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Autore: Trevor    17/04/2005    0 recensioni
Raccolta di storie da me scritte ispirate da alcuni episodi del libro “I 900 Giorni – L’epopea dell’assedio di Leningrado”. I fatti storici a cui si riferiscono sono realmente avvenuti. Data però l’esiguità del materiale di partenza, queste ricostruzioni non pretendono di essere né dettagliate né esatte. Inoltre probabilmente non le pubblicherò nella giusta sequenza cronologica.
Genere: Azione, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Guerre mondiali
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Varchiamo la Neva – 12 gennaio 1943

Non sapevo esattamente il perché di quel trasferimento lungo la Neva, ma lo potevo immaginare. La tensione era palpabile. Mentre mi dirigevo verso i convogli di camion che ci avrebbero trasferito lungo il fiume gelato, vedevo file e file di camion e carri armati. Era il momento.

Non c’era niente di simile nei contrattacchi azzardati di settembre ed ottobre del ‘41, né nell’offensiva dell’inizio estate del 1942. Questa volta era sicuramente la volta buona. C’era qualcosa che in quei tentativi mancava: la pazienza.

Pazienza di radunare forze sufficienti. Di attendere che tutte le forze fossero al loro posto. Di trovare un fucile o un mitra per tutti. Di rifornire tutte le unità di munizioni e carburante. Di effettuare uno sbarramento d’artiglieria degno di questo nome. Di preparare un piano d’azione.
Semplicemente, pazienza.

Eravamo in una bassa trincea scavata sulle rive della Neva. Vicino a me, i miei compagni erano nella mia stessa trincea o in altre più arretrate, pronti a scattare appena dopo di noi. La spallina della 268.a divisione era appena visibile sulla nostra divisa. Il sole era solo una parvenza di luce sotto l’orizzonte. In questa stagione le notti durano a lungo, qui al nord. Gli ufficiali illustravano a grandi linee il piano d’azione alle rispettive unità.

Erano le nove del mattino. Tutti attendiamo solo il segnale che sarebbe iniziato l’attacco. E il segnale venne. Un rombo di tuono come non avevo mai sentito. Migliaia di cannoni che sparavano contemporaneamente. Mortai, lanciarazzi, artiglieria campale, ferroviaria e navale. Ogni bocca da fuoco della città stava sputando. Era assordante.

Mentre cominciavo a vedere, dall’altra parte del fiume, le prime esplosioni, non riuscii a non pensare a come ci si sarebbe trovati ad essere dall’altra parte, sotto quel diluvio di metallo e fuoco. Poco dopo, però, mi tornarono alla mente le immagini delle case bombardate, dei proiettili d’artiglieria nazisti che colpivano indiscriminatamente case, ospedali e scuole. Le immagini della gente che moriva di fame mentre camminava per la città l’inverno scorso, crollando come alberi abbattuti. Le immagini delle migliaia di civili uccisi attorno alla grande metropoli dai mitragliamenti a bassa quota degli aerei tedeschi. Quel minimo di pietà che le prime esplosioni avevano provocato svanì come la polvere prodotta dai proiettili.

Era monotono starsene inginocchiati con il calcio del fucile appoggiato a terra, sbirciando appena oltre la trincea. Per due ore, l’artiglieria infierì sulle linee naziste. Per due ore, migliaia di tuoni preannunciavano altrettante esplosioni davanti a noi. Centinaia di strisce di fuoco accompagnate da un forte gemito si abbattevano sulle linee naziste. In lontananza, dietro la polvere prodotta dalle esplosioni, si potevano scorgere la luce del sole, sempre più forte. O forse era la luce dello sbarramento di artiglieria del fronte di Volchov.

Il sole era ormai sorto in lontananza, ed era quasi mezzogiorno, quando arrivò il momento. Vedemmo un razzo verde illuminare il cielo sopra la Neva. Senza attendere un ordine diretto, molti uscirono dalla trincea e iniziarono a correre sul fiume ghiacciato. Tutti gli altri li seguirono, anche se l’artiglieria non aveva ancora completato lo sbarramento.

Risalimmo la sponda sud mentre gli ultimi proiettili esplodevano poco lontano. Alcuni erano già passati oltre le prime posizioni naziste, ormai svuotate dalla valanga di esplosivo a cui erano state sottoposte. Non era previsto che ci muovessimo così presto, appena dopo la fine dello sbarramento, ma grazie a questo le nostre perdite erano state quasi nulle. Dietro di noi, i primi carri armati attraversavano il ghiaccio, mentre la 136.a divisione attaccava a sua volta. Occupammo la sponda sud quasi senza perdite.
Sembrava troppo bello per essere vero.

La cannonata di un carro nazista mi riportò alla realtà. Effettivamente NON era vero. Un nugolo di nazisti si stava dirigendo contro di noi. Iniziò una sparatoria, e alcuni nostri carri armati si fecero avanti, mentre una pioggia di piombo proveniva dalle mitragliatrici nemiche.
Chiunque fosse stato il genio che aveva disegnato quei carri, gli avrei dato una medaglia. Colossi da decine di tonnellate, su cui i proiettili rimbalzavano. Fecero a pezzi i più numerosi carri armati tedeschi, mentre la fanteria ingaggiava una battaglia con fucili e mitragliatrici.
Il contrattacco nazista durò varie decine di minuti, e per un pelo non ci ricacciò indietro. Molti cadaveri e rottami di mezzi corazzati erano dispersi sul campo di battaglia. Li avevamo appena respinti, anche se a prezzo di notevoli perdite, ed ora li inseguivamo. Riuscimmo ad avanzare ancora qualche decina di metri, forse un centinaio, prima di doverci nuovamente fermare a combattere. Ci infilammo in una trincea scavata dai nazisti, devastata dalle bombe, rispondendo all’intenso fuoco nemico che proveniva da alcuni ruderi. Un gruppo di portamunizioni ci distribuiva generose scorte di proiettili e bombe a mano. L’ultima volta che avevo visto una simile abbondanza di munizioni era stato durante le esercitazioni campali, tre anni prima.

Altre truppe avevano varcato la Neva, per darci manforte, soprattutto colonne di mezzi corazzati. L’artiglieria sparava ancora in direzione di Sc’lisselburg, dove il corridoio che ci divideva dal resto del paese si stava restringendo lentamente, sotto l’effetto del nostro attacco a tenaglia. Il fronte di Volchov premeva da est, mentre noi attaccavamo da ovest. La resistenza che i tedeschi opponevano era sempre minore.

Non ci avrebbero fermato. Questo era ormai chiaro. Non ne avevano più la forza. Dopo il terribile rovescio di Stalingrado, avevano subito così tante perdite che sarebbe stata solo una questione di tempo, prima che la guerra finisse. Magari, entro la fine di quest’anno. O forse prima, se gli inglesi si decidevano a sbarcare in Europa. Alzai il fucile oltre il mio riparo, e sparai contro i rottami di un carro armato, dietro al quale si erano riparati alcuni soldati nazisti. Altri compagni fecero lo stesso, mentre una piccola squadra avanzava a testa bassa verso la carcassa del veicolo. In altri punti, i soldati stavano uscendo in massa dalle trincee o dai ripari improvvisati, e si lanciavano in avanti, con i carri armati come battistrada. Ricaricai rapidamente il fucile e li seguii.





L’offensiva terminò sei giorni più tardi, con la congiunzione dei fronti di Leningrado e Volchov e la liberazione di Sc’lisselburg.

Fotografia di Salisbury del cimitero Piskarevskij, dove sono state sepolte nelle fosse comuni un milione di persone, tra militari e civili. Sulla parte sinistra sono incise le parole della poetessa Olga Bergholtz:

Qui giace il popolo di Leningrado,
Qui sono i cittadini - uomini, donne e bambini -
E accanto a loro, i soldati dell'Armata Rossa
Che donarono la vita
Per difendere te, Leningrado,
Culla della rivoluzione.
Non possiamo enumerare i valorosi
Che giacciono sotto il granito eterno,
Ma coloro che questa pietra onora
Nessuno dimentichi, nulla sia dimenticato


Nota finale:Questa storia non vuole essere una propaganda di qualsiasi tipo. Ho scritto questa piccola serie di one-shot per rendere omaggio ad uno degli eventi più drammatici della seconda guerra mondiale. L'evento che in pratica decise l'andamento della guerra ad oriente. Per ricordare gli uomini, le donne e i bambini, i soldati e i civili, che rimasero intrappolati nella guerra tra i due peggiori dittatori che l'Europa moderna abbia mai conosciuto.

Trevor
  
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