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Autore: Amor31    11/08/2017    1 recensioni
In procinto di partire per il Giappone, Jean Kirschtein non ha idea di cosa lo aspetta.
Solo giunto in Oriente capirà cosa voglia dire custodire un segreto.
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- In sottofondo “Hua Sui Yue” di V.K. -
- Originariamente scritta per la Jeankasa Week 2015, prompt: AU -
- Storia vincitrice del contest “Pagine della nostra Storia” indetto da _Akimi sul Forum di EFP -
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jean Kirshtein, Mikasa Ackerman
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Petali di ciliegio

 

La carrozza si fermò nel bel mezzo di una delle strade più trafficate della città. Erano le undici di un martedì mattina e il fermento urbano catturò particolarmente l’attenzione del giovane straniero venuto da lontano; si guardò intorno attraverso i vetri opachi del mezzo su cui viaggiava e poi scese, correndo il pericolo di essere travolto da un carretto di legno trasportante ortaggi a volontà.
-Vanno al mercato-, disse il suo accompagnatore in un francese praticamente perfetto.
-Non è tardi?-.
-Vi sbagliate. Durerà fino in tardo pomeriggio ed è normale vedere i contadini delle campagne più lontane arrivare a quest’ora. Non siatene sorpreso-.
-In Francia sarebbe considerato insolito-, sorrise lui. -Ma sapete cosa vi dico? Forse le cose vanno molto meglio qui che nel mio Paese-.
-Aspettate a dirlo-, ribadì l’altro. -Il Giappone ha mille pregi, ma non meno difetti-.
Era strano ascoltare quell’obiezione da un nativo del posto. Il ragazzo era arrivato solo due giorni prima, ma fino a quel momento aveva apprezzato ogni aspetto di quel magnifico Stato orientale.
-Quanto è grande questo distretto?-, chiese all’uomo, notando il via vai di decine di persone che si erano riversate per strada.
-È uno dei principali-, spiegò il cocchiere. -Dov’è che dovete andare?-.
-Alla comunità di Gion Kobu. Sapete indirizzarmi?-.
-Se salite di nuovo in carrozza, vi ci accompagno subito-, disse quello. -Kyoto è gigantesca e correreste il rischio di perdervi. Non dista molto da qui, a dire il vero, ma vi trovereste in difficoltà se chiedeste informazioni ai passanti. La maggior parte delle persone non capisce una parola di francese-, rise.
-Andiamo, allora-, Jean Kirschtein batté le mani, prendendo posto sui sedili posteriori del mezzo. -Devo parlare urgentemente con una persona e non posso aspettare oltre-.

 

***

 

Il cavallo rallentò il passo e si arrestò in una stradina secondaria circondata da case protette da alti steccati di legno. Avevano impiegato poco meno di mezz’ora per raggiungere quell’angolo della città e adesso a Jean parve di ritrovarsi in un luogo completamente diverso: non c’era alcun vociare, nessuno sciame di gente dal passo veloce diretta al mercato. Il quartiere era avvolto nel silenzio.
-Siamo arrivati-, lo informò il cocchiere, mentre il ragazzo scendeva di nuovo e gettava un’occhiata tutt’intorno. -Quella di fronte a voi è l’entrata. Era della famosa okiya che stavate parlando, giusto?-.
Il Francese annuì: -Esatto. Finalmente sono arrivato-.
-Volete che vi accompagni?-, domandò l’uomo. -Come vi ho detto prima, non sarà facile incontrare qualcuno che parli la vostra lingua. Dovete innanzitutto incontrare l’okasan, se volete accedere all’edificio, e non credo che capirebbe ciò che le state dicendo-.
-Vi offrite come interprete? Dovrò aggiungere parecchi yen in più alla vostra paga-, sorrise Jean.
-Pattuiremo in seguito la somma-, tagliò corto il cocchiere. -Seguitemi, adesso-.
L’accompagnatore lo precedette oltre la soglia della casa a due piani che si erigeva dritta di fronte a loro; un piccolo sentiero di ciottoli portava all’ingresso della costruzione, attorniata da lanterne di carta rossa su cui erano dipinti i tipici ideogrammi giapponesi.
-Kyoka?-.
-Kitaru, kimasu!-.
Il cocchiere si tolse le scarpe e Jean lo imitò, poggiandole accanto alla porta. Quando entrambi rialzarono lo sguardo, si videro accolti da una corpulenta donna di mezza età dall’acconciatura elaborata e dal lungo kimono blu che con piccoli gesti fece loro segno di accomodarsi in una stanza adiacente.
Si sistemarono tutti e tre in una cameretta dalla pianta quadrata al centro della quale stava un basso tavolino di legno attorniato da cuscini su cui andarono a sedersi. Chiusa la porta a scorrimento che separava quell’ambiente dal corridoio d’ingresso, la donna si inginocchiò e poggiò con calma le mani sulle proprie gambe, chiedendo qualcosa di incomprensibile al suo conterraneo. Il cocchiere tradusse per Jean, completamente spaesato: -Sayuri-san chiede se siete qui per avere informazioni sulla cerimonia di domani sera o se volete intrattenervi con le ragazze della casa-.
-No, no-, scosse la testa il ragazzo. -Ditele che sono qui per lavoro. Sono stato indirizzato dal circolo di pittori di cui faccio parte-.
L’uomo tradusse e la donna parlò di nuovo.
-Vi domanda il vostro nome e il Paese da cui venite-.
-Jean Kirschtein, nato a Marsiglia, in Francia, ormai ventitré anni fa. Sto finendo di studiare Arte presso l’Università di Parigi, ma ho intrapreso un lungo viaggio per mare con il solo scopo di conoscere le forme figurative in uso in Giappone-.
Il cocchiere ripeté meccanicamente e la donna, Sayuri, aggiunse qualcos’altro.
-Avete qualche legame con un certo Vincent? È stato qui l’anno scorso e ha ritratto una delle mie ragazze in abiti tradizionali. Ricordo che fosse Olandese, ma avrebbe fatto ritorno a Parigi, da cui era partito-.
Gli occhi di Jean si illuminarono a sentire quelle parole uscire dalla bocca del suo accompagnatore: -Vincent!-, esclamò. -Lo chiamate come se fosse un vostro familiare, ma è il più grande artista di quest’epoca! Stiamo parlando di Van Gogh, la mia maggior fonte di ispirazione! Sì, sì, proprio lui-, annuì ancora. -I suoi quadri influenzati da persone e paesaggi giapponesi mi hanno così colpito da costringermi a visitare questo straordinario Paese. Ed è per questo che sono qui oggi, per chiedervi aiuto, Sayuri-san-.
Vide il volto della donna corrucciarsi e si sentì domandare cosa volesse.
-Vorrei cimentarmi anch’io in un ritratto-, spiegò velocemente il ragazzo. -Di solito preferisco dedicarmi all’analisi della natura, ma credo che l’immagine che noi Europei abbiamo della vostra cultura sia completamente diversa dalla realtà, non è vero? Ecco perché mi piacerebbe calarmi interamente nell’atmosfera in cui vivete. Vorrei partecipare a cerimonie particolari e conoscere meglio le vostre usanze; inoltre, vorrei chiedervi se sia possibile scegliere una tra le ragazze che vivono in questa okiya per abbozzare il quadro che esporrò in Francia-.
Il cocchiere tradusse e la donna diede la propria risposta, sollevando un sopracciglio con fare dubbioso: -Per quanto tempo resterete a Kyoto?-.
-Il tempo necessario per finire il dipinto-.
-Avete fretta di tornare in Europa?-.
-Mi è stato detto di fare con calma. A casa sanno bene che sono qui per studio e lavoro; non ho alcuna pressione-.
-Bene-.
Sayuri-san inspirò profondamente, come se non fosse convinta di far bene a parlare di ciò che voleva rivelare: -A partire da domani sera si terrà la cerimonia della Miyako Odori. È una tradizione che si ripete di anno in anno in questo periodo, tra la fine di marzo e l’inizio di aprile, per celebrare la fioritura degli alberi di ciliegio. Se davvero siete interessato alla nostra cultura, questo è ciò che Kyoto ha da offrirvi; siete invitato a partecipare-.
-Vi ringrazio infinitamente!-, Jean chinò la testa ripetutamente e congiunse le mani per indicarle tutta la sua riconoscenza. -Non mancherò di…-.
-La celebrazione inizierà alle cinque del pomeriggio e avrà luogo nel Teatro Kaburenjo, situato accanto alla nostra okiya. Le mie ragazze saranno impegnate nella realizzazione della danza e avrete l’occasione di scegliere la modella che poserà per voi-.
Sayuri-san si alzò compostamente e scambiò qualche altra parola con il cocchiere, che si affrettò a chiedere a Jean se avesse altre domande da porgere.
-Nulla-, rispose lui, mettendosi in piedi a sua volta. -Ringraziatela ancora da parte mia per tutto l’aiuto offerto-.
L’okasan aprì la porta e accompagnò i visitatori all’ingresso. Mentre i due uomini rimettevano le scarpe, rivolse un nuovo interrogativo al suo conterraneo.
-Cosa ha detto?-, domandò Jean.
-Voleva sapere dove alloggiate. Mi sono permesso di rispondere direttamente-, replicò il cocchiere.
-Vicino al Santuario di Yasaka-, ribadì comunque il ragazzo, certo che la donna avrebbe capito sentendo quel nome. -Arrivederci, Sayuri-san-.
-Sayonara!-, esclamarono ad una sola voce l’okasan e l’accompagnatore, congedandosi definitivamente.

 

***

 

-Posso farvi una domanda?-.
Jean aveva richiamato la carrozza e si apprestava a raggiungere il teatro che gli era stato indicato il giorno prima. Uscì dalla locanda in cui aveva preso dimora e fu accolto all’esterno dal cocchiere Yuki, ormai sua fidata guida in quel groviglio di città.
-Certamente-, lo invitò a parlare, esitando per un secondo a salire sul mezzo di trasporto.
-Come mai volete ritrarre proprio una geisha? Ci sono decine di donne, qui in Giappone, disposte a pagare migliaia di yen pur di comparire nel dipinto di un artista occidentale; cosa vi ha indotto a scegliere una figura nascosta come una geiko di Kyoto?-.
Jean sorrise, felice per l’interesse mostrato da Yuki: -Vedete, è proprio questa condizione di mistero ad intrigarmi. E credetemi quando vi dico che in Europa le geishe sono concepite come creature che hanno il semplice dono di sedurre; quello che mi propongo di fare è catturare l’essenza più intima di una donna orientale. Quando ho visto il ritratto del maestro Van Gogh, poco meno di un anno fa, sono stato colpito dalla concezione che aveva elaborato stando qui a Kyoto: era convinto che le geishe fossero le donne più sottomesse della terra, disposte anche a farsi calpestare pur di compiacere i desideri di un uomo. Ma da quello che ho potuto osservare entrando a contatto con Sayuri-san, deduco che questi pensieri siano evidentemente infondati-.
-L’okasan di cui state parlando è famosa per la sua severità e rigidità morale-, sottolineò il cocchiere. -Tutti a Kyoto conoscono il suo nome, anche chi non frequenta abitualmente l’okiya di Gion Kobu-.
-E per questo mi ritengo privilegiato a poter partecipare alla cerimonia a cui mi ha invitato-, aggiunse Jean, salendo sulla carrozza. -A proposito-, sembrò ricordare in un secondo momento, -sapete dirmi in cosa consiste questa celebrazione? Devo aspettarmi un vero e proprio spettacolo?-.
-Non posso spiegarvi adeguatamente perché non ho mai avuto né la fortuna né il denaro necessario per entrare nel Teatro Kaburenjo-, disse Yuki, -ma so che ad esibirsi sono le maiko e le geishe di Gion Kobu. Propongono una danza coreografica della durata di circa un’ora e si dice che indossino i kimono più sgargianti in loro possesso. Vi invidio, sapete? Sono pochi a potersi permettere di assistere ad uno spettacolo così caratteristico-.
-Perché non venite anche voi?-, gli propose Jean. -Ho denaro a sufficienza per pagare anche la vostra quota d’ingresso; e poi diciamocelo, cosa capirei se non avessi con me un interprete affidabile?-.
Il cocchiere sorrise e scosse la testa: -Vi ringrazio per l’offerta, ma non posso comunque partecipare. Il mio ceto sociale non soddisfa i requisiti richiesti al pubblico-.
-Sarà una cerimonia elitaria in tutto e per tutto, allora!-, esclamò il ragazzo.
-Esatto. Perciò riempite i vostri occhi con le movenze armoniche delle geishe e colmatevi le orecchie di musica, perché poi dovrete raccontarmi ogni cosa fin dal principio-.

 

***

 

Il Teatro Kaburenjo si trovava sul lato opposto dell’okiya di Gion Kobu. Esternamente si presentava come una struttura non molto alta e dal tetto apparentemente sproporzionato, decorato con inserti in legno e lanterne di carta rossa e bianca che pendevano dalle travi che lo sorreggevano. Accanto all’entrata erano stati piantati due alberi di ciliegio che non attendevano altro di veder fiorire i piccoli boccioli rosa che coprivano la gran parte dei rami, molti dei quali si protendevano verso il teatro quasi a volerlo abbracciare.
Quando Jean scese dalla carrozza e si beò di quello spettacolo, perse la capacità di articolare un singolo suono. Fu Yuki a riportarlo alla realtà, accompagnandolo fino all’ingresso per poter rintracciare e parlare con Sayuri-san.
Fortunatamente la donna si lasciò trovare con facilità e dopo aver scambiato alcune parole con il cocchiere accompagnò l’ospite francese attraverso una serie di corridoi che portavano alla sala. Oltrepassarono degli androni in cui si stava accalcando il pubblico ed infine raggiunsero la meta.
La donna gli disse qualcosa di incomprensibile nella propria lingua, ma il ragazzo immaginò che lo stesse invitando ad entrare nella stanza successiva, a cui si accedeva scostando un pesante broccato rosso che separava l’ambiente seguente dal corridoio. Seppur titubante, Jean obbedì e fece il proprio ingresso, seguito a pochi passi di distanza da Sayuri-san.
Si ritrovò in un grande salone che sembrava scolpito nel legno. Le pareti erano molto più alte di quello che si era aspettato studiando l’edificio dall’esterno e si accorse solo allora che, come nei teatri occidentali, era presente la distinzione tra galleria, posta proprio sulla sua testa, e platea. Ad una prima occhiata giudicò che ci dovessero essere circa duecento posti a sedere, molti dei quali immaginò essere già stati occupati o prenotati con largo anticipo dallo sciame umano che si apprestava ad assistere allo spettacolo.
Sedie e pavimento erano foderati di tessuto rosso; perfino la luce soffusa che illuminava l’ambiente sembrava rossiccia, complice l’effetto fornito dalle solite lanterne di carta che contornavano il perimetro della sala. Jean spostò poi lo sguardo sul palco, rialzato di un metro e mezzo rispetto al livello della platea, e notò il sipario di spessa carta di riso su cui erano riportati con inchiostro nero, in alto a destra, cinque ideogrammi; il resto dello sfondo era decorato con ondine dipinte con colori chiari, appena visibili alla distanza a cui si trovava il ragazzo.
Sayuri-san lo chiamò e gli fece segno di seguirla. Lo accompagnò vicino al palco ed indicò la seconda fila, mostrandogli il posto che gli era stato lasciato.
-Grazie, Sayuri-san-, disse lui, chinando la testa e congiungendo le mani come aveva fatto il giorno prima. -Anzi… Arigatou-.
La donna gli sorrise e si dileguò, mentre altra gente faceva ingresso in sala e occupava le sedie attorno a quella di Jean. Il giovane diede una rapida occhiata all’ora segnata sull’orologio che nascondeva nel taschino interno della giacca e si disse che non avrebbe dovuto attendere ancora molto prima dell’inizio dell’esibizione.
Mentre aspettava che la cerimonia cominciasse, esaminò attentamente le persone che entravano dallo stesso ingresso che lui aveva attraversato pochi minuti prima: la maggior parte degli spettatori era composta da uomini, più o meno giovani; le donne erano pochissime e tutte rigorosamente accompagnate da figure maschili, fossero questi i loro padri, fratelli o mariti. Jean si ripeté che in fondo non doveva aver poi sbagliato nel ritenere le geishe donne completamente indipendenti e libere da qualsiasi legame vincolante con gli uomini.
Presto la sala si riempì e risuonarono i mormorii sommessi del pubblico. Tutti fremevano, desiderosi di assistere allo spettacolo, e di colpo tacquero quando il sipario fu lentamente tirato su.
Jean si sistemò meglio sulla sedia e studiò la scenografia: sul fondo era stato applicato un pannello di legno su cui era dipinto il Santuario di Yasaka e tutto intorno erano stati sistemati degli alberi di ciliegio in fiore realizzati con carta colorata; dal soffitto pendevano centinaia di rami coperti di boccioli rosa, anch’essi ottenuti dalla carta di riso. Sul lato destro del palco, sedute a terra, c’erano otto donne di mezza età che indossavano severi kimono neri spezzati in vita da un’unica fascia bianca; ciascuna di loro stringeva tra le braccia uno shamisen, il tipico strumento musicale tradizionale che Jean aveva visto raffigurato in alcuni dipinti che aveva ammirato dal vivo nelle esposizioni d’arte a Parigi.
Fu questo gruppo di anziane geishe a dare inizio alla cerimonia: il suono metallico scaturito dagli shamisen stridette per alcuni istanti nelle orecchie del giovane francese, che si abituò gradualmente e finì per apprezzare ogni nota suonata e armonizzata dal canto delle donne. Quando la musica andò a sfumare, salirono sul palco trenta ragazze dai kimono sgargianti: gli abiti che indossavano erano identici gli uni agli altri, caratterizzati da una stoffa di un bell’azzurro cielo su cui spiccavano variopinti fiori di ciliegio a cinque petali; lo stesso motivo floreale si rintracciava sulla gonna, così stretta da impedire alle giovani di muovere passi troppo lunghi. I loro fianchi erano cinti di una fascia rossa, gialla e bianca che faceva risaltare la loro magrezza; un’acconciatura particolarmente elaborata ed un ventaglio rosa completavano l’abbigliamento di ciascuna ragazza, che teneva tra le mani anche un fiorito ramo di ciliegio ricavato dalla solita carta.
Jean osservò con meraviglia i piccoli gesti compiuti dalle danzatrici. Molte di loro erano così giovani che il Francese dedusse essere ancora delle apprendiste; nessuna di loro, comunque, riuscì a catturare il suo sguardo, che si spostava di viso in viso alla ricerca della miglior musa ispiratrice.
Quando la danza delle ragazze fu terminata, esse si inginocchiarono compostamente a terra, proprio al margine del palco. Calò di nuovo il silenzio, ma fu interrotto da un accordo più allegro di shamisen che diede ufficialmente inizio alla seconda parte dello spettacolo.
Le ragazze furono allora raggiunte da altre dieci donne evidentemente più grandi ed esperte di loro. Ognuna indossava un kimono diverso dall’altra, quasi a ribadire la propria unicità, e l’unico oggetto di scena che le accompagnava era un ventaglio, rosa come quello utilizzato dalle apprendiste.
Le nuove arrivate si esibirono con innata grazia e Jean si disse che quelle dovevano essere geishe a tutti gli effetti: avevano sicuramente portato a termine l’apprendistato necessario per svolgere il mestiere a cui avevano deciso di dedicare la vita intera. Il ragazzo passò in rassegna i volti delle donne e poi, senza alcun preavviso, percepì un vuoto allo stomaco.
Sulla destra, a chiudere la fila ordinata composta dalle sue compagne, c’era una giovane differente dalle geiko che aveva visto fino a quel momento. Seguì rapito le sue movenze delicate, senza staccare mai gli occhi da quelle sottili mani bianche che facevano ruotare il ventaglio rosa dietro cui, di tanto in tanto, ella nascondeva il viso, pallido anch’esso a causa del tipico trucco usato dalle geishe. I suoi occhi erano contornati da una linea purpurea che metteva in risalto le iridi nere antracite e le labbra erano dipinte con la stessa tonalità di rosso. I capelli, lunghi e neri, erano raccolti come quelli delle altre ragazze, ma decorati in modo ancor più ricco: erano veri fiori di ciliegio quelli che le contornavano la testa e sulla fronte le ricadeva una numerosa serie di perline bianche; il kimono che indossava era caratterizzato da ghirigori azzurri, bianchi e gialli, che risaltavano sulla stoffa di un intenso rosso scuro.
Jean l’ammirò per tutta la durata della danza. Ormai non riusciva a vedere null’altro che quella misteriosa ragazza dall’espressione enigmatica che sembrava nascondere mille segreti dietro una maschera fatta di concentrazione. Quando si rese conto di aver perso la concezione del tempo, capì di aver trovato la musa che stava cercando.
La Miyako Odori proseguì con altri due balli a cui parteciparono sia le trenta, giovani apprendiste sia le geishe. Prima del termine della celebrazione, il pubblico fu intrattenuto con la famosa cerimonia del tè, che per il giovane francese chiuse un pomeriggio di completa immersione nelle tradizioni giapponesi. Prima che il sipario calasse, le quaranta ragazze, dividendosi in coppie, salutarono gli spettatori con un lieve cenno della testa a cui seguirono scrosci di applausi entusiasti che accompagnarono anche l’entrata sulla scena dell’okasan, salita sul palco per ringraziare silenziosamente il pubblico per aver partecipato a quella festa di inizio primavera.
Jean avrebbe voluto parlare con Sayuri-san quella sera stessa, ma una volta terminata la cerimonia venne letteralmente trascinato fuori dal teatro dalla folla che si apprestava a tornare a casa. Non gli rimase altro che riprendere la carrozza, dove il cocchiere lo stava pazientemente aspettando, e rifugiarsi di nuovo nella locanda in cui risiedeva, con il proposito di recarsi a Gion Kobu il giorno seguente.

 

***

 

-Bentornato, signor Kirschtein!-, le parole dell’okasan lo accolsero tramite la bocca del fedele Yuki, a cui quella mattina Jean aveva chiesto di accompagnarlo all’okiya di Sayuri-san. -Avete apprezzato la danza delle mie ragazze?-.
-Oh, semplicemente magnifiche-, rispose il giovane con un sorriso, togliendosi le scarpe e poggiandole accanto alla porta d’ingresso. -Non saprei descrivervi adeguatamente le sensazioni che ho provato-.
-Sono orgogliosa di sentirvelo dire; la Miyako Odori è una tradizione a cui la città di Kyoto, e in particolare la nostra comunità di geiko, è molto legata-.
Sayuri-san aspettò che il cocchiere finisse di tradurre per aggiungere: -Ma ditemi: avete trovato una ragazza che faccia al caso vostro?-.
-Proprio di questo voglio parlarvi-, si affrettò a rispondere Jean. -Una vostra apprendista ha catturato particolarmente la mia attenzione e credo che sarebbe un soggetto davvero interessante da ritrarre-.
-Un’apprendista, dite? Allora sarà necessario convocare le maiko affinché possiate riconoscerla. Indossavano tutte lo stesso kimono e…-.
-Vi sbagliate-, il giovane interruppe la traduzione simultanea di Yuki. -La ragazza a cui mi riferisco indossava un abito completamente diverso: era rosso porpora, con decorazioni azzurre, gialle e bianche-.
L’espressione di Sayuri-san si rabbuiò tutto d’un colpo. La sua voce si fece più bassa e profonda, riducendosi pian piano quasi ad un sussurro: -Credo di aver capito di chi state parlando. Ma preparatevi ad un rifiuto: difficilmente accetterà di posare per voi-.
La donna sospirò mentre Yuki metteva Jean al corrente della notizia.
-Ma…-, provò a dire il ragazzo, venendo interrotto dall’okasan.
-Aspettate qui-, intervenne lei. -Tornerò tra qualche minuto con il responso-.
Sayuri-san si allontanò lungo il corridoio d’ingresso e svoltò a sinistra, scomparendo alla loro vista. I due uomini rimasero in attesa, incerti sul da farsi.
-Chissà perché ha reagito così?-, si domandò ad alta voce Jean. -Forse avrei dovuto avere un atteggiamento diverso?-.
-Non penso che sia questo, il problema-, disse Yuki. -Temo che abbiate scelto una ragazza difficile-.
Jean sospirò: ebbe paura che il suo soggiorno sarebbe stato più breve del previsto. L’ultima cosa che desiderava era tornare in Francia portando con sé il peso del fallimento.
I minuti successivi sembrarono durare un’eternità. Il giovane prese a camminare avanti e indietro nel vano tentativo di allentare la tensione che stava crescendo in lui con il trascorrere del tempo e il cocchiere provò a rassicurarlo, dicendo che nulla era ancora perduto: inoltre, anche se la ragazza scelta avesse rifiutato la sua proposta, ne avrebbe sempre potuta individuare un’altra tra quelle che aveva visto la sera precedente.
Jean scosse la testa, rimanendo chiuso nel suo mutismo: sapeva bene che nessun’altra sarebbe stata all’altezza delle sue aspettative. Osservando la misteriosa geisha su cui aveva messo gli occhi, aveva perfino già immaginato come ritrarla.
Sayuri-san tornò con espressione enigmatica e disse qualcosa a Yuki. Il cocchiere, traducendo, consigliò a Jean di seguirla.
-Voi non venite con me?-, gli chiese il ragazzo.
-L’okasan dice che non avrete più bisogno del mio aiuto-.
-Cosa significa?-.
-Andate con lei e vedrete con i vostri occhi-.
Yuki si congedò con un inchino e uscì dall’okiya, mentre Jean, perplesso e spaesato, si vedeva costretto a seguire ogni passo di Sayuri-san.
Oltrepassarono alcune stanze che si aprivano in fondo al corridoio e si ritrovarono nel portico che abbracciava un giardino di modeste dimensioni al centro del quale sorgeva un laghetto artificiale. Jean trattenne il respiro nell’ammirare quel perfetto equilibrio tra natura e uomo, ma ancor di più sentì il cuore perdere un battito quando vide lei.
Seduta su un sedile di pietra accanto ad uno dei bonsai che circondavano il lago, c’era la ragazza che lo aveva ispirato. Fissava un punto imprecisato davanti a sé e sembrava immersa nei suoi pensieri, in attesa che l’okasan tornasse con l’ospite straniero.
Sayuri-san si fermò un attimo lungo il portico per dire qualcosa che Jean non fu in grado di capire, poi proseguì la camminata fino a scendere nel giardino. Richiamò l’attenzione della giovane geisha e quella si alzò, andando lentamente incontro a loro due.
Jean fissò la ragazza per tutta la durata del breve discorso fra lei e l’okasan. Spostò lo sguardo dalla sua acconciatura, meno elaborata rispetto a quella esibita la sera prima, al viso ora privo del pesante trucco bianco che durante la Miyako Odori le aveva coperto le guance, fino ad ammirare il kimono, quel giorno di un brillante blu notte con ricami argentei.
Dal canto suo, la giovane lo guardò di sottecchi, come se incrociare gli occhi dello straniero potesse rivelarsi un’azione fatale. La sua espressione rimase impassibile per tutto il tempo, finché non fu costretta a parlare.
-Siete voi il pittore che ha chiesto di vedermi?-, domandò, scandendo ogni parola in un francese perfetto.
-Voi capite e parlate la mia lingua?-, si sorprese Jean, rimanendo ulteriormente affascinato da quella creatura eterea.
-Sì. Ma rispondete, per favore-.
-Sono io-, asserì lui. -Jean Kirschtein. Vengo da Marsiglia-.
La ragazza fu sul punto di sollevare un sopracciglio e lui immaginò che stesse per fargli un’altra domanda, ma fu immediatamente smentito.
-L’okasan mi ha detto che siete venuto in Giappone con il proposito di studiare e ritrarre figure tradizionali della nostra cultura-.
-Esatto. Sayuri-san mi ha cortesemente invitato a partecipare alla Miyako Odori di ieri sera e non ho potuto fare a meno di ammirarvi. Credetemi, brillavate come una stella tra tutte le altre donne-.
-Vi ringrazio del complimento, ma non posso accettare la vostra proposta-, tagliò corto lei. -Non ho desiderio di posare per un artista occidentale-.
-Ma vi pagherò!-, esclamò Jean, sicuro che parlare di un compenso avrebbe allettato la giovane. -Non ruberò il vostro tempo per…-.
-Il denaro non mi interessa-, rispose la geisha. -Forse nel vostro Paese le cose funzionano così, ma io non mi lascerò comprare né corrompere dai vostri soldi. E adesso, se volete scusarmi, devo ritirarmi-.
La ragazza si congedò con un inchino e voltò loro le spalle, ma l’okasan, rimasta accanto a Jean durante l’esigua discussione, la chiamò indietro e, con fare concitato, la bloccò per un polso, costringendola a girarsi di nuovo.
Nei cinque minuti successivi regnò il caos: le due donne parlarono animatamente e il ragazzo immaginò che stessero litigando. Avrebbe voluto intervenire, ma cosa avrebbe potuto fare? Anzi, c’era il rischio che complicasse le cose.
-Hai, hai-.
La geisha inspirò profondamente e si fece avanti, tornando a pochi passi da Jean. Stavolta c’era un’espressione arrendevole ad ammorbidirle il viso: -L’okasan vuole convincermi ad aiutarvi. Mi sono opposta con tutte le mie forze, ma sembra che sarò costretta ad eseguire i suoi ordini-.
Si bloccò per qualche secondo, prima di continuare: -Vuole che siate il mio danna-.
Jean la guardò con un pizzico di stupore: -Danna?-, ripeté.
-È un… Come si dice nella vostra lingua? Protettore. Un uomo che può permettersi di aiutare una geisha a pagare le spese che deve sostenere per esercitare il proprio mestiere-.
Il ragazzo trattenne il respiro: -Questo è quello che propone Sayuri-san, ma voi? Siete disposta ad accettare il mio aiuto?-.
La giovane donna distolse lo sguardo e lo lasciò vagare sulla superficie del laghetto: -Solo per il tempo necessario a completare il vostro dipinto-, proferì.
-Dunque poserete per me?-, domandò di nuovo Jean, desideroso di accertare la veridicità di quelle parole.
La geisha annuì con un cenno della testa.
-Quando posso tornare per cominciare?-, chiese lui, gli occhi che brillavano per la felicità.
-Decidete voi-, replicò la ragazza. -Sono a vostra disposizione-.
-Domani sarebbe un problema? Sapete, non vedo l’ora di…-.
-Domani pomeriggio sarà perfetto-, rispose sbrigativamente la giovane.
-Perfetto!-, esclamò Jean, sorridendole apertamente. -Vi ringrazio infinitamente per aver accettato. Non avete idea di quanto…-.
-Ora devo andare-, lo interruppe lei. -La mia imoto-san mi aspetta per le lezioni della tarda mattina. Sayonara, signor Kirschtein-.
La ragazza scambiò qualche frase con Sayuri-san e lo straniero immaginò che le stesse dicendo di accompagnarlo fuori; quando fu sul punto di allontanarsi, Jean le disse: -Non mi avete ancora detto il vostro nome-.
La geisha si voltò: -Chiamatemi semplicemente Mikasa-, rispose, scomparendo all’interno dell’okiya.

 

***

 

Il venerdì mattina Jean si svegliò presto, preso com’era dall’eccitazione di iniziare il quadro che aveva deciso di dipingere. Prese una tela dal baule che aveva portato con sé da Parigi ed estrasse il cavalletto di legno che aveva avvolto in un lenzuolo per evitare che si rompesse durante il viaggio in mare, recuperando poi tavolozza, pennelli e colori ad olio. Sistemò tutto sul letto ancora disfatto ed esaminò la superficie bianca del futuro ritratto, immaginando come avrebbe disposto gli elementi all’interno della composizione.
Sorrise nel pensare alla strana ragazza che aveva dato il suo consenso solo perché pregata – o forse sarebbe stato meglio dire obbligata? – da Sayuri-san, la donna a cui evidentemente doveva tutto; sperò di poter parlare apertamente con Mikasa nel momento in cui sarebbero stati da soli, ma si disse anche di non illudersi, visto che la giovane non era stata poi così entusiasta all’idea di essere ritratta da lui.
Una frase in particolare lo aveva colpito: la geisha aveva affermato di non voler posare per un artista occidentale. Significava forse che non avrebbe avuto alcuna esitazione, se Jean fosse stato giapponese? O c’era un motivo più profondo alla base di quel netto rifiuto?
Il ragazzo scosse la testa, deciso a scacciare quei pensieri molesti dalla propria mente; non aveva alcun senso porsi delle domande a cui per il momento non avrebbe ricevuto risposta. Trascorse gran parte della mattinata studiando e scegliendo i colori migliori per catturare a dovere l’immagine di Mikasa; nel primo pomeriggio, subito dopo aver pranzato, salì nuovamente in carrozza e Yuki lo accompagnò a Gion Kobu, stavolta senza entrare nell’okiya.
Jean fece il suo ingresso e venne accolto da due giovani maiko che ricordava di aver visto durante la Miyako Odori. Le ragazze lo accompagnarono silenziosamente da Sayuri-san, che a sua volta lo scortò fino ad una stanza modestamente arredata: un tavolinetto basso era stato posizionato al centro della camera ed intorno ad esso stavano sei cuscini. Le pareti erano decorate con motivi floreali e vi erano appoggiati dei mobili in legno grezzo su cui erano riposte tazzine per tè e sakè.
L’okasan lo lasciò solo e ad accostò la porta scorrevole. Di lì a qualche minuto Jean notò un’esile ombra trafficare dietro la soglia e Mikasa fece la sua comparsa. Lo salutò con un cenno della testa e prese posto su un cuscino di fronte a lui.
-Buon pomeriggio-, la salutò il ragazzo. -È un piacere rivedervi. Ho portato l’occorrente per il vostro ritratto-, disse, mostrandole la tela bianca ed il cavalletto che aveva poggiato per terra, accompagnato da una borsa in cuoio in cui aveva sistemato colori e pennelli.
-Dove preferite dipingere?-, gli domandò lei, rimanendo fredda come il giorno prima.
-Vorrei che decideste voi-, spiegò Jean, sperando di riuscire a coinvolgerla. -L’importante è che vi sentiate a vostro agio mentre vi ritraggo-.
-Sarà meglio andare in giardino-, disse Mikasa. -Rimanere in questa stanza non vi fornirà elementi utili per la rappresentazione del Giappone, no?-.
Il giovane annuì, colpito dall’analisi della geisha: -D’accordo. Spostiamoci pure-.
Raccolse tutto il necessario e la seguì all’esterno. Scesero i gradini che portavano dal porticato al giardino e si avvicinarono al laghetto.
-Sedetevi lì-, le consigliò Jean, indicando il sedile di pietra su cui l’aveva vista accomodata il giorno prima. -Ieri mi ha colpito molto la vostra naturalezza. Fissavate il lago così intensamente da far pensare che in quel momento vi trovaste in un mondo tutto vostro-.
Mikasa lo scrutò per un buon minuto e il ragazzo si sentì arrossire: sentire quegli occhi color antracite su di sé lo metteva vagamente a disagio, come se le iridi della giovane potessero scavare fino nelle profondità del suo animo.
Senza proferir parola la geisha sedette, aspettando ulteriori indicazioni dal pittore. Jean armeggiò con il cavalletto e bloccò la tela, poggiando ai propri piedi la borsa ed estraendo una matita.
-Cosa fate?-, domandò dopo qualche secondo la ragazza, notando lo sguardo concentrato dello straniero vagare da lei all’ambiente circostante.
-Per prima cosa devo tratteggiare le linee guida-, spiegò lui. -Devo dividere la tela in settori per distribuire correttamente e proporzionatamente tutti gli elementi che voglio inserire all’interno del quadro. Perdonatemi, ma credo che l’incontro di oggi, e forse anche il prossimo, saranno dedicati a questa parte della procedura-.
Mikasa non commentò. Rimase comodamente seduta al proprio posto, osservando il volto di Jean spuntare di tanto in tanto da dietro la tela.
-Potete soddisfare una mia curiosità?-, le chiese il ragazzo, rompendo il silenzio.
La geisha sollevò impercettibilmente le spalle e lui continuò: -Chi vi ha insegnato a parlare francese? La vostra pronuncia è a dir poco perfetta-.
Le sopracciglia di Mikasa si corrucciarono e Jean si chiese se non avesse toccato un tasto dolente con quella domanda apparentemente innocente: -Mia madre-, si sentì rispondere.
-Conoscete anche altre lingue?-.
Anche stavolta la ragazza esitò a replicare: -Parlo fluentemente inglese perché molti clienti stranieri provengono dalla Gran Bretagna e so distinguere qualche parola di tedesco-.
Su quell’ultima affermazione il tono della sua voce si abbassò e Jean si appuntò mentalmente di non fare più riferimenti a tutto ciò che riguardava l’Occidente. A sorpresa, fu Mikasa a rivolgergli una domanda: -Avete detto di essere Francese, ma il vostro cognome non lo è-.
-Mio padre è nato in Germania-, spiegò il ragazzo, -a Monaco. Un caso fortuito ha voluto che conoscesse mia madre durante un soggiorno in Provenza e poi si sono sposati-.
La giovane tacque, sovrappensiero. Jean si chiese quali riflessioni stessero prendendo forma dietro i suoi occhi, ma di nuovo dovette arrendersi al fatto che non avrebbe ottenuto una risposta soddisfacente.
Trascorsero le due ore successive per lo più in silenzio; solo il fischio del vento, in alcuni momenti più impetuoso, ricordava loro di trovarsi in un giardino. Quando il ragazzo annunciò di aver terminato per quel giorno, Mikasa sembrò sorpresa.
-Tornerò domenica, se non corro il rischio di disturbarvi-, la informò Jean. -Devo mettere a punto alcuni dettagli, prima di stendere il colore-.
-Ci vedremo nel pomeriggio. La mattina sono sempre impegnata con le lezioni da impartire alle apprendiste-.
-Capisco-, sorrise Jean, piegando il cavalletto e mettendolo sottobraccio. -Ah, prima che me ne dimentichi…-.
Estrasse del denaro da una tasca interna della borsa e glielo porse. Aspettò che la ragazza lo afferrasse e poi si congedò: -Arrivederci, Mikasa-.
-Sayonara-, lo salutò lei, vedendolo rientrare nell’okiya per andarsene.

 

***

 

L’incontro successivo non fu molto diverso dal primo.
Finché Jean non ebbe terminato di disegnare a matita tutto ciò che gli interessava, non poté applicare il colore. Quando finalmente il bozzetto fu completato, passò alla colorazione dello sfondo, ricco di particolari che non sarebbero mai potuti sfuggire ad un occhio attento come il suo.
Quella prima fase di lavoro gli portò via più di una settimana, anche perché i colori ad olio che utilizzava impiegavano parecchio tempo per asciugarsi ed era suo dovere ripassare con un secondo strato di colore non appena il primo si fosse essiccato.
Fu così che dovette rimandare l’inizio del ritratto vero e proprio al quinto incontro, che avvenne di nuovo di domenica, il 12 aprile.
Nei precedenti tre pomeriggi che avevano trascorso insieme, Mikasa era parsa stranamente interessata alla vita del pittore. Gli aveva chiesto di parlarle del suo viaggio fino in Giappone e lui le aveva spiegato come avesse faticato per convincere i genitori a lasciarlo partire: sua madre, in particolare, temeva che non avrebbe mai più fatto ritorno a casa. Un pensiero sciocco, come lo aveva definito lo stesso Jean, perché per lui non avrebbe avuto senso rimanere in un Paese di cui non conosceva neanche la lingua.
-Mia madre ha un’idea tutta sua dell’Oriente-, rise, ripassando la chioma verde del bonsai che troneggiava accanto a Mikasa. -Per lei è un luogo di perdizione o qualcosa del genere. Niente di più lontano dalla realtà-.
-Forse teme che qualcosa vi possa trattenere qui-, propose la geisha, abbassando lo sguardo a terra.
-E cosa, a parte il lavoro?-.
-Amicizie, credo-, esalò la giovane. -O qualcosa in più-.
-Avete ragione-, concordò, smettendo per un attimo di far frusciare il pennello contro la tela. -C’è qualcuno per cui ritarderei la mia partenza. E quel qualcuno è proprio qui di fronte a me-.
Per un secondo Jean credette di aver visto Mikasa inghiottire un grumo di saliva. Notò l’espressione turbata della ragazza, che adesso non aveva il coraggio di rialzare gli occhi su di lui.
Al termine di quell’incontro aveva dipinto i capelli e il viso della geisha; il passo successivo sarebbe stato colorare il kimono.
Mise a posto i colori e lavò i pennelli lì sul posto per evitare che le setole si indurissero, poi si apprestò ad abbandonare l’okiya, lasciando Mikasa ai suoi doveri. Come nelle precedenti occasioni, tirò fuori dalla borsa la somma che avevano pattuito e rimase in attesa che lei la riponesse all’interno delle pieghe dell’abito.
-Prendete-, le disse, tendendole il giusto compenso.
-Non accetterò più denaro da voi-, rifiutò lei, abbassando di nuovo lo sguardo.
-Perché mai?-, chiese Jean, piegando la testa di lato per carpire l'espressione enigmatica che contraeva il viso della ragazza.
-Non voglio che siate il mio danna-, rispose in un soffio. -Non posso più vedervi-.
-Non parlate così!-, esclamò lui, cercando di prenderle le mani che Mikasa aveva nascosto nelle lunghe e larghe maniche del kimono. -A voi devo la mia arte ed è giusto che vi ricompensi adeguatamente. Vi prego, prendete la somma stabilita. Non me ne andrò finché non l'avrete accettata-.
La giovane rimase in silenzio per un lungo minuto, prima di tornare a parlare: -Se prenderò il vostro denaro, promettete che non tornerete mai più?-, disse, guardando negli occhi l'uomo davanti a sé.
-Non potete chiedermi questo-, Jean scosse la testa. -Non senza una buona motivazione, almeno. A cosa è dovuto questo cambiamento improvviso?-.
Mikasa ammutolì di nuovo: -Il vostro dipinto è concluso-, osservò. -Non avete più bisogno di una modella. Siete libero di tornare in Occidente, dalla vostra famiglia-.
-La mia famiglia sa bene che sono qui per lavoro-, replicò lui. -E di certo non si aspetta di vedermi comparire sulla soglia di casa da un giorno all'altro. Per quanto riguarda il dipinto... No, non è ancora terminato. Ho solo tratteggiato le linee principali; adesso manca il colore. E posso giurarvi che se procedessi avvalendomi soltanto della memoria, il ricordo non sarebbe altro che una macchia sbiadita. Siete voi il colore, Mikasa. Lo sapete. Ve lo leggo negli occhi anche adesso-.
Le iridi scure della geisha brillarono; Jean si accorse di quel riflesso incantevole e si chiese se l'improvvisa liquidità non fosse riconducibile a lacrime represse.
-Non ve ne andrete, dunque?-, domandò lei, stavolta con un tono di voce ancora più basso.
-Rimarrò finché sarà necessario-, ripeté il ragazzo. Poi, allontanandosi verso la porta scorrevole che separava il portico dagli ambienti interni dell’okiya, aggiunse: -Tornerò giovedì, alla stessa ora. Scegliete il più bel kimono che possedete e indossatelo: voglio che la vostra bellezza sia esaltata anche attraverso gli abiti tradizionali-.
Le sorrise, augurandosi che lei facesse lo stesso, ma non ottenne altro che la solita espressione indecifrabile: Mikasa era di nuovo impassibile.
-Sayonara-, la salutò, depositando a terra il denaro e uscendo senza darle mai le spalle.
-Sayonara-, sussurrò lei in risposta, non appena la porta si richiuse.

 

***

 

Il giovedì seguente parve non voler arrivare mai.
Jean aveva pensato e ripensato all’atteggiamento più morbido che la ragazza aveva mostrato nelle ultime occasioni in cui si erano visti, ma di nuovo si ripeté di non illudersi: perché pensare che Mikasa provasse qualcosa per lui? No, era fuori discussione; aveva capito che la geisha covasse uno strano risentimento nei confronti degli Europei, anche se non aveva ancora idea del motivo, perciò non aveva alcun senso riempirsi la testa di sogni che non si sarebbero mai potuti realizzare. E poi, lui per primo doveva chiarire a se stesso i sentimenti che la sola vista della ragazza gli suscitava: era solo un’infatuazione? No, altrimenti non sarebbe stato così curioso di conoscerla meglio. Allora si era innamorato di lei? Poteva essere?
Sì, il suo cuore batteva insolitamente forte quando si ritrovava solo in sua compagnia; in più le aveva esplicitamente rivelato che per lei avrebbe anche ritardato il suo ritorno in Francia. Perché lo avrebbe detto, se non lo avesse pensato?
Infine giunse alla conclusione esatta: teneva fortemente a quella ragazza. E avrebbe voluto vederla sorridere, visto che i suoi occhi erano sempre appannati da un velo di malinconia.
Quando si presentò a Gion Kobu per la sesta volta, trovò Mikasa già in attesa in giardino, seduta al solito posto. Si alzò e gli venne incontro quando lo vide varcare la soglia del porticato, chiedendogli cosa avesse fatto in quei giorni di lontananza.
-Ho visitato un altro angolo della città-, le disse Jean, mentre posizionava il cavalletto e spremeva del colore sulla tavolozza di legno. -Sono arrivato da tre settimane, ma Kyoto non smette di stupirmi. È come se mi si rivelasse poco alla volta, mostrando le sue mille sfaccettature. Allora, vogliamo iniziare?-.
La geisha tornò a sedere e lisciò la gonna stretta del kimono, poggiando le mani sul grembo.
-Il vostro vestito vi dona molto-, si complimentò Jean, mescolando del rosso e del bianco per ottenere la tonalità di rosa che più si avvicinava al colore della stoffa con cui era stato confezionato l’abito. -Le sfumature pastello si addicono alla vostra personalità-.
Stese il primo strato di colore con facilità, riempiendo tutti gli spazi vuoti che ancora spiccavano sul dipinto, e fu costretto ad aspettare circa trenta minuti affinché si solidificasse per poter applicare la seconda passata. Mentre attendeva, decise di sedersi accanto a Mikasa.
-Sapete-, le disse, -questo potrebbe essere il nostro penultimo incontro. Tornerò ancora giovedì prossimo per rifinire i dettagli del kimono che state indossando e per mostravi il ritratto finalmente ultimato-.
La ragazza trattenne il fiato: -Per quanto ancora rimarrete a Kyoto?-.
-Una settimana, credo. Forse anche di meno-.
Mikasa tacque. Intrecciò le dita delle mani e le strinse.
-Sono felice di avervi conosciuta-, aggiunse Jean. -Quando ho lasciato Parigi non potevo immaginare che avrei incontrato una donna come voi-.
Le poggiò una mano sulle sue, ma la ragazza si ritrasse, come se quel contatto l’avesse scottata. Dal canto suo, il pittore ritirò il braccio e sospirò, alzandosi un secondo dopo.
-Vediamo se si è asciugato abbastanza…-, disse tra sé e sé, mentre Mikasa, che aveva distolto lo sguardo, tornava a portarlo su di lui.
-Giratevi verso di me come prima-, si raccomandò Jean, notando una certa esitazione nei piccoli gesti compiuti dalla geisha. -Forse farò in tempo ad aggiungere i particolari mancanti oggi stesso-.
Per un’altra ora i due ragazzi rimasero lì, immersi nella quiete del giardino. Non venne nessuno a disturbarli, né l’okasan, che a volte compariva dal porticato per accertarsi che tutto stesse procedendo bene, né le maiko, evidentemente troppo prese dalle lezioni che dovevano seguire nel corso del pomeriggio.
Il cielo si stava colorando di arancione quando Jean poggiò tavolozza e pennello per ammirare il risultato delle proprie fatiche. Sorrise e mise di nuovo in ordine il materiale che aveva usato, mentre Mikasa si alzava per osservare a sua volta il quadro.
-No-, la fermò lui. -Deve asciugarsi ben bene, prima di poter essere guardato. Il colore tenderà ad opacizzarsi e quindi vi potrà sembrare diverso in un secondo momento. Non temete, lo porterò con me giovedì e finalmente mi saprete dire se ho svolto un buon lavoro-.
Raccolse i propri strumenti e coprì la tela con un velo protettivo su cui i colori non si sarebbero attaccati, poi se ne andò, stavolta accompagnato da Mikasa fin sulla soglia dell’okiya.
-A presto-, la salutò, uscendo nella frizzante aria di aprile, mentre la geisha lo osservava oltrepassare il cancello d’ingresso e salire in carrozza.

 

***

 

-Sayuri-san-.
Si inchinò di fronte alla padrona di casa, che lo accolse ancor di più a braccia aperte in occasione dell’ultimo incontro. Evidentemente Mikasa doveva averla informata che presto Jean non sarebbe tornato più a far loro visita.
La donna lo fece accomodare in una stanza in cui il giovane ricordava di essere già stato e mobilitò alcune apprendiste affinché portassero del tè all’ospite. Il ragazzo sorrise nel vedere quanta cura le aspiranti geishe impiegassero per trattare nel modo migliore un cliente, ma l’attenzione che Jean aveva rivolto loro fino a quel momento venne spazzata via quando entrò nella camera Mikasa.
Quel giorno indossava un kimono rosso simile a quello che aveva utilizzato per la cerimonia della Miyako Odori e lo straniero si accorse solo in un secondo momento di aver trattenuto il respiro.
-Buon pomeriggio, signor Kirschtein-, lo salutò lei, accomodandosi su un cuscino e versandogli dell’altro tè nella tazzina che le apprendiste avevano recuperato da uno scaffale alle sue spalle.
-Vi ho portato il ritratto, come promesso-, disse subito Jean, porgendole la tela che aveva avvolto in uno spesso strato di carta. -Apritelo-, la esortò, sentendo il cuore accelerare in preda all’ansia: chissà se lo avrebbe apprezzato?
Mikasa tentennò, poi posò il quadro sul tavolino che aveva davanti e iniziò a strappare delicatamente la custodia protettiva. A poco a poco i suoi occhi furono investiti dal colore e Jean vide il dipinto riflettersi nelle sue pupille, ora ridotte a spilli.
-Vi piace?-, le chiese, sentendo un’ondata di calore diffondersi nel proprio cervello.
La ragazza non rispose. Stava esaminando ogni particolare, indecisa se seguire le linee di colore con la punta delle dita; spostò lo sguardo dallo sfondo al kimono, dai geta, i sandali sottili che portava ai piedi, all’acconciatura. Indugiò parecchi minuti sul viso e Jean pregò per ottenere un responso positivo.
-È come se mi stessi specchiando-, esalò infine Mikasa, la voce improvvisamente tremante. -È un dipinto unico-.
-Oh, che gioia sentirvelo dire!-, esplose il ragazzo, alzandosi e andandosi a sedere al suo fianco. -Vedete?-, le disse ancora, indicando un punto preciso sulla tela. -Qui il colore si è leggermente spento; se aveste visto il quadro la settimana scorsa, vi sareste accorta della differenza-.
-Signor Kirschtein, non mi sono mai dedicata alla pittura in vita mia-, affermò Mikasa in totale franchezza. -Probabilmente non avrei prestato attenzione ad un particolare come questo-.
-È di fondamentale importanza, invece-, ribadì Jean. -E poi ve l’ho detto: un soggetto bello come voi merita l’assoluta perfezione-.
I loro volti erano troppo vicini e la ragazza se ne accorse: si girò dalla parte opposta e sospirò, continuando ad esprimere la propria ammirazione per il risultato finale.
-A Parigi ne saranno entusiasti-, confermò il pittore. -L’unico rimpianto è quello di non essere riuscito a catturare fino in fondo la vostra essenza, Mikasa-.
Forse avrebbe dovuto smetterla. Stava decisamente complicando le cose.
-Signor Kirschtein…-.
-Vi prego-, la interruppe lui. -Non ve l’ho mai chiesto prima di adesso, ma mi piacerebbe che mi chiamaste Jean. Usare il cognome non fa altro che rimarcare la distanza tra di noi, non credete?-.
Quello non era decisamente il modo di rendere più semplice la situazione.
-Allora… Jean-, continuò Mikasa, pronunciando a fatica quel nome, -mi chiedevo se vi piacerebbe venire con me al Parco Maruyama. Questa è la settimana dell’Hanami e a causa di numerosi impegni non sono ancora potuta andare ad ammirare i ciliegi in fiore-.
-Volete che vi accompagni?-, chiese incredulo il ragazzo.
-Credevo che fosse vostra intenzione prendere parte alle tradizioni giapponesi, finché siete a Kyoto-, gli fece notare lei.
-Sì, sì, certamente!-, si affrettò a rispondere lo straniero. -Solo che… Non pensavo…-.
-Possiamo vederci domani pomeriggio?-.
-Sì. Volete che passi a prendervi con la carrozza?-.
-Non ce ne sarà bisogno-, lo rassicurò Mikasa. -Ci incontreremo direttamente davanti all’entrata del Santuario di Yasaka-.
-Come preferite-, annuì, mentre la ragazza faceva scorrere la porta e lo lasciava passare con tanto di tela sottobraccio.
-A domani, allora-, si congedarono, reprimendo entrambi un sorriso che valeva molto più di mille parole.

 

***

 

Il Santuario di Yasaka costituiva l’ingresso del Parco Maruyama. Era costituito da un edificio centrale dalla pianta quadrata da cui partiva un lungo porticato coperto dal tipico tetto dalla forma arcuata; il colore caratteristico era il rosso, accompagnato da inserzioni dorate e verdi. Alla struttura si accedeva tramite una scalinata frontale e proprio lì Jean vide Mikasa che lo stava aspettando.
-Buon pomeriggio-, la salutò come al solito, mentre la carrozza su cui aveva viaggiato spariva in lontananza. -Questo è il kimono che di solito utilizzate in occasioni simili?-, le chiese subito dopo, indicando l’abito che indossava.
Era un vestito di un verde tenue, una tonalità pastello che ricordava la chioma di un albero; la stoffa era impreziosita con ricami floreali rosa che ricordavano i fiori di ciliegio e in vita portava una cinta rossa. A completare la mise, oltre ai capelli raccolti in uno chignon e ai geta, i sandali che portava ai piedi, la ragazza sorreggeva un ombrello di sottile carta di riso bianca con cui ripararsi dal sole.
-Mi sembrava adatto alla ricorrenza-, spiegò la ragazza. -Volete entrare?-.
Jean accettò l’invito senza farselo ripetere una seconda volta ed insieme salirono la scalinata di pietra, passando poco dopo sotto l’arco principale che conduceva al parco. Il prato era avvolto in un silenzio religioso e per un istante il giovane straniero ebbe l’impressione di non trovarsi più in città.
Si avviarono lungo un sentiero di terra battuta che si perdeva tra gli alberi. Non c’era ancora traccia di ciliegi, che evidentemente dovevano essere stati piantati in una zona più interna.
-L’Hanami si tiene solo per pochi giorni-, iniziò a spiegare Mikasa senza che Jean le avesse rivolto una qualsiasi domanda. -È una festa particolarmente sentita nel nostro Paese: non solo segna l’inizio della primavera, ma ci ricorda come la vita, per quanto bella, sia destinata a finire. I fiori di ciliegio sono caratteristici proprio per questo: il loro splendore è ammaliante, ma il destino vuole che abbia breve durata. È una malinconica verità, non trovate?-.
Mikasa puntò lo sguardo dritto davanti a sé, mentre il suo accompagnatore le rivolgeva un’occhiata fugace, cercando di decifrare cosa si nascondesse dietro quelle parole. Le sue riflessioni furono interrotte solo quando la ragazza, con una naturalezza disarmante, si appoggiò al suo braccio, quasi volesse essere guidata.
Dire che Jean fosse confuso è poco: di colpo la geisha sembrava essere entrata più in intimità con lui. Non che la cosa gli dispiacesse, ma era comunque una strana sensazione.
-Quando vi riaccompagnerò a Gion Kobu smetterò ufficialmente di essere il vostro danna-, le ricordò all’improvviso, come se avesse sentito il bisogno di ripetere innanzitutto a se stesso che era inutile vivere ancora di illusioni. -Domenica Yuki mi accompagnerà fino al porto di Kobe e salperò con la prima nave per l’Europa. Con un pizzico di fortuna riuscirò ad esporre il vostro ritratto alla mostra che si terrà al Salone di Parigi nel mese di luglio-.
Ebbe l’impressione che le mani di Mikasa avessero stretto maggiormente il suo braccio, ma preferì non attribuire troppa importanza a quella sensazione: doveva dirle addio e non poteva permettersi di mostrarsi debole.
-Questa domenica?-, ripeté la ragazza. -Tra due giorni?-.
Jean annuì: -Kyoto mi ha dato tutto ciò che poteva offrire. Tornerò in patria con la consapevolezza di aver conosciuto un mondo che non avrei mai immaginato di vedere neppure in sogno-.
Si sentì in colpa l’istante successivo: perché stava trattando così quella donna? A che scopo sottolineare il fatto che se ne sarebbe andato di lì a poco?
Il sentiero deviava verso destra e li portò a costeggiare un laghetto; antichi bonsai creavano ampie zone d’ombra e sotto di esse i due giovani notarono delle famigliole consumare in ritardo i bento che avevano preparato la sera prima in vista di quella scampagnata. Mikasa sospirò.
-Ricordate la prima volta in cui siete venuto a farmi visita?-, gli chiese.
E come avrebbe potuto dimenticarlo? Lo aveva letteralmente folgorato.
-Certo-, le rispose, tenendo per sé ulteriori considerazioni.
-Siete rimasto sorpreso dal fatto che parlassi la vostra lingua-.
-Non mi aspettavo di incontrare una giovane geisha che conoscesse il francese-, sorrise lui. -Mi avete fatto sentire come a casa-.
-Vi dissi che è stata mia madre ad insegnarmelo-, aggiunse lei, -ma non mi avete mai domandato come facesse lei a parlarlo-.
-Ho preferito non indagare-, ammise Jean. -Non eravate molto disposta a discuterne, se non sbaglio-.
-Infatti-, concordò Mikasa. -Ma all’improvviso ho sentito il bisogno di parlarvene. Volete ascoltare una storia?-.
La ragazza fece scivolare via le mani dal braccio dell’accompagnatore e mosse qualche passo in avanti, quasi a volersi infondere il coraggio necessario per continuare ad esprimersi. Jean la seguì con lo sguardo, chiedendosi quale segreto la tormentasse così tanto.
-Mia madre era una geisha-, cominciò a raccontare la giovane, -proprio come me. Ha lavorato per anni al servizio di Mizuki-san, che ha preceduto l’attuale okasan nella direzione dell’okiya, e ha svolto il suo apprendistato insieme a Sayuri-san. Erano molto amiche, sapete?-.
Mikasa si prese un minuto di pausa e Jean si accorse di come il tono della sua voce si stesse abbassando sempre di più: -Una sera Gion Kobu accolse un gruppo di mercanti europei venuti in Giappone per acquistare seta e altre stoffe pregiate. Fu in quell’occasione che mia madre conobbe mio padre; si è sempre rifiutata di rivelarmi il suo nome, ma so per certo che fosse Tedesco. Pur provenendo dalla Germania, lui e i suoi compagni parlavano un buonissimo francese e mia madre lo apprese proprio da lui. Rimasero insieme per qualche mese, il tempo necessario ai mercanti per porre fine alle contrattazioni e preparare la nave di ritorno in Europa: mia madre gli chiese di non andare via, ma lui non l’ascoltò. Le disse che sarebbe tornato, che l’avrebbe portata via dall’okiya; non fu così. A poche settimane dalla sua partenza, mia madre scoprì di essere incinta e nove mesi più tardi nacqui in una delle camere di Gion Kobu. All’epoca l’avvento fu considerato uno scandalo, perché il codice di comportamento di una geisha impedisce di avere relazioni con dei clienti, a meno che questi rapporti non si consumino al di fuori del lavoro; mia madre non sapeva dove andare e solo la clemenza di Mizuki-san le permise di crescermi all’interno dell’okiya. In diverse circostanze, probabilmente mi avrebbero strappata dalle sue braccia e abbandonata al mio destino-.
Mikasa tacque di nuovo. Ad ogni parola che le sentiva pronunciare, Jean provava l’impulso di abbracciarla.
-Trascorse un anno, ma mio padre non tornò. Ne passò un altro, poi un altro ancora; centinaia di mercanti europei giunsero a Kyoto, ma nessuno di loro le portò notizie dell’uomo che aveva amato. E così mia madre cominciò a deperire sempre di più: la vidi trascurarsi, abbandonarsi e non provare più interesse per null’altro che non fossi io. Si preoccupò personalmente della mia istruzione e mi insegnò a parlare francese affinché un giorno, semmai fosse tornato, potessi parlare con mio padre-.
Un’altra interruzione, stavolta piena di commozione, mise freno al suo lungo monologo. Si schiarì la gola e continuò, mentre Jean notava delle lacrime scintillarle come perle alla base degli occhi: -Ho perso mia madre a soli nove anni. Da allora ho cominciato l’apprendistato per diventare una geisha, così da garantirmi una certa indipendenza. Sayuri-san mi ha cresciuto come una figlia e a lei devo gran parte della mia vita: questo è solo uno dei motivi per cui ho accettato di posare per voi nel momento in cui lei mi ha pregata-.
-Ora capisco perché mi avete detto di non voler essere ritratta da un artista occidentale-, proferì Jean con voce grave. -Provate un netto rifiuto per tutto ciò che è alieno dal Giappone-.
-Non è solo questa, la ragione-, aggiunse Mikasa. -Fin da quando mia madre è venuta a mancare mi sono detta che non mi sarei mai lasciata coinvolgere in rapporti con i clienti. Il suo primo errore è stato non rispettare le regole che la sua vita le imponevano; mi sono ripetuta per anni che non avrei commesso lo stesso sbaglio. Inoltre ho attribuito la colpa della malattia che l’ha consumata all’uomo che le aveva solo fatto credere di amarla. È questo l’insieme di motivi per cui ho voluto sempre tenermi lontano dagli Occidentali, fossero essi clienti o semplici viandanti di passaggio-.
Jean ammutolì e fece ammenda dei suoi peccati in silenzio: averla scelta come sua musa doveva averle provocato non poco dolore. Se solo i suoi occhi fossero stati catturati da un’altra ragazza, le ferite ancora non completamente rimarginate di Mikasa non sarebbero tornate a sanguinare come il primo giorno.
-Poi siete arrivato voi-, disse la geisha, continuando a camminare. -Un artista francese che si diceva interessato a conoscere la cultura giapponese. Vi dirò la verità: sono sempre scettica quando sento un Europeo parlare di cose simili. Un ragazzo così giovane, che aveva intrapreso un viaggio tanto lungo solo per studiare l’arte del mio Paese… Ho deciso di darvi fiducia. Ma quando ho sentito che il vostro cognome era tedesco… Sono stata davvero tentata di tirarmi indietro. Se non fosse stato per l’intervento provvidenziale di Sayuri-san, ora non saremmo qui a parlarne-.
La passeggiata li aveva portati nella zona centrale del Parco Maruyama: ora davanti a loro si apriva un lungo viale di ciliegi in fiore e Jean li contemplò a bocca aperta, mentre Mikasa reprimeva un debole sorriso nel vedere quell’espressione di sincera sorpresa illuminargli il viso.
-Voi siete diverso; l’ho capito poco per volta, ad ogni nostro incontro. Non mi avete mai forzata a parlare, non avete cercato di scavare nel mio passato; semplicemente siete stato in grado di rendervi conto che non ero disposta ad entrare in confidenza con uno sconosciuto. La vostra passione per l’arte e per i dettagli mi ha mostrato una sensibilità che non avevo mai rintracciato in nessun uomo; e d’improvviso ho realizzato il fatto che prima o poi ve ne sareste andato. Le vostre visite, a cui mi ero tanto abituata, sarebbero cessate ed io sarei tornata ad essere la solita, semplice Mikasa, la geisha che si chiude nel proprio silenzio e non parla se non con le persone che le sono più vicine. Ho cercato di reprimere le sensazioni che nascevano in me ogni volta che vi vedevo; mi sono ripetuta che tutto questo era un errore, che continuare ad incontrarvi mi avrebbe portato alla rovina esattamente come accaduto a mia madre. Ecco perché quella volta vi ho chiesto di non essere più il mio danna, ecco perché volevo che ve ne andaste-.
La ragazza si avvicinò ad un ciliegio e tese un braccio per sfiorare i rami più bassi: alcuni fiori si staccarono e caddero a terra, sostenuti da teneri fili d’erba.
-Ma avete insistito per terminare il dipinto-, proseguì Mikasa, -e quel ritratto ha smosso un’ulteriore corda all’altezza del mio cuore. Proprio nel momento in cui ho capito di non poter tornare indietro, di non poter negare i sentimenti nei vostri confronti, mi avete detto di dover partire: alla fine sono caduta anch’io in una trappola dolce come successo a mia madre-.
Jean le si avvicinò e le poggiò entrambe le mani sulle spalle, costringendola a guardarlo negli occhi: le iridi della ragazza erano velate da una malinconia ancor più profonda rispetto a quella che era possibile rintracciarvi normalmente. Scrutò il suo viso e poi parlò: -Mikasa, siamo ancora in tempo per cambiare le cose. La vostra storia sarà diversa da quella di vostra madre. I più belli dei nostri giorni non li abbiamo ancora vissuti-.
-Ma mi avete detto che ve ne andrete questa domenica-, gli ricordò lei, la voce adesso spezzata dalle lacrime che stava ricacciando con grande sforzo.
-Tornerò da voi-, promise il ragazzo, -lo giuro-.
-Non riesco a credere alle vostre parole. La durata dei vostri sentimenti per me sarà pari a quella della fioritura dei ciliegi: si protrarrà per qualche giorno, poi andrà a scemare. Mi dimenticherete esattamente come fece mio padre ventidue anni fa-.
-Non sono quel tipo d’uomo-, le disse ancora, accarezzandole una guancia. -Inoltre, siete stata proprio voi a dirmi che i fiori di ciliegio rappresentano la vita che si rinnova. Ebbene, ciò che provo si comporterà allo stesso modo: anche quando penserete che io vi abbia dimenticata, il mio amore per voi sarà custodito gelosamente nel mio cuore e sboccerà di nuovo in primavera, esattamente come i fiori che stiamo ammirando insieme in questo momento. Ve lo prometto, Mikasa: non vi lascerò sola. Tornerò da voi provando la stessa gioia e ansia con cui si attende lo splendore dei ciliegi-.
Le afferrò la mano sinistra e se la portò alle labbra, depositandole un piccolo bacio che la attraversò come una scarica elettrica. Intanto, in lontananza, un musica leggiadra si levò nell’aria.
-Cos’è?-, chiese Jean, tendendo l’orecchio per carpire le note.
-È un’antica canzone cinese che i Giapponesi impararono quando si aprirono al commercio con Hong Kong-, disse la ragazza, guardando attentamente il profilo di Jean stagliarsi contro gli alberi alle sue spalle. -S’intitola Hua Sui Yue: significa “fiore, acqua e luna”. Ci sono persone che amano intonarla in occasione dell’Hanami proprio perché la melodia fa pensare ai fiori di ciliegio che cadono sulla superficie dei laghi creati nei parchi e nei giardini e di notte spiccano come stelle al chiarore della luna-.
I due ascoltarono per alcuni minuti gli accordi dello shamisen e poi tornarono a guardarsi. Mikasa dovette abbassare gli occhi con fare imbarazzato quando Jean le sorrise; fu allora che si alzò una tiepida brezza che fece volare verso di loro decine di boccioli rosa staccatisi dai rami sotto cui si trovavano. In quella tempesta di colore, la ragazza si tuffò tra le braccia del giovane e premette il viso contro il suo petto.
-Aishiteru-, bisbigliò, tenendo la testa bassa e reprimendo il bisogno di piangere, mentre Jean la stringeva a sé e le accarezzava la schiena.
-Non è mai troppo tardi per dirlo-, le sussurrò lui ad un orecchio, baciandole la fronte e lasciandosi ancora cullare da centinaia di petali di ciliegio.

 

Note dell’Autrice:
I luoghi qui citati sono tutti realmente esistenti, così come sono tutt’oggi molto sentite le tradizioni relative alla Miyako Odori e all'Hanami, rispettivamente momento di celebrazione e contemplazione dei ciliegi in fiore.
Kyoto è attualmente la città giapponese in cui vive la più grande ed importante comunità di geishe il cui nome è proprio Gion Kobu. L’altra comunità è quella di Gion Higashi.
I quartieri residenziali delle geiko (è questo il nome usato per indicare specificatamente le geishe di Kyoto) sono chiamati Hanamachi e le donne vivono all’interno di case, le okiya, in cui si sottopongono fin da ragazze ad un duro addestramento che distingue fasi diverse; una volta raggiunto lo status di geisha si può insegnare ad un’altra principiante, che prenderà il nome di imoto-san, “sorella minore”. Ogni casa è diretta da una okasan, una geisha più anziana che si occupa dell’educazione di tutte le apprendiste.
Poiché le spese venivano e sono ancora oggi sostenute dall’okasan, è dovere delle aspiranti geishe pagare i debiti accumulati nel corso degli anni; in molti casi le donne non riuscivano a saldare la somma e allora potevano richiedere l’aiuto di un danna, un protettore benestante, se non ricco, che assicurava loro i costi delle spese a cui il lavoro di geisha metteva di fronte. Oggi questa tipologia di relazione è ancor più rara che in passato.
Vincent Van Gogh è l’autore di un dipinto, “La cortigiana”, risalente al 1887, ma non è mai stato di persona in Giappone. Si ispirò alle raffigurazioni e alle stampe nipponiche che in quel periodo dilagavano in tutta Europa.

   
 
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