissimo e la mia pelle aveva riassorbito i punti. Potevo parlare, urlare e cantare tutto il giorno senza rischiare nulla e senza neanche avere mal di gola, finalmente. Anche il mio braccio destro ed il mio fegato stavano bene, e il polso sinistro iniziava a guarire. Gli ormoni di Ivankov stavano svolgendo il loro lavoro. Ma il mio tormento era ben lontano dal finire. Il chirurgo non si era sbagliato quando mi aveva detto che mi sarei accorta presto delle conseguenze di quel mio gesto avventato. Non sapevo come, né perché, ma ad un certo punto avevo iniziato ad avere incubi tremendi ogni volta che mi addormentavo.
Ogni notte rivivevo quella battaglia. Ogni notte facevo sempre lo stesso incubo. Ripercorrevo all’infinito quell’orribile incontro nella mia testa. Ogni singola parola, ogni singolo gesto e quel dolore senza fine che mi aveva causato Doflamingo. Ed era tutto così vivido, come se lo stessi affrontando da capo. Provavo lo stesso dolore, udivo il terrificante rumore dei colpi di pistola, vedevo Law immerso in una pozza di sangue, esanime e poi sentivo l’agghiacciante risata del Demone Celeste mentre mi stritolava il polso con il piede. Sentivo il suo filo affilato attraversarmi la gola e la suola della sua scarpa che spingeva sulla mia trachea. Ogni notte mi sembrava di morire. Poi mi svegliavo e mi rendevo conto di essere in una stanza d’ospedale, al sicuro, con accanto il mio capitano che per la maggior parte delle volte era sveglio e mi fissava nel buio. E mi sentivo terribilmente in colpa perché lui era messo molto peggio di me ed era costretto a sopportarmi mentre gridavo e mi dimenavo nel sonno, senza poter dire né fare niente. Perfino i dottori ormai non correvano più in camera quando mi svegliavo urlando, anche se in parte erano stati sollecitati da me a stare alla larga dalla nostra stanza di notte, qualora non fossero stati chiamati. Il fatto che loro si precipitassero tutti trafelati nella camera mi faceva sentire ancora più umiliata. Stavo bene. Non c’era niente che non andasse, almeno fisicamente.
Buttai fuori tutta l’aria che avevo in corpo. Poi girai la testa verso il moro.
«Mi dispiace» dissi, anche stavolta.
«Sempre lo stesso incubo?» mi chiese atono.
«Sempre lo stesso» asserii io. Dopo il quarto giorno di urla notturne disperate, avevo deciso di togliermi la cintura del tutto prima di addormentarmi. La appoggiavo sul comodino, affianco a me, cosicché nessuno potesse sentirmi gridare. Non potevo risparmiare quella sofferenza solo al povero Law, che purtroppo mi sentiva e mi vedeva comunque.
«È tutto a posto. Starai bene, vedrai» cercò di rassicurarmi, purtroppo invano. Cominciavo a perdere le speranze. Cominciavo a credere che quella tortura sarebbe durata in eterno e cominciavo a desiderare che quel giorno quel mostro mi avesse uccisa.
«Ehi» mi richiamò, facendomi voltare verso di lui. Evidentemente si era accorto del mio stato emotivo piuttosto instabile. «Ce la faremo, te lo prometto» mi sussurrò. Nel buio le sue iridi sembravano brillare, come se fossero riempite da una luce di sincera speranza, la stessa che entrambi avevamo perso tempo addietro.
Boccheggiai un paio di volte con gli occhi che mi bruciavano. Quelle che mi disse potevano sembrare parole stupide, ma quando le pronunciò mi vennero le lacrime agli occhi. Poi, fece qualcosa di totalmente inaspettato, che mi lasciò senza fiato e che mai mi sarei scordata. Nella penombra – l’unica cosa che illuminava la stanza era la luce della luna che filtrava dalla piccola finestra in alto a sinistra – riuscii a scorgere Law che allungava delicatamente e lentamente il suo braccio verso di me, attraverso le sbarre metalliche del letto. Strabuzzai gli occhi fissando le dita ed il dorso della sua mano macchiati di inchiostro nero. Non ci potevo credere. Lo stava facendo davvero? Mi stava davvero tendendo la mano? Lui? Di sua spontanea volontà? O stavo avendo un’allucinazione? Quando capii che le sue intenzioni erano serie, non mi feci scappare l’occasione e, ancora incredula, feci altrettanto. Ci stringemmo le mani – stranamente entrambe calde – e iniziai a piangere silenziosamente. Quel gesto significava tutto per me. Sapevo quanto anche il minimo movimento gli provocasse dolore. Le sue ferite erano più profonde delle mie e di conseguenza, nonostante il suo corpo fosse più forte e resistente rispetto al mio, gli ci voleva più tempo per guarire e sebbene avesse recuperato la capacità di movimento degli arti, ancora non riusciva a muoverli senza sentire un male tremendo. Questo contribuiva a duplicare il valore della sua azione.
«Sei stata coraggiosa. Sono orgoglioso di te. Ti devo la vita. Grazie» si pronunciò; così delicatamente che quasi stentai a credere che fosse la sua voce. Lo guardai e lui mi sorrise. Non c’era malizia nella sua espressione, solo gentilezza.
A quel punto cominciai a singhiozzare senza ritegno. Strinsi con più forza le mie dita tremolanti attorno alle sue, evitando però di fargli male. Quando, un paio di secondi dopo, allentai la presa, sentii la sua mano stringere un po’ più debolmente la mia. Entrambi avevamo bisogno di quel gesto. Ne avevamo bisogno come l’ossigeno. Ero sicura che da fuori quella sembrasse una scena a tratti patetica. Dopotutto, eravamo due persone malridotte, costrette in un letto d’ospedale, che avevano le mani – livide, fasciate e piene di fori a causa degli aghi delle varie flebo inserite nelle nostre vene – congiunte. Ma per me, quella che stavo vivendo era una scena magica, piena di affetto e gratitudine.
«Sai perché sono intervenuta, contro Doflamingo? La paura mi bloccava, ma mi è bastato guardarti. Nei tuoi occhi c’era disperazione, c’era il vuoto. Tu non sei così, non sei questo. E non potevo sopportare di stare lì senza fare niente e vedere la luce nel tuo sguardo spegnersi a poco a poco. Ero così angosciata per te e per quello che sarebbe stato il tuo destino» gli feci sapere con voce rotta, lasciando che le lacrime andassero a bagnare il cuscino.
«Lo so, me l’hai già detto» disse, calmo. Mi lasciai sfuggire un’esclamazione di sorpresa. Era vero, già gliel’avevo detto. Nella confusione del momento me ne ero dimenticata. Forse sentivo solo il bisogno inconscio di ripeterglielo quante più volte possibile, per evitare di doverlo rivedere in quello stato pietoso. Eppure non era stato tagliente come era di solito quando qualcuno gli ripeteva più volte le cose. Era stato...dolce. Comprensivo. Questo contribuì a farmi versare altre lacrime roventi.
«Non te lo meritavi...non te lo meritavi» piagnucolai, ricominciando a singhiozzare e tirando su con il naso un paio di volte.
«Nessuno di noi se lo meritava!» esclamai in un mugolo di rabbia. Anche se c’era molto più della rabbia in quella frase. C’era dolore, tristezza, paura e soprattutto stanchezza. Ero stanca di stare male, stanca di essere bloccata in quel letto e stanca di dovermi svegliare ogni notte per colpa di quegli incubi soffocanti. Ero stanca. Tanto stanca.
«Staremo bene, vedrai» cercò di rassicurarmi. Non lo avevo mai visto essere così delicato e “mieloso”. Dovevo essere proprio messa male. O lui era impazzito completamente.
Tirai su con il naso.
«L’ultima volta l’ho detto io a te, e guarda...» feci una pausa, perché non riuscivo a parlare «Guarda come siamo finiti...» gli dissi infine tra i singhiozzi, con il timbro di voce più alto di almeno due ottave rispetto a quello che avevo di solito, quasi rimproverandolo affettuosamente. In un’altra occasione forse ci avremmo riso sopra, ma non era quello il momento di mettersi a dare false speranze. Eravamo vivi, certo, ed io ne ero felicissima. Ma saremmo stati bene? Saremmo veramente guariti? O quel maledetto giorno ci avrebbe tormentati per sempre?
«Hai visto la tua famiglia?» mi domandò ad un certo punto. Le nostre mani erano ancora l’una nell’altra. La sua, complici anche le sue dita affusolate, era parecchio più grande della mia, che quasi spariva, avvolta e protetta da quell’involucro sicuro.
Mi rivolsi a lui con uno sguardo incredulo, mentre l’ennesima lacrima mi rigava una guancia. Non c’era bisogno che mi spiegasse a cosa si riferiva, avevo capito benissimo.
«Sì...» asserii «Come fai a saperlo?» chiesi a mia volta, decisamente sorpresa dalla sua domanda.
Ci fu qualche attimo di silenzio in cui mi tormentai nel cercare di indovinare la risposta.
«Perché io ho visto la mia» mi rispose, con tono piatto.
Ricominciai a piangere senza ritegno. Chiusi gli occhi e feci un paio di respiri profondi, imponendomi di darmi un contegno.
«Erano felici?» chiesi, trovando il fiato per parlare tra un singulto e l’altro. Ci mise un po’ per replicare anche a quella domanda.
«Sì» affermò pensieroso, senza guardarmi. Tuttavia sentii le sue dita, tra le mie, irrigidirsi leggermente.
Ritirai in dentro le labbra e mi portai la mano sinistra al petto – sebbene il massiccio gesso che mi avvolgeva il polso mi rendesse i movimenti pesanti – ed iniziai a stritolare quell’orribile camice bianco che portavo da settimane con le mie deboli falangi. Il mio corpo era scosso da potenti tremori. Non avevo idea se quelli che stessi provando fossero sollievo e gioia o se invece fossi preda di una profonda tristezza. Tirai su con il naso almeno quattro o cinque volte.
Le nostre famiglie erano lì, da qualche parte. Ci aspettavano. E sembravano felici, in pace, consapevoli che prima o poi ci saremmo rivisti. Eppure, non sentivo il desiderio di tornare da loro, non subito, almeno. E sospettavo che fosse così anche per l’uomo accanto a me.
Non riuscivo più a contenermi, ormai ero in totale balia di un violento pianto convulso. Sarei esplosa prima o poi, se avessi continuato così. Frignavo e gemevo come se fossi stata una neonata in preda alle coliche. Non sapevo davvero più se stessi piangendo per la tristezza o per la gioia. Non sapevo più niente. Non sapevo neanche cosa pensare. Cosa dire. Cosa fare.
«Non piangere» mi intimò dopo un po’, tuttavia in maniera dolce. Inutile dire che non smisi affatto di singhiozzare. Anzi, continuai, incapace di fermarmi. Poi sospirò, come se stesse per fare una cosa contro la sua volontà. «Com’era quella canzone?» volle sapere.
Quale canzone? Che c’entrava adesso una canzone? Non riuscivo a capire e non riuscivo nemmeno a parlare. Potevo solo sperare che in qualche modo captasse i miei pensieri.
Approfittai del breve momento di silenzio che seguì, per asciugarmi il naso con il gesso che ormai faceva presenza fissa sul mio polso sinistro. Non era molto elegante, ma in mancanza di altro mi facevo andare bene anche quello. Di certo non avrei staccato la mia mano da quella di Law.
«Se cerchi la luce che...» iniziò a cantare, molto piano. Supponevo che nemmeno lui avesse troppa forza per comunicare. Mi lasciai scappare un'esclamazione di sorpresa. Ecco di cosa parlava. Allora se la ricordava. Provai a sbuffare una risata. Invece che migliorare la situazione, però, quella canzone cantata da lui la peggiorò. Il letto ora tremava, scosso dai miei singhiozzi. Paradossalmente erano singhiozzi di gioia. Potevo aver odiato il chirurgo, avergli imprecato contro, potevo avergli mandato malefici, malanni, potevo essere stata sul piede di guerra tante volte con lui. Da quando navigavo sotto al suo vessillo ero quasi morta una trentina di volte ed un paio di queste era stato lui a tentare di uccidermi. Ma era questo che adoravo di Trafalgar Law. Spesso poteva avere un atteggiamento freddo e distaccato, e quasi sempre era realmente distante con le persone con cui si rapportava, ma quando si trattava di qualcuno a lui caro, se questo aveva bisogno d’aiuto, sapeva confortarlo in un modo così profondo che sarebbe stato impossibile da spiegare. Ed era così bello e così commovente, perché a vederlo mai avrebbe dato la parvenza di uno che ci tenesse o a cui importasse qualcosa. Eppure eccolo lì, la sua mano nella mia, a canticchiare una canzone che aveva sentito forse una volta in vita sua e che per giunta detestava. Ma lo stava facendo, perché sapeva e capiva che io ne avevo un immenso bisogno.
«Aiutami. Non me la ricordo tutta» mi sollecitò.
Mi feci forza e smisi di piangere. Raccolsi le mie energie per non far tremare la voce e cominciai a cantare. Dovevo farlo.
«Splende per te lassù...è la Seconda Stella a Destra, splende un po’ di più. La Stella ti indicherà l’Isolachenoncè...la luce ti accompagnerà, mostrandoti dov’è» canticchiai soave, per quanto fosse difficile nello stato in cui ero.
Un calore improvviso si irradiò in me mentre, ancora con la mano ben salda in quella del moro, davanti agli occhi mi passavano le meravigliose immagini di quella che era stata la mia vita dal momento in cui la Stella mi aveva trasportato lì, fino a quel suggestivo istante. Era stata senza dubbio una vita intensa ed interessante. In quell’attimo, qualcosa scattò. Fu come se nel mio cuore si fosse riaccesa la fiamma della speranza. E dentro di me, giurai che non si sarebbe mai più spenta, per nessun motivo al mondo.
 
«Una canzoncina orecchiabile, non trovi?» chiese Law, una volta che avemmo finito di cantare, probabilmente più per farmi contenta che altro. Comunque, ancora una volta mi stupì il fatto che potesse fare una cosa del genere.
Avevamo deciso, di comune accordo, che sarebbe stato meglio separare le mani. Stava iniziando a diventare troppo imbarazzante.
Annuii guardandolo e sorridendogli mentre con il palmo della mano mi asciugavo una lacrima fugace.
«Non pensavo ti piacesse, l’altra volta mi hai detto che ti faceva schifo» commentai, prendendolo un po’ in giro.
«È che sei stonata» mi informò sogghignando.
Sbuffai una risata, anche se mi uscì più come l’ennesimo singhiozzo.
«Hai un aspetto pietoso» mi disse, tornando alla sua solita espressione arrogante. Aggrottai la fronte e spalancai la bocca, fingendo di essermi offesa.
«Pensa per te!» esclamai ridendo e squadrandolo da capo a piedi.
«Sarà meglio rimettersi a dormire, ora» affermò il mio capitano dopo che entrambi ci fummo lasciati andare ad una breve risata. Se non altro, ero riuscita a dare un po' di sollievo dai suoi tormenti anche a lui.
Feci di sì con il capo, cercando di ricompormi. Poi feci sprofondare la testa nel cuscino.
«Grazie Law, per tutto. Davvero per tutto.» mi pronunciai, con voce tremolante per la commozione.
«È stato quasi un piacere» rispose. Era tornato ad essere il Chirurgo della Morte che conoscevo. «Buonanotte Camilla» disse subito dopo, sistemandosi in una posizione un po’ più comoda.
«Buonanotte capitano» replicai, stanca ma felice.
 
No. Non poteva finire così. Tra le tante cose, ce n’era ancora una che desideravo dirgli. Mi sporsi per arrivare fino al comodino – che in realtà non era un comodino – e quando lo trovai, premetti l’interruttore che accese la piccola lampada che stava appena sopra al mio letto, accanto alla sacca di liquidi per la flebo. Vidi il chirurgo guardarmi di sottecchi, infastidito.
«Ehi, Law» lo richiamai, adagiandomi sul fianco destro – facendo attenzione a tubi e aghi vari – cosicché potessi osservarlo bene. Girò la testa verso di me ed alzò un sopracciglio.
«Che c’è?» fece, cercando però di contenere il suo fastidio.
Sorrisi e sollevai il braccio ingessato, chiudendo la mano a pugno ed alzando solo indice e medio, in segno di vittoria. Mi guardò con quella che mi parve un’espressione sorpresa.
«Ti voglio bene!» esclamai, socchiudendo gli occhi e facendo un sorriso sghembo a trentadue denti. Finalmente gliel’avevo detto. E il modo in cui l’avevo fatto, era un modo decisamente particolare. Un modo che lui avrebbe dovuto riconoscere subito.
Per un attimo mi parve di vederlo spalancare gli occhi e corrugare le sopracciglia. Una gocciolina di sudore gli scivolò lungo la mascella, irrigidita e serrata. Quasi mi sembrò di essermelo immaginato, da quanto rapido fu l’istante. Infatti, si riprese subito e si mise a sogghignare, scuotendo poi la testa e sbuffando una risata con quella sua aria arrogante. Speravo, con quel gesto, di avergli ricordato il suo Cora-san, anche solo per un secondo. Speravo di non avergli fatto un torto, ma anzi, di averlo reso felice in qualche modo. Questo si meritava, più di qualsiasi altra persona al mondo. Si meritava di essere felice. Si meritava di lasciarsi alle spalle tutti i demoni del passato che tanto lo avevano tormentato e fatto soffrire, privandolo di un’esistenza normale. Si meritava di ricominciare da capo. Di vivere una vita felice, prospera e piena di soddisfazioni, proprio come avrebbe voluto il suo mentore. E si meritava delle persone accanto che sapessero donargli affetto e calore. Si meritava solo il buono che c’era in quel mondo per gran parte marcio. Si meritava un futuro ed una vita migliori di quanto finora gli fosse stato concesso. Incurvai le sopracciglia, sorrisi appena e lo fissai con gli occhi leggermente lucidi dalla commozione.
«Dormi» mi raccomandò, distogliendomi dalle mie poetiche riflessioni e riportando lo sguardo dritto davanti a sé.
Feci una piccola risata e mi allungai sull’interruttore per spegnere la luce.
Quella notte si era consumata la magia più potente di tutte, che avrebbe fatto sembrare quella della Seconda Stella a Destra un semplice trucco di un mago di strada mediocre e squattrinato. Quella era la magia dell’amore. La magia di due persone che si volevano bene e che, sebbene spesso fossero in disaccordo e litigassero, e si insultassero, tenevano l’una all’altra più di qualsiasi altra cosa al mondo e avrebbero fatto di tutto pur di salvarsi a vicenda. La magia di due anime complicate che entravano in simbiosi. Una magia così potente e forte che nessuno sarebbe mai stato in grado di spezzare. E mai in vita mia più di quella volta, avevo avuto così tanto rispetto per Law e gli avevo voluto così tanto bene.
E, con quello che fece quella sera per me, riuscì anche a farmi passare gli incubi. Almeno per un po’ di tempo.
 
 
 
 
When you were standing in the wake of devastation
When you were waiting on the edge of the unknown
And with the cataclysm raining down
Insides crying "Save me now"
You were there, impossibly alone.
 
Do you feel cold and lost in desperation?
You build up hope, but failure's all you've known
Remember all the sadness and frustration
And let it go
Let it go.
 
And in a burst of light that blinded every angel
As if the sky had blown the heavens into stars
You felt the gravity of tempered grace
Falling into empty space
No one there to catch you in their arms.
 
Do you feel cold and lost in desperation?
You build up hope, but failure's all you've known
Remember all the sadness and frustration
And let it go
Let it go.
 
Do you feel cold and lost in desperation?
You build up hope, but failure's all you've known
Remember all the sadness and frustration
And let it go
Let it go
Let it go
Let it go
Let it go.
 
Do you feel cold and lost in desperation?
You build up hope, but failure's all you've known
Remember all the sadness and frustration
And let it go
Let it go.




 
Angolo autrice
Salve a tutti. :)
Allora, prima di tutto, ci tengo a dire che stavolta la canzone alla fine del capitolo non era programmata (anche perché in realtà c'è già una canzone all'interno del capitolo). Tuttavia, visti i recenti eventi, ho voluto inserire questi versi per rendere omaggio (a modo mio e per quanto questo si possa considerare un omaggio) ai Linkin Park, un gruppo che mi è sempre piaciuto molto. Tra tutte le loro canzoni, ho scelto "Iridescent" perché mi è sembrata la più adatta per descrivere il particolare momento che stanno attraversando Law e Cami. Spero che apprezziate la scelta e che nessuno si senta offeso da ciò, perché come ho detto la mia è un'iniziativa personalissima, un modo per ringraziare questa band che mi ha accompagnato negli anni ed ha anche contribuito a fornirmi l'ispirazione per qualche capitolo. :)
Spero che "Magia" vi sia piaciuto e spero di essermi fatta perdonare una volta per tutte con le scene finali che vi ho proposto qui. Lo confesso: ho adorato scrivere le ultime parti. Dopo tutta la disperazione che hanno provato quelle povere anime (e che ho provato anche io, perché sono pur sempre i miei "bimbi"), finalmente un po' di dolcezza! Direi che ci voleva proprio un loro momento speciale. <3 Certo, la disperazione c'è sempre, ma sorvoliamo su questi insignificanti dettagli...apprezzate il mio tentativo di non fare la sadica, per una volta. :D
Lo ammetto, all'inizio il resto del capitolo non mi convinceva pienamente, ma non sono riuscita a pensare ad un altro modo in cui avrei potuto scriverlo o impostarlo. Per cui, eccolo qui. Mi auguro che non sia noioso e/o ripetitivo! E mi auguro anche che si capiscano le emozioni contrastanti che prova Camilla nei primi paragrafi. La ragazza si sente in colpa per aver fatto ingerire il siero al suo capitano, perché così facendo ha contribuito a far peggiorare ulteriormente la situazione, ma allo stesso tempo è consapevole che, nonostante i rischi che ha corso, se non fosse intervenuta Law sarebbe morto.
Bene, direi che questo è tutto. Come sempre, il vostro parere è sempre ben accetto e gradito! :)
Alla prossima e grazie a chi ha seguito la storia fin qui e a chi vorrà continuare a seguirla! <3
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > One Piece/All'arrembaggio! / Vai alla pagina dell'autore: WillofD_04