Petali di ciliegio
La
carrozza si fermò nel bel mezzo di
una delle strade più trafficate della città.
Erano le undici di un martedì
mattina e il fermento urbano catturò particolarmente
l’attenzione del giovane
straniero venuto da lontano; si guardò intorno attraverso i
vetri opachi del
mezzo su cui viaggiava e poi scese, correndo il pericolo di essere
travolto da
un carretto di legno trasportante ortaggi a volontà.
-Vanno al mercato-, disse il suo
accompagnatore in un francese praticamente perfetto.
-Non è tardi?-.
-Vi sbagliate. Durerà fino in tardo
pomeriggio ed è normale vedere i contadini delle campagne
più lontane arrivare
a quest’ora. Non siatene sorpreso-.
-In Francia sarebbe considerato
insolito-, sorrise lui. -Ma sapete cosa vi dico? Forse le cose vanno
molto
meglio qui che nel mio Paese-.
-Aspettate a dirlo-, ribadì l’altro.
-Il Giappone ha mille pregi, ma non meno difetti-.
Era strano ascoltare quell’obiezione
da un nativo del posto. Il ragazzo era arrivato solo due giorni prima,
ma fino
a quel momento aveva apprezzato ogni aspetto di quel magnifico Stato
orientale.
-Quanto è grande questo distretto?-,
chiese all’uomo, notando il via vai di decine di persone che
si erano riversate
per strada.
-È uno dei principali-, spiegò il
cocchiere. -Dov’è che dovete andare?-.
-Alla comunità di Gion Kobu. Sapete
indirizzarmi?-.
-Se salite di nuovo in carrozza, vi ci
accompagno subito-, disse quello. -Kyoto è gigantesca e
correreste il rischio
di perdervi. Non dista molto da qui, a dire il vero, ma vi trovereste
in
difficoltà se chiedeste informazioni ai passanti. La maggior
parte delle
persone non capisce una parola di francese-, rise.
-Andiamo, allora-, Jean Kirschtein batté
le mani, prendendo posto sui sedili posteriori del mezzo. -Devo parlare
urgentemente con una persona e non posso aspettare oltre-.
***
Il
cavallo rallentò il passo e si
arrestò in una stradina secondaria circondata da case
protette da alti steccati
di legno. Avevano impiegato poco meno di mezz’ora per
raggiungere quell’angolo
della città e adesso a Jean parve di ritrovarsi in un luogo
completamente
diverso: non c’era alcun vociare, nessuno sciame di gente dal
passo veloce
diretta al mercato. Il quartiere era avvolto nel silenzio.
-Siamo arrivati-, lo informò il
cocchiere, mentre il ragazzo scendeva di nuovo e gettava
un’occhiata
tutt’intorno. -Quella di fronte a voi è
l’entrata. Era della famosa okiya
che stavate parlando, giusto?-.
Il Francese annuì: -Esatto. Finalmente
sono arrivato-.
-Volete che vi accompagni?-, domandò
l’uomo. -Come vi ho detto prima, non sarà facile
incontrare qualcuno che parli
la vostra lingua. Dovete innanzitutto incontrare l’okasan, se volete accedere
all’edificio, e non credo che capirebbe
ciò che le state dicendo-.
-Vi offrite come interprete? Dovrò
aggiungere parecchi yen in più alla vostra paga-, sorrise
Jean.
-Pattuiremo in seguito la somma-,
tagliò corto il cocchiere. -Seguitemi, adesso-.
L’accompagnatore lo precedette oltre
la soglia della casa a due piani che si erigeva dritta di fronte a
loro; un
piccolo sentiero di ciottoli portava all’ingresso della
costruzione, attorniata
da lanterne di carta rossa su cui erano dipinti i tipici ideogrammi
giapponesi.
-Kyoka?-.
-Kitaru,
kimasu!-.
Il cocchiere si tolse le scarpe e Jean
lo imitò, poggiandole accanto alla porta. Quando entrambi
rialzarono lo
sguardo, si videro accolti da una corpulenta donna di mezza
età
dall’acconciatura elaborata e dal lungo kimono blu che con
piccoli gesti fece
loro segno di accomodarsi in una stanza adiacente.
Si sistemarono tutti e tre in una
cameretta dalla pianta quadrata al centro della quale stava un basso
tavolino
di legno attorniato da cuscini su cui andarono a sedersi. Chiusa la
porta a
scorrimento che separava quell’ambiente dal corridoio
d’ingresso, la donna si
inginocchiò e poggiò con calma le mani sulle
proprie gambe, chiedendo qualcosa
di incomprensibile al suo conterraneo. Il cocchiere tradusse per Jean,
completamente spaesato: -Sayuri-san chiede se siete qui per avere
informazioni
sulla cerimonia di domani sera o se volete intrattenervi con le ragazze
della
casa-.
-No, no-, scosse la testa il ragazzo.
-Ditele che sono qui per lavoro. Sono stato indirizzato dal circolo di
pittori
di cui faccio parte-.
L’uomo tradusse e la donna parlò di
nuovo.
-Vi domanda il vostro nome e il Paese
da cui venite-.
-Jean Kirschtein, nato a Marsiglia, in
Francia, ormai ventitré anni fa. Sto finendo di studiare
Arte presso
l’Università di Parigi, ma ho intrapreso un lungo
viaggio per mare con il solo
scopo di conoscere le forme figurative in uso in Giappone-.
Il cocchiere ripeté meccanicamente e
la donna, Sayuri, aggiunse qualcos’altro.
-Avete qualche legame con un certo
Vincent? È stato qui l’anno scorso e ha ritratto
una delle mie ragazze in abiti
tradizionali. Ricordo che fosse Olandese, ma avrebbe fatto ritorno a
Parigi, da
cui era partito-.
Gli occhi di Jean si illuminarono a
sentire quelle parole uscire dalla bocca del suo accompagnatore:
-Vincent!-,
esclamò. -Lo chiamate come se fosse un vostro familiare, ma
è il più grande
artista di quest’epoca! Stiamo parlando di Van Gogh, la mia
maggior fonte di
ispirazione! Sì, sì, proprio lui-,
annuì ancora. -I suoi quadri influenzati da
persone e paesaggi giapponesi mi hanno così colpito da
costringermi a visitare
questo straordinario Paese. Ed è per questo che sono qui
oggi, per chiedervi
aiuto, Sayuri-san-.
Vide il volto della donna corrucciarsi
e si sentì domandare cosa volesse.
-Vorrei cimentarmi anch’io in un
ritratto-, spiegò velocemente il ragazzo. -Di solito
preferisco dedicarmi all’analisi
della natura, ma credo che l’immagine che noi Europei abbiamo
della vostra
cultura sia completamente diversa dalla realtà, non
è vero? Ecco perché mi
piacerebbe calarmi interamente nell’atmosfera in cui vivete.
Vorrei partecipare
a cerimonie particolari e conoscere meglio le vostre usanze; inoltre,
vorrei
chiedervi se sia possibile scegliere una tra le ragazze che vivono in
questa okiya per abbozzare il
quadro che
esporrò in Francia-.
Il cocchiere tradusse e la donna diede
la propria risposta, sollevando un sopracciglio con fare dubbioso: -Per
quanto
tempo resterete a Kyoto?-.
-Il tempo necessario per finire il
dipinto-.
-Avete fretta di tornare in Europa?-.
-Mi è stato detto di fare con calma. A
casa sanno bene che sono qui per studio e lavoro; non ho alcuna
pressione-.
-Bene-.
Sayuri-san inspirò profondamente, come
se non fosse convinta di far bene a parlare di ciò che
voleva rivelare: -A
partire da domani sera si terrà la cerimonia della Miyako Odori. È una tradizione
che si ripete di anno in anno in
questo periodo, tra la fine di marzo e l’inizio di aprile,
per celebrare la
fioritura degli alberi di ciliegio. Se davvero siete interessato alla
nostra
cultura, questo è ciò che Kyoto ha da offrirvi;
siete invitato a partecipare-.
-Vi ringrazio infinitamente!-, Jean
chinò la testa ripetutamente e congiunse le mani per
indicarle tutta la sua
riconoscenza. -Non mancherò di…-.
-La celebrazione inizierà alle cinque
del pomeriggio e avrà luogo nel Teatro Kaburenjo, situato
accanto alla nostra okiya. Le mie
ragazze saranno impegnate
nella realizzazione della danza e avrete l’occasione di
scegliere la modella
che poserà per voi-.
Sayuri-san si alzò compostamente e
scambiò qualche altra parola con il cocchiere, che si
affrettò a chiedere a
Jean se avesse altre domande da porgere.
-Nulla-, rispose lui, mettendosi in
piedi a sua volta. -Ringraziatela ancora da parte mia per tutto
l’aiuto
offerto-.
L’okasan
aprì la porta e accompagnò i visitatori
all’ingresso. Mentre i due uomini
rimettevano le scarpe, rivolse un nuovo interrogativo al suo
conterraneo.
-Cosa ha detto?-, domandò Jean.
-Voleva sapere dove alloggiate. Mi
sono permesso di rispondere direttamente-, replicò il
cocchiere.
-Vicino al Santuario di Yasaka-,
ribadì comunque il ragazzo, certo che la donna avrebbe
capito sentendo quel
nome. -Arrivederci, Sayuri-san-.
-Sayonara!-,
esclamarono ad una sola voce l’okasan
e l’accompagnatore, congedandosi definitivamente.
***
-Posso
farvi una domanda?-.
Jean aveva richiamato la carrozza e si
apprestava a raggiungere il teatro che gli era stato indicato il giorno
prima.
Uscì dalla locanda in cui aveva preso dimora e fu accolto
all’esterno dal
cocchiere Yuki, ormai sua fidata guida in quel groviglio di
città.
-Certamente-, lo invitò a parlare,
esitando per un secondo a salire sul mezzo di trasporto.
-Come mai volete ritrarre proprio una geisha?
Ci sono decine di donne, qui in
Giappone, disposte a pagare migliaia di yen pur di comparire nel
dipinto di un
artista occidentale; cosa vi ha indotto a scegliere una figura nascosta
come
una geiko di Kyoto?-.
Jean sorrise, felice per l’interesse
mostrato da Yuki: -Vedete, è proprio questa condizione di
mistero ad
intrigarmi. E credetemi quando vi dico che in Europa le geishe
sono concepite come creature che hanno il semplice dono di
sedurre; quello che mi propongo di fare è catturare
l’essenza più intima di una
donna orientale. Quando ho visto il ritratto del maestro Van Gogh, poco
meno di
un anno fa, sono stato colpito dalla concezione che aveva elaborato
stando qui
a Kyoto: era convinto che le geishe
fossero le donne più sottomesse della terra, disposte anche
a farsi calpestare
pur di compiacere i desideri di un uomo. Ma da quello che ho potuto
osservare
entrando a contatto con Sayuri-san, deduco che questi pensieri siano
evidentemente
infondati-.
-L’okasan
di cui state parlando è famosa per la sua
severità e rigidità morale-,
sottolineò il cocchiere. -Tutti a Kyoto conoscono il suo
nome, anche chi non
frequenta abitualmente l’okiya
di
Gion Kobu-.
-E per questo mi ritengo privilegiato
a poter partecipare alla cerimonia a cui mi ha invitato-, aggiunse
Jean,
salendo sulla carrozza. -A proposito-, sembrò ricordare in
un secondo momento,
-sapete dirmi in cosa consiste questa celebrazione? Devo aspettarmi un
vero e
proprio spettacolo?-.
-Non posso spiegarvi adeguatamente
perché non ho mai avuto né la fortuna
né il denaro necessario per entrare nel
Teatro Kaburenjo-, disse Yuki, -ma so che ad esibirsi sono le maiko e le geishe
di Gion Kobu. Propongono una danza coreografica della durata
di circa un’ora e si dice che indossino i kimono
più sgargianti in loro
possesso. Vi invidio, sapete? Sono pochi a potersi permettere di
assistere ad
uno spettacolo così caratteristico-.
-Perché non venite anche voi?-, gli
propose Jean. -Ho denaro a sufficienza per pagare anche la vostra quota
d’ingresso; e poi diciamocelo, cosa capirei se non avessi con
me un interprete
affidabile?-.
Il cocchiere sorrise e scosse la
testa: -Vi ringrazio per l’offerta, ma non posso comunque
partecipare. Il mio
ceto sociale non soddisfa i requisiti richiesti al pubblico-.
-Sarà una cerimonia elitaria in tutto
e per tutto, allora!-, esclamò il ragazzo.
-Esatto. Perciò riempite i vostri
occhi con le movenze armoniche delle geishe
e colmatevi le orecchie di musica, perché poi dovrete
raccontarmi ogni cosa fin
dal principio-.
***
Il
Teatro Kaburenjo si trovava sul
lato opposto dell’okiya di
Gion Kobu.
Esternamente si presentava come una struttura non molto alta e dal
tetto
apparentemente sproporzionato, decorato con inserti in legno e lanterne
di
carta rossa e bianca che pendevano dalle travi che lo sorreggevano.
Accanto
all’entrata erano stati piantati due alberi di ciliegio che
non attendevano
altro di veder fiorire i piccoli boccioli rosa che coprivano la gran
parte dei
rami, molti dei quali si protendevano verso il teatro quasi a volerlo
abbracciare.
Quando Jean scese dalla carrozza e si
beò di quello spettacolo, perse la capacità di
articolare un singolo suono. Fu Yuki
a riportarlo alla realtà, accompagnandolo fino
all’ingresso per poter
rintracciare e parlare con Sayuri-san.
Fortunatamente la donna si lasciò
trovare con facilità e dopo aver scambiato alcune parole con
il cocchiere
accompagnò l’ospite francese attraverso una serie
di corridoi che portavano
alla sala. Oltrepassarono degli androni in cui si stava accalcando il
pubblico
ed infine raggiunsero la meta.
La donna gli disse qualcosa di
incomprensibile nella propria lingua, ma il ragazzo immaginò
che lo stesse
invitando ad entrare nella stanza successiva, a cui si accedeva
scostando un
pesante broccato rosso che separava l’ambiente seguente dal
corridoio. Seppur
titubante, Jean obbedì e fece il proprio ingresso, seguito a
pochi passi di
distanza da Sayuri-san.
Si ritrovò in un grande salone che
sembrava scolpito nel legno. Le pareti erano molto più alte
di quello che si
era aspettato studiando l’edificio dall’esterno e
si accorse solo allora che,
come nei teatri occidentali, era presente la distinzione tra galleria,
posta
proprio sulla sua testa, e platea. Ad una prima occhiata
giudicò che ci
dovessero essere circa duecento posti a sedere, molti dei quali
immaginò essere
già stati occupati o prenotati con largo anticipo dallo
sciame umano che si
apprestava ad assistere allo spettacolo.
Sedie e pavimento erano foderati di
tessuto rosso; perfino la luce soffusa che illuminava
l’ambiente sembrava
rossiccia, complice l’effetto fornito dalle solite lanterne
di carta che
contornavano il perimetro della sala. Jean spostò poi lo
sguardo sul palco,
rialzato di un metro e mezzo rispetto al livello della platea, e
notò il sipario
di spessa carta di riso su cui erano riportati con inchiostro nero, in
alto a
destra, cinque ideogrammi; il resto dello sfondo era decorato con
ondine
dipinte con colori chiari, appena visibili alla distanza a cui si
trovava il
ragazzo.
Sayuri-san lo chiamò e gli fece segno
di seguirla. Lo accompagnò vicino al palco ed
indicò la seconda fila,
mostrandogli il posto che gli era stato lasciato.
-Grazie, Sayuri-san-, disse lui,
chinando la testa e congiungendo le mani come aveva fatto il giorno
prima.
-Anzi… Arigatou-.
La donna gli sorrise e si dileguò,
mentre altra gente faceva ingresso in sala e occupava le sedie attorno
a quella
di Jean. Il giovane diede una rapida occhiata all’ora segnata
sull’orologio che
nascondeva nel taschino interno della giacca e si disse che non avrebbe
dovuto
attendere ancora molto prima dell’inizio
dell’esibizione.
Mentre aspettava che la cerimonia
cominciasse, esaminò attentamente le persone che entravano
dallo stesso
ingresso che lui aveva attraversato pochi minuti prima: la maggior
parte degli
spettatori era composta da uomini, più o meno giovani; le
donne erano
pochissime e tutte rigorosamente accompagnate da figure maschili,
fossero
questi i loro padri, fratelli o mariti. Jean si ripeté che
in fondo non doveva
aver poi sbagliato nel ritenere le geishe
donne completamente indipendenti e libere da qualsiasi legame
vincolante con
gli uomini.
Presto la sala si riempì e risuonarono
i mormorii sommessi del pubblico. Tutti fremevano, desiderosi di
assistere allo
spettacolo, e di colpo tacquero quando il sipario fu lentamente tirato
su.
Jean si sistemò meglio sulla sedia e
studiò la scenografia: sul fondo era stato applicato un
pannello di legno su
cui era dipinto il Santuario di Yasaka e tutto intorno erano stati
sistemati
degli alberi di ciliegio in fiore realizzati con carta colorata; dal
soffitto
pendevano centinaia di rami coperti di boccioli rosa,
anch’essi ottenuti dalla
carta di riso. Sul lato destro del palco, sedute a terra,
c’erano otto donne di
mezza età che indossavano severi kimono neri spezzati in
vita da un’unica
fascia bianca; ciascuna di loro stringeva tra le braccia uno shamisen, il tipico strumento musicale
tradizionale
che Jean aveva visto raffigurato in alcuni dipinti che aveva ammirato
dal vivo
nelle esposizioni d’arte a Parigi.
Fu questo gruppo di anziane geishe
a dare inizio alla cerimonia: il
suono metallico scaturito dagli shamisen
stridette per alcuni istanti nelle orecchie del giovane francese, che
si abituò
gradualmente e finì per apprezzare ogni nota suonata e
armonizzata dal canto
delle donne. Quando la musica andò a sfumare, salirono sul
palco trenta ragazze
dai kimono sgargianti: gli abiti che indossavano erano identici gli uni
agli
altri, caratterizzati da una stoffa di un bell’azzurro cielo
su cui spiccavano
variopinti fiori di ciliegio a cinque petali; lo stesso motivo floreale
si
rintracciava sulla gonna, così stretta da impedire alle
giovani di muovere
passi troppo lunghi. I loro fianchi erano cinti di una fascia rossa,
gialla e
bianca che faceva risaltare la loro magrezza; un’acconciatura
particolarmente
elaborata ed un ventaglio rosa completavano l’abbigliamento
di ciascuna
ragazza, che teneva tra le mani anche un fiorito ramo di ciliegio
ricavato
dalla solita carta.
Jean osservò con meraviglia i piccoli
gesti compiuti dalle danzatrici. Molte di loro erano così
giovani che il
Francese dedusse essere ancora delle apprendiste; nessuna di loro,
comunque,
riuscì a catturare il suo sguardo, che si spostava di viso
in viso alla ricerca
della miglior musa ispiratrice.
Quando la danza delle ragazze fu
terminata, esse si inginocchiarono compostamente a terra, proprio al
margine
del palco. Calò di nuovo il silenzio, ma fu interrotto da un
accordo più
allegro di shamisen che diede
ufficialmente inizio alla seconda parte dello spettacolo.
Le ragazze furono allora raggiunte da
altre dieci donne evidentemente più grandi ed esperte di
loro. Ognuna indossava
un kimono diverso dall’altra, quasi a ribadire la propria
unicità, e l’unico
oggetto di scena che le accompagnava era un ventaglio, rosa come quello
utilizzato dalle apprendiste.
Le nuove arrivate si esibirono con
innata grazia e Jean si disse che quelle dovevano essere geishe
a tutti gli effetti: avevano sicuramente portato a termine
l’apprendistato necessario per svolgere il mestiere a cui
avevano deciso di
dedicare la vita intera. Il ragazzo passò in rassegna i
volti delle donne e
poi, senza alcun preavviso, percepì un vuoto allo stomaco.
Sulla destra, a chiudere la fila
ordinata composta dalle sue compagne, c’era una giovane
differente dalle geiko che aveva
visto fino a quel
momento. Seguì rapito le sue movenze delicate, senza
staccare mai gli occhi da
quelle sottili mani bianche che facevano ruotare il ventaglio rosa
dietro cui,
di tanto in tanto, ella nascondeva il viso, pallido anch’esso
a causa del
tipico trucco usato dalle geishe. I
suoi occhi erano contornati da una linea purpurea che metteva in
risalto le
iridi nere antracite e le labbra erano dipinte con la stessa
tonalità di rosso.
I capelli, lunghi e neri, erano raccolti come quelli delle altre
ragazze, ma
decorati in modo ancor più ricco: erano veri fiori di
ciliegio quelli che le
contornavano la testa e sulla fronte le ricadeva una numerosa serie di
perline
bianche; il kimono che indossava era caratterizzato da ghirigori
azzurri,
bianchi e gialli, che risaltavano sulla stoffa di un intenso rosso
scuro.
Jean l’ammirò per tutta la durata
della danza. Ormai non riusciva a vedere null’altro che
quella misteriosa
ragazza dall’espressione enigmatica che sembrava nascondere
mille segreti
dietro una maschera fatta di concentrazione. Quando si rese conto di
aver perso
la concezione del tempo, capì di aver trovato la musa che
stava cercando.
La Miyako Odori proseguì con altri due
balli a cui parteciparono sia le trenta, giovani apprendiste sia le geishe. Prima del termine della
celebrazione, il pubblico fu intrattenuto con la famosa cerimonia del
tè, che per
il giovane francese chiuse un pomeriggio di completa immersione nelle
tradizioni giapponesi. Prima che il sipario calasse, le quaranta
ragazze,
dividendosi in coppie, salutarono gli spettatori con un lieve cenno
della testa
a cui seguirono scrosci di applausi entusiasti che accompagnarono anche
l’entrata sulla scena dell’okasan,
salita sul palco per ringraziare silenziosamente il pubblico per aver
partecipato a quella festa di inizio primavera.
Jean avrebbe voluto parlare con
Sayuri-san quella sera stessa, ma una volta terminata la cerimonia
venne
letteralmente trascinato fuori dal teatro dalla folla che si apprestava
a
tornare a casa. Non gli rimase altro che riprendere la carrozza, dove
il
cocchiere lo stava pazientemente aspettando, e rifugiarsi di nuovo
nella
locanda in cui risiedeva, con il proposito di recarsi a Gion Kobu il
giorno
seguente.
***
-Bentornato,
signor Kirschtein!-, le
parole dell’okasan lo
accolsero
tramite la bocca del fedele Yuki, a cui quella mattina Jean aveva
chiesto di
accompagnarlo all’okiya di
Sayuri-san.
-Avete apprezzato la danza delle mie ragazze?-.
-Oh, semplicemente magnifiche-,
rispose il giovane con un sorriso, togliendosi le scarpe e poggiandole
accanto
alla porta d’ingresso. -Non saprei descrivervi adeguatamente
le sensazioni che
ho provato-.
-Sono orgogliosa di sentirvelo dire;
la Miyako Odori è una tradizione a cui la città
di Kyoto, e in particolare la
nostra comunità di geiko,
è molto
legata-.
Sayuri-san aspettò che il cocchiere
finisse di tradurre per aggiungere: -Ma ditemi: avete trovato una
ragazza che
faccia al caso vostro?-.
-Proprio di questo voglio parlarvi-,
si affrettò a rispondere Jean. -Una vostra apprendista ha
catturato
particolarmente la mia attenzione e credo che sarebbe un soggetto
davvero
interessante da ritrarre-.
-Un’apprendista, dite? Allora sarà
necessario convocare le maiko
affinché possiate riconoscerla. Indossavano tutte lo stesso
kimono e…-.
-Vi sbagliate-, il giovane interruppe
la traduzione simultanea di Yuki. -La ragazza a cui mi riferisco
indossava un
abito completamente diverso: era rosso porpora, con decorazioni
azzurre, gialle
e bianche-.
L’espressione di Sayuri-san si rabbuiò
tutto d’un colpo. La sua voce si fece più bassa e
profonda, riducendosi pian
piano quasi ad un sussurro: -Credo di aver capito di chi state
parlando. Ma
preparatevi ad un rifiuto: difficilmente accetterà di posare
per voi-.
La donna sospirò mentre Yuki metteva
Jean al corrente della notizia.
-Ma…-, provò a dire il ragazzo,
venendo interrotto dall’okasan.
-Aspettate qui-, intervenne lei.
-Tornerò tra qualche minuto con il responso-.
Sayuri-san si allontanò lungo il
corridoio d’ingresso e svoltò a sinistra,
scomparendo alla loro vista. I due
uomini rimasero in attesa, incerti sul da farsi.
-Chissà perché ha reagito così?-, si
domandò ad alta voce Jean. -Forse avrei dovuto avere un
atteggiamento
diverso?-.
-Non penso che sia questo, il
problema-, disse Yuki. -Temo che abbiate scelto una ragazza difficile-.
Jean sospirò: ebbe paura che il suo
soggiorno sarebbe stato più breve del previsto.
L’ultima cosa che desiderava
era tornare in Francia portando con sé il peso del
fallimento.
I minuti successivi sembrarono durare
un’eternità. Il giovane prese a camminare avanti e
indietro nel vano tentativo
di allentare la tensione che stava crescendo in lui con il trascorrere
del
tempo e il cocchiere provò a rassicurarlo, dicendo che nulla
era ancora
perduto: inoltre, anche se la ragazza scelta avesse rifiutato la sua
proposta,
ne avrebbe sempre potuta individuare un’altra tra quelle che
aveva visto la
sera precedente.
Jean scosse la testa, rimanendo chiuso
nel suo mutismo: sapeva bene che nessun’altra sarebbe stata
all’altezza delle
sue aspettative. Osservando la misteriosa geisha
su cui aveva messo gli occhi, aveva perfino già immaginato
come ritrarla.
Sayuri-san tornò con espressione
enigmatica e disse qualcosa a Yuki. Il cocchiere, traducendo,
consigliò a Jean
di seguirla.
-Voi non venite con me?-, gli chiese
il ragazzo.
-L’okasan
dice che non avrete più bisogno del mio aiuto-.
-Cosa significa?-.
-Andate con lei e vedrete con i vostri
occhi-.
Yuki si congedò con un inchino e uscì
dall’okiya, mentre Jean,
perplesso e
spaesato, si vedeva costretto a seguire ogni passo di Sayuri-san.
Oltrepassarono alcune stanze che si
aprivano in fondo al corridoio e si ritrovarono nel portico che
abbracciava un
giardino di modeste dimensioni al centro del quale sorgeva un laghetto
artificiale. Jean trattenne il respiro nell’ammirare quel
perfetto equilibrio
tra natura e uomo, ma ancor di più sentì il cuore
perdere un battito quando
vide lei.
Seduta su un sedile di pietra accanto
ad uno dei bonsai che circondavano il lago, c’era la ragazza
che lo aveva
ispirato. Fissava un punto imprecisato davanti a sé e
sembrava immersa nei suoi
pensieri, in attesa che l’okasan
tornasse con l’ospite straniero.
Sayuri-san si fermò un attimo lungo il
portico per dire qualcosa che Jean non fu in grado di capire, poi
proseguì la
camminata fino a scendere nel giardino. Richiamò
l’attenzione della giovane geisha
e quella si alzò, andando
lentamente incontro a loro due.
Jean fissò la ragazza per tutta la
durata del breve discorso fra lei e l’okasan.
Spostò lo sguardo dalla sua acconciatura, meno elaborata
rispetto a quella
esibita la sera prima, al viso ora privo del pesante trucco bianco che
durante
la Miyako Odori le aveva coperto le guance, fino ad ammirare il kimono,
quel
giorno di un brillante blu notte con ricami argentei.
Dal canto suo, la giovane lo guardò di
sottecchi, come se incrociare gli occhi dello straniero potesse
rivelarsi
un’azione fatale. La sua espressione rimase impassibile per
tutto il tempo,
finché non fu costretta a parlare.
-Siete voi il pittore che ha chiesto
di vedermi?-, domandò, scandendo ogni parola in un francese
perfetto.
-Voi capite e parlate la mia lingua?-,
si sorprese Jean, rimanendo ulteriormente affascinato da quella
creatura
eterea.
-Sì. Ma rispondete, per favore-.
-Sono io-, asserì lui. -Jean
Kirschtein. Vengo da Marsiglia-.
La ragazza fu sul punto di sollevare
un sopracciglio e lui immaginò che stesse per fargli
un’altra domanda, ma fu
immediatamente smentito.
-L’okasan
mi ha detto che siete venuto in Giappone con il proposito di studiare e
ritrarre figure tradizionali della nostra cultura-.
-Esatto. Sayuri-san mi ha cortesemente
invitato a partecipare alla Miyako Odori di ieri sera e non ho potuto
fare a
meno di ammirarvi. Credetemi, brillavate come una stella tra tutte le
altre
donne-.
-Vi ringrazio del complimento, ma non
posso accettare la vostra proposta-, tagliò corto lei. -Non
ho desiderio di
posare per un artista occidentale-.
-Ma vi pagherò!-, esclamò Jean, sicuro
che parlare di un compenso avrebbe allettato la giovane. -Non
ruberò il vostro
tempo per…-.
-Il denaro non mi interessa-, rispose
la geisha. -Forse nel vostro Paese
le
cose funzionano così, ma io non mi lascerò
comprare né corrompere dai vostri
soldi. E adesso, se volete scusarmi, devo ritirarmi-.
La ragazza si congedò con un inchino e
voltò loro le spalle, ma l’okasan,
rimasta accanto a Jean durante l’esigua discussione, la
chiamò indietro e, con
fare concitato, la bloccò per un polso, costringendola a
girarsi di nuovo.
Nei cinque minuti successivi regnò il
caos: le due donne parlarono animatamente e il ragazzo
immaginò che stessero
litigando. Avrebbe voluto intervenire, ma cosa avrebbe potuto fare?
Anzi, c’era
il rischio che complicasse le cose.
-Hai,
hai-.
La geisha
inspirò profondamente e si fece avanti, tornando a pochi
passi da Jean.
Stavolta c’era un’espressione arrendevole ad
ammorbidirle il viso: -L’okasan
vuole convincermi ad aiutarvi. Mi
sono opposta con tutte le mie forze, ma sembra che sarò
costretta ad eseguire i
suoi ordini-.
Si bloccò per qualche secondo, prima
di continuare: -Vuole che siate il mio danna-.
Jean la guardò con un pizzico di
stupore: -Danna?-, ripeté.
-È un… Come si dice nella vostra
lingua? Protettore. Un uomo che può permettersi di aiutare
una geisha a pagare le spese che
deve
sostenere per esercitare il proprio mestiere-.
Il ragazzo trattenne il respiro:
-Questo è quello che propone Sayuri-san, ma voi? Siete
disposta ad accettare il
mio aiuto?-.
La giovane donna distolse lo sguardo e
lo lasciò vagare sulla superficie del laghetto: -Solo per il
tempo necessario a
completare il vostro dipinto-, proferì.
-Dunque poserete per me?-, domandò di
nuovo Jean, desideroso di accertare la veridicità di quelle
parole.
La geisha
annuì con un cenno della testa.
-Quando posso tornare per
cominciare?-, chiese lui, gli occhi che brillavano per la
felicità.
-Decidete voi-, replicò la ragazza.
-Sono a vostra disposizione-.
-Domani sarebbe un problema? Sapete,
non vedo l’ora di…-.
-Domani pomeriggio sarà perfetto-,
rispose sbrigativamente la giovane.
-Perfetto!-, esclamò Jean,
sorridendole apertamente. -Vi ringrazio infinitamente per aver
accettato. Non
avete idea di quanto…-.
-Ora devo andare-, lo interruppe lei. -La
mia imoto-san mi aspetta per le
lezioni della tarda mattina. Sayonara,
signor Kirschtein-.
La ragazza scambiò qualche frase con
Sayuri-san e lo straniero immaginò che le stesse dicendo di
accompagnarlo
fuori; quando fu sul punto di allontanarsi, Jean le disse: -Non mi
avete ancora
detto il vostro nome-.
La geisha
si voltò: -Chiamatemi semplicemente Mikasa-, rispose,
scomparendo all’interno
dell’okiya.
***
Il
venerdì mattina Jean si svegliò
presto, preso com’era dall’eccitazione di iniziare
il quadro che aveva deciso
di dipingere. Prese una tela dal baule che aveva portato con
sé da Parigi ed
estrasse il cavalletto di legno che aveva avvolto in un lenzuolo per
evitare
che si rompesse durante il viaggio in mare, recuperando poi tavolozza,
pennelli
e colori ad olio. Sistemò tutto sul letto ancora disfatto ed
esaminò la
superficie bianca del futuro ritratto, immaginando come avrebbe
disposto gli
elementi all’interno della composizione.
Sorrise nel pensare alla strana
ragazza che aveva dato il suo consenso solo perché pregata
– o forse sarebbe
stato meglio dire obbligata? – da Sayuri-san, la donna a cui
evidentemente
doveva tutto; sperò di poter parlare apertamente con Mikasa
nel momento in cui
sarebbero stati da soli, ma si disse anche di non illudersi, visto che
la
giovane non era stata poi così entusiasta all’idea
di essere ritratta da lui.
Una frase in particolare lo aveva
colpito: la geisha aveva affermato
di
non voler posare per un artista occidentale. Significava forse che non
avrebbe
avuto alcuna esitazione, se Jean fosse stato giapponese? O
c’era un motivo più
profondo alla base di quel netto rifiuto?
Il ragazzo scosse la testa, deciso a
scacciare quei pensieri molesti dalla propria mente; non aveva alcun
senso
porsi delle domande a cui per il momento non avrebbe ricevuto risposta.
Trascorse gran parte della mattinata studiando e scegliendo i colori
migliori
per catturare a dovere l’immagine di Mikasa; nel primo
pomeriggio, subito dopo
aver pranzato, salì nuovamente in carrozza e Yuki lo
accompagnò a Gion Kobu,
stavolta senza entrare nell’okiya.
Jean fece il suo ingresso e venne
accolto da due giovani maiko che
ricordava di aver visto durante la Miyako Odori. Le ragazze lo
accompagnarono
silenziosamente da Sayuri-san, che a sua volta lo scortò
fino ad una stanza
modestamente arredata: un tavolinetto basso era stato posizionato al
centro
della camera ed intorno ad esso stavano sei cuscini. Le pareti erano
decorate
con motivi floreali e vi erano appoggiati dei mobili in legno grezzo su
cui
erano riposte tazzine per tè e sakè.
L’okasan
lo lasciò solo e ad accostò la porta scorrevole.
Di lì a qualche minuto Jean
notò un’esile ombra trafficare dietro la soglia e
Mikasa fece la sua comparsa.
Lo salutò con un cenno della testa e prese posto su un
cuscino di fronte a lui.
-Buon pomeriggio-, la salutò il
ragazzo. -È un piacere rivedervi. Ho portato
l’occorrente per il vostro
ritratto-, disse, mostrandole la tela bianca ed il cavalletto che aveva
poggiato per terra, accompagnato da una borsa in cuoio in cui aveva
sistemato
colori e pennelli.
-Dove preferite dipingere?-, gli
domandò lei, rimanendo fredda come il giorno prima.
-Vorrei che decideste voi-, spiegò
Jean, sperando di riuscire a coinvolgerla. -L’importante
è che vi sentiate a
vostro agio mentre vi ritraggo-.
-Sarà meglio andare in giardino-,
disse Mikasa. -Rimanere in questa stanza non vi fornirà
elementi utili per la
rappresentazione del Giappone, no?-.
Il giovane annuì, colpito dall’analisi
della geisha: -D’accordo.
Spostiamoci
pure-.
Raccolse tutto il necessario e la
seguì all’esterno. Scesero i gradini che portavano
dal porticato al giardino e
si avvicinarono al laghetto.
-Sedetevi lì-, le consigliò Jean,
indicando il sedile di pietra su cui l’aveva vista accomodata
il giorno prima.
-Ieri mi ha colpito molto la vostra naturalezza. Fissavate il lago
così
intensamente da far pensare che in quel momento vi trovaste in un mondo
tutto
vostro-.
Mikasa lo scrutò per un buon minuto e
il ragazzo si sentì arrossire: sentire quegli occhi color
antracite su di sé lo
metteva vagamente a disagio, come se le iridi della giovane potessero
scavare
fino nelle profondità del suo animo.
Senza proferir parola la geisha
sedette, aspettando ulteriori
indicazioni dal pittore. Jean armeggiò con il cavalletto e
bloccò la tela,
poggiando ai propri piedi la borsa ed estraendo una matita.
-Cosa fate?-, domandò dopo qualche
secondo la ragazza, notando lo sguardo concentrato dello straniero
vagare da
lei all’ambiente circostante.
-Per prima cosa devo tratteggiare le
linee guida-, spiegò lui. -Devo dividere la tela in settori
per distribuire
correttamente e proporzionatamente tutti gli elementi che voglio
inserire
all’interno del quadro. Perdonatemi, ma credo che
l’incontro di oggi, e forse
anche il prossimo, saranno dedicati a questa parte della procedura-.
Mikasa non commentò. Rimase
comodamente seduta al proprio posto, osservando il volto di Jean
spuntare di
tanto in tanto da dietro la tela.
-Potete soddisfare una mia
curiosità?-, le chiese il ragazzo, rompendo il silenzio.
La geisha
sollevò impercettibilmente le spalle e lui
continuò: -Chi vi ha insegnato a
parlare francese? La vostra pronuncia è a dir poco perfetta-.
Le sopracciglia di Mikasa si
corrucciarono e Jean si chiese se non avesse toccato un tasto dolente
con
quella domanda apparentemente innocente: -Mia madre-, si
sentì rispondere.
-Conoscete anche altre lingue?-.
Anche stavolta la ragazza esitò a
replicare: -Parlo fluentemente inglese perché molti clienti
stranieri
provengono dalla Gran Bretagna e so distinguere qualche parola di
tedesco-.
Su quell’ultima affermazione il tono
della sua voce si abbassò e Jean si appuntò
mentalmente di non fare più
riferimenti a tutto ciò che riguardava
l’Occidente. A sorpresa, fu Mikasa a
rivolgergli una domanda: -Avete detto di essere Francese, ma il vostro
cognome
non lo è-.
-Mio padre è nato in Germania-, spiegò
il ragazzo, -a Monaco. Un caso fortuito ha voluto che conoscesse mia
madre
durante un soggiorno in Provenza e poi si sono sposati-.
La giovane tacque, sovrappensiero.
Jean si chiese quali riflessioni stessero prendendo forma dietro i suoi
occhi,
ma di nuovo dovette arrendersi al fatto che non avrebbe ottenuto una
risposta
soddisfacente.
Trascorsero le due ore successive per
lo più in silenzio; solo il fischio del vento, in alcuni
momenti più impetuoso,
ricordava loro di trovarsi in un giardino. Quando il ragazzo
annunciò di aver
terminato per quel giorno, Mikasa sembrò sorpresa.
-Tornerò domenica, se non corro il
rischio di disturbarvi-, la informò Jean. -Devo mettere a
punto alcuni
dettagli, prima di stendere il colore-.
-Ci vedremo nel pomeriggio. La mattina
sono sempre impegnata con le lezioni da impartire alle apprendiste-.
-Capisco-, sorrise Jean, piegando il
cavalletto e mettendolo sottobraccio. -Ah, prima che me ne
dimentichi…-.
Estrasse del denaro da una tasca
interna della borsa e glielo porse. Aspettò che la ragazza
lo afferrasse e poi
si congedò: -Arrivederci, Mikasa-.
-Sayonara-,
lo salutò lei, vedendolo rientrare nell’okiya
per andarsene.
***
L’incontro
successivo non fu molto
diverso dal primo.
Finché Jean non ebbe terminato di
disegnare a matita tutto ciò che gli interessava, non
poté applicare il colore.
Quando finalmente il bozzetto fu completato, passò alla
colorazione dello
sfondo, ricco di particolari che non sarebbero mai potuti sfuggire ad
un occhio
attento come il suo.
Quella prima fase di lavoro gli portò
via più di una settimana, anche perché i colori
ad olio che utilizzava
impiegavano parecchio tempo per asciugarsi ed era suo dovere ripassare
con un
secondo strato di colore non appena il primo si fosse essiccato.
Fu così che dovette rimandare l’inizio
del ritratto vero e proprio al quinto incontro, che avvenne di nuovo di
domenica, il 12 aprile.
Nei precedenti tre pomeriggi che
avevano trascorso insieme, Mikasa era parsa stranamente interessata
alla vita
del pittore. Gli aveva chiesto di parlarle del suo viaggio fino in
Giappone e
lui le aveva spiegato come avesse faticato per convincere i genitori a
lasciarlo partire: sua madre, in particolare, temeva che non avrebbe
mai più
fatto ritorno a casa. Un pensiero sciocco, come lo aveva definito lo
stesso
Jean, perché per lui non avrebbe avuto senso rimanere in un
Paese di cui non
conosceva neanche la lingua.
-Mia madre ha un’idea tutta sua
dell’Oriente-, rise, ripassando la chioma verde del bonsai
che troneggiava
accanto a Mikasa. -Per lei è un luogo di perdizione o
qualcosa del genere.
Niente di più lontano dalla realtà-.
-Forse teme che qualcosa vi possa
trattenere qui-, propose la geisha,
abbassando lo sguardo a terra.
-E cosa, a parte il lavoro?-.
-Amicizie, credo-, esalò la giovane.
-O qualcosa in più-.
-Avete ragione-, concordò, smettendo
per un attimo di far frusciare il pennello contro la tela.
-C’è qualcuno per
cui ritarderei la mia partenza. E quel qualcuno è proprio
qui di fronte a me-.
Per un secondo Jean credette di aver
visto Mikasa inghiottire un grumo di saliva. Notò
l’espressione turbata della
ragazza, che adesso non aveva il coraggio di rialzare gli occhi su di
lui.
Al termine di quell’incontro aveva
dipinto i capelli e il viso della geisha;
il passo successivo sarebbe stato colorare il kimono.
Mise a posto i colori e lavò i pennelli
lì sul posto per evitare che le setole si indurissero, poi
si apprestò ad
abbandonare l’okiya,
lasciando Mikasa
ai suoi doveri. Come nelle precedenti occasioni, tirò fuori
dalla borsa la
somma che avevano pattuito e rimase in attesa che lei la riponesse
all’interno
delle pieghe dell’abito.
-Prendete-, le disse, tendendole il
giusto compenso.
-Non accetterò più denaro da voi-,
rifiutò lei, abbassando di nuovo lo sguardo.
-Perché mai?-, chiese Jean, piegando
la testa di lato per carpire l'espressione enigmatica che contraeva il
viso
della ragazza.
-Non voglio che siate il mio danna-,
rispose in un soffio. -Non posso
più vedervi-.
-Non parlate così!-, esclamò lui,
cercando di prenderle le mani che Mikasa aveva nascosto nelle lunghe e
larghe
maniche del kimono. -A voi devo la mia arte ed è giusto che
vi ricompensi
adeguatamente. Vi prego, prendete la somma stabilita. Non me ne
andrò finché
non l'avrete accettata-.
La giovane rimase in silenzio per un
lungo minuto, prima di tornare a parlare: -Se prenderò il
vostro denaro,
promettete che non tornerete mai più?-, disse, guardando
negli occhi l'uomo
davanti a sé.
-Non potete chiedermi questo-, Jean
scosse la testa. -Non senza una buona motivazione, almeno. A cosa
è dovuto
questo cambiamento improvviso?-.
Mikasa ammutolì di nuovo: -Il vostro
dipinto è concluso-, osservò. -Non avete
più bisogno di una modella. Siete
libero di tornare in Occidente, dalla vostra famiglia-.
-La mia famiglia sa bene che sono qui
per lavoro-, replicò lui. -E di certo non si aspetta di
vedermi comparire sulla
soglia di casa da un giorno all'altro. Per quanto riguarda il
dipinto... No,
non è ancora terminato. Ho solo tratteggiato le linee
principali; adesso manca
il colore. E posso giurarvi che se procedessi avvalendomi soltanto
della memoria,
il ricordo non sarebbe altro che una macchia sbiadita. Siete voi il
colore,
Mikasa. Lo sapete. Ve lo leggo negli occhi anche adesso-.
Le iridi scure della geisha
brillarono; Jean si accorse di
quel riflesso incantevole e si chiese se l'improvvisa
liquidità non fosse
riconducibile a lacrime represse.
-Non ve ne andrete, dunque?-, domandò
lei, stavolta con un tono di voce ancora più basso.
-Rimarrò finché sarà necessario-,
ripeté il ragazzo. Poi, allontanandosi verso la porta
scorrevole che separava il
portico dagli ambienti interni dell’okiya,
aggiunse: -Tornerò giovedì, alla stessa ora.
Scegliete il più bel kimono che
possedete e indossatelo: voglio che la vostra bellezza sia esaltata
anche
attraverso gli abiti tradizionali-.
Le sorrise, augurandosi che lei
facesse lo stesso, ma non ottenne altro che la solita espressione
indecifrabile: Mikasa era di nuovo impassibile.
-Sayonara-,
la salutò, depositando a terra il denaro e uscendo senza
darle mai le spalle.
-Sayonara-,
sussurrò lei in risposta, non appena la porta si richiuse.
***
Il
giovedì seguente parve non voler
arrivare mai.
Jean aveva pensato e ripensato
all’atteggiamento più morbido che la ragazza aveva
mostrato nelle ultime
occasioni in cui si erano visti, ma di nuovo si ripeté di
non illudersi: perché
pensare che Mikasa provasse qualcosa per lui? No, era fuori
discussione; aveva
capito che la geisha covasse uno
strano risentimento nei confronti degli Europei, anche se non aveva
ancora idea
del motivo, perciò non aveva alcun senso riempirsi la testa
di sogni che non si
sarebbero mai potuti realizzare. E poi, lui per primo doveva chiarire a
se
stesso i sentimenti che la sola vista della ragazza gli suscitava: era
solo
un’infatuazione? No, altrimenti non sarebbe stato
così curioso di conoscerla
meglio. Allora si era innamorato di lei? Poteva essere?
Sì, il suo cuore batteva insolitamente
forte quando si ritrovava solo in sua compagnia; in più le
aveva esplicitamente
rivelato che per lei avrebbe anche ritardato il suo ritorno in Francia.
Perché
lo avrebbe detto, se non lo avesse pensato?
Infine giunse alla conclusione esatta:
teneva fortemente a quella ragazza. E avrebbe voluto vederla sorridere,
visto
che i suoi occhi erano sempre appannati da un velo di malinconia.
Quando si presentò a Gion Kobu per la
sesta volta, trovò Mikasa già in attesa in
giardino, seduta al solito posto. Si
alzò e gli venne incontro quando lo vide varcare la soglia
del porticato,
chiedendogli cosa avesse fatto in quei giorni di lontananza.
-Ho visitato un altro angolo della
città-, le disse Jean, mentre posizionava il cavalletto e
spremeva del colore
sulla tavolozza di legno. -Sono arrivato da tre settimane, ma Kyoto non
smette
di stupirmi. È come se mi si rivelasse poco alla volta,
mostrando le sue mille
sfaccettature. Allora, vogliamo iniziare?-.
La geisha
tornò a sedere e lisciò la gonna stretta del
kimono, poggiando le mani sul
grembo.
-Il vostro vestito vi dona molto-, si
complimentò Jean, mescolando del rosso e del bianco per
ottenere la tonalità di
rosa che più si avvicinava al colore della stoffa con cui
era stato
confezionato l’abito. -Le sfumature pastello si addicono alla
vostra
personalità-.
Stese il primo strato di colore con
facilità, riempiendo tutti gli spazi vuoti che ancora
spiccavano sul dipinto, e
fu costretto ad aspettare circa trenta minuti affinché si
solidificasse per
poter applicare la seconda passata. Mentre attendeva, decise di sedersi
accanto
a Mikasa.
-Sapete-, le disse, -questo potrebbe
essere il nostro penultimo incontro. Tornerò ancora
giovedì prossimo per
rifinire i dettagli del kimono che state indossando e per mostravi il
ritratto
finalmente ultimato-.
La ragazza trattenne il fiato: -Per
quanto ancora rimarrete a Kyoto?-.
-Una settimana, credo. Forse anche di
meno-.
Mikasa tacque. Intrecciò le dita delle
mani e le strinse.
-Sono felice di avervi conosciuta-,
aggiunse Jean. -Quando ho lasciato Parigi non potevo immaginare che
avrei
incontrato una donna come voi-.
Le poggiò una mano sulle sue, ma la
ragazza si ritrasse, come se quel contatto l’avesse scottata.
Dal canto suo, il
pittore ritirò il braccio e sospirò, alzandosi un
secondo dopo.
-Vediamo se si è asciugato
abbastanza…-, disse tra sé e sé,
mentre Mikasa, che aveva distolto lo sguardo,
tornava a portarlo su di lui.
-Giratevi verso di me come prima-, si
raccomandò Jean, notando una certa esitazione nei piccoli
gesti compiuti dalla geisha. -Forse
farò in tempo ad
aggiungere i particolari mancanti oggi stesso-.
Per un’altra ora i due ragazzi
rimasero lì, immersi nella quiete del giardino. Non venne
nessuno a
disturbarli, né l’okasan,
che a volte
compariva dal porticato per accertarsi che tutto stesse procedendo
bene, né le maiko,
evidentemente troppo prese dalle
lezioni che dovevano seguire nel corso del pomeriggio.
Il cielo si stava colorando di
arancione quando Jean poggiò tavolozza e pennello per
ammirare il risultato
delle proprie fatiche. Sorrise e mise di nuovo in ordine il materiale
che aveva
usato, mentre Mikasa si alzava per osservare a sua volta il quadro.
-No-, la fermò lui. -Deve asciugarsi
ben bene, prima di poter essere guardato. Il colore tenderà
ad opacizzarsi e
quindi vi potrà sembrare diverso in un secondo momento. Non
temete, lo porterò
con me giovedì e finalmente mi saprete dire se ho svolto un
buon lavoro-.
Raccolse i propri strumenti e coprì la
tela con un velo protettivo su cui i colori non si sarebbero attaccati,
poi se
ne andò, stavolta accompagnato da Mikasa fin sulla soglia
dell’okiya.
-A presto-, la salutò, uscendo nella
frizzante aria di aprile, mentre la geisha
lo osservava oltrepassare il cancello d’ingresso e salire in
carrozza.
***
-Sayuri-san-.
Si inchinò di fronte alla padrona di
casa, che lo accolse ancor di più a braccia aperte in
occasione dell’ultimo
incontro. Evidentemente Mikasa doveva averla informata che presto Jean
non
sarebbe tornato più a far loro visita.
La donna lo fece accomodare in una
stanza in cui il giovane ricordava di essere già stato e
mobilitò alcune
apprendiste affinché portassero del tè
all’ospite. Il ragazzo sorrise nel
vedere quanta cura le aspiranti geishe impiegassero
per trattare nel modo migliore un cliente, ma l’attenzione
che Jean aveva
rivolto loro fino a quel momento venne spazzata via quando
entrò nella camera
Mikasa.
Quel giorno indossava un kimono rosso
simile a quello che aveva utilizzato per la cerimonia della Miyako
Odori e lo
straniero si accorse solo in un secondo momento di aver trattenuto il
respiro.
-Buon pomeriggio, signor Kirschtein-, lo
salutò lei, accomodandosi su un cuscino e versandogli
dell’altro tè nella
tazzina che le apprendiste avevano recuperato da uno scaffale alle sue
spalle.
-Vi ho portato il ritratto, come
promesso-, disse subito Jean, porgendole la tela che aveva avvolto in
uno
spesso strato di carta. -Apritelo-, la esortò, sentendo il
cuore accelerare in
preda all’ansia: chissà se lo avrebbe apprezzato?
Mikasa tentennò, poi posò il quadro
sul tavolino che aveva davanti e iniziò a strappare
delicatamente la custodia
protettiva. A poco a poco i suoi occhi furono investiti dal colore e
Jean vide
il dipinto riflettersi nelle sue pupille, ora ridotte a spilli.
-Vi piace?-, le chiese, sentendo
un’ondata di calore diffondersi nel proprio cervello.
La ragazza non rispose. Stava
esaminando ogni particolare, indecisa se seguire le linee di colore con
la
punta delle dita; spostò lo sguardo dallo sfondo al kimono,
dai geta, i sandali sottili che
portava ai
piedi, all’acconciatura. Indugiò parecchi minuti
sul viso e Jean pregò per
ottenere un responso positivo.
-È come se mi stessi specchiando-,
esalò infine Mikasa, la voce improvvisamente tremante.
-È un dipinto unico-.
-Oh, che gioia sentirvelo dire!-,
esplose il ragazzo, alzandosi e andandosi a sedere al suo fianco.
-Vedete?-, le
disse ancora, indicando un punto preciso sulla tela. -Qui il colore si
è
leggermente spento; se aveste visto il quadro la settimana scorsa, vi
sareste
accorta della differenza-.
-Signor Kirschtein, non mi sono mai
dedicata alla pittura in vita mia-, affermò Mikasa in totale
franchezza.
-Probabilmente non avrei prestato attenzione ad un particolare come
questo-.
-È di fondamentale importanza,
invece-, ribadì Jean. -E poi ve l’ho detto: un
soggetto bello come voi merita
l’assoluta perfezione-.
I loro volti erano troppo vicini e la
ragazza se ne accorse: si girò dalla parte opposta e
sospirò, continuando ad
esprimere la propria ammirazione per il risultato finale.
-A Parigi ne saranno entusiasti-,
confermò il pittore. -L’unico rimpianto
è quello di non essere riuscito a
catturare fino in fondo la vostra essenza, Mikasa-.
Forse avrebbe dovuto smetterla. Stava
decisamente complicando le cose.
-Signor Kirschtein…-.
-Vi prego-, la interruppe lui. -Non ve
l’ho mai chiesto prima di adesso, ma mi piacerebbe che mi
chiamaste Jean. Usare
il cognome non fa altro che rimarcare la distanza tra di noi, non
credete?-.
Quello non era decisamente il modo di
rendere più semplice la situazione.
-Allora… Jean-,
continuò Mikasa, pronunciando a fatica quel nome, -mi
chiedevo se vi piacerebbe venire con me al Parco Maruyama. Questa
è la
settimana dell’Hanami e a
causa di
numerosi impegni non sono ancora potuta andare ad ammirare i ciliegi in
fiore-.
-Volete che vi accompagni?-, chiese
incredulo il ragazzo.
-Credevo che fosse vostra intenzione
prendere parte alle tradizioni giapponesi, finché siete a
Kyoto-, gli fece
notare lei.
-Sì, sì, certamente!-, si affrettò a
rispondere lo straniero. -Solo che… Non pensavo…-.
-Possiamo vederci domani pomeriggio?-.
-Sì. Volete che passi a prendervi con
la carrozza?-.
-Non ce ne sarà bisogno-, lo rassicurò
Mikasa. -Ci incontreremo direttamente davanti all’entrata del
Santuario di
Yasaka-.
-Come preferite-, annuì, mentre la
ragazza faceva scorrere la porta e lo lasciava passare con tanto di
tela
sottobraccio.
-A domani, allora-, si congedarono,
reprimendo entrambi un sorriso che valeva molto più di mille
parole.
***
Il
Santuario di Yasaka costituiva
l’ingresso del Parco Maruyama. Era costituito da un edificio
centrale dalla
pianta quadrata da cui partiva un lungo porticato coperto dal tipico
tetto
dalla forma arcuata; il colore caratteristico era il rosso,
accompagnato da
inserzioni dorate e verdi. Alla struttura si accedeva tramite una
scalinata
frontale e proprio lì Jean vide Mikasa che lo stava
aspettando.
-Buon pomeriggio-, la salutò come al
solito, mentre la carrozza su cui aveva viaggiato spariva in
lontananza.
-Questo è il kimono che di solito utilizzate in occasioni
simili?-, le chiese
subito dopo, indicando l’abito che indossava.
Era un vestito di un verde tenue, una
tonalità pastello che ricordava la chioma di un albero; la
stoffa era
impreziosita con ricami floreali rosa che ricordavano i fiori di
ciliegio e in
vita portava una cinta rossa. A completare la mise, oltre ai capelli
raccolti
in uno chignon e ai geta, i sandali
che portava ai piedi, la ragazza sorreggeva un ombrello di sottile
carta di riso
bianca con cui ripararsi dal sole.
-Mi sembrava adatto alla ricorrenza-,
spiegò la ragazza. -Volete entrare?-.
Jean accettò l’invito senza farselo
ripetere una seconda volta ed insieme salirono la scalinata di pietra,
passando
poco dopo sotto l’arco principale che conduceva al parco. Il
prato era avvolto
in un silenzio religioso e per un istante il giovane straniero ebbe
l’impressione di non trovarsi più in
città.
Si avviarono lungo un sentiero di
terra battuta che si perdeva tra gli alberi. Non c’era ancora
traccia di
ciliegi, che evidentemente dovevano essere stati piantati in una zona
più
interna.
-L’Hanami
si tiene solo per pochi giorni-, iniziò a spiegare Mikasa
senza che Jean le
avesse rivolto una qualsiasi domanda. -È una festa
particolarmente sentita nel
nostro Paese: non solo segna l’inizio della primavera, ma ci
ricorda come la
vita, per quanto bella, sia destinata a finire. I fiori di ciliegio
sono
caratteristici proprio per questo: il loro splendore è
ammaliante, ma il
destino vuole che abbia breve durata. È una malinconica
verità, non trovate?-.
Mikasa puntò lo sguardo dritto davanti
a sé, mentre il suo accompagnatore le rivolgeva
un’occhiata fugace, cercando di
decifrare cosa si nascondesse dietro quelle parole. Le sue riflessioni
furono
interrotte solo quando la ragazza, con una naturalezza disarmante, si
appoggiò
al suo braccio, quasi volesse essere guidata.
Dire che Jean fosse confuso è poco: di
colpo la geisha sembrava essere
entrata più in intimità con lui. Non che la cosa
gli dispiacesse, ma era
comunque una strana sensazione.
-Quando vi riaccompagnerò a Gion Kobu
smetterò ufficialmente di essere il vostro danna-,
le ricordò all’improvviso, come se avesse sentito
il bisogno di ripetere
innanzitutto a se stesso che era inutile vivere ancora di illusioni.
-Domenica
Yuki mi accompagnerà fino al porto di Kobe e
salperò con la prima nave per
l’Europa. Con un pizzico di fortuna riuscirò ad
esporre il vostro ritratto alla
mostra che si terrà al Salone di Parigi nel mese di luglio-.
Ebbe l’impressione che le mani di
Mikasa avessero stretto maggiormente il suo braccio, ma
preferì non attribuire
troppa importanza a quella sensazione: doveva dirle addio e non poteva
permettersi di mostrarsi debole.
-Questa domenica?-, ripeté la ragazza.
-Tra due giorni?-.
Jean annuì: -Kyoto mi ha dato tutto
ciò che poteva offrire. Tornerò in patria con la
consapevolezza di aver
conosciuto un mondo che non avrei mai immaginato di vedere neppure in
sogno-.
Si sentì in colpa l’istante
successivo: perché stava trattando così quella
donna? A che scopo sottolineare
il fatto che se ne sarebbe andato di lì a poco?
Il sentiero deviava verso destra e li
portò a costeggiare un laghetto; antichi bonsai creavano
ampie zone d’ombra e
sotto di esse i due giovani notarono delle famigliole consumare in
ritardo i bento che avevano
preparato la sera
prima in vista di quella scampagnata. Mikasa sospirò.
-Ricordate la prima volta in cui siete
venuto a farmi visita?-, gli chiese.
E come avrebbe potuto dimenticarlo? Lo
aveva letteralmente folgorato.
-Certo-, le rispose, tenendo per sé
ulteriori considerazioni.
-Siete rimasto sorpreso dal fatto che
parlassi la vostra lingua-.
-Non mi aspettavo di incontrare una
giovane geisha che conoscesse il
francese-, sorrise lui. -Mi avete fatto sentire come a casa-.
-Vi dissi che è stata mia madre ad
insegnarmelo-, aggiunse lei, -ma non mi avete mai domandato come
facesse lei a
parlarlo-.
-Ho preferito non indagare-, ammise
Jean. -Non eravate molto disposta a discuterne, se non sbaglio-.
-Infatti-, concordò Mikasa. -Ma
all’improvviso ho sentito il bisogno di parlarvene. Volete
ascoltare una
storia?-.
La ragazza fece scivolare via le mani
dal braccio dell’accompagnatore e mosse qualche passo in
avanti, quasi a
volersi infondere il coraggio necessario per continuare ad esprimersi.
Jean la
seguì con lo sguardo, chiedendosi quale segreto la
tormentasse così tanto.
-Mia madre era una geisha-,
cominciò a raccontare la
giovane, -proprio come me. Ha lavorato per anni al servizio di
Mizuki-san, che
ha preceduto l’attuale okasan
nella
direzione dell’okiya, e ha
svolto il
suo apprendistato insieme a Sayuri-san. Erano molto amiche, sapete?-.
Mikasa si prese un minuto di pausa e
Jean si accorse di come il tono della sua voce si stesse abbassando
sempre di
più: -Una sera Gion Kobu accolse un gruppo di mercanti
europei venuti in
Giappone per acquistare seta e altre stoffe pregiate. Fu in
quell’occasione che
mia madre conobbe mio padre; si è sempre rifiutata di
rivelarmi il suo nome, ma
so per certo che fosse Tedesco. Pur provenendo dalla Germania, lui e i
suoi
compagni parlavano un buonissimo francese e mia madre lo apprese
proprio da
lui. Rimasero insieme per qualche mese, il tempo necessario ai mercanti
per
porre fine alle contrattazioni e preparare la nave di ritorno in
Europa: mia
madre gli chiese di non andare via, ma lui non
l’ascoltò. Le disse che sarebbe
tornato, che l’avrebbe portata via dall’okiya;
non fu così. A poche settimane dalla sua partenza, mia madre
scoprì di essere
incinta e nove mesi più tardi nacqui in una delle camere di
Gion Kobu.
All’epoca l’avvento fu considerato uno scandalo,
perché il codice di
comportamento di una geisha
impedisce
di avere relazioni con dei clienti, a meno che questi rapporti non si
consumino
al di fuori del lavoro; mia madre non sapeva dove andare e solo la
clemenza di
Mizuki-san le permise di crescermi all’interno dell’okiya. In diverse circostanze,
probabilmente mi avrebbero strappata
dalle sue braccia e abbandonata al mio destino-.
Mikasa tacque di nuovo. Ad ogni parola
che le sentiva pronunciare, Jean provava l’impulso di
abbracciarla.
-Trascorse un anno, ma mio padre non
tornò. Ne passò un altro, poi un altro ancora;
centinaia di mercanti europei
giunsero a Kyoto, ma nessuno di loro le portò notizie
dell’uomo che aveva
amato. E così mia madre cominciò a deperire
sempre di più: la vidi trascurarsi,
abbandonarsi e non provare più interesse per
null’altro che non fossi io. Si
preoccupò personalmente della mia istruzione e mi
insegnò a parlare francese
affinché un giorno, semmai fosse tornato, potessi parlare
con mio padre-.
Un’altra interruzione, stavolta piena
di commozione, mise freno al suo lungo monologo. Si schiarì
la gola e continuò,
mentre Jean notava delle lacrime scintillarle come perle alla base
degli occhi:
-Ho perso mia madre a soli nove anni. Da allora ho cominciato
l’apprendistato
per diventare una geisha,
così da
garantirmi una certa indipendenza. Sayuri-san mi ha cresciuto come una
figlia e
a lei devo gran parte della mia vita: questo è solo uno dei
motivi per cui ho
accettato di posare per voi nel momento in cui lei mi ha pregata-.
-Ora capisco perché mi avete detto di
non voler essere ritratta da un artista occidentale-,
proferì Jean con voce
grave. -Provate un netto rifiuto per tutto ciò che
è alieno dal Giappone-.
-Non è solo questa, la ragione-,
aggiunse Mikasa. -Fin da quando mia madre è venuta a mancare
mi sono detta che
non mi sarei mai lasciata coinvolgere in rapporti con i clienti. Il suo
primo
errore è stato non rispettare le regole che la sua vita le
imponevano; mi sono
ripetuta per anni che non avrei commesso lo stesso sbaglio. Inoltre ho
attribuito la colpa della malattia che l’ha consumata
all’uomo che le aveva
solo fatto credere di amarla. È questo l’insieme
di motivi per cui ho voluto
sempre tenermi lontano dagli Occidentali, fossero essi clienti o
semplici
viandanti di passaggio-.
Jean ammutolì e fece ammenda dei suoi
peccati in silenzio: averla scelta come sua musa doveva averle
provocato non
poco dolore. Se solo i suoi occhi fossero stati catturati da
un’altra ragazza,
le ferite ancora non completamente rimarginate di Mikasa non sarebbero
tornate
a sanguinare come il primo giorno.
-Poi siete arrivato voi-, disse la geisha,
continuando a camminare. -Un
artista francese che si diceva interessato a conoscere la cultura
giapponese.
Vi dirò la verità: sono sempre scettica quando
sento un Europeo parlare di cose
simili. Un ragazzo così giovane, che aveva intrapreso un
viaggio tanto lungo
solo per studiare l’arte del mio Paese… Ho deciso
di darvi fiducia. Ma quando
ho sentito che il vostro cognome era tedesco… Sono stata
davvero tentata di
tirarmi indietro. Se non fosse stato per l’intervento
provvidenziale di
Sayuri-san, ora non saremmo qui a parlarne-.
La passeggiata li aveva portati nella
zona centrale del Parco Maruyama: ora davanti a loro si apriva un lungo
viale
di ciliegi in fiore e Jean li contemplò a bocca aperta,
mentre Mikasa reprimeva
un debole sorriso nel vedere quell’espressione di sincera
sorpresa illuminargli
il viso.
-Voi siete diverso; l’ho capito poco
per volta, ad ogni nostro incontro. Non mi avete mai forzata a parlare,
non
avete cercato di scavare nel mio passato; semplicemente siete stato in
grado di
rendervi conto che non ero disposta ad entrare in confidenza con uno
sconosciuto. La vostra passione per l’arte e per i dettagli
mi ha mostrato una
sensibilità che non avevo mai rintracciato in nessun uomo; e
d’improvviso ho
realizzato il fatto che prima o poi ve ne sareste andato. Le vostre
visite, a
cui mi ero tanto abituata, sarebbero cessate ed io sarei tornata ad
essere la
solita, semplice Mikasa, la geisha
che si chiude nel proprio silenzio e non parla se non con le persone
che le
sono più vicine. Ho cercato di reprimere le sensazioni che
nascevano in me ogni
volta che vi vedevo; mi sono ripetuta che tutto questo era un errore,
che continuare
ad incontrarvi mi avrebbe portato alla rovina esattamente come accaduto
a mia
madre. Ecco perché quella volta vi ho chiesto di non essere
più il mio danna, ecco
perché volevo che ve ne
andaste-.
La ragazza si avvicinò ad un ciliegio
e tese un braccio per sfiorare i rami più bassi: alcuni
fiori si staccarono e
caddero a terra, sostenuti da teneri fili d’erba.
-Ma avete insistito per terminare il
dipinto-, proseguì Mikasa, -e quel ritratto ha smosso
un’ulteriore corda
all’altezza del mio cuore. Proprio nel momento in cui ho
capito di non poter
tornare indietro, di non poter negare i sentimenti nei vostri
confronti, mi
avete detto di dover partire: alla fine sono caduta anch’io
in una trappola
dolce come successo a mia madre-.
Jean le si avvicinò e le poggiò
entrambe le mani sulle spalle, costringendola a guardarlo negli occhi:
le iridi
della ragazza erano velate da una malinconia ancor più
profonda rispetto a
quella che era possibile rintracciarvi normalmente. Scrutò
il suo viso e poi
parlò: -Mikasa, siamo ancora in tempo per cambiare le cose.
La vostra storia
sarà diversa da quella di vostra madre. I più
belli dei nostri giorni non li
abbiamo ancora vissuti-.
-Ma mi avete detto che ve ne andrete
questa domenica-, gli ricordò lei, la voce adesso spezzata
dalle lacrime che
stava ricacciando con grande sforzo.
-Tornerò da voi-, promise il ragazzo,
-lo giuro-.
-Non riesco a credere alle vostre
parole. La durata dei vostri sentimenti per me sarà pari a
quella della
fioritura dei ciliegi: si protrarrà per qualche giorno, poi
andrà a scemare. Mi
dimenticherete esattamente come fece mio padre ventidue anni fa-.
-Non sono quel tipo d’uomo-, le disse
ancora, accarezzandole una guancia. -Inoltre, siete stata proprio voi a
dirmi
che i fiori di ciliegio rappresentano la vita che si rinnova. Ebbene,
ciò che
provo si comporterà allo stesso modo: anche quando penserete
che io vi abbia
dimenticata, il mio amore per voi sarà custodito gelosamente
nel mio cuore e
sboccerà di nuovo in primavera, esattamente come i fiori che
stiamo ammirando
insieme in questo momento. Ve lo prometto, Mikasa: non vi
lascerò sola. Tornerò
da voi provando la stessa gioia e ansia con cui si attende lo splendore
dei
ciliegi-.
Le afferrò la mano sinistra e se la
portò alle labbra, depositandole un piccolo bacio che la
attraversò come una
scarica elettrica. Intanto, in lontananza, un musica leggiadra si
levò
nell’aria.
-Cos’è?-, chiese Jean, tendendo
l’orecchio per carpire le note.
-È un’antica canzone cinese che i
Giapponesi impararono quando si aprirono al commercio con Hong Kong-,
disse la
ragazza, guardando attentamente il profilo di Jean stagliarsi contro
gli alberi
alle sue spalle. -S’intitola Hua
Sui Yue:
significa “fiore, acqua e luna”. Ci sono persone
che amano intonarla in
occasione dell’Hanami
proprio perché
la melodia fa pensare ai fiori di ciliegio che cadono sulla superficie
dei
laghi creati nei parchi e nei giardini e di notte spiccano come stelle
al
chiarore della luna-.
I due ascoltarono per alcuni minuti
gli accordi dello shamisen e poi
tornarono a guardarsi. Mikasa dovette abbassare gli occhi con fare
imbarazzato
quando Jean le sorrise; fu allora che si alzò una tiepida
brezza che fece
volare verso di loro decine di boccioli rosa staccatisi dai rami sotto
cui si
trovavano. In quella tempesta di colore, la ragazza si tuffò
tra le braccia del
giovane e premette il viso contro il suo petto.
-Aishiteru-,
bisbigliò, tenendo la testa bassa e reprimendo il bisogno di
piangere, mentre
Jean la stringeva a sé e le accarezzava la schiena.
-Non è mai troppo tardi per dirlo-, le
sussurrò lui ad un orecchio, baciandole la fronte e
lasciandosi ancora cullare
da centinaia di petali di ciliegio.
Note
dell’Autrice:
I luoghi qui citati
sono tutti realmente esistenti, così come sono
tutt’oggi molto sentite le
tradizioni relative alla Miyako Odori e all'Hanami,
rispettivamente momento di celebrazione e contemplazione dei ciliegi in
fiore.
Kyoto è attualmente
la città giapponese in cui vive la più grande ed
importante comunità di geishe
il cui nome è proprio Gion Kobu.
L’altra comunità è quella di Gion
Higashi.
I quartieri
residenziali delle geiko
(è questo il
nome usato per indicare specificatamente le geishe
di Kyoto) sono chiamati Hanamachi e le donne vivono
all’interno di case, le okiya,
in cui si sottopongono fin da
ragazze ad un duro addestramento che distingue fasi diverse; una volta
raggiunto lo status di geisha si
può
insegnare ad un’altra principiante, che prenderà
il nome di imoto-san,
“sorella minore”. Ogni casa è
diretta da una okasan, una geisha più anziana che si
occupa
dell’educazione di tutte le apprendiste.
Poiché le spese
venivano e sono ancora oggi sostenute dall’okasan,
è dovere delle aspiranti geishe
pagare i debiti accumulati nel corso degli anni; in molti casi le donne
non
riuscivano a saldare la somma e allora potevano richiedere
l’aiuto di un danna, un
protettore benestante, se non
ricco, che assicurava loro i costi delle spese a cui il lavoro di geisha metteva di fronte. Oggi questa
tipologia di relazione è ancor più rara che in
passato.Vincent
Van Gogh è l’autore di un dipinto, “La
cortigiana”, risalente al 1887, ma non è
mai stato di persona in Giappone. Si ispirò alle
raffigurazioni e alle stampe
nipponiche che in quel periodo dilagavano in tutta Europa.