Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    25/08/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

Il 23 novembre, il giorno dopo la morte di sua figlia, Ludovico Sforza riuscì a trovare il coraggio di scrivere a Bernardina de Corradis, la madre di Bianca Giovanna, che viveva ancora a Voghera.

Il Duca aveva fatto sì che qualcuno andasse subito a informarla, con tatto, dell'accaduto e aveva impedito a Beatrice di recarsi da Bernardina di persona.

L'Este, infatti, voleva agire secondo i dettami del proprio cuore, ma il Moro era abbastanza sicuro che non fosse il caso di mettersi in pericolo per una cosa del genere.

La Duchessa era quasi al termine della gravidanza. Le mancava un mese, più o meno, e viaggiare in quel freddo finale di novembre, sotto i primi fiocchi di neve che andavano a posarsi sulla campagna silenziosa della Lombardia, non era esattamente una mossa saggia.

Per di più, quando aveva visto il corpo esanime di sua figlia, Ludovico vi aveva riconosciuto dei segni che l'avevano fatto inorridire e il suo desiderio di tenersi vicina la moglie e controllare che nessuno le facesse del male era aumentato a dismisura.

Non si sarebbe sorpreso, a quel punto, di vederla tornare cadavere, se mai si fosse permesso di lasciarla partire per Voghera.

Aveva anche cercato di farla tacere, quando ella aveva cominciato a puntare il dito contro il soggiorno a Bobbio.

Più Beatrice piangeva e alzava la voce dicendo che Bianca Giovanna non era morta di malattia, ma per mano di qualcuno che la voleva ridurre al silenzio, più il marito minimizzava, seppur con grande fatica, dicendo che la sua povera figlia non era certo la prima Sforza a morire per un male del genere.

Erano stati tanti, nella loro famiglia, a soffrire – e grandemente – di stomaco e alcuni, purtroppo, ne era perfino morti. Anche se Bianca Giovanna era molto giovane ed era parsa in salute per molti anni, era chiaro che pure lei avesse incappato nella sfortuna che aveva colpito prima di lei molti altri Sforza.

Beatrice ci aveva messo un po', ma poi, probabilmente, aveva capito l'antifona e non aveva più detto nulla, se non dei rosari.

Con un sospiro pesante, il Duca si mise alla scrivania, ripensando ancora a come i due servi portati da suo genero avessero guardato in modo indecifrabile Beatrice mentre diceva: “Lei aveva capito che i Dal Verme stanno tramando qualcosa! Mi aveva detto che c'era qualcuno che la teneva d'occhio, a parte loro, ma non aveva capito chi! Qualcuno di vicino a lei, ma non sapeva dire un nome... Forse loro credevano che l'avesse scoperto!”

Con un brivido lungo il collo, Ludovico intinse la punta della penna nell'inchiostro nero e cominciò a scrivere.

All'inizio le parole fluirono come nulla fosse sulla superficie un po' ruvida della carta grezza che aveva scelto.

Descrisse di come Bianca Giovanna fosse stata relativamente bene fino alle tre di notte e di come poi si fosse di colpo aggravata, peggiorando di continuo, senza che nessuno sapesse né guarirla né alleviare le sue terribili sofferenze o le sue febbri alte, fino a morire alle cinque del pomeriggio, tra il cordoglio di tutti i presenti.

Le scrisse anche che la causa della morte era ignota, ma poi, sentendosi in dovere di dire qualcosa in più alla donna che aveva portato in grembo Bianca Giovanna per nove mesi, sentì l'impulso di spingersi oltre, almeno con lei.

Tuttavia, quando pensò a come esporre i suoi dubbi circa la natura del male che aveva colpito la loro giovane figlia, Ludovico ebbe paura.

Quella lettera avrebbe potuto essere intercettata. Molte lettere subivano quella sorte e quella non era nemmeno scritta in codice, visto che lui e Bernardina non avevano mai avuto bisogno di usare un linguaggio segreto e dunque mai ne avevano elaborato uno.

E comunque, nel parlare francamente, non ci sarebbe solo stato il rischio di attirarsi le ire degli eventuali assassini, che si sarebbero sentiti smascherati, ma anche di risvegliare un vecchio fantasma: suo nipote Gian Galeazzo.

Se lui per primo avesse attirato l'attenzione delle somiglianze tra il morbo che aveva condotto alla tomba il povero Duca e sua figlia Bianca Giovanna, presto l'avrebbero fatto anche altri e non era certo il caso di rintuzzare il fuoco che covava sotto la paglia.

Non doveva dimenticare che a Pavia c'erano ancora i figli di Gian Galeazzo, vivi e vegeti, per quanto segregati in una torre assieme alla madre, e uno di loro era uno maschio e apparentemente benvoluto dal popolo.

Forse aveva ragione Beatrice: avrebbe dovuto ucciderli tutti, prima che fosse troppo tardi.

Scuotendo il testone, il Moro chiuse la lettera, dopo averla firmata, e ne vergò subito un'altra, diretta all'archiatra e mago di corte di Milano, Ambrogio da Rosate.

Una riga dopo l'altra, accusò senza mezzi termini i medici che avevano preso in carico sua figlia in quel tragico giorno di non essere stati capaci nemmeno di accordarsi sulla diagnosi.

Raccontò con dovizia di particolari di come certi parlassero di parossismo, altri di un generico dolore colico e si prese anche il disturbo di provare a dare alle loro scelte sconclusionate tutta la colpa della sua morte.

Cercando, però, comunque di farsi capire da Ambrogio, velò la sua richiesta di conferma dicendo anche che questi dottori le avevano dato 'vino et altre cose calde' che avrebbero potuto crearle un danno alla testa.

Sperando che l'archiatra capisse e fosse in grado di confermare o smentire il suo sospetto, il Duca chiuse anche quella lettera e poi andò dal suo cancelliere, affinché le facesse partire subito entrambe.

Mentre tornava nel suo piccolo studio, si imbatté in Beatrice, vestita a lutto, gli occhi gonfi, il viso ancora arrossato per un recente accesso di pianto, e seguita da uno stuolo di dame compagnia addobbate allo stesso mesto modo.

“Dobbiamo parlare.” disse l'uomo, facendole segno di seguirla: “Solo noi due.” aggiunse, a beneficio delle ancelle.

Quando fu certo che nessuno fosse in ascolto, chiusa per bene la porta del salottino in cui si erano ritirati, il Duca fissò la moglie e, forse per la prima volta da che erano sposati, le parlò con un'autorevolezza che non ammetteva repliche: “Daremo una versione ufficiale molto precisa, della morte di mia figlia. Prima di tutto, ne parleremo il meno possibile. Se proprio non potremo evitarlo, diremo che è morta per un aborto spontaneo.”

La Duchessa restò con la bocca mezza aperta e le ci volle qualche momento per accettare la cosa.

Poi capì perché suo marito avesse deciso così. Quella era una versione che non metteva in pericolo nessuno.

Dopotutto, Bianca Giovanna era giovane, ma era sposata ormai da qualche tempo. Una morte per parto avrebbe sollevato troppe domande, visto che nessuna gravidanza era stata annunciata. Un aborto, invece, sarebbe stato credibile, perché, se arrivato all'inizio di un'ipotetica gravidanza, avrebbe scansato ogni perplessità. Anzi, in tal modo non avrebbe nemmeno alimentato i pettegolezzi dei più morbosi. Tante donne morivano così. Sarebbe stata ritenuta, anche dai più pettegoli, una morte molto noiosa. Troppo, per parlarne a lungo.

“Va bene.” annuì Beatrice, stringendo con forza una delle manone del marito nella sua: “Da oggi non parleremo mai più dei veri motivi.”

Prima di uscire dal salottino, Ludovico la fermò un istante e, teso, le chiese: “Pensi anche tu che sia stata avvelenata, vero?”

“Tua figlia è morta esattamente come tuo nipote Gian Galeazzo.” rispose la Duchessa, mentre un nodo alla gola le faceva tremare le labbra, al pensiero di aver perso per sempre e in modo orribile una delle sue più care amiche.

 

Palmerio Tiberti si portò una mano al viso. Il colpo che il fante dei Martinelli gli aveva dato con la punta dell'elsa della spada aveva fatto molto più danno di quello che credeva.

La confusione che lo circondava gli stava facendo perdere il senso del tempo e anche di se stesso.

Quasi non sentiva dolore, ma poteva capire comunque che stava perdendo molto sangue e che le sue forze stavano venendo meno, sia per la fatica, sia per le ferite.

Non vedeva più Achille e riconosceva a stento lo stemma della Sforza sulle corazze dei suoi alleati.

Per lui, ogni uomo ormai era un nemico.

Scansando a fatica quelli che gli stavano attorno e ignorando le urla di richiamo di certi che forse erano dalla sua parte, Palmerio si fece strada fino alle porte della città, che quel giorno erano state finalmente forzate.

Tenendosi ormai entrambe le mani sulla guancia, a coppa, come nella folle speranza di riuscire a raccogliere il sangue che stava fluendo copioso, Palmerio continuò a correre.

Quando arrivò in vista del vessillo della sua famiglia, che sventolava nell'aria gelida, scosso dai refoli di vento e dalla neve che iniziava a cadere leggera, crollò a terra svenuto.

Si risvegliò poco dopo, con un ragazzo, forse un coppiere o uno scudiero, che gli batteva il palmo della mano sulla guancia ancora sana.

Tossendo, Palmerio sentì il sangue che arrivava dalla ferita aperta sul volto riversarsi nella gola, ed ebbe la sensazione di soffocare.

“Signore... Signore!” lo chiamò ancora il ragazzo.

L'altro riprese lucidità e all'improvviso sentì tutto il dolore ripresentarsi come una fiammata. Non solo al volto – e già quello sarebbe stato di per sé quasi insopportabile – ma anche alla gamba.

Tremando, riuscì a guardarsi le cosce e in una delle due vide conficcata una freccia. Non ricordava nemmeno il momento in cui era stato ferito a quel modo.

“Sono il fratello di Tiberti... Mi chiamo Palmerio Tiberti.” disse l'uomo, tentando di mettersi seduto: “Fammi preparare un cavallo.”

Lo scudiero cercò con lo sguardo aiuto in qualcuno, ma al campo, quel giorno, oltre a lui erano rimasti solo gli uomini delle salmerie, qualche donna di malaffare e i feriti.

Riconoscendo una vaga somiglianza tra quel soldato e il Capitano Tiberti, il ragazzo decise di dargli ascolto e andò a prendere una cavalcatura, benché fosse certo che in quelle condizioni chiunque sarebbe morto, se avesse provato a cavalcare.

Mentre lo scudiero partiva alla ricerca di una bestia, Palmerio strinse nel pugno il legno della freccia e poi, con l'altra mano, ne tenne ferma l'estremità conficcata nella coscia.

Con un grido lacerante di dolore, spezzò in due il bastoncino. Si cavò la piastra pettorale dell'armatura. Infine, si tamponò la guancia con una striscia di stoffa che strappò dalla giubbetta imbottita che indossava.

Quando il cavallo arrivò, Palmerio si fece aiutare a saltare in sella e poi, strappando un'altra pezza dal suo vestito, si premette la guancia che ancora sanguinava e partì, senza dare nessuna spiegazione.

 

I lavori per il nuovo mastio alla rocca di Ravaldino stavano procedendo molto bene, malgrado gli inziali ostacoli dovuti alla contrarietà del Consiglio e al clima che si stava facendo fortemente invernale.

Era ormai dicembre e Caterina iniziava ad aspettare con ansia crescente notizie da Civitella. Non le piacevano le voci che aveva sentito e che ancora non avevano avuto conferma da parte di suo fratello Piero.

Un paio di viandanti avevano detto a Bernardi – che aveva subito riferito la cosa alla sua signora, quando, la sera prima, si era presentata da lui per mangiare insieme qualcosa mentre si aggiornavano sulle ultime novità – che a Forlimpopoli era stato visto nientemeno che Palmerio Tiberti, sfuggito dal fronte, ferito in volto e a una gamba.

“Dicono che sia arrivato solo – aveva riferito il Novacula, versando un po' di minestrone con maccheroni alla sua signora – e che sia andato subito da un cerusico di sua conoscenza, senza nemmeno voler passare alla rocca per spiegare che fosse successo.”

Così la Contessa, appena era tornata a Ravaldino, aveva mandato una staffetta a Civitella, senza, però, avere ancora risposta.

Così quel giorno, mentre seguiva i lavori al mastio, la sua testa era da tutt'altra parte.

Anche se aveva imparato spesso a sue spese come fosse inutile crogiolarsi nell'ansia, quando si attendevano notizie, non riusciva a fare altrimenti.

In cerca di distrazione, guardò verso le finestre che aggettavano sul cortile e quando vide l'ambasciatore di Firenze passarvi davanti in fretta, non perse tempo e provò a incrociarlo.

Intuendo che strada stesse facendo, Caterina riuscì a imbattersi in lui sulle scale.

“Avete ricevuto posta?” chiese, vendendo come il fiorentino stringesse in pugno una lettera.

Giovanni, felice del tono pacifico con cui la Tigre gli si era rivolta, andò avanti a scendere le scale, rispondendole con calma, mentre lei gli si affiancava: “Sì, è una lettera di Simone, mio cugino.”

“Oh, capisco.” fece la donna, seguendo il Popolano senza nemmeno chiedersi dove stesse andando di preciso, solo desiderosa di stare in sua compagnia e dimenticarsi per un po' dei propri guai.

“Dice che torneranno presto in Romagna. Non è stato molto chiaro, ma credo che in Firenze non ci sia un clima molto disteso, in questi giorni.” soppesò Giovanni che, già stanco di camminare, aveva fatto un cenno interrogativo alla Contessa, indicando con il capo una delle panchette che stavano contro il muro del corridoio.

La donna annuì, poi si sedette accanto a lui e commentò: “Posso immaginare.”

Giovanni si era messo il suo giubbone imbottito più spesso che aveva e brache rosse e oro di lana cotta. Sotto lo sguardo della Contessa, che quel giorno mal celava il suo interesse per l'aspetto del Medici, l'uomo pensò che avrebbe anche potuto scegliere con più cura il suo abbigliamento.

Poi, però, notò l'abito dalla sottana rattoppata della Leonessa e pensò che avesse fatto bene a preferire di starsene al caldo, piuttosto che di essere elegante.

“Qualcosa vi preoccupa?” chiese l'ambasciatore, notando la ruga severa che si formava sulla fronte della Contessa ogni volta che era impensierita per qualcosa.

Caterina scosse il capo, scostandosi appena da Giovanni. Quella panca sembrava improvvisamente troppo stretta. Ogni volta che si muoveva, sentiva la propria spalla sfiorare quella del fiorentino.

“È solo che...” cominciò a dire la donna.

Siccome nel corridoio non stava passando nessuno e la leggera neve che cadeva fuori dalle finestre rendeva ovattati perfino i rumori grossolani provocati dai costruttori che stavano lavorando al mastio, Giovanni prese coraggio e si avvicinò a lei, premendo con decisione la propria spalla contro la sua e avvicinando il volto al suo: “Solo che..?”

“Ecco...” riprese Caterina, cercando di non guardarlo negli occhi.

Era troppo vicino e lei in quel momento si sentiva fragile.

Ogni volta che restava sola con lui, provava subito un senso di intimità che non aveva mai provato con nessun altro, nemmeno con Giacomo.

Con Giovanni, capirsi sembrava anche troppo facile. Per quanto si punzecchiassero e si scontrassero a volte sul piano intellettuale o politico, non poteva ignorare la chiara connessione che avevano l'uno con l'altra. Avevano troppe cose in comune, per poter evitare quel genere di vicinanza.

Dunque trovarselo così vicino anche fisicamente, la stava mettendo alla prova, e la Tigre non era più così sicura di voler resistere a quella tentazione.

“Il fatto è che sto aspettando notizie da Civitella.” disse, sperando che concentrandosi su quei pensieri la distogliesse dagli altri: “L'esito di quel maledetto assedio sembra appeso a un filo, da quello che dicono, e io non so ancora chi sta vincendo, malgrado abbia impiegato non pochi dei miei uomini. Avrei dovuto andare di persona a guidare il mio esercito, invece di fidarmi di Tiberti e suo fratello. Ma non potevo lasciare lo Stato alla mercé del fato solo per immischiarmi in una guerra con cui non c'entravo assolutamente nulla.” spiegò Caterina, mordendosi il labbro e poi ricominciando: “Se ci fosse ancora mia madre, mi avrebbe già detto almeno cento volte che prendere parte a questa guerra è stato un errore. Anzi, me l'avrebbe detto anche subito. Mi avrebbe detto di non immischiarmi e basta.”

“E voi l'avreste ascoltata?” chiese Giovanni, sorprendendosi, in realtà, di sentire la Contessa parlare della defunta Lucrezia Landriani.

La Tigre ci pensò su, poi scosse la testa: “No.”

Il Medici sospirò e fece un breve sorriso triste: “E allora di che vi rimproverate? Vedrete che andrà tutto per il meglio.”

Caterina non lo stava ascoltando, però. Con nelle orecchie un misto del respiro cadenzato di Giovanni e dei colpi che i costruttori stavano dando alla pietra, la donna aveva cominciato a pensare a sua madre.

Da quando l'aveva vista morire davanti ai suoi occhi, aveva cercato di non farlo più, ma citarla aveva risvegliato il ricordo.

“Mia madre era figlia di una cortigiana.” disse, appena udibile: “Mia nonna materna era una cortigiana della peggior specie. O almeno così dicevano in casa, quando ero piccola.”

Il Medici restò appiccicato a lei, ascoltando con attenzione. Era abbastanza certo che quello non fosse il genere di discorsi che la Tigre facesse con chiunque.

“E anche io sono d'accordo. Che donna è, che madre è, una che vende la propria figlia a degli uomini più vecchi di lei solo per guadagnarci?” la voce di Caterina tremò per un momento e a Giovanni parve che in quelle parole ci fossero altre accuse, forse rivolte ad altri che non fossero sua nonna, ma non la voleva interrompere per fare domande, temendo di irritarla e indurla a chiudere bruscamente il discorso, come già era capitato altre volte.

“Per venderla meglio – proseguì la Leonessa, guardando dritto davanti a sé – mia nonna andava in giro a dire che mia madre era la figlia naturale di Carlo Medici, il prelato, il figlio illegittimo che Cosimo il Vecchio, aveva avuto da una schiava circassa.”

“Ed era vero?” chiese Giovanni, che non si era aspettato di sentire il nome di Cosimo, fratello di suo nonno.

Caterina incurvò le labbra verso il basso e disse solo: “Penso che non lo sapesse nemmeno lei. È probabile che l'abbia scelto solo perché anche lui aveva gli occhi azzurri come il ghiaccio, uguali a quelli di mia madre. E poi aveva un cognome importante come il vostro e abitava abbastanza lontano da Milano da non poterla smentire. Non in tempi brevi, almeno.”

Il fiorentino non disse nulla, restandosene fermo, in attesa.

“Poi mia madre ha conosciuto mio padre ed è diventata la sua amante. Quando lui è diventato Duca, è riuscita a diventarne la favorita ufficiale e allora...” Caterina fece un lento sospiro e guardò finalmente le iridi chiarissime di Giovanni, così vicine alle sue da potervisi specchiare: “Poi, per giustificare la sua presenza a certe feste e incontri, visto che mio padre ormai aveva in vista una moglie ufficiale di indubbia nobiltà, l'hanno fatta sposare a Gian Piero. Poveraccio. Per entrare nelle grazie di mio padre, quell'uomo ha accettato sotto il suo tetto e nel suo letto una donna che aveva già avuto quattro figli da un altro e che, soprattutto, non lo amava.”

“Però poi vostra madre e Gian Piero Landriani hanno avuto un buon matrimonio, se non mi sbaglio. Hanno avuto due figli e credo che andassero d'accordo...” fece Giovanni, che, malgrado stesse parlando di argomenti che evidentemente stavano molto a cuore alla Contessa, non riusciva a focalizzare l'attenzione su altro se non sulle labbra di lei, tanto vicine che, se avesse avuto il coraggio di farlo, avrebbe potuto sfiorarle con le proprie.

“Andare d'accordo e amarsi sono due cose molto diverse.” puntualizzò Caterina, voltando il viso dall'altra parte e bruciando sul nascere la tentazione che aveva attraversato il Medici.

“Avete detto voi stessa che l'amore è solo una bella favola, no? Dunque perché vi fa così arrabbiare il pensiero che...” cominciò Giovanni, ma la Tigre aveva deciso che il discorso andava chiuso lì.

La donna si alzò, si rassettò un momento l'abito con una paio di colpi sbrigativi per togliere le pieghe e poi si congedò: “Perdonatemi, voi stavate badando ai vostri affari e io vi ho fatto perdere tempo.”

“Voi non mi fate mai perdere tempo.” ribatté Giovanni, che si era anch'egli alzato e aveva ripiegato la lettera di Simone, infilandosela nel giubbotto.

“Sì, certo...” disse Caterina, con un mezzo sbuffo: “Siete sempre troppo gentile, con me. Prima o poi capirete che non lo merito.”

Il Medici preferì non smentirla di nuovo, limitandosi a un inchino galante e poi, appena prima che la donna se ne andasse per conto suo, le annunciò: “Presto mi verranno consegnati i regali che ho comprato per la vostra famiglia. Se non è troppo disturbo, potrei chiedere al castellano di farmi portare i pacchi direttamente nelle mie stanze, quando arriveranno?”

“Fate come vi pare.” tagliò corto la Leonessa, con un gesto sbrigativo della mano, rimettendosi a camminare, diretta ancora una volta al mastio, sperando, questa volta, di riuscire a distogliere per un po' il pensiero dall'attesa delle notizie da Civitella. E anche da Giovanni.

 

Giovanni Bentivoglio non aveva digerito quello che gli era stato detto dalle sue spie. Già aveva dovuto accettare a malincuore la decisione perentoria di sua figlia Isotta, ormai già monaca del Corpus Domini, doversi anche prendere degli insulti a distanza da quella strega della Sforza era decisamente troppo.

Gli avevano detto che quella donna ignobile andava in giro a dire che i Bentivoglio non sapevano tener fede ai patti, che lui, Giovanni, era un uomo la cui parola non valeva nulla, che per puro capriccio aveva preferito chiudere la figlia in convento, piuttosto che permetterle di sposarsi.

Quelle erano tutte calunnie, e la Contessa Riario lo sapeva benissimo, eppure le spie sostenevano che perfino nella sua corrispondenza privata non avesse perso nemmeno un'occasione per denigrare i Bentivoglio, benché fosse stata lei, negli anni addietro, la prima a fingere di dimenticarsi di quel compromesso di matrimonio.

L'unico modo che il signore di Bologna conosceva per vendicarsi di quelle ingiuste parole, era riversarne altrettante sul conto della Leonessa di Romagna, basandosi sul fondo di verità che le sue spie avevano portato alla luce per lui.

“Sì, sì, ve lo ripeto.” disse Giovanni Bentivoglio all'oratore ducale che stava ascoltando le sue parole con un'attenzione incredibile: “Ditelo pure al vostro signore, il Duca Ludovico. Ditegli pure che sua nipote fa grandi amorevolezze a quel Medici che è alla sua corte. Pare pure che voglia sposarlo.”

“Sposarlo?” chiese l'oratore, strabuzzando gli occhietti miopi.

“Certo. E per farlo, si sta già preparando un nido lontano dalla sua città. Potete giurarci, sta organizzandosi per allearsi a Firenze. Volterà presto le spalle al Duca suo zio, al quale deve così tanto..!” concluse il Bentivoglio, con un tono falsamente affranto, mentre il milanese mostrava tutta la sua sorpresa e faceva domande a ripetizione.

“Non so altro, non so altro...” lo zittì Giovanni: “Ma sappiate che se mia figlia è dovuta entrare in convento, è stato perché quella donna ha continuato a rinviare il matrimonio, fino a far impazzire la mia povera Isotta che, vedendosi derisa, ha preferito il velo! E la nipote del Duca l'ha fatto solo perché già sa che il suo futuro sarà con Firenze e non con Milano!”

 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas