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Autore: Vanya Imyarek    05/08/2017    9 recensioni
Italia, 2016 d.C: in una piccola cittadina di provincia, la sedicenne Corinna Saltieri scompare senza lasciare alcuna traccia di sé. Nello stesso giorno, si ritrova uno strano campo energetico nella città, che causa guasti e disguidi di lieve entità prima di sparire del tutto.
Tahuantinsuyu, 1594 f.A: dopo millenni di accordo e devozione, gli dei negano all'umanità la capacità di usare la loro magia, rifiutando di far sentire di nuovo la propria voce ai loro fedeli e sacerdoti. L'Impero deve riorganizzarsi da capo, imparando a usare il proprio ingegno sulla natura invece di richiedere la facoltà di esserne assecondati. Gli unici a saperne davvero il motivo sono la giovanissima coppia imperiale, un sacerdote straniero, e un albero.
Tahuantinsuyu, 1896 f.A: una giovane nobildonna, dopo aver infranto un'importante tabù in un'impeto di rabbia, scopre casualmente un manoscritto di cui tutti ignoravano l'esistenza, e si troverà alla ricerca di una storia un tempo fatta dimenticare.
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Storie di Tahuantinsuyu'
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                               CAPITOLO 5

 

        DOVE  HA  LUOGO  UN  BUON  AFFARE

 

 

 

 

Sì, ma adesso Choqo voleva sapere che cosa fosse successo a Corinna! Cioè, in realtà lo sapeva … era diventata una schiava di palazzo invece che una prostituta.

 Ma era stata comprata da Llyra. Perché? Cos’aveva spinto l’antica Imperatrice a prendere una potenziale rivale, e (anche se all’epoca non poteva certo saperlo) colei che l’avrebbe spodestata, come sua serva?

 E comunque fossero andate le cose, non vedeva l’ora di sapere che tipo di donna fosse stata Llyra l’Infame, quel personaggio che da sempre l’aveva affascinata. Simay e la sua devozione religiosa potevano aspettare.

                                                                 

                                                                     Dal Manoscritto di Corinna

 

Alcanta non mi impressionò quanto avrebbe dovuto.

 Era la prima città davvero grande di quel mondo che vedevo, la capitale di un Impero, traboccante di novità; ma la mia attenzione era alquanto fissa sul mio rischio di finire in un bordello. Oppure, stando a quanto ricordavo delle parole degli schiavisti, nell’harem dell’Imperatore: soluzione appena appena preferibile, visto che avrebbe significato farmi scopare da un uomo solo invece che dalle migliaia.

 Ora, essendo in un centro abitato, Biqa era costretto a saltellare goffamente sulle sue lunghe zampe, schivando i passanti e finendo in coda dietro ad altri scoiattoli infuocati. Uomini armati urlavano ordini su chi e quando poteva andare dove; pareva che una versione appropriata all’ambiente dei nostri ‘vigili urbani’ esistesse anche qui. Ma in quel momento i vigili, esattamente come gli innocenti passanti che ci scorrevano accanto e ogni tanto si fermavano per buttarmi un’occhiata, erano soltanto qualcuno che sarebbe scattato al mio inseguimento qualora avessi approfittato della velocità ridotta per darmela a gambe.

 Certo, Biqa mi teneva ancora sospesa a un’altezza considerevole, ma non abbastanza da permettermi di saltare su un tetto – e anche se avessi potuto, sarei rimasta bloccata lì sopra: non ero certo una di quegli atleti che saltellano sui tetti come se fossero una corsa a ostacoli; potevo al massimo buttarmi sulla tenda sospesa davanti a qualche negozio, ma sarei stata catturata prima di subito. Dannazione, ecco la bella fine dei miei piani di fuga!

 Iniziavo a sentirmi decisamente male. Il cuore mi batteva fortissimo, avevo problemi a respirare, forse mi stava pigliando un infarto, no, io non potevo crepare lì, dannazione! Dovevo tornare a casa dai miei genitori (chissà come sarebbero stati ridotti al momento), avrei inventato di aver fatto una di quelle stupide fughe di casa da adolescente, con la mia reputazione da ribelle non avrei lasciato incredulo nessuno, avrei avuto una spettacolare punizione a coronamento di quell’avventura, e poi sarei tornata alla mia vita di tutti i giorni, con la scuola che non mi piaceva, la prospettiva di un lavoro di cui non mi importava, e non me ne sarebbe fregato niente, sarei stata contentissima di una vita qualsiasi senza potenze che non capivo a spedirmi in universi paralleli o qualunque cosa fosse Tahuantinsuyu.

 Respirai profondamente mentre pensavo a tutte queste cose, chiusi gli occhi per bloccare le insensatezze davanti a me, e la sensazione di tachicardia e respiro affannato si calmarono. Bene. Avrei trovato il modo di uscire da quella situazione, in un modo o nell’altro, ora o tra un mese o tra anni. Io non ero una debole (ma ero crollata subito davanti a quella frusta, e non sarebbe certo stata l’ultima volta, e – non dovevo pensare a quello, io sarei uscita!). Avrei affrontato qualunque cosa questo mondo aveva da contrappormi.

 Biqa si fermò. Qualcuno di sotto urlò qualcosa. Aprii gli occhi, e per la prima volta rimasi davvero impressionata da ciò che vedevo.

 Non ero mai stata attratta dalle immagini dei palazzi antichi sui testi di storia, nel mio mondo. Erano tutti cumuli di rovine che lasciavano intuire una struttura imponente, ma che adesso si assomigliavano tutti. E quelli moderni … be’, si somigliavano tutti anche quelli, l’unica vera differenza era che erano in piedi. Davanti ai miei occhi c’era invece un palazzo antico, in forma perfetta: noi ora stavamo entrando in un magnifico giardino, pieno di piante dai fiori multicolore che non avevo mai visto, grandi, limpide fontane in cui nuotavano uccelli simili a quelli che noi chiamavano cigni, solo con le piume di uno strano giallino invece che bianchi, e qua e là, attaccate agli alberi, gabbiette che contenevano … pesci volanti. Dannatissimi pesci, che fluttuavano all’interno delle loro gabbie con le loro pinne coperte di piccole piume iridescenti. Nel mio mondo i pesci stavano solo in acqua, mi biasimate se quasi gli occhi mi schizzarono fuori dalle orbite?

 Prima dello shock dei pesci, comunque, avevo fatto in tempo a notare le pareti in pietra dipinte a colori vivaci che ci circondavano, interrotte in basso da porticati che davano alle stanze interne.

 I miei schiavisti intanto stavano urlando qualcosa con quelli che stavano sotto; concentrandomi sulle loro voci, riuscii a capire che a quanto pareva l’Imperatore era ancora impegnato nella campagna militare di Yrchlle, e che il regno del nord non sembrava affatto intenzionato a una resa pacifica, quindi ci sarebbe rimasto ancora per un bel pezzo. Le guardie avevano però ricevuto ordine di far esaminare qualsiasi potenziale schiavo o schiava all’Imperatrice, in sua assenza.

 La mia sorte era decisa: sarei finita al bordello. Fanculo, mondo!

 Finalmente fecero fermare Biqa, l’animale si accoccolò in uno spiazzo che sembrava messo lì apposta, e gli schiavisti arrivarono ad aprire la gabbia e a trascinarmi giù. Le mani mi furono legate dietro la schiena con una corda assurdamente ruvida. Sul serio, da queste parti gli schiavi si pagavano in base a quanto gli sanguinassero i polsi?

 Una delle guardie si allontanò, probabilmente per avvisare chi di dovere dell’arrivo di merce da valutare; io fui costretta a inginocchiarmi al centro di un piccolo cerchio di panche di pietra.

 “Sua Altezza esaminerà la merce non appena avrà un momento libero” annunciò la guardia.

 “Non vorremmo disturbare Sua Altezza” disse in fretta uno degli schiavisti. “Un affare semplice come questo, possiamo togliere il disturbo e …”

 “Gli ordini sono di farle esaminare personalmente qualsiasi schiavo sia offerto” ribatté la guardia. “Oppure volete ritirare la vostra offerta?”

 I miei catturatori si affrettarono a negare così in fretta che non si capì assolutamente nulla, e le guardie dovettero urlare per ottenere una risposta coerente. Abbastanza chiaro che non volessero offendere l’Autorità Suprema con un ritiro dell’offerta, sebbene pensassero che l’Imperatrice non mi avrebbe comprata, e che quindi tanto valeva portarmi in fretta fuori di lì e consegnarmi al primo bordello che avesse pagato ragionevolmente. Crepassero tutti brutalmente ammazzati, intanto quella in una posizione scomodissima sui sassi ero io.

 Ma quanto ci metteva quella maledetta donna ad arrivare? Almeno mi sarei levata il pensiero. Se davvero questa donna non voleva rivali tra i piedi, io ero già al bordello, tanto valeva esserci fisicamente … tanto iniziava ad essere già tardo pomeriggio, no? Non avrebbero voluto usarmi subito, appena arrivata? E perché no? Non sarebbe stato mica un posto di lavoro normale, che mi avrebbe dato il tempo di ambientarmi. Ogni progetto per scappare quella notte stessa andava a farsi benedire. Ma dannazione, sarei mai riuscita a scappare?

 Calma, dovevo stare calma. Non sarebbe servito a niente andare di nuovo nel panico. Non conoscevo questa città, non sapevo come fossero formati i suoi edifici, la situazione era ancora incerta. Stare calma. Concentrarmi sugli strani fiori e i cigni giallini e i fottutissimi pesci volanti (come diamine era possibile? Che leggi della biologia c’erano in questo posto?).

 L’Imperatrice ancora non si faceva vedere. Memorizzai la disposizione delle piante che mi circondavano, sono abbastanza sicura che se adesso tornassi al vecchio palazzo di Manco saprei riconoscere il punto esatto. Nessuno si faceva vedere.

 Osservai i porticati, seguendo con lo sguardo gli occasionali schiavi che li attraversavano portando vassoi pieni di cibi strani, sacchi di tela, oppure uscivano a spazzare le foglie cadute. Che noia, per la miseria! Non vedevo l’ora che succedesse qualcosa, almeno per avere qualcosa da fare e a cui pensare!

 Nessuno. Basta, non ce la facevo più … avevano perfino smesso di farmi male le ginocchia, non le sentivo neanche più …

 “Sua Altezza Llyra Duqasi può concedervi udienza” annunciò una guardia. Finalmente, cazzo! Fulminai con lo sguardo la direzione da cui l’uomo aveva parlato – e dunque la sovrana, che giungeva in quel momento.

 Llyra era grassa, e camminava a passo incredibilmente svelto per qualcuno della sua stazza, a schiena dritta. Indossava un abito verde e luminoso, che risaltava piuttosto bene sulla sua pelle scura, e una discreta quantità di gioielli le scintillava addosso.

 Appena fu più vicina e potei vederla meglio, notai che il suo ventre era troppo gonfio e teso perché fosse il prodotto di troppe abbuffate imperiali: quella donna era incinta. Non ero un’esperta e non sapevo dire di quanti mesi, probabilmente non molto vicina al parto, ma ero sicura che quello fosse il caso. Guadagnai un nuovo rispetto per come riuscisse a stare impettita con quel peso addosso.

 Il suo abito, eccezion fatta per il colore sgargiante e la stoffa sicuramente più pregiata, era simile a quello che avevo addosso io, un rettangolo di stoffa fissato con una spilla e una cintura -nel suo caso, d’oro. Il suo viso era abbastanza giovane, sospettai che non fosse nemmeno nella trentina, e il capo era tenuto leggermente reclinato all’indietro, così da guardarci tutti dall’alto al basso. I capelli neri erano acconciati in tante piccole treccine, e la sua fronte era cinta da una benda di stoffa verde smeraldo, con una frangia dorata e infilata dietro quella che sembrava una piuma di quei cigni giallini. Aveva anche lei un paio di orecchini enormi, tempestati di gemme verde cupo.

 Arrancando dietro di lei – sospetto che stessero cercando di camminare a passettini aggraziati e al contempo non perderla di vista – sopraggiungeva uno stuolo di donne riccamente vestite e ornate, anche se nessuna con lo sfarzo di Llyra, e qualche schiava che si sforzava di non sorpassare la sua padrona mentre le porgeva ventagli o dolcetti. Questa fu la mia prima impressione dell’Imperatrice e delle sue dame da compagnia.

 “Perdonateci il disturbo, Vostra Altezza” mormorò uno dei miei catturatori. Un altro dei loro mi costrinse a prostrarmi a terra, e lui stesso mi imitò subito dopo. “Noi non siamo neppure degni di essere al Vostro cospetto, e ci riempie di un’emozione intensa –“

 Llyra diede un colpo di tosse; lo schiavista si zittì. “Siete stati al cospetto di mio marito, il cui splendore supera il mio come il Sole supera una terra che non ha luce propria. Io non merito che dopo aver visto lui spendiate parole di onore per me. E se non erro” continuò osservandomi “l’offerta era in effetti dedicata a lui”

 “Ci rendiamo ora conto della nostra follia” disse lo schiavista che l’aveva omaggiata per primo. “Volevamo offrirgli questo nostro bottino – un curioso fiore trovato sulle montagne, di specie mai vista finora, libera e senza alcun simile – ma realizziamo solo ora che nulla di quello che potremmo offrirgli può gareggiare con ciò che già ha”

 “Non ho mai visto nessuno come questa giovane, concordo con voi” osservò Llyra, stringendo le labbra. “Desumo che, siccome mio marito ha già di meglio, ripeterete la vostra offerta a qualcuno di non così fortunato?”

 “Sarebbe a dire tutto il resto dell’Impero” confermò uno degli schiavisti.

 Dopo un istante di silenzio e un’occhiata di fuoco sia da parte dei suoi compari che da me, e una vaga espressione di disgusto di Llyra, si affrettò ad aggiungere: “Ovvero quelli che non sono fortunati come lui. Non c’è nessuno a lui superiore, in questo, quindi questa ragazza può appartenere a qualsiasi altro uomo nell’Impero, cioè, intendo che –“

 “Scusa se ti interrompo, ma immagino di aver compreso cosa intendi” intervenne l’Imperatrice. Mi fissò come se volesse esaminarmi al minimo dettaglio. Io feci del mio meglio per avere un’espressione torva e sicura. Non me ne fregava un cazzo della sua autorità, poteva comandare a bacchetta tutti tranne me, se ci avesse provato l’avrei mandata a quel paese come avrei fatto con chiunque altro, e volevo che questo fosse ben chiaro. Io, con quelli che credevano di potermi dare ordini, facevo così, e non intendevo cambiare nemmeno per una dannata imperatrice.

 I lineamenti di Llyra si rilassarono in un vago sorriso. “Questa giovane sarebbe senz’altro la felicità di un uomo” disse agli schiavisti. “Ma non pensiate che solo a loro possa piacere l’idea di una curiosità esotica al loro servizio. Desidero che questa ragazza diventi mia ancella. Qual è il vostro prezzo?”

 Rimasi di sasso. E fui d’un tratto incredibilmente sollevata. Sì … gli affari erano affari, quei tizi non si sarebbero curati troppo di cosa sarei finita a fare purché qualcuno mi comprasse e sganciasse fino all’ultimo centesimo. Ero salva! Niente bordello, niente harem, solo lavoro da ‘ancella’, che a quanto ricordavo dai romanzi storici, era una specie di inserviente personale.

 Potevo farcela. Più tempo per escogitare un piano di fuga … e insomma, l’Imperatrice non sembrava troppo male. Okay, di solito non ero il tipo cui piace farsi compatire, ma questa donna mi aveva appena tirata fuori da una gran brutta prospettiva. Sarebbe stata anche tanto buona da lasciar fare a una serva devotamente religiosa il tentativo di diventare sacerdotessa di Energia, vero? Che razza di culo.

 L’Imperatrice Llyra mi fu di colpo molto più simpatica – bastava che poi non provasse a mettermi i piedi in testa. Gli schiavisti sembravano più che contenti di fare un affare con l’Imperatrice in persona invece che con qualche pappone, anche se si premunirono di sottolineare quanto fossi ribelle. E Llyra se ne fregava, e voleva comprarmi lo stesso? Buon per lei, aveva resistenza.

 Qualcuno fu mandato a portare i soldi. La transazione fu conclusa. Gli schiavisti tagliarono via le corde ai miei polsi e mi mollarono lì davanti a quella specie di corte femminile. Felice di non averli mai più rivisti.

 “Ma ha i capelli blu?” bisbigliò una delle dame alla sua vicina. Un’altra ragazza, una poco più grande di me con un vestito giallo, parecchi gioielli e capelli raccolti in una coda alta e intrecciati di quelli che sembravano fili d’oro, mi piazzò allegramente le mani nei capelli, sollevandoli e studiandoli con occhio critico. “Sono tinti!” annunciò. “Come hai fatto a farli? Sono tradizionali dalle tue parti?”

 “Fatti gli affari tuoi” sbottai, tirando via i capelli dalla sua presa.

 “Te li rovini!” protestò la ragazza.

 “Ma che maniere!” esclamò una donna alta accanto all’Imperatrice, vestita di azzurro chiaro. “Parinya, lascia perdere i suoi capelli, sta’ piuttosto attenta che non ti morda. Non sai mai come sono questi selvaggi …”

 “Dove pensi che l’abbiano pescata?” chiese la donna che aveva per prima questionato i miei capelli.

 “Hanno detto qualcosa a proposito delle montagne” ricordò la donna alta.

 “Ragazzina” intervenne l’Imperatrice. “Puoi dirci il tuo nome?”

“Corinna” borbottai, cercando di non guardarla troppo storto.

 “Grazie della concessione, Corinna. Puoi dirci anche se hai un’esperienza particolare in qualsiasi genere di operazione legata alla manutenzione di una casa?”

 Sapevo sparecchiare (gran cosa) e fare la polvere … con i mezzi tipici del mio mondo. Meglio rispondere che non sapevo fare niente.

 “Ma come l’hanno cresciuta?!” sbottò scandalizzata una dama in blu scuro.

 “Scommetto che è un qualche tipo di nobiltà, dalle sue parti” intervenne quella Parinya tanto ossessionata con i miei capelli. “Ha la pelle troppo chiara e delicata per essere una contadina, ha le mani intatte e quindi non è una tessitrice, non ha muscoli, ha tutti i denti, i capelli curati … questa non ha lavorato un giorno nella sua vita più di quanto l’abbia fatto io”

 Llyra assottigliò gli occhi a questa analisi, mi studiò attentamente, poi fece un cenno di noncuranza con la mano. “Saper adattare sé stessi ai cambiamenti di circostanza è la virtù dei forti. Non importa ora chi questa ragazza sia stata: importa che non sia in grado di svolgere i suoi compiti. Rimedieremo immediatamente. Namina, chiama qui Dylla”

 Una delle schiave si allontanò a passo svelto.

 “Dylla è una delle nostre servitrici più anziane. Da anni ormai si occupa di istruire i nuovi acquisti nei loro compiti, e nel modo appropriato di svolgerli a palazzo … sì, forse da questo punto di vista è un bene che tu non sappia fare nulla …” Llyra sembrò perdersi nei suoi pensieri.

 Namina, una schiava dai tratti somatici tipici del luogo e gli angoli della bocca che sembravano incollati all’ingiù, tornò con Dylla, una donna grossa dai capelli grigi e l’aria severa. Seppi che Dylla mi sarebbe stata molto antipatica.

 “Vostra Altezza” mormorò la vecchia con un profondo inchino.

“Dylla. Abbiamo un nuovo acquisto, come vedi, e sostiene di non essere in grado di fare nulla. Voglio che sia annoverata tra le mie serve personali. Istruiscila a dovere”

 “Vivo per servirla, Vostra Maestà” rispose quasi meccanicamente Dylla, corrucciandosi mentre mi guardava. Che aveva da criticare?

 Essere trattata come un oggetto da essere aggiustato mi stava veramente dando sui nervi. Iniziavo ad aver bisogno di uno sfogo. E fanculo, Dylla non sarebbe certo stata peggio degli schiavisti. Avrei imparato quel tanto che bastava a farmi tirare avanti, ma non mi sarei lasciata comandare a bacchetta. Sapersi adattare era la virtù dei forti, aveva detto Llyra? Ebbene, lei e la sua corte, per la prima volta in vita loro, avrebbero dovuto adattarsi a non avere il loro minimo capriccio immediatamente obbedito.

 Il ritorno del mio spirito ribelle mi rinvigorì, e mi trovai a seguire Dylla, che mi faceva cenni impazienti di sbrigarmi, con un gran ghigno sulla faccia.

 

La parola fiasco è ben descrittiva dei miei tentativi di mantenere intatto il mio spirito ribelle.

 Dylla non aveva una frusta, certo; però mollava dei ceffoni micidiali. Non esagero quando dico che uno era sufficiente a buttare a terra una persona -specie una persona non abituata a riceverne, e se poi era davvero arrabbiata, era capacissima di continuare in un vero e proprio pestaggio. E io ne presi una dose ben degna di nota durante la mia settimana di addestramento: per forza, continuavo a insultarla e ribellarmi, e fare le cose coi piedi! Era un po’ un andarsele a cercare.

 E i miei genitori … per quanto mi fossi sempre lamentata di quanto fossero severi e pretenziosi, non avevano mai alzato un dito su di me. Non prendevo tante botte da quando ero alle elementari, il che, nel complesso, significava che gli schiaffi e i pugni e i calci erano sempre un po’ inaspettati, e portavano con sé brutti ricordi, che mi rendevano ancora più irritabile e refrattaria all’obbedienza. Quei primi tempi furono un incubo, e mi lasciarono addosso una gran quantità di lividi.

 Dopo qualche giorno fui costretta, mio malgrado, a fingermi più cedevole: non mi sarebbe stato di nessuna utilità farmi picchiare a sangue, e la mia reputazione di ribelle, lungi dal farmi correttamente identificare come quella dotata di spina dorsale, mi faceva additare dalle dame e dalle altre schiave come una povera idiota, e guardare con una sorta di beffarda commiserazione dall’Imperatrice stessa. Smisi di rifiutare di compiere ciò che mi era ordinato, cominciai a mettere dell’effettivo impegno nei miei compiti, e iniziai a fare maggiore uso di ironia e sarcasmo invece degli insulti diretti. La mia reputazione scese da ‘ribelle’ a ‘fastidiosa’, cosa che allora mi parve un terribile sacrificio. I lividi sbiadirono senza essere rimpiazzati da altri.

 Durante quei giorni, bene o male, iniziai anche ad adattarmi al mondo di Tahuantinsuyu e alla mia nuova vita da schiava. Innanzitutto facevo relativamente poco lavoro per l’Imperatrice in persona: in primo luogo passava la maggior parte del tempo a studiare documenti e a discutere con governatori e burocrati degli affari interni dell’Impero mentre suo marito era in guerra (cosa per cui si guadagnò qualche tacca nella mia stima), in secondo luogo aveva un’infinità di attendenti personali, e io o facevo da babysitter a suo figlio Quisquis, sei anni e attuale erede al trono, o ero praticamente una proprietà collettiva delle sue dame da compagnia.

 Non che mi piacesse badare ai mocciosi, ma tra i due, il primo era il mio compito preferito: Quisquis era un bambino tranquillo che o si impegnava nello studio della matematica, della storia o della letteratura del suo paese, o faceva giochi poco chiassosi. In qualsiasi altra situazione, avrei bollato il piccoletto come un futuro imbranato mortalmente noioso, ma in quel caso, tanto più significava che io potevo rilassarmi.

 Anche perché se volevo caos e movimento, le dame erano più che felici di accontentarmi, avendomi nominata a loro tuttofare: facevo da tramite tra le loro ordinazioni e la cucina, raccattavo gli oggetti che loro si dimenticavano in giro, pulivo il casino che si lasciavano dietro dopo spuntini e giochi, talvolta tenevo d’occhio animali domestici (una serie di esseri allucinanti che non avevo mai visto e che non avevo idea di come accudire) e figli (appartenenti invece alla comunissima razza dei marmocchi viziati, che non avevo idea di come accudire senza una buona dose di strilli e insulti, cosa ovviamente proibitissima) che loro si tiravano dietro e per cui poi perdevano interesse quando iniziavano le conversazioni.

 Niente di esattamente difficile, alla fine: la settimana di addestramento era stata più che altro per imparare la geografia del palazzo e il corretto decoro da tenere nei confronti di quelle insopportabili riccastre viziate. Quanto erano diverse dall’Imperatrice! Sembravano non avere un emerito cazzo da fare tutto il giorno, se non spettegolare, darsi alla ricreazione e agghindarsi come bambole. E nessuna di loro era incinta, per la cronaca. Non mi sorpresi nel notare che Llyra non sembrava davvero vicina a nessuna di loro: con l’unica notevole eccezione della donna alta che il giorno del mio arrivo aveva avuto il vestito azzurro, tutto ciò che rivolgeva loro erano educate frasi e domande di circostanza, limitandosi a tacere e osservarle per la maggior parte del suo tempo libero.

 Quelle tipe, invece, sembravano vivere ogni istante che passavano in sua compagnia per avere la sua attenzione, e andavano letteralmente in estasi quando ci riuscivano. Avevo la sensazione che essere oggetto di un simile comportamento fosse un fastidio atroce, e adesso che effettivamente lo sono da anni, sono in grado di confermare con decisione quest’opinione.

 Con la servitù, invece, erano orribili. Non facevano che urlare e insultarci senza motivo, l’espressione più educata che abbia mai visto in viso a una di loro era l’indifferenza, spesso e volentieri ci tiravano schiaffi od oggetti. E pretendevano che io non reagissi! Buon per il genere umano che esiste il sarcasmo.

 Onorerò qualcuna di loro, che risaltava tra le altre per vari motivi, con i miei ricordi: in primo luogo Chica, la Dama Alta, migliore amica dell’Imperatrice Llyra e sua cugina, unica che riusciva a conversare in privato con lei, signora estremamente rispettabile e massima esperta di etichetta che talvolta metteva in riga le altre dame, munita dell’unico tra i loro figli che non fosse un dannato Supay; Cllallia, originaria di una famiglia di artigiani, sposata a un nobile, e impavida soldatessa di un’immaginaria guerra contro le altre dame per i favori di Llyra; Parinya, quella che era rimasta tanto affascinata dai miei capelli, e che scoprii essere una patita di moda in generale, sempre in caccia del vestito più bello, del gioiello più elegante, della sostanza che faceva meglio alla pelle o ai capelli, e felice sfoggiatrice di tutto ciò alla minima occasione (sembrava che certe mie compagne di classe fossero riuscite a seguirmi sin lì); Qilla, mia coetanea, appena introdotta all’ambiente della corte, ogni gesto sorvegliato dalla madre perché non facesse sfigurare la famiglia, tutta l’aria di non avere la più pallida idea di ciò che stava facendo, e che il contrasto tra una naturale gentilezza e il bisogno di copiare le altre maltrattando gli schiavi faceva apparire posseduta da una doppia personalità; Tabllay, altra cugina dell’Imperatrice, che sembrava aver ereditato dagli antenati il rancore perché il suo papi non fosse finito sul trono al posto di zio Duqas, cosa che sfogava tramite una sorta di disturbo passivo-aggressivo e l’esasperato vizio e vanto dei due pargoli, una ragazzetta isterica poco più grande di me (anche lei nel circolo delle dame e tormentatrice della povera Qilla) e un moccioso di otto anni che una volta, dopo aver rotto un braccio a una serva durante un capriccio, fu preso a schiaffi da Chica e dunque causa di una faida tra le due donne (non aiutata dal fatto che Llyra impose alla famiglia di Tabllay il pagamento del medico, rendendo piuttosto chiaro da che parte stesse).

 Ce ne sono molte altre, certo, ma ricordo nomi e comportamenti, nello specifico, solo di queste qui. Il mondo sociale del palazzo non si esauriva certo con loro, però; a parte tutti i vari burocrati e governatori che on vedevano motivo di degnarmi di un’occhiata, c’erano i miei colleghi schiavi, e le donne dell’harem dell’Imperatore.

 I primi vivevano in delle specie di casermoni nell’angolo più lontano dal palazzo del ‘cortile dei lavoratori’, ben separati dagli artigiani liberi che invece erano onoratissimi per un talento tale da far loro servire la corte; donne da una parte, uomini dall’altra, coppie sposate da un’altra ancora, ti assicuro che era una bolgia di continuo accaparramento dei posti migliori (lo so cosa stai pensando e no, niente del genere, la capanna degli sposati era l’unica ad avere stanze singole).

 Per ricevere i nostri pasti, all’alba e nel primo pomeriggio, a seconda di quando fossimo impegnati e quando potessimo liberarci, potevamo introdurci nelle cucine, dove ci sarebbero stati consegnati gli avanzi dei pasti nobiliari del giorno prima, in dosi che variavano a seconda dell’umore dei cuochi. All’inizio mi lamentavo del dover mangiare scarti, poi mi resi conto che erano sempre scarti della tavola imperiale, anche così freddi erano molto meglio di quella sbobba che mi avevano rifilato gli schiavisti, e anche dei pasti da viaggio di Simay.

Questo vale, si intende, per gli schiavi comprati dalla coppia imperiale: ce n’erano altri di proprietà degli artigiani di palazzo, che vivevano con i rispettivi padroni e ad essi si affidavano per il proprio tenore di vita.

 La servitù componeva un insieme variegato: nessuno di loro era di origini propriamente Soqar, anche se molti di loro non sarebbero stati fisicamente distinguibili dai liberi e le differenze di origine si capivano solo dal diverso accento. Altri invece erano più marcatamente stranieri: alcuni avevano la pelle un po’ più giallognola invece che bruna, alcuni avevano capelli castani, c’era perfino una ragazzina bionda, chissà da dove l’avevano pescata. Io comunque riuscii a inimicarmeli tutti quanti indiscriminatamente fin dai primi giorni.

 A parte ovviamente Dylla, che feci uscire di testa con il mio atteggiamento ribelle perché era quella incaricata di domarmi, gli altri schiavi, maschi o femmine, giovani o vecchi che fossero, o erano nati in quella condizione, avevano passato tutta la loro vita a servire e quindi non erano davvero capaci di un altro punto di vista, o erano stati catturati o venduti e avevano dovuto subire tutto quel processo di adattamento prima, sacrificare le loro opinioni e la loro libertà, e la mia riluttanza a fare lo stesso li irritava, anche se all’inizio avevano provato ad essere gentili con me.

 Dal canto mio, i primi mi sembravano patetiche pecore che avevano subito il lavaggio del cervello fin dalla prima età ed erano troppo stupidi per mettersi a pensare per conto proprio, i secondi mi sembravano delle pappemolli che avevano ceduto, senza la minima forma di ribellione, e adesso erano solo gelosi del fatto che io fossi stata abbastanza forte da conservare il mio carattere.

 Non trovai nemmeno un amico o un compagno di sventure tra loro, a prescindere da chi ne fosse in colpa; e ciò mi rendeva ancora più arrabbiata con loro, perché sì, talvolta avevo bisogno di sfogarmi con qualcuno, di ammettere di essere preoccupatissima per la mia situazione e di non sapere davvero come cavarmela, che mi mancava la mia famiglia e che volevo tornare a casa …

 Sì, talvolta anch’io avevo i miei momenti di sconforto; talvolta anch’io volevo il sostegno di altri esseri umani, e quegli schiavi, escludendo il piccolo dettaglio dell’altra dimensione, erano più o meno nella mia stessa situazione, avrebbero potuto capirmi, e invece no, non ce n’era uno con cui potessi andare d’accordo. Il periodo di tempo tra quando fui venduta e quando incontrai per la prima volta Alasu fu tra i più solitari della mia vita.

 A parte questi supporti mancati, chi ho menzionato? Ah, sì, le donne dell’harem.

 Loro erano una presenza marginale nella mia vita a corte: talvolta ne vedevo qualcuna discutere con qualche nobile dall’aria importante, ma non facevano parte del seguito dell’Imperatrice, anzi, se ne tenevano ben lontane. Le vidi perfino mollare quello che stavano facendo per sparire dalla vista quando Llyra o qualcuna delle sue si avvicinava, era come se la sovrana fosse una specie di spauracchio per loro.

 Ogni tanto i nomi di qualcuna di loro facevano capolino nelle conversazioni della corte, ma sempre in termini piuttosto dispregiativi; il contegno delle dame, in quel caso, ricordava quello delle ragazzine che isolano quelle meno vistose e sicure di sé dal loro gruppo, ostentando falsa cordialità e al peggio indifferenza, e poi sparlando alle loro spalle.

 Quello che mi colpì era lo sfarzo di cui vestivano (e la pacchianeria: se l’Imperatrice e la sua corte sembravano sapere quando i gioielli diventavano eccessivi, l’harem pareva convinto della regola ‘il troppo non esiste’) e quante fossero: se vedevo una donna estranea alla corte nei corridoi di palazzo, sapevo che era una di loro, ma ne vedevo sempre di diverse in giro. Avevano ragione quegli schiavisti: all’Imperatore Manco piacevano le belle ragazze. E pensare che ero quasi diventata una di loro … provavo a immaginarmi coperta di gioielli da non riuscire più a camminare, trattata come una paria dalle dame più altolocate, costretta a sgattaiolare via senza farmi notare qualora l’Imperatrice fosse in vista, e naturalmente obbligata a farmi scopare da un tizio qualora egli ne avesse voglia: tra le due, preferivo la vita da ancella.

 L’ultimo tra i gruppi sociali con cui venni in contatto nei miei primi giorni di schiavitù fu quello degli artigiani, presso cui, come menzionato, le dame mi spedivano a fare ordinazioni o ritirare quelle già fatte, e nel loro caso, di incontri degni di nota –e che nota – ce ne sono solo due-“

 

“Mia signora?”

 Choqo trasalì. Così immersa nella lettura, non si era accorta dell’arrivo di una delle sue schiave.

 “Chiedo perdono se vi ho disturbata”

 “Non hai fatto nulla di male …” replicò la ragazza, osservando l’altra.

 Non aveva mai dato molto pensiero alle sue schiave: erano lì, semplicemente, e il loro compito era obbedire ai suoi ordini. Al massimo erano fastidiose spie pronte a riferire ai genitori ogni minimo sgarro.

 Sapeva come vivessero: non c’erano più i casermoni dei tempi di Corinna, adesso tutti gli schiavi, sposati o meno, avevano una loro casa, seppur minuscola rispetto a quella dei liberi; e gli orari dei pasti erano meglio organizzati, in orari prestabiliti un cui ricevevano una porzione fissa di cibo, più gli avanzi della tavola padronale, se capitava loro. Gliel’avevano spiegato i suoi quand’era bambina, perché un giorno potesse sorvegliare meglio le attività degli schiavi del suo eventuale marito, e lei l’aveva sempre visto come un onere per sé stessa.

 Non aveva mai pensato a come fosse fare la vita degli schiavi, costretti a fare ciò che voleva qualcun altro senza poter ribellarsi o ribattere male – un po’ come lei del resto – no, un corno, se lei si fosse ribellata ai suoi o avesse insultato qualcuno, avrebbe causato uno scandalo o preso qualche sberla, e sarebbe stata oggetto di fastidiosi pettegolezzi; uno schiavo che si fosse ribellato sarebbe stato picchiato a sangue, avrebbe avuto un drastico peggioramento in condizioni di vita già non ideali, e in caso la ribellione fosse giudicata estrema, come un tentativo di fuga, il suo padrone avrebbe potuto ucciderlo impunemente.

 E lei non ci aveva mai pensato … nel racconto di Corinna, lei sarebbe stata una delle dame viziate che trattavano gli schiavi come oggetti ambulanti e parlanti, e anzi, avrebbero preteso ulteriori limitazioni e li avrebbero trattati come valvola di sfogo emotivo quando erano di cattivo umore. Choqo l’aveva fatto tante di quelle volte, che ormai le schiave se la davano a gambe non appena la vedevano di cattivo umore … quanto doveva essere stata tremenda per suscitare una simile reazione?

 Ricordava di aver urlato come una pazza, talvolta tirato loro dietro qualche oggetto perché la lasciassero in pace … no, dannazione! Proprio lei, che si era sempre gloriata di essere diversa, una ribelle rispetto alle altre nobili … alla fine era esattamente uguale a loro, e in uno degli aspetti peggiori. Che merda di persona che era …

 “Mia signora, state bene?” chiese esitante la schiava.

 “Oh? Sì, non preoccuparti … grazie” Choqo tentò di sorridere. L’altra ragazza la guardò stupita (aveva mai sorriso a una schiava? L’aveva mai ringraziata per quello che faceva per lei? Certo che no, obbedire era il loro lavoro, ed erano così fastidiose da avere intorno!) prima di ricomporsi.

 “È arrivato lo schiavo dagli archivi con il documento che avete richiesto”

 “Cosa?”

 Choqo in seguito avrebbe pensato che avrebbe dovuto fingere di sapere di cosa la ragazza stesse parlando, ma proprio perché non lo sapeva, restò completamente di stucco. Lei non aveva chiesto nessun documento a nessun archivio! Cos’era, sua madre le aveva procurato la biografia di qualche dama esemplare come lettura edificante? Ma no, in quel caso la schiava avrebbe menzionato il coinvolgimento della padrona più anziana.

 “Non …” iniziò l’altra. “Il servo ha detto che è arrivata una richiesta formale da parte di un Sacerdote della Vita, per conto vostro. Doveva servire a una ricerca?”

 Il ragazzo che aveva visto nel primo mattino. Che gli era passato per la testa? Che documento aveva ordinato a nome suo? Cosa voleva comunicarle?

 “Oh … sì, certo. Grazie mille” Choqo si riebbe abbastanza da rendersi conto che fingere di sapere tutto era la cosa migliore da fare, prima di procedere verso l’ingresso (lasciando la schiava sempre più esterrefatta). Come preannunciato, lo schiavo era rimasto lì ad aspettare. Reggeva un involucro di tela grezza marrone, contenente quelli che erano chiaramente più libretti sovrapposti.

 “I vostri documenti, signora” mormorò l’uomo, porgendoglieli con un inchino. “Mi è stato ordinato di riferirle che tutte le scartof- le carte necessarie per il prestito sono state sistema- cioè, sono state curate da Fratello-Sorella Itzèn. Voi non avete nulla di cui preoccuparvi”

 Oh, questa faccenda era sempre più strana. Ringraziò l’uomo, guadagnandosi un sorriso sdentato, e portò i ‘documenti da lei richiesti’ nella sua stanza. Li aprì.

 Erano, per l’’appunto, cinque diversi libretti, molto, ma molto antichi, sarebbe stato necessario sfogliarli con molta cura. Che erano? Storie di criminali che si erano infilati nelle tombe, e delle punizioni che il destino aveva riservato loro?

 Aprì il primo della pila. La prima cosa che le balzò all’occhio fu l’intestazione.

 Proprietà di Chica Guchanii, moglie di Baquis Warayi. Se siete persone di rispetto, non leggete oltre.

 

 

 

 

Ladies & Gentlemen,

l’avevo detto che il prossimo aggiornamento sarebbe arrivato a breve! Intanto, siamo tornati al punto di vista di Corinna, che bene o male – più male che bene – cerca di adattarsi alla sua nuova vita. Nel prossimo capitolo invece, come probabilmente avrete intuito, sarà presentato il terzo punto di vista di questa storia.

Nel frattempo, cosa ne pensate dell’Imperatrice Llyra? E di tutta la corte che la circonda? Ringrazio per tutte le risposte, adoro leggere le varie opinioni che i lettori hanno dei personaggi. Grazie per essere arrivati fin qui!

  
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