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Autore: Adeia Di Elferas    26/08/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Achille non riusciva a credere che suo fratello fosse scappato dalla battaglia senza nemmeno sincerarsi se lui fosse ancora vivo o meno.

Si era anche perso il momento esaltante della vittoria. E, cosa non trascurabile, sparendo a quel modo l'aveva fatto preoccupare.

Quando non l'aveva trovato da nessuna parte, una volta messi in fuga i malatestiani, Achille era tornato al campo, lasciando un momento al suo vice il compito di riorganizzare la città e scrivere al governo faentino per spiegare che i Martinelli erano stati scacciati, e aveva cominciato a cercare anche lì.

Uno degli scudieri l'aveva sentito chiamare a pieni polmoni il fratello e così gli si era avvicinato e gli aveva fatto sapere che Palmerio aveva preso un cavallo e se n'era andato.

“Dove?” aveva chiesto allora Tiberti.

Il ragazzo aveva detto di non saperlo e aveva aggiunto che Palmerio era ferito a una gamba e al volto.

Achille, allora, aveva cominciato a smaniare, domandandosi che ne fosse stato di lui. Già pensava che forse potesse giacere morto per strada, quando arrivò una staffetta con un messaggio, scritto da una grafia che non conosceva, che riportava le parole di Palmerio.

'Sono scappato a Forlimpopoli. Raggiungimi lì.' aveva fatto scrivere.

“Messer Palmerio Tiberti – sottolineò la staffetta con sollecitudine – mi ha detto di consegnare il messaggio solo se avessi trovato ancora uomini della Sforza al campo, altrimenti di andarmene per la mia strada facendo finta di niente.”

Achille aveva dato una moneta al giovane e poi si era messo a ragionare.

Prima di tutto, doveva contare le perdite, in modo da poterne rendere conto alla Contessa, una volta di ritorno a Forlì, e poi doveva prendere accordi vantaggiosi per suo fratello.

Anche se era scappato a Forlimpopoli, appena si fosse rimesso, Palmerio avrebbe dovuto riprendere il suo posto.

'Ho rischiato la vita e ho perso la stima della mia signora pur di salvargli la città e l'onore. Che venga almeno a prenderseli.' pensò con rabbia Achille.

 

Caterina stava leggendo con concentrazione la lettera che Tiberti le aveva fatto recapitare da Civitella.

Achille le aveva scritto che la città era finalmente tornata nelle mani della sua famiglia, che le perdite, tutto sommato, erano state moderate, che i soldati di Rimini e dei Martinelli erano scappati e anche che Palmerio, suo fratello, era stato gravemente ferito ed era andato a rifugiarsi, su suo espresso consiglio, a Forlimpopoli.

La Contessa aveva seri dubbi sul fatto che fosse stato Achille a far andare Palmerio a Forlimpopoli, tanto più che Piero Landriani le aveva mandato una staffetta per dirle che il fratello Tiberti fuggiasco era stato soccorso da un cerusico al quale aveva confessato di essere scappato a gambe levate dal cuore della battaglia senza neppure conoscerne l'esito.

Infine Achille assicurava che sarebbe tornato in città al più presto, ma non prima di aver sistemato l'organizzazione di Civitella.

A Caterina quell'ultima parte non piacque per niente. Non era una richiesta, ma una semplice costatazione. Quasi per certo, lei avrebbe concesso comunque volentieri qualche giorno in più al Capitano Tiberti, ma avrebbe preferito che lui avesse avanzato una richiesta formale, piuttosto che prendersi una simile libertà.

Era quasi sera e la Tigre era rimasta nelle sue stanze per gran parte del pomeriggio, ragionando su come comportarsi con Tiberti, quando fosse tornato in Forlì.

Aveva anche avuto la mezza idea di mandare a prendere suo fratello Palmerio e tenerlo a Ravaldino a mo' d'ostaggio, ma poi le era parsa una misura eccessiva.

Doveva tenere a freno la propria rabbia repressa ed evitare che sfociasse in violenza per motivi tanto infimi. Se Achille Tiberti aveva peccato di disinvoltura, forse l'aveva fatto senza avvedersene.

Era necessario parlargli a quattr'occhi, prima di decidere se e come punirlo.

Bevendo un paio di calici di vino, sistemandosi davanti al camino acceso, Caterina stava aspettando che fosse abbastanza tardi per andare a mangiare senza incontrare nessuno. Si sentiva troppo carica di pensieri, per sopportare le chiacchiere inutili a cui altri commensali avrebbero potuto costringerla.

Quando qualcuno bussò alla porta chiusa, la donna fece un suono infastidito e chiese: “Chi è?”

“Ho un messaggio da Milano per voi, mia signora.” rispose la voce del castellano.

Corrucciandosi, nel sentire la provenienza della missiva, Caterina andò ad aprire, prese la lettera e poi liquidò subito Cesare Feo, ringraziandolo per la solerzia che dimostrava sempre.

Di nuovo sola, spezzò il sigillo con impresso lo stemma sforzesco e lesse in fretta le parole vergate dalla mano grezza di suo zio Ludovico.

Annunciava la morte della sua figlia illegittima, Bianca Giovanna, e la prima reazione della Tigre fu non tanto di tristezza nel sentire della giovane vita spezzata, quanto di spaesamento nel vedersi resa partecipe di una simile notizia direttamente dalla mano di suo zio.

Una cosa del genere l'avrebbe capita se fosse morto uno dei suoi fratelli, o Beatrice, la moglie del Duca. Ma Bianca Giovanna... Lei non l'aveva vista nemmeno una volta.

Man mano che leggeva, però, comprese cosa avesse davvero spinto il Moro a scriverle e come sempre non represse un sorriso amaro nel notare come suo zio fosse ancor più attento di lei a curare la ragion di Stato anche se colpito da una tragedia improvvisa come la morte di una figlia.

'Ho avuto modo di sentire strane storie su voi e sull'ambasciatore di Firenze – aveva scritto Ludovico, cambiando improvvisamente argomento a circa metà lettera – e sul fatto che si intrattenga con voi più di quanto sia lecito per un ambasciatore qualunque. So che avete camere adiacenti, cosa direi sconveniente già di per sé, e pare che a volte non rientriate a sera ognuno nella propria, ma entrambi nella stessa. Ben lungi da me, nipote cara, immischiarmi negli affari vostri e dirvi ancora una volta che per una donna al potere scegliersi un favorito in modo tanto liberale spesso porti a brutte conseguenze, come voi avete già provato sulla pelle vostra. Tuttavia, se questa vostra cosa andasse a essere un pretesto per far volgere a voi il favore di Firenze, allora potrei permettermi di ricordarvi la parentela che ci lega e i debiti mai saldati nei miei confronti.'

Caterina terminò di leggere e appoggiò la lettera alla scrivania, appena sotto la luce della candela.

Si portò una mano alle labbra, pensierosa. Quella volta, a differenza di com'era accaduto quando una fuga di notizie aveva fatto sì che Ludovico venisse a sapere della sua storia con Giacomo, le voci erano del tutto infondate. Eppure il Moro pareva credervi e sembrava pure aver dato al tutto una connotazione politica molto precisa. Proprio quello che la Leonessa temeva potesse accadere, se avesse davvero concesso più spazio nella sua vita a Giovanni.

Strappando la lettera in mille pezzi e gettandola nel fuoco, la Contessa prese il mantello pesante e uscì.

Attraversò in fretta il ponte, lasciando detto alle guardie che stavano accanto al portone che sarebbe tornata tardi, e poi passò per le strade di Forlì, sfidando la neve che cadeva in grossi fiocchi, fino ad arrivare alla bottega di Bernardi.

Il barbiere stava chiudendo i battenti proprio in quel momento, quasi scopando fuori l'ultimo cliente che continuava a parlare tra sé, e così lasciò entrare la sua signora direttamente dalla porta della barberia.

Quando serrò le imposte, la pregò di seguirlo in casa, dove mise sul fuoco la cena.

“Che cosa si dice di me e Giovanni Medici?” chiese Caterina a bruciapelo, togliendosi il mantello e mettendosi al tavolo, gli occhi verdi puntati sulla schiena un po' curva del Novacula che si affaccendava a cercare del vino di discreta qualità da offrire alla Contessa.

L'uomo si bloccò un momento e poi riprese a muoversi, parlando con un tono casuale che alla Tigre non piacque per niente: “Che volete che si dica... Certo, il matrimonio tra madonna Feo e messer Ridolfi ha fatto molto parlare di Firenze e dei fiorentini, ma nulla di più...”

“Avete capito cosa voglio sapere.” lo fermò Caterina, senza ammettere altre digressioni.

Bernardi portò in tavola il fiasco di rosso che aveva accuratamente scelto e, versandone un po' alla Leonessa, strinse i denti e infine vuotò il sacco: “Si dicono molte cose, sapete. È l'unico ambasciatore straniero che abbia il permesso di vivere alla rocca. È giovane, di bell'aspetto e non è sposato. Vi hanno visti spesso parlare assieme, e a volte siete stati notati anche in città. Si è saputo che l'avete portato a caccia con voi, qualche tempo fa... Voi ormai avete una certa nomina e così...”

Una certa nomina...” sussurrò la Contessa, massaggiandosi le tempie.

Bernardi sentì un caldo improvviso colorirgli il collo, ma decise che quello era il momento di dire la sua e che forse non gli sarebbe capitata un'altra occasione: “Le voci corrono, mia signora, e non tutti gli uomini sanno stare zitti, anche se vengono minacciati. Dovreste scegliere con maggior cura gli uomini che portate nelle vostre stanze. Ci sono quelli che non vedono l'ora di vantarsi per una conquista del genere, e non sono pochi.”

Il Novacula socchiuse gli occhi, temendo di sentire da un momento all'altro la Contessa esplodere in una sfuriata esemplare. La donna, invece, rimase in silenzio e non disse quasi più una parola fino a quando ebbero finito di mangiare.

“Volete che smentisca le voci? Posso provarci, se è una cosa che...” si propose Bernardi, ma Caterina scosse il capo.

Alzandosi e finendo il vino che ancora aveva nel calice, la signora di Forlì sospirò: “Non perdete tempo a smentire una voce di cui tutti sono già certi. Il popolo sa essere molto più cocciuto dei muli, quando si mette in testa certe cose. Anche davanti all'evidenza, non cambierebbero idea...”

“Ma le voci sono vere?” chiese il barbiere, porgendo il mantello che la donna stava indicando e aiutandola a indossarlo.

Caterina si avvolse con cura nella cappa bordata di pelo e poi scoccò uno sguardo freddo allo storico: “Se davvero avessi la protezione di Firenze alle spalle, credete che sarei ancora qui a perdere i miei giorni dietro alla costruzione di un mastio difensivo?”

Bernardi scosse piano il capo e l'accompagnò alla porta. Si offrì di scortarla fino alla rocca, ma lei rifiutò.

“Ho ancora delle cose da fare e preferisco farle da sola.” spiegò, sibillina.

E così al Bernardi non restò che fissarla mentre si allontanava nel buio di quella notte di neve.

Quando arrivò a Ravaldino, Caterina aveva avuto tutto il tempo della strada percorsa a passi lenti per ragionare su quello che il barbiere le aveva detto.

Il suo primo impulso fu quello di presentarsi da Giovanni Medici e riferirgli tutto per vedere come avrebbe reagito.

Gli avrebbe anche detto della lettere di Ludovico. Avrebbe fatto in modo di scoprire se davvero c'era, nel suo chiaro interessamento per lei, qualcosa che andava oltre la semplice attrazione tra un uomo e una donna. Avrebbe scoperto se quello strano fiorentino fosse manovrato o meno da qualcuno, magari dal fratello, che voleva infilarlo nel suo letto in modo da poterla poi manovrare come un fantoccio.

Poi, però, non ne ebbe il coraggio e preferì scegliere una delle sue solite scappatoie. Voleva liberarsi la mente, ancora per qualche ora.

Aveva già bevuto a sufficienza, e non aveva più intenzione di prendere le sue pozioni. Non era stato facile, ma almeno da quelle si stava disassuefacendo e non vedeva che senso avrebbe avuto riprendere da capo.

Così si aggirò con casualità dalle parti degli alloggi dei soldati. Benché fosse molto tardi, ne trovò parecchi ancora svegli, benché non di guardia. Quel freddo pareva avere il potere di scacciare il sonno.

Ne scelse uno che stava alla rocca da qualche tempo. L'aveva già notato un paio di volte, ma poi l'aveva sempre evitato, vedendo nel suo impiego fisso a Ravaldino un pericolo.

Era un giovane taciturno e, malgrado non avesse un viso particolarmente armonioso, aveva un fisico prestante e ben delineato.

Non trovando di meglio, si accontentò di quello e si ripromise di farlo trasferire il prima possibile.

La Contessa restò un momento contraddetta, quando si rese conto che, fin dalle prime battute, l'uomo pareva già sapere che tipo di richiesta gli sarebbe stata avanzata, ma non andò per il sottile e lo portò ugualmente nella sua stanza.

Se tutti la dipingevano come una mangiatrice di uomini, che badava solo ai propri istinti più primordiali, ebbene, avrebbe fatto in modo di non deludere tutti i chiacchieroni che sembravano non aver di meglio da fare che sparlare di lei.

 

Juan Borja aveva aspettato per giorni, prima di attaccare il castello di Bracciano, per poi finire a sferrare il primo colpo quando cominciava a cadere qualche fiocco di neve e a ghiacciare all'alba.

Era servita una lettera di suo padre, per convincerlo a darsi da fare. Papa Alessandro VI non era stato molto comprensivo, nella sua missiva. Dava un ultimatum al figlio, dicendogli che non c'era motivo di prendersela così comoda e di distruggere gli Orsini una volta per tutte, prima di rendersi ridicolo. Gli diceva anche che Carlo Orsini stava scendendo verso sud, diretto probabilmente contro di lui, benché fosse rimasto bloccato lungo il cammino da qualche scaramuccia. Era dunque il caso di sbrigarsi, prima di vedersi piombare addosso un vero esercito.

In effetti Juan aveva atteso così tanto che, addirittura, su idea di Bartolomea Orsini, Bartolomeo d'Alviano aveva fatto in tempo a condurre una sortita, con un centinaio di cavalleggeri, contro Tonio Savelli, vicino a Roma.

Questi, con quattrocento cavalieri, stava scortando dei pezzi d'artiglieria e un brigantino – che proseguiva via Tevere – che sarebbero stati portati fino ad Anguillara Sabazia, per l'assedio.

Bartolomeo aveva costretto i papalini alla resa e li aveva mandati in fuga, prendendosi quella piccola soddisfazione e non solo.

Dopo poco, era stato di ritorno al castello di sua moglie.

Bartolomea, che stava di vedetta sui camminamenti assieme alle sue guardie, gli era corsa incontro non appena l'aveva visto tornare.

Juan Borja era stato così sciocco da interrompere l'assedio per la notte e così gli uomini degli Orsini erano riusciti a rientrare come nulla fosse.

“Allora?” chiese la donna, prendendo il marito per un braccio e guidandolo subito verso l'interno del castello, per sfuggire al freddo pungente della notte.

“Stavo per catturare Cesare Borja.” disse Bartolomeo, guardandola in modo strano.

Bartolomea smise per un momento di camminare, acquietando anche il rumore di ferraglia che la seguiva ovunque per colpa delle spade che portava ai fianchi: “Vieni con me.” disse e andarono assieme nella loro camera.

Sicura che almeno lì nessuno li avrebbe disturbati – visto che avevano dato chiaramente ordine di non aprire la porta della loro stanza, soprattutto di notte, a meno che non ci fosse qualche motivo gravissimo, come lo sfondamento delle porte da parte dei papalini – Bartolomea guardò di nuovo il marito e gli chiese, confusa: “Che significa che stavi per catturare Cesare Borja? Lui non è un guerriero, dunque quando..?”

“Stavamo per tornare verso Bracciano – spiegò Bartolomeo, iniziando a togliersi l'armatura che sotto la neve lo aveva fatto dannare – quando siamo passati sul Monte Mario e lì ci siamo imbattuti in un gruppo di cacciatori.”

“Andare a caccia quando in giro si sta combattendo...” sbuffò Bartolomea, che proprio non capiva certi capricci da nobile, mentre il marito si controllava gli abiti sporchi di fango, umidi di neve e macchiati di sangue, cavandoseli man mano

“Tra loro c'era Cesare Borja. L'ho riconosciuto subito, con quel suo muso lungo e gli abiti rossi da prelato vaticano...” disse l'uomo, ormai rimasto in brache, stivali e camicione di lana: “Ho convinto i nostri ad attaccare. Li abbiamo uccisi tutti, cacciatori e paggi, ma Cesare mi è scappato. L'avevo anche disarcionato, ma quello è riuscito a divincolarsi come un'anguilla e mi ha dato un pugno in testa che mi ha fatto perdere i sensi.”

Bartolomea restò molto colpita da quel dettaglio. Suo marito era un bestione, difficile da abbattere con un misero pugno.

“Tutti hanno paura di questo Juan – sussurrò Bartolomeo, mesto, gli occhi incavati puntati contro le candele che illuminavano la stanza – ma per quello che ho visto io, è suo fratello Cesare quello di cui si dovrebbe avere davvero paura. Nelle sue pupille si agita l'inferno.”

Bartolomea si sistemò accanto al marito, che si era lasciato cadere sul letto, esausto. Gli strinse una mano e poi lo guardò. Ancora una volta sentì il bisogno di dirgli tutto quanto, tutto quello che aveva costruito nell'ombra per lui. La rete di sicurezza che aveva meticolosamente teso per far sì di dargli una possibilità di vivere, se lei fosse morta.

Quei discorsi sui Borja la stavano mettendo alle strette. Se non fosse stato Juan, forse sarebbe stato Cesare a decretare la fine degli Orsini. O uno o l'altro, ormai il destino aveva deciso e Bartolomea non voleva più aspettare.

Tuttavia, ancora una volta, si tramutò in una donna debole e preferì accantonare quel pensiero. In fondo gli attacchi di Juan Borja per il momento erano stati facili da respingere. Al primo segnale di vero allarme, avrebbe confessato tutto a suo marito.

Malgrado l'ingombro delle spade che portava al fianco, Bartolomea riuscì ad accoccolarsi accanto a Bartolomeo e lo strinse a sé con un braccio.

“Dobbiamo ammazzarli tutti – sussurrò l'uomo, ricambiando l'abbraccio e baciandola – dal primo all'ultimo Borja. Faremo solo un favore al mondo.”

“Adesso stai zitto e togliti questi vestiti. Sono ancora sporchi di sangue.” disse allora Bartolomea, slacciandogli il cinturone e insinuando una mano sotto al camicione di lana.

La signora di Bracciano ormai aveva una certa età, eppure sentiva ancora un forte desiderio per quell'uomo che, così tanto più giovane di lei, l'aveva sposata quando era all'apice della sua scalata alla carriera militare, quando, malgrado il suo aspetto infelice, avrebbe potuto avere qualunque donna.

Visto che sentiva il tempo concessole venire meno sempre più velocemente, Bartolomea voleva sfruttare ogni minima occasione per stare con lui e provare ancora i brividi che lui solo era riuscito a darle.

Così, quando Bartolomeo restò senza nulla addosso, l'Orsini si slacciò il cinturone e gettò le spade in terra, abbandonando ancora per un po' il campo di battaglia e isolandosi con suo marito nell'illusione di una vita in cui esistevano solo loro due.

 

Caterina guardava senza parlare l'uomo che si stava rivestendo. Aveva avuto ragione: benché non fosse una gran bellezza in viso, aveva un corpo degno di una delle statue antiche di cui il Medici sembrava così desideroso di parlare.

Forse, malgrado la giovane età, era fatale per un soldato sottoposto al regime di addestramento che lei stessa aveva deciso avere un fisico del genere.

L'uomo aveva finito di allacciarsi la giubba e sembrava improvvisamente imbarazzato. La camera della Tigre era illuminata solo dal camino, la cui fiamma stava ormai morendo, e dal riverbero chiaro che la notte di neve faceva trapelare dalla finestra.

“Allora... Ecco... Io me ne vado...” sussurrò incerto quello, che già era rimasto stranito nel vedersi cacciare dal letto non appena la Contessa aveva deciso che così doveva fare.

“Sì, andatevene.” confermò la donna, standosene al caldo, sotto alle coperte.

Il soldato annuì e poi, con circospezione, si grattò la barba scura e schiuse piano la porta e poi, con un ultimo sguardo a Caterina, celata fino alle spalle dal copriletto, se ne andò.

La Contessa attese qualche istante, a occhi chiusi, immersa nei suoi pensieri. Poi, lottando contro il freddo che nemmeno il camino sembrava più riuscire a combattere, andò in fretta alla porta e la chiuse a chiave.

Non doveva mancare molto all'alba, e non voleva che nessuno la disturbasse di prima mattina, magari entrando in camera per rassettare. Aveva abituato le serve troppo bene. Di norma, appena il sole si levava, anche lei si alzava e lasciava libero il suo alloggio affinché venisse risistemato.

Quella volta, invece, voleva prendersela un po' con calma. Era stanca, si sentiva spossata, e l'inattesa focosità di quell'amante occasionale le stava facendo anelare come non mai qualche ora di sonno pesante e ininterrotto.

Così, sperando che almeno per quella volta i suoi consueti incubi non la tormentassero troppo, la Tigre si raggomitolò sotto le coperte e affondò il viso nel cuscino.

Così facendo, però, avvertì con troppa forza l'odore dell'uomo che se n'era appena andato e tanto fu sufficiente a pungolare la sua memoria, riportandole alla mente un odore molto diverso, quello di Giacomo.

In uno slancio di irritazione, gettò a terra il guanciale e si mise supina. Chiuse gli occhi e, oltre ogni più rosea previsione, mentre il pensiero la faceva tornare indietro di qualche anno, riuscì ad addormentarsi subito.

 

 
   
 
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