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Autore: IndianaJones25    10/08/2017    3 recensioni
Di ritorno da un’avventura a Ceylon, Indiana Jones può finalmente iniziare un nuovo anno accademico. Ma, proprio quando pensa che per qualche tempo le lezioni universitarie saranno la sua quotidianità, il celebre archeologo riceve un nuovo incarico: quello di ricostruire lo Specchio dei Sogni, l’unico oggetto in grado di condurre al Cuore del Drago, un antico artefatto che non deve cadere nelle mani sbagliate. Così, affiancato dal suo vecchio amico Wu Han e da un’affascinante e misteriosa ragazza, Jones si vedrà costretto a intraprendere un nuovo e rocambolesco viaggio attorno al mondo, in una corsa a ostacoli tra mille difficoltà e nemici senza scrupoli…
Genere: Avventura, Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harold Oxley, Henry Walton Jones Jr., Marcus Brody, Wu Han
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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6 - SOTTO LA MOSCHEA

   Istanbul, Turchia

   I raggi del sole splendente facevano rilucere di mille colori e sfavillii i tetti delle case e degli antichi palazzi di quella che, fino a pochi anni addietro, era stata una millenaria capitale imperiale, prima bizantina e, poi, ottomana, ricca di storia antichissima e, a tratti, ancora sconosciuta e misteriosa.
   Fu il grido del talacimanno, che si levò alto e stentoreo da un minareto, recitando l’antica formula per chiamare i fedeli islamici alla preghiera, a risvegliare Indiana Jones.
   La luce che entrava dalla finestra aperta, dopo chissà quanto tempo di buio assoluto, gli ferì gli occhi, facendoglieli dolere; ma quel dolore non fu nulla rispetto alle fitte lancinanti che provò in capo non appena ebbe ripreso conoscenza.
   «Uhi…» bofonchiò, rimettendosi in piedi.
   Fu solo nel fare questo che si rese conto di avere entrambe le braccia incatenate; voltandosi un poco, vide che le catene, partendo dai suoi polsi, terminavano in due possenti anelli incastonati nella parete alle sue spalle. Inoltre, capì di indossare solamente i pantaloni e la camicia; il cappello, le scarpe e tutto il resto della sua roba gli erano stati tolti.
   La nebbia che gli offuscava i sensi sparì immediatamente, lasciando il posto ad un’improvvisa lucidità. Si guardò attorno. Era prigioniero all’interno di un’ampia sala, luminosa ed ariosa, completamente disadorna; ma la foggia delle pareti, tinteggiate di un colore pallido, ed il soffitto dalla caratteristica forma a cupola e coperto di motivi arabescanti, gli fece comprendere di trovarsi in una qualche località orientale. Un nuovo ed alto grido da parte del muezzino lo confermò in questa sua convinzione.
   Dal suo punto di vista, poteva vedere un’ampia finestra priva di vetri, oltre la quale, alzandosi un poco sulle punte dei piedi, riuscì a scorgere, stagliata nitidamente sull’orizzonte, un’immagine per lui famigliare: l’inconfondibile profilo di Santa Sofia, uno dei maggiori simboli della città.
   «Istanbul?» borbottò. «Perché diamine mi hanno portato qui?»
   In quel preciso momento, gli parve di notare, per un attimo solamente, una figura nera affacciarsi al lato superiore della finestra, ma forse fu solo un’ombra o il frutto della sua immaginazione, poiché scomparve subito. E, comunque, immediatamente dopo ebbe ben altro a cui pensare, dato che la porta della sua prigione si aprì per lasciare entrare il tedesco dal volto sfigurato.
   «Ah, vedo che finalmente s’è svegliato. Cominciavo a credere che volesse dormire in eterno e, purtroppo, non ho tanto tempo da dedicarle» furono le prime ed untuose parole proferite dallo sgradito nuovo venuto.
   «Dannazione, ancora lei» borbottò Jones, tirando le catene per cercare di scardinarle dagli anelli. «Si può sapere chi diavolo è?»
   «Le consiglio di risparmiare le forze» rispose con sadismo il tedesco, alludendo al vano tentativo dell’archeologo di riuscire a liberarsi. «I nostri interrogatori possono essere molto duri. E le ricordo che, qui, sono io che faccio le domande, non lei. Ma non ho alcuna difficoltà a risponderle, dottor Jones. Sono il maggiore Albrecht Von Beck, delle SS, assegnato alla divisione Ahnenerbe. Ho ricevuto un delicato compito dai miei superiori, ma a quanto pare lei si è messo di mezzo.»
   «A Ceylon, dico bene?» brontolò Jones.
   «Proprio così, dottor Jones. Ma non solo. E se anche il nostro incontro sull’isola fosse stato un caso, come credo che sia, altrettanto non può essere detto riguardo a quello di Praga! Chi l’ha mandata alla ricerca del pezzo dello Specchio dei Sogni?»
   «Lei è completamente fuori strada, se crede che io mi sia recato a Praga alla ricerca di un pezzo d’antiquariato. Ero lì in vacanza, ecco tutto, e voi mi avete rapito senza motivo» replicò Jones, con un sorrisetto.
   «Non cerchi di prendermi in giro!» gridò Von Beck. «Sappiamo bene entrambi qual’era lo scopo della sua visita laggiù. Il suo senso dell’umorismo da americano, gliel’ho già detto una volta, è sempre fuori luogo, e non fa ridere proprio nessuno. Ma non credo che lei sia così intelligente da essersi messo da solo sulle mie tracce. Qualcuno l’ha inviata! Chi? Me lo dica!»
   «Ehi, ehi, non c’è bisogno di scaldarsi tanto. Perché non mi libera e non andiamo a berci qualche cosa insieme? Così, tra un bicchiere e l’altro, potrei raccontarle qualcosina di me. Dove sono nato, cosa mi piace fare nella vita, per chi ho votato alle ultime elezioni, cose così.»
   Un ghigno perfido si allargò sul volto deturpato di Von Beck.
   «Liberarla? Davvero crede che potrei lasciarla andare via libero, dottor Jones? Lei è mio, adesso, e le assicuro che lo sarà per sempre. E vedo che la voglia di scherzare non le passa proprio mai. Bene, bene. Non vuole, dunque, rispondere alla mia domanda? Non mi rivelerà il nome? Guardi che lo so che si trovava a Praga per recuperare un terzo dello Specchio dei Sogni, l’unico strumento capace di condurre all’entrata della cripta del primo imperatore cinese, dove è conservato il Cuore del Drago!»
   «Ha una bella immaginazione, glielo concedo. Ma non le rivelerò proprio nulla, mio caro, per il semplice fatto che non ho niente da dirle» rispose Jones.
   «Lei lo farà, dottor Jones, ne stia certo. Malauguratamente per lei, non sarà altrettanto facile che con me. Le domande che mi interessano gliele ho già poste, adesso starà a lei decidere quando rispondere. Purtroppo, altre questioni, molto più importanti della sua brutta faccia, richiedono la mia attenzione altrove. Ma non si sentirà solo: i miei uomini le terranno compagnia e posso assicurarle che lei risponderà ad ogni mio quesito, dopo aver passato qualche oretta insieme a loro. Le farà male, dottore. Molto male. Ma non me ne sono ancora andato e possiamo, dunque, fare ancora in tempo a risparmiarle quell’inutile sofferenza. Mi basta solo un nome, uno solo. Vuole essere così gentile da collaborare di sua iniziativa o è proprio intenzionato a patire tremendi tormenti?»
   «Vattene all’inferno» brontolò l’avventuriero.
   «È quello che farò. Ma, quando ci arriverò, lei ne sarà già stato ospite fisso da lungo tempo. Addio, dottor Jones.»
   Von Beck si volse ed uscì dalla porta, richiudendosi l’uscio alle spalle.
   Contemporaneamente, una figura agile e silenziosa, vestita completamente di nero, saltò all’interno della stanza, passando dalla finestra ed atterrando a pochi centimetri di distanza dall’archeologo. Jones la guardò stupito, perché, incredibile a dirsi, era la medesima persona che aveva veduto sul tetto a Praga, scambiandola con uno scassinatore. Adesso, però, c’era molta più luce e, nonostante il viso coperto, la riconobbe immediatamente.
   «Mei Ying!» esclamò, senza riuscire a celare il proprio sbigottimento.
   La ragazza si sfilò il fazzoletto dal viso e fece un sorrisetto.
   «A quanto pare, ci siamo rivolti al dottor Jones sbagliato» constatò. «Si è lasciato sfuggire il secondo pezzo dello Specchio e si è fatto mettere nel sacco dai tedeschi.»
   «Non lasciarti ingannare da questo spiacevole contrattempo, dolcezza» replicò Jones. «Si è trattato di un… ehm… incidente di percorso.» Era così che li chiamava, no? Di solito, a sottrargli il manufatto, era Belloq, stavolta erano stati il tedesco ed i suoi scagnozzi, ma la sostanza, alla fine, non cambiava affatto.
   «Io non direi affatto incidente di percorso, dottor Jones, né tantomeno contrattempo» disse Mei Ying, rimanendo imperturbabile di fronte al modo in cui l’archeologo l’aveva chiamata. «Non possiamo permetterci di farci battere un’altra volta.»
   «E quindi? Hai intenzione di lasciarmi qui? I tedeschi non hanno idea di dove cercare l’ultimo pezzo dello Specchio e forse, se unissimo le forze…» tentò Jones, che cominciava a credere che Mei Ying fosse stata inviata fin lì da Kai solamente per comunicargli la rottura del loro patto.
   «Non ne sia così certo, dottore» lo interruppe lei. «I tedeschi stanno scavando un’intera città, sotto Istanbul.»
   «I nazisti hanno trovato il palazzo di Belisario?» esclamò Jones, la cui curiosità accademica fu ampiamente stuzzicata e stimolata, nonostante la sua precaria situazione. «Non ci credo!»
   Gli era capitato, durante i suoi studi, di imbattersi in alcune storie riguardanti quel leggendario palazzo; secondo certi studiosi, venne costruito durante il periodo in cui la città di Bisanzio fece atto di fedeltà ad Alessandro Magno. Più che di un palazzo, si trattava di una vera e propria città sotterranea, con case, templi, strade e fontane, alimentate da un acquedotto, costruita per resistere meglio nel caso che i Macedoni, cambiando parere, avessero tentato di scalfire l’autonomia che la città-stato era comunque riuscita a mantenere. Si diceva che fosse un vero capolavoro artistico, ingegneristico ed architettonico, tanto che in parecchi preferissero vivere lì piuttosto che nella città superiore. In seguito, tuttavia, agli inizi del I secolo a.C., l’ingresso alla città sotterranea venne sigillato da un tremendo terremoto, seppellendo al suo interno tutti gli abitanti che vi si trovavano in quel momento. Il ricordo della metropoli sepolta perdurò, sopravvivendo ai secoli sotto forma di leggenda, tramandata oralmente e, più tardi, anche in alcuni testi scritti; nel medioevo, la storia venne un po’ modificata, conducendo alla nascita della leggenda del palazzo sotterraneo edificato dal comandante bizantino Belisario il quale, per sfuggire alla cattura da parte dell’imperatore Giustiniano che, geloso ed invidioso di lui, avrebbe voluto farlo accecare, si sarebbe fatto costruire in segreto quella reggia celata nel sottosuolo, per vivervi nascosto ed al sicuro.
   Jones, ovviamente, non aveva mai dato alcun credito a quella storia: la riteneva, alla pari del mito di Atlantide, una semplice favoletta perdurata durante i secoli e giunta quasi indenne, con qualche distorsione, fino al XX secolo. D’altra parte, la millenaria storia della triplice città di Bisanzio - Costantinopoli - Istanbul aveva fatto sì che molti storici ed archeologi si interessassero alle sue vestigia, eppure non erano mai emerse evidenze dell’esistenza di un’intera città sotterranea.
   «Dovrebbe crederci, invece, dottor Jones, perché è esattamente lì che i tedeschi sono al lavoro» confermò Mei Ying. «L’ultimo pezzo dello Specchio, infatti, venne nascosto dal terzo monaco nelle profondità della città perduta, di cui egli riuscì a scoprire l’ingresso.»
   «Ora capisco la fretta di Von Beck. Ma perché mi stai raccontando tutte queste cose?» domandò Indiana Jones.
   «Perché, dottor Jones, anche questa volta toccherà a lei recuperare il pezzo dello Specchio» rispose Mei Ying, portandosi una mano alla tasca dei pantaloni. Ne estrasse una chiave, procuratasi chissà come, e la utilizzò per sciogliere le catene che imprigionavano Jones. Finalmente libero, l’archeologo poté massaggiarsi i polsi e le tempie che gli dolevano tremendamente, oltre che stiracchiarsi le membra intorpidite.
   Poi, però, gli sorse un sospetto: ancora una volta, quindi, avrebbe dovuto occuparsi da solo dell’intera faccenda?
   «Tu non vieni?» le chiese Jones.
   «Io l’accompagnerò fino all’ingresso degli scavi, poi dovrà darsi da fare da solo. Come a Praga, io la terrò d’occhio di nascosto. Farò in modo che le capitino meno incidenti possibili: sono capace di agire nell’ombra.»
   «Be’, dolcezza, a Praga non hai fatto nemmeno tu un gran bel lavoro, allora» replicò Jones. «I tedeschi si sono presi il pezzo di Specchio dei Sogni che avevo appena recuperato.»
   «Lo riprenderemo» rispose Mei Ying, abbassando lo sguardo con mortificazione. «E riconosco anche i miei personali errori, d’accordo. Ma ne discuteremo più avanti. Adesso dobbiamo andare.»
   «Avrei un mucchio di domande da farti: per esempio, cosa c’entrano in tutto questo i nazisti? Come diavolo hanno fatto a sapere dello Specchio?»
   «Non ora, dottor Jones. Il tempo stringe. Se il terzo pezzo dello Specchio cadesse nelle loro mani, per noi sarebbe la fine. Recupererebbero il Cuore del Drago, capisce?»
   «E come? Se non sbaglio, loro hanno un solo pezzo. Gliene manca uno, che è in mano al comandante Kai» le ricordò Jones. «Diciamo che, quindi, siamo in parità, per il momento.»
   «Giusto… ma ora, per favore, mi segua!»
   A passo rapido, Mei Ying si diresse verso la porta da cui, poco prima, era uscito Von Beck, e la socchiuse, gettando un’occhiata al di là di essa.
   «Via libera» comunicò. «Non hanno lasciato guardie.»
   «Si fidano un po’ troppo, questi tedeschi» borbottò Jones, seguendola.
   Non appena ebbero varcato l’uscio, si ritrovarono in un corridoio alla cui estremità si trovava un’apertura che doveva dare sull’esterno, a giudicare dalla brillante luce solare che vi penetrava; poco fuori dalla porta, invece, sul pavimento, erano ammucchiati gli effetti personali che erano stati tolti a Jones: il suo cappello, il giubbotto di pelle, le scarpe, il cinturone con la fondina e la pistola, la borsa e, soprattutto, la sua inseparabile frusta.
   «Ah, chi si rivede!» fece Jones, con soddisfazione.
   «Si sbrighi» gli intimò Mei Ying a mezza voce, senza celare la propria impazienza.
   «Calmati, bellezza, ché non posso entrare in quel palazzo pieno di tedeschi senza nemmeno indossare le scarpe» brontolò Jones. «E non vado da nessuna parte privo di frusta e cappello.»
   Velocemente, Jones indossò nuovamente scarpe e giubbotto, si legò il cinturone alla vita, vi assicurò anche la frusta, e si fece passare la borsa a tracolla; la aprì per controllare che tutto fosse in ordine, e constatò con piacere che non vi era stato asportato nulla. Evidentemente, i tedeschi volevano far sparire tutta la sua roba, compreso lui stesso, dopo averlo interrogato. Immaginò che avrebbero avuto l’intenzione di riservargli un rogo notturno innaffiato con molta benzina, o qualcosa del genere. Allegra prospettiva. Adesso, però, sarebbe stato lui a regalare loro una bella sorpresa.
   Infine, ritrovando il suo solito ghigno e quasi dimentico dei dolori che sentiva ad ogni parte del corpo, si calcò nuovamente il cappello sulla testa.
   «Possiamo andare» disse.
   «Alla buon’ora» sbuffò Mei Ying. «Le ho già detto che il tempo stringe. Non vedo il motivo di vestirsi da vaccaro, sinceramente. Non stiamo andando a domare un branco di bufali, dobbiamo entrare in segreto in uno scavo archeologico condotto da una superpotenza mondiale.»
   «Lo so, lo so. Ma, se io sono vestito da vaccaro, cosa dovrei dire di te, che sei conciata come l’uomo nero?» borbottò Jones.
   Si avviarono nuovamente, percorrendo a grandi passi il corridoio, cercando di fare il meno rumore possibile; avevano quasi raggiunto l’ingresso quando, proprio lì, nella luce del giorno, si stagliarono due possenti uomini completamente velati da ampie vesti bianche e nere, col volto coperto da ampi fazzoletti del medesimo colore ed armati con robusti spadoni alle cinture. Probabilmente, si disse Jones, erano gli incaricati del suo interrogatorio. Fu contento di avere le mani libere.
   I due levarono un grido ed estrassero le scimitarre dalle cinture, gettandosi verso di loro. Jones fece un paio di passi all’indietro e, sfilatosi in fretta la frusta dalla cintura, la scoccò in avanti, avvolgendola attorno alle mani di uno dei due, che fu costretto a lasciare cadere la propria arma. Mei Ying, invece, con un salto formidabile, che doveva sfidare le leggi gravitazionali, riuscì a portarsi alle spalle dell’altro uomo ed a colpirlo con un calcio alle spalle, atterrandolo.
   Jones, con uno strattone, tirò verso di sé l’uomo ancora prigioniero della frusta e lo colpì violentemente al viso con un pugno; ma quello, anziché perdere l’equilibrio, riuscì a mantenersi in piedi ed a rispondergli con un calcio negli stinchi. Poi, liberatosi della frusta, gli portò le mani al collo, nel tentativo di strozzarlo. Tuttavia, senza farsi scoraggiare, l’archeologo gli piantò una testata sul naso, fratturandoglielo. Così colpito e sanguinante, l’uomo cadde all’indietro, lasciandolo andare; sul pavimento, venne messo definitivamente fuori gioco dall’avventuriero con un paio di calci.
   In quanto a Mei Ying, s’era liberata molto più facilmente del suo avversario ed ora, stesolo a terra, lo stava rapidamente spogliando.
   «Ehi, ma che diavolo fai, adesso?» le chiese Jones, non appena ebbe ritrovato fiato.
   «Quello che farà anche lei, dottore» rispose la ragazza. «Dobbiamo indossare gli abiti di questi uomini, per mascherarci e non farci riconoscere. Così, avremo più probabilità di giungere agli scavi senza incorrere in altri intoppi.»
   «Giusto» brontolò Jones, dandosi immediatamente da fare.
   Tolse immediatamente all’uomo disteso sul pavimento la larga veste che indossava e se la infilò sopra i propri abiti; puzzava atrocemente, come se quel vestito non fosse mai stato lavato in tanti anni. L’idea di dover infilare in testa anche la kefiah dell’uomo, certo piena di pidocchi ed altri insetti e che, infatti, appariva completamente unta e sporca, non gli sorrideva affatto; ma, dato che la sua compagna era già pronta, non perse altro tempo. Tolto il proprio cappello, che piegò ed infilò nella cintura dei pantaloni, si sistemò alla meglio quell’orribile straccio; da ultimo, legò in vita la cintura di stoffa sottratta all’uomo e vi assicurò la pesante scimitarra.
   «Bene» constatò Mei Ying, gettandogli uno sguardo. «Dovrebbe andare. Adesso somigliamo abbastanza agli uomini assunti dai tedeschi da poter sperare di passargli in mezzo inosservati.»
   «Ce ne sono parecchi?» chiese Jones.
   «Ho scoperto che hanno assoldato un gruppo di spietati mercenari arabi» spiegò Mei Ying, rimettendosi in cammino. «Non brillano per intelligenza, ma sono tutti grossi come questi due e, per di più, sono in tanti.»
   «Va bene… ah, dolcezza» aggiunse Jones, «se qualcuno ci fermasse, lascia parlare me. Non tanto perché io parli perfettamente sia il tedesco sia l’arabo, ma soprattutto perché credo che si insospettirebbero se da sotto l’abito del possente e truce assassino giungesse una voce femminile dolce e melodiosa come la tua.»
   «Lo credo anch’io, nonostante io riconosca la mia superiorità nei suoi confronti, dottor Jones, per cui sarebbe meglio che parlassi solo io.»
   Indiana Jones avrebbe avuto qualche cosa da dire, a quella piccola presuntuosa asiatica, ma decise di lasciare perdere; primo, perché lei lo aveva appena liberato da quella che, altrimenti, sarebbe potuta risultare la sua morte certa. In secondo luogo, poi, perché la situazione attuale era troppo pericolosa e delicata per mettersi a questionare su tali faccende. Certo, sapendo a quali pericoli stava andando incontro, avrebbe potuto benissimo decidere di mollare tutto e tornarsene a casa, ma l’idea di vedere con i propri occhi il leggendario palazzo e, più tardi, di essere il primo a penetrare nella cripta di Qin, lo stuzzicava ben oltre la possibilità di rischiare la propria vita.
   Raggiunsero la fine del corridoio e, prima di uscire, spiarono all’esterno; alcune scalette conducevano su un ampio cortile, lastricato con pietre chiare, dove non si trovava nulla all’infuori di un vaso contenente erbe secche. Per cui, procedettero oltre.
   «Dove andiamo, adesso?» domandò Jones.
   «Lei mi segua, conosco la strada» rispose Mei Ying, incamminandosi verso il lato opposto del cortile, dove si trovava un cancello; vi erano quasi arrivati quando, dalla direzione opposta alla loro, sopraggiunse un altro arabo, vestito con abiti praticamente identici a quelli che avevano appena indossato, ma con una mitraglietta in spalla anziché una spada nella cintura.
   «Ci siamo» pensò Jones. «O la va o la spacca.»
   Andò. L’uomo passò loro in parte senza degnarli di un solo sguardo e proseguì verso la porta da cui erano appena usciti. Jones e la sua compagna si scambiarono un rapido sguardo d’intesa, senza alcun bisogno di parlare: l’uomo avrebbe certamente rinvenuto gli altri due, stesi a terra e spogliati. Era meglio allungare il passo, affrettandosi ad allontanarsi di lì e mischiandosi ad altri mercenari tutti uguali, prima che potesse dare l’allarme.
   Non appena ebbero varcato il cancello, quindi, si lanciarono in corsa sfrenata, la ragazza davanti, Jones un pochino indietro. Si ritrovarono a passare per stretti vicoli lastricati, dove i raggi del sole faticavano ad arrivare e ad attraversare cortili tali e quali a quello da cui erano usciti poco prima.
   Infine, giunti in prossimità dell’imbocco di una piazza, si fermarono. Mantenendosi nel buio del vicolo in cui si trovavano, entrambi un poco affannati per la corsa, tesero le orecchie. Da un punto distante, alle loro spalle, giungevano delle grida furenti, e videro passare di gran carriera alcuni mercenari, accompagnati da un uomo che doveva certamente appartenere all’esercito tedesco. Non c’era alcun dubbio che la fuga di Jones fosse ormai stata scoperta.
    Invece di unirsi alla ricerca, i due rimasero addossati al muro, finché un consistente gruppo di arabi, tutti vestiti con la veste bianca e nera e pesantemente armati, non fu passato oltre. Rimasti soli, Mei Ying accennò con il capo alla piazza selciata in pietra verde che si apriva di fronte a loro; alla sua estremità, si scorgeva un’antica moschea, affiancata da due minareti, con le pareti dipinte di un tenue azzurro, decisamente sbiadito e scrostato in più punti. Davanti all’ingresso, spalancato, stava seduto un altro mercenario, apparentemente addormentato.
   «Ecco» disse Mei Ying, indicando in direzione della moschea. «Quello è l’ingresso degli scavi.»
   «La moschea?» borbottò Jones. «Credevo stessimo cercando una città sotterranea di età ellenistica, non una moschea costruita durante l’impero ottomano.»
   «È così, infatti» spiegò Mei Ying, con la sua solita impazienza malcelata. «La moschea fu costruita al posto di una chiesa che, originariamente, andò a prendere il posto di un tempio antico dedicato al dio Poseidone, che era considerato il patrono della città sotterranea. Il tempio venne eretto quando la città fu sepolta, per calmare la furia del dio, signore non solo del mare, ma anche dei terremoti, affinché egli non riservasse la stessa sorte della città inferiore a quella superiore. I tedeschi, in qualche maniera, sono riusciti a scoprire la storia della moschea e, dopo averla acquistata dal governo turco, l’hanno utilizzata per iniziare i propri scavi.»
   «Quindi, l’ingresso del palazzo di Belisario è lì dentro?» borbottò Jones, dubbioso.
   «Non ha che da entrare ed accertarsene con i suoi occhi, dottor Jones» rispose la giovane.
   «È quello che farò. Tu non vieni?»
   «Io sarò la sua ombra, dottor Jones, ma né lei né nessun altro riuscirà a scorgermi. Sono stata addestrata ad agire di nascosto, a saper sfruttare ogni singolo recesso per rendermi invisibile. Ma le mie affinate e raffinate tecniche non funzionano, in sua compagnia. Lei è rozzo e grossolano, un marcantonio sempre pronto a fare più danno che altro, non certo in grado di stare al mio confronto.»
   Adesso, Indiana Jones cominciava davvero a perdere la pazienza.
   «Senti un po’, piccoletta, perché, se sei così brava, non ci vai tu, a recuperare il tuo dannato pezzo di Specchio?» domandò con rabbia.
   «Perché, dottor Jones, c’è bisogno anche di lei, in questa faccenda» rispose Mei Ying, senza badare alla sua reazione. «Dobbiamo essere almeno in due ad agire, in maniera che, se per uno le cose si mettessero male, all’altro rimarrebbe comunque qualche possibilità di riuscita.»
   «Bah» borbottò Jones. «E ad ogni modo, come credi che io possa entrare là dentro senza essere visto?»
   «Per tre validi motivi, direi» rispose l’altra. «Prima di tutto, buona parte degli uomini sono sparpagliati in giro per la città vecchia a cercarla; di certo, non si aspettano di trovarla qui, in un luogo che lei non dovrebbe affatto conoscere: molto probabilmente, terranno d’occhio tutte le vie per il porto o per il consolato americano, dove sarebbe facile credere che lei possa decidere di dirigersi per trovare soccorso. In secondo luogo, lei è vestito come loro, quindi potrà più facilmente mimetizzarsi e non essere riconosciuto. Terzo, infine, ma non meno importante, sono riuscita a narcotizzare l’acqua della borraccia dell’uomo all’ingresso, che adesso dorme della grossa.»
   «Oh, be’, allora…» bofonchiò Jones. «Be’, allora, io vado. O c’è altro che dovrei sapere?»
   «Niente altro, o almeno per adesso. Le spiegherò il ruolo dei nazisti quando avrà recuperato l’ultimo pezzo dello Specchio, sempre che ci riesca, o che ne esca vivo» disse in tutta franchezza e naturalezza la bella cinese.
   «E sia» rispose Jones. «Ci rivedremo, dolcezza, te lo posso assicurare.»
   Detto questo, Indiana Jones si avviò, uscendo dall’oscurità del vicolo e passando nella luce della piazza. Si sentiva esposto, quasi si aspettava di sentire gridare da un momento all’altro, ma non rallentò, continuando ad incedere con ostentata sicurezza.
   La moschea s’era fatta molto più vicina; da dove si trovava adesso, poteva udire il sommesso russare dell’uomo che sarebbe dovuto essere di guardia all’ingresso.
   Giunto nei suoi pressi, lo degnò solamente di un’occhiata, per accertarsi che non fingesse di essere addormentato; poi, penetrò nella penombra della moschea.
   Era un luogo che incuteva timore e rispetto e che non nascondeva affatto le sue tre anime, pagana, cristiana e islamica: le colonne, che correvano attorno alla struttura circolare dell’interno, erano chiaramente di origine greca, con capitelli di ordine corinzio; sul soffitto, solo in parte smaltato, si potevano ancora scorgere i dorati mosaici bizantini, recanti le immagini dei quattro evangelisti; e, dallo stesso soffitto, pendevano medaglioni con riportati versetti del Corano, gli stessi che erano stati inscritti lungo tutto il bordo del muro.
   Ma a colpire maggiormente l’attenzione, era senz’altro il pavimento dell’edificio, non perché fosse ben costruito; il fatto era che non c’era più alcun pavimento.
   «Mi prenda un colpo, Cristo santo!» pensò Jones. «Ma allora è vero!»
   Là dove avrebbe dovuto esserci la pavimentazione della moschea, infatti, c’era una larga voragine che scendeva nella profondità della terra; e dal suo punto d’osservazione, grazie ai potenti riflettori che erano stati montati al di sotto, si potevano benissimo scorgere antichi edifici ed una monumentale statua, che da lì non gli riuscì di identificare bene, solamente in parte crollata.
   Sotto la moschea, c’era davvero la città perduta, il leggendario palazzo di Belisario.

 
   
 
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