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Autore: Adeia Di Elferas    23/08/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Bianca Giovanna si portò un momento una mano alla pancia, assumendo un'espressione dolorante, a poi tornò a mangiare quello che aveva ancora nel piatto.

Beatrice, che le stava accanto, aveva notato quel suo gesto e così, con apprensione le chiese: “Va tutto bene? Sei pallida...”

La figlia del Moro deglutì e finì il calice di vino: “Bene, non abbiate timore. Solo i miei consueti dolori di pancia, adesso mi passeranno. Mi passano sempre. È da mesi, ormai, che è così.”

La Duchessa non aggiunse altro e, anche se continuò a chiacchierare con gli altri commensali, rispondendo volentieri a tutte le domande riguardanti il suo parto ormai imminente, non perse mai di vista la sua amica.

La giovane Sforza era a Milano da pochi giorni e Ludovico aveva preteso che lei e il marito Galeazzo Sanseverino cenassero o pranzassero praticamente ogni giorno al palazzo di Porta Giovia.

I due avevano accettato molto volentieri e si erano anche portati appresso parte dei propri servitori, per gravare meno su quelli dei Duchi.

Anche mentre Beatrice rideva di gusto a una battuta che si erano scambiati il Moro e suo genero, erano i domestici che i due ospiti si erano portati da Bobbio a servire in tavola.

“Poco, poco, grazie...” sussurrò Bianca Giovanna, mentre il servo offerto dai Dal Verme le versava dell'altro vino del bicchiere.

La giovane lasciò correre in gola un sorso e poi un altro. Anche adesso che era nella casa di suo padre, le parve che il vino si fosse fatto più amaro. Non era più quello dolce e corroborante che ricordava di aver bevuto migliaia di volte, prima di sposarsi.

Pensando che, forse, crescendo certi sapori perdessero il loro reale fascino, Bianca Giovanna non ne fece parola con nessuno e finì anche quel calice, facendosene versare un secondo e poi un terzo, sperando che il vino le desse quel pizzico di incoscienza di sé sufficiente a dimenticarsi del mal di pancia.

 

Caterina stava aspettando Tommaso nello studiolo del castellano. La sera era ormai scesa su Ravaldino e una spessa coltre di nebbia aveva avvolto l'intera città come il bozzolo di un baco da seta.

Suo cognato le aveva ribadito la sua necessità di parlarle, quel pomeriggio, e aveva anche aggiunto che intendeva ripartire per Imola il prima possibile. Quando lei aveva provato a convincerlo a restare anche per il Natale e il Capodanno, Tommaso aveva categoricamente rifiutato, dicendo che preferiva andarsene e che dunque era tempo che gli concedesse quell'incontro.

“Grazie per avermi ricevuto.” disse piano il Governatore di Imola, quando arrivò allo studiolo.

La Contessa fece un cenno con il capo e lo invitò a sedersi dietro alla scrivania, su quello che era stata per tanto tempo il suo scranno.

Un po' impacciato, Tommaso accettò e si sistemò con calma sulla sua vecchia sedia. Quella sera indossava un abito scuro, abbastanza elegante, che Caterina non ricordava di avergli visto indosso altre volte.

Anzi, ora che ci faceva caso, si stava rendendo conto di come nelle ultime settimane non avesse prestato la minima attenzione all'abbigliamento di suo cognato. Dunque poteva essere che si sbagliasse, nel ritenere quelle brache di lana e quel giaccone di raso nuovi.

“Di cosa volevate parlarmi?” chiese la donna, appoggiandosi al davanzale della finestra con la schiena e fissandolo.

Tommaso deglutì un paio di volte, passò le mani sulla superficie irregolare della scrivania e infine sulle cosce, come se volesse asciugarsi il sudore.

“Io sono stanco, mia signora.” disse, alla fine, con un'alzata di sopracciglia e un lieve scuotere di capo, come se non trovasse parole migliori: “Non ho più le capacità e la testa per essere un buon Governatore di Imola. Vi ringrazio per tutta la fiducia che mi avete dimostrato in questi anni, in ogni frangente e malgrado tutto, ma io non ce la faccio più.”

Quella dichiarazione fece trasecolare la Tigre. Andandosi a mettere davanti alla scrivania e appoggiandovisi coi palmi delle mani, sporta verso Tommaso, lo fissò a lungo.

“E cosa intendereste fare, tutto il giorno, senza il vostro lavoro?” gli chiese, la bocca secca e la testa che cercava di assorbire senza danni quel fulmine a ciel sereno.

“Non dico che non farei più nulla. Se mi vorrete reintegrare come soldato a Imola, a me andrà benissimo. Solo non voglio più cariche ufficiali. Non riuscirei più a fare il mio dovere. Ho ancora la tenuta del Bosco da amministrare...” disse piano il Governatore di Imola, mentre rievocare il terreno che Bianca aveva portato in dote al momento del loro matrimonio gettava una strana ombra nello studiolo già poco illuminato.

“E se io mi rifiutassi di accettare le vostre dimissioni?” chiese la Contessa, sentendosi ridicola nel dire una cosa del genere.

“Io me ne andrei lo stesso.” ribatté Tommaso, con una certa decisione.

“In tal caso vi dichiarerei un fuorilegge.” fece Caterina, ostinata.

Il Governatore si alzò in piedi e, sporgendosi un po' in avanti esattamente come stava facendo lei, la fronteggiò occhi negli occhi: “In tal caso, io non mi farei trovare. Conosco i vostri metodi. Saprei come sfuggirvi.”

La Tigre guardò nelle pupille fonde di Tommaso e poi ne squadrò l'intero profilo. Era da molto che non se lo trovava tanto vicino e, ancora una volta, stava cercando in lui delle somiglianze con Giacomo, trovandone molto poche.

Si ritrasse in fretta, sospirando: “Quando è così, accetto le vostre dimissioni.”

Il cognato parve sgonfiarsi. Incurvò appena le spalle e il suo volto si rilassò, prendendo di colpo dieci anni in più.

“Però dovete darmi un po' di tempo.” precisò Caterina, allacciandosi le mani dietro la schiena e cominciando a pensare: “Il Governatore di Imola è una figura cruciale del mio Stato. Finora sono riuscita a concentrarmi su Forlì solo perché al nord mi sentivo sicura grazie a voi.”

“Posso aspettare.” confermò Tommaso, lasciando la scrivania: “Ma non più di due o tre mesi.”

“Per allora, vedrò di avere un sostituto degno.” assicurò la Leonessa.

“Quand'è così, posso ripartire per Imola, giusto?” chiese l'uomo, fermandosi a mezzo passo da lei.

“Quando intendete farlo?” chiese la donna, che, come tutte le volte in cui le si prospettava l'idea di allontanarsi da Tommaso, sentiva crescere dentro di sé una strana ritrosia.

“Se non avete nulla in contrario, anche domani mattina.” rispose il Governatore: “In fondo, mia sorella è partita per Firenze e non ho più nulla che mi trattenga qui. Meglio che me ne torni al lavoro, finché sarà mio dovere.”

“Pensate che domattina ci rivedremo, prima che partiate?” chiese Caterina, colta da un breve dubbio, mentre Tommaso andava verso la porta.

“Non saprei – fece l'uomo, corrucciandosi – malgrado la nebbia, vorrei partire un po' prima dell'alba. Dopotutto, viaggio leggero.”

A quel punto, la Contessa decise di lasciare andare, anche se per pochi istanti, il suo istinto a briglia sciolte, come, in fondo, anche Giovanni le aveva consigliato di fare l'ultima volta che si erano trovati faccia a faccia.

Colta da uno strano presentimento, che le insinuava il dubbio che forse lei e suo cognato avrebbero anche potuto non rivedersi mai più, viste le guerre che presto sarebbero potute scoppiare attorno a loro, la Tigre colmò la distanza tra loro in un paio di passi e lo strinse a sé con forza.

“Grazie mille di tutto.” gli disse, mentre il Governatore, sorpreso come non mai per quello slancio, restava immobile, senza nemmeno provare a ricambiare la stretta: “Senza di voi, io sarei morta anni fa. Senza di te, io sarei morta anni fa.”

“Ho fatto solo quello che dovevo.” rispose con aria sostenuta Tommaso, anche se, Caterina ne fu certa, nella sua voce si avvertiva il tremito di chi sta per mettersi a piangere.

Quando si staccò da lui, la Contessa gli passò una mano sulla guancia ispida di barba sale e pepe e poi lo lasciò libero di andare: “Ti scriverò, appena avrò scelto un sostituto.”

Il Governatore sentiva un nodo alla gola e così evitò di parlare. Fece un profondo inchino e poi, allargando le spalle, lasciò lo studiolo del castellano.

 

Le campane avevano appena annunciato che le tre di notte erano arrivate. Bianca Giovanna si svegliò di colpo, sudata fradicia, scossa dai dolori all'addome.

Non si era mai sentita tanto male in vita sua. Spaventata dalla violenza dei crampi che le stringevano lo stomaco, la figlia del Moro tentò di alzarsi dal letto e, quando vi riuscì, arrancò fino alla porta.

Una volta lì, gridò il nome delle sue dame di compagnia, mentre si piegava su se stessa, vinta dal male.

“Chiamate mio padre!” ululò, quando due delle sue ancelle arrivarono a darle conforto: “Chiamate un medico! Un prete!” aggiunse.

Una delle due l'aiutò a rimettersi coricata, mentre l'altra sparì per adempire agli ordini che erano stati impartiti.

“State tranquilla...” fece la dama di compagnia che era rimasta con Bianca Giovanna: “Vedrete che anche questa volta vi passerà...”

La giovane avrebbe tanto voluto crederle, ma quando vide arrivare sulla porta uno dei servi che Francesca e Francesco Dal Verme avevano messo alle sue calcagna alla partenza da Bobbio, riversò gli occhi all'indietro e, attraversata da un nuovo spasmo di dolore, svenne.

 

Francesco Gonzaga fissava assorto la laguna di Venezia. Il palazzo di Roberto Sanseverino era in una buona posizione, secondo lui. Anche se ancora non riusciva a capire il senso di una città costruita sull'acqua, il Marchese di Mantova ne apprezzava le indubbie qualità.

Prima fra tutte, la facilità con cui ci si addormentava, cullati, forse, dallo scorrere lento dei canali al di fuori dalle finestre.

E, al secondo posto, la grande quantità di meravigliose schiave che si potevano trovare in loco.

Stiracchiandosi, Francesco si passò una mano sul largo petto villoso e si guardò oltre la spalla. Il regalo che il Doge gli aveva fatto per quella notte stava ancora dormendo come un sasso tra le lenzuola rosse e oro che ammantavano il grande letto a baldacchino.

Barbarigo gli aveva detto che si trattava di una schiava appena acquistata, portata dall'Africa da poche settimane e forse era vero, visto che quella donna – poco più che una ragazzina – non parlava né capiva la loro lingua.

Gonzaga si soffermò ancora un momento a guardarla. Aveva capelli nerissimi e la pelle liscia come un alabastro. Aveva l'aggressivo fascino della sua terra e un'armonia difficile da trovare, se non nelle adolescenti.

Fu quel dettaglio a far tornare all'improvviso alla mente di Francesco la figlia del papa.

“Il Doge vi vuole parlare.” la voce di Febo Gonzaga, fastidiosa come il grattare di un ferro sull'umbone di uno scudo, fece voltare di scatto il Marchese.

Come aveva osato, quell'insolente, entrare senza nemmeno annunciarsi?

“In merito a cosa?” chiese Francesco, senza scomporsi, mentre la schiava, nel sentire parlare, si era svegliata e si era coperta con il lenzuolo.

“Immagino che si voglia di nuovo congratulare con voi per aver catturato e portato qui Paolo Vitelli.” rispose Febo, rivolgendo un sorrisetto mellifluo alla schiava, che in tutta risposta lo fissò impaurita.

Il Marchese si era infilato il camicione e aveva raccolto la sua giubba: “Davvero? Non vuole parlarmi del viaggio che intendo fare in Francia?”

“Andare alla corte di Carlo VIII...” soppesò Febo, attendendo che il parente finisse di mettersi in ordine: “Certo che avete delle belle pretese, voi.”

Francesco non commentò e, quando fu pronto, indicò con un cenno del capo la porta a Febo e disse: “Aspettatemi fuori. Ho ancora una cosa da fare.”

L'altro fece un sospiro rotto, allargando appena le braccia, in segno di plateale insofferenza per i modi del congiunto, ma fece quello che gli era stato detto.

“Tu non mi capisci quando parlo – disse il Marchese, guardando la schiava – ma voglio comunque dirti una cosa: guardati dagli uomini come quello.” concluse, indicando la porta da cui Febo era appena uscito.

Il breve lampo di comprensione che attraversò gli occhi neri e un po' liquidi della donna lasciò al Marchese il dubbio che quella schiava capisse l'italiano molto meglio di quello che aveva lasciato intendere.

 

Erano ormai le cinque del pomeriggio e nel palazzo di Galeazzo Sanseverino i domestici, i medici e i preti si rincorrevano senza sosta, come se quell'andirivieni potesse essere di qualche giovamento alla povera Bianca Giovanna.

Fin da quella notte, quando si era svegliata alle tre in preda ai suoi dolori, la giovane Sforza non aveva fatto altro che svenire e riprendersi, per poi cadere di nuovo in uno stato di confusione e infine di incoscienza.

“Ha la febbre alta – aveva detto uno dei dottori, il migliore in circolazione, quello che Ludovico aveva messo al capezzale anche di suo nipote Gian Galeazzo, quando ce n'era stato bisogno – e non riusciamo ad abbassarla. Alcuni miei colleghi parlano di dolore colico, ma sono discorde. Io lo indicherei come un parossismo...”

“Parole, parole, parole!” aveva sbottato il Duca: “Vedete solo di non farla morire!”

E invece, appena dopo lo scoccare delle cinque del pomeriggio, con gli occhi velati e spalancati, Bianca Giovanna aveva emesso uno strano singulto, proprio sotto lo sguardo attento di vari medici e della sua carissima amica Beatrice, e se n'era andata.

La Duchessa, dopo un momento di immenso cordoglio, aveva trovato la forza di lasciare il letto di morte dell'amica e aveva cercato Ludovico, che, troppo oppresso dal dolore e dall'ansia, si era rinchiuso in uno dei salotti assieme a Galeazzo Sanseverino.

Quando lo raggiunse, prima di riuscire a parlare, tenendosi il ventre prominente con una mano, Beatrice scoppiò a piangere.

Il Duca capì subito cos'era successo: sua moglie non era donna da piangere per un nonnulla.

“Andate.” sussurrò il Moro, rivolgendosi al genero.

Galeazzo lo guardò con tanto d'occhi, non capendo cosa fosse accaduto. Così Ludovico gli diede uno scossone e lo spinse via.

“Andate! Andate da lei! Andate dal prete! Andate a...” cominciò, ma quando si rese conto che stava per dire 'andate a organizzare il funerale', anche la sua voce si ruppe e le lacrime riempirono i suoi occhi.

 

Tommaso se n'era andato davvero prima dell'alba, senza lasciare altra traccia di sé, se non qualche esercizio di ricamo della sua defunta moglie, con l'ordine che venissero tutti consegnati a Bianca Riario.

Caterina aveva passato la giornata a vagare quasi senza meta per la rocca. Aveva rifuggito la compagnia di chicchessia, cercando di capire quello che le si agitava nel petto. Non le piaceva, quando quell'inquietudine vaga la prendeva e temeva da un momento all'altro di veder arrivare pessime notizie.

Quasi a volerla apertamente smentire, invece, giunse una lettera da Achille Tiberti, che la informava del fatto che le difese dei Martinelli stavano lentamente cadendo e che, con ancora pochi soldati in più, sarebbe riuscito finalmente ad avere la meglio e porre fine a quella piccola guerra.

Desiderosa di chiudere quella questione nel migliore dei modi, la Tigre aveva subito dato ordine che un'altra colonna partisse alla volta di Civitella.

In fondo, Niccolò Castagnino non aveva ancora presentato formali recriminazioni in merito alla sua ingerenza e forse nemmeno l'avrebbe fatto. Palmerio Tiberti era un uomo al suo servizio, mentre i Martinelli avevano alla spalle Rimini. A conti fatti, quello che la Leonessa stava facendo altro non era se non favorire Faenza.

Così, quando ormai si avvicinava il momento della cena, poco dopo l'ora del vespro, Caterina sentì tornare dentro di sé un minimo di fiducia nel destino.

Ritrovato un po' di spirito, pensò che fosse il caso di impegnare in modo costruttivo il tempo che restava prima di andare a mangiare. Sperando di non trovarvi né Cesare né Ottaviano, andò nella stanza dei giochi dei suoi figli. Trovò la porta aperta, malgrado il freddo, e subito venne investita piacevolmente dal tepore del camino acceso.

Le sue speranze vennero esaudite solo in parte. Infatti, anche se Ottaviano non era presente, Cesare c'era. E c'erano anche tutti gli altri suoi figli, e non erano soli.

“Se ci si pensa bene – stava dicendo Giovanni Medici, che non si era accorto dell'arrivo di Caterina, rivolgendosi a Cesare che, vestito da prete come sempre, stringeva al petto un'agiografia a cui era particolarmente attaccato – è l'Umanità il vero centro della creazione divina. È l'Uomo il vero oggetto e soggetto dell'Universo.”

Bianca stava leggendo in silenzio un libro che la Contessa non riconosceva, mentre il quasi undicenne Galeazzo giocava con le spade di legno assieme a Bernardino che, a giorni, avrebbe compiuto sei anni.

Sforzino, invece, nella beatitudine dei suoi nove anni, se ne stava seduto davanti al camino a sbafarsi un pezzo enorme di torta secca che, con gran probabilità, aveva fatto trafugare dalle cucine da suo fratello Galeazzo.

Cesare si adombrò, mentre i suoi occhi scorrevano dal Medici alla madre. Anche Giovanni, a quel punto, si avvide dell'arrivo di Caterina e parve sul punto di dirle qualcosa, forse per motivare la sua presenza in mezzo ai suoi figli.

Tuttavia Cesare non gliene diede il tempo, rispondendogli a tono: “No, vi sbagliate, non è l'Umanità, ma Dio, Dio e solo Dio è il centro di tutto.”

Il Popolano si trattenne a stento dallo scuotere la testa con insofferenza, rivedendo nel giovane Riario quasi una copia sbiadita del domenicano Savonarola, e si arrese, dicendo in un soffio: “Forse abbiamo avuto istruzioni troppo diverse per intenderci.”

“Mio figlio ha avuto precettori dalla mentalità aperta e dalle conoscenze moderne.” lo corresse la Contessa, andandosi a sedere sulla poltrona accanto a quella di Bianca: “È solo colpa sua, se è rimasto bloccato al secolo scorso.”

Cesare incassò il colpo con difficoltà. Strinse al petto il pugno e poi, scusandosi con l'ambasciatore fiorentino, riappoggiò l'agiografia sulla scaffalatura e lasciò la stanza, scalciando il gonnellone nero del suo abito da prelato.

“Gira vestito come un prete, quando ancora non ha preso i voti...” si lasciò scappare la Contessa, con rabbia.

Ciò che più la feriva, era vedere come Cesare fosse cambiato. Quando era piccolo, le era sembrato diverso in tutto e per tutto da Ottaviano, ma poi era stato traviato ed era diventato un altro. E ora lei non riusciva più ad accettarlo.

Giovanni represse uno sguardo di rimprovero verso la Tigre, a quelle parole. Aveva notato come Bianca stesse ormai solo facendo finta di leggere e così anche gli altri tre stavano tendendo l'orecchio, pur andando avanti nelle loro occupazioni. Nessuno di loro, però, pareva intenzionato a prendere le difese del fratello. In definitiva, i figli della Contessa la temevano.

“Forse a vostro figlio Cesare – provò a dire il Popolano – è solo mancata l'influenza della bellezza, in questa città. Io parlo da fiorentino, ma mi rendo conto che non tutte le città sono così belle.”

Caterina lo guardò di sottinsù: “Piuttosto – gli disse, non avendo molta voglia di scontrarsi con lui sui pregi e i difetti delle rispettive città – che ci fate qui?”

“Ho portato un libro a madonna Bianca.” spiegò il Medici e la ragazzina, sentendosi chiamata in causa, sollevò il volume, lasciando leggere il titolo alla madre.

Francisci Petrarchae laureati poetae Rerum vulgarium fragmenta.” lesse la Tigre ad alta voce, guardando poi interrogativa il fiorentino.

“Si tratta dell'opera di un toscano, come me. Se vorrete, quando madonna Bianca l'avrà finita, posso prestarvela.” concesse Giovanni: “Almeno capirete che intendo, quando dico che nella mia terra si respira bellezza fin da quando si nasce.”

“Dalla terra da cui vengo io – l'attaccò Caterina – è il lavoro che si respira fin da quando si nasce.”

“Il lavoro è importante – convenne Giovanni, mentre Galeazzo e Bernardino smettevano di far cozzare le spade di legno e si sedevano accanto a Sforzino, implorandolo di lasciare anche a loro un pezzetto di torta – ma lo è anche la bellezza.”

“Avete ragione.” sospirò Bianca, zittendosi subito, quando incrociò le iridi verdi e perentorie della madre.

Il Popolano, però, non si lasciò intimidire dallo sguardo della Leonessa e parlò di nuovo, stavolta rivolgendosi direttamente a Bianca: “E vi dirò di più: secondo me, la bellezza chiama bellezza, così come la ricchezza chiama ricchezza e così via. Il simile richiama il proprio simile. Ed ecco perché credo che anche qui sarebbe opportuno che vi fosse qualcos'altro di bello, oltre a voi e vostra madre.”

Caterina, che aveva finto in quegli istanti di essere interessata alla piccola diatriba intercorsa tra i suoi tre figli maschi più piccoli, che si contendevano la torta, intervenne: “Qui si stanno apparecchiando guerre in ogni dove e certi scontri sono già in atto. Non c'è tempo, per la bellezza che cercate voi. E non ci sono nemmeno abbastanza soldi.” alzandosi dalla poltrona e mettendosi al suo fianco, la donna fissò l'ambasciatore, le cui guance si colorirono all'istante: “Io sono affamata di bellezza quanto voi, non crediate il contrario, ma ho imparato a trovarla altrove.”

“E dove, se posso?” chiese Giovanni, con un filo di voce, mentre il suo sguardo si perdeva nei lunghi capelli sciolti della Contessa che, in un insieme di bianco e biondo le incorniciavano il volto, ancora così simile, malgrado il passare del tempo, a quello della Grazia dipinta da Botticelli.

“Nelle armi. Cannoni, falconetti, spingarde, spade, lance.” elencò Caterina, mentre il suo labbro si sollevava appena in una specie di smorfia.

“Negli strumenti di morte, insomma.” parafrasò Giovanni, mentre le iridi ramate della Contessa lo tenevano legato come corde d'acciaio a loro.

In quel momento era così preso dalla Tigre, da dimenticarsi perfino che in quella stanza c'erano altre quattro persone.

“Di morte per i miei nemici, ma di vita per me.” lo corresse la donna.

“E della bellezza in ambito sensuale cosa ne dite? In amore, quanto conta, per voi?” chiese Giovanni.

La Contessa abbassò lo sguardo, rompendo in parte l'incantesimo che aveva soggiogato il Medici fino a quel momento. Di colpo, l'uomo fu di nuovo conscio del fatto che quattro paia di occhi li stavano fissando. E una di queste apparteneva al figlio del defunto Barone Feo.

Parlando prima di ragionare, il Popolano aggiunse: “Da quello che so di voi e della vostra storia recente, direi che per voi la bellezza in un uomo ha un grandissimo peso.”

“Non è forse il corpo umano la più grandiosa delle opere d'arte?” domandò allora Caterina, quasi facendo eco al discorso che Giovanni stava facendo con Cesare, quando lei era arrivata nella sala dei giochi: “E dunque, perché dovrei fingere di non apprezzare la bellezza di un uomo, quando la trovo?”

“Solo apprezzare, o anche far vostra, costi quel che costi?” l'irriverenza di Giovanni, che anche con la sua forte pronuncia non perdeva occasione di ricordare a Caterina la sua provenienza, colse tanto di sorpresa la donna che per qualche minuto non riuscì a spiccicare parola.

Così il fiorentino ebbe il tempo di tornare a rivolgersi alla figlia della Contessa: “E voi, madonna Bianca, la pensate come vostra madre?”

La ragazzina arrossì violentemente, chiudendo con discrezione il libro che ormai non fingeva più di leggere e poi rispose, imbarazzata: “Sono una donna sposata, non è per me conveniente, parlare di queste cose.”

“Voi non siete una donna sposata.” controbatté Giovanni, senza ammettere repliche: “Siete una ragazzina, e Astorre Manfredi è appena un bambino. Non sapete nulla, di cosa sia essere davvero sposata. Vivete la vostra età, non ragionate come se foste già adulta.”

“Ma io...” balbettò Bianca, gli occhi blu che andavano in cerca del rimprovero o della complicità della madre.

“Basta così.” chiuse la storia Caterina, facendo imperiosamente segno al Medici di seguirla fuori dalla stanza.

L'uomo deglutì, appena intimidito, e andò con lei in corridoio, mentre nella stanza i quattro figli della Tigre riprendevano le loro occupazioni, seppur con uno spirito parecchio diverso da poco prima.

“A Firenze sarà uso comune fare determinati discorsi in certi termini, ma qui non siamo in uno dei vostri palazzi affrescati e pieni di statue antiche.” lo riproverò Caterina, appena furono abbastanza lontani dalla sala dei giochi.

La luce diafana della serata nebbiosa che entrava dalle finestre che davano sul cortile donava al profilo della Leonessa un che di spettrale, ma Giovanni non si lasciò smontare né da quello né dal suo tono battagliero: “Voi non siete così rigida, su queste cose. So bene che avete preso come domestiche delle donne di strada, che permettete a vostra figlia di chiacchierare con le cuoche, con le schiave liberate e perfino di giocare ai dadi coi soldati. So che i precettori che avevate per i vostri figli erano in gran parte di bassa estrazione, degli eruditi da quattro soldi, che avete scelto solo perché preparati, non badando a ciò che il vostro rango avrebbe imposto. Io queste cose le so, perciò, almeno con me, non fingetevi diversa da come siete.”

Caterina non disse nulla, così Giovanni proseguì: “So che la questione del matrimonio di vostra figlia vi angustia. E allora perché non sciogliete il contratto e basta? Anche Faenza sembra molto fredda nei vostri confronti, quindi...”

“Cosa ne volete sapere, voi?” reagì a quel punto la donna, abbassando poi la voce, dato che in fondo al corridoio erano appena passati un paio di soldati, probabilmente diretti a cena: “Adesso è un rischio troppo grosso. Io non so cosa ha in mente Faenza. Non so se Venezia è davvero una loro alleata. Non so come reagirebbero, se io rompessi il matrimonio. Non so nulla. Le mie spie non riescono a scoprire nulla di certo. Niente di niente. Non posso rischiare.”

“Ma vostra figlia Bianca merita di meglio... Ho visto Astorre Manfredi, quando sono stato a Faenza, e si vede subito che non sarà mai l'uomo giusto per lei... Vostra figlia merita...” cominciò il Popolano.

“Cosa?” lo zittì la Leonessa, ricordandosi di colpo come avesse avuto una discussione abbastanza simile anche con Giacomo, molto tempo prima: “Di trovare un uomo di cui innamorarsi e sposare lui?”

Siccome il fiorentino aveva l'espressione di chi sta per dire di sì, la Tigre fece una mezza risata spenta: “L'amore, almeno per come sembrate intenderlo voi, caro messer Medici, è solo una bella favola. Appena si scontra con la realtà, l'incanto si spezza e non resta nulla se non il dolore. Vale la pena, per pochi istanti di felicità, soffrire per il resto della vita?”

Giovanni comprese subito come l'oggetto sottinteso di tutto quel discorso, alla fine, fosse il compianto Giacomo Feo.

Così, senza peli sulla lingua, chiese: “Per voi ne è valsa la pena?”

“Come..?” fece Caterina, stupefatta da una simile domanda.

“Con vostro marito Giacomo. Ne è valsa la pena?” insistette l'ambasciatore, prendendole d'istinto una mano nelle sue.

La Contessa guardò con attenzione il profilo asciutto e regolare del fiorentino, le sue gote imporporate, i suoi riccioli castani e poi abbassò gli occhi fino a cercarne le mani. Erano strette attorno alla sua. Erano così perfette da sembrare scolpite nel marmo.

La Tigre fece scivolare via le sue dita, lasciando quelle del Popolano a mezz'aria, bagnate dalla luce delle torce a muro e della luna che navigava in un mare di nebbia.

Era facile parlare di certe cose, per lui. Non aveva certe spine nel petto. Anche se pure lui aveva avuto dei dolori, nel corso dei suoi ventinove anni di vita, probabilmente non aveva mai sentito l'anima strapparsi in mille pezzi, né il cuore ghiacciarsi in un solo battuto, né tanto meno la coscienza sparire di colpo, lasciando spazio a un mostro oscuro e senza remore, capace di uccidere per il puro gusto di farlo.

“State giocando in modo scorretto.” disse Caterina, con un filo di voce e poi, camminando veloce, andò nella sala dei banchetti a mangiare qualcosa, sperando di finire il suo pasto ben prima che il fiorentino si presentasse a tavola.

'Lo state facendo anche voi' pensò Giovanni, guardandola mentre si allontanava e pensando che anche lui sarebbe stato disposto a soffrire, pur di avere qualche momento di pura felicità.

 
   
 
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