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Autore: Adeia Di Elferas    27/08/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Pandolfo Malatesta stava dormendo secco, russando piano, la bocca un po' aperta e un braccio che penzolava abbandonato verso terra.

Era su uno dei divanetti del suo salotto privato e l'aria era ancora satura degli odori della festa che aveva tenuto la sera prima. Gli invitati erano molto pochi, ed erano stati selezionati tra i suoi amici personali. Per una sera, non si era parlato di politica, ma si era bevuto e ci si era divertiti con le donne e coi liquori che il padrone di casa aveva generosamente offerto.

“Pandolfo... Pandolfo... Pandolfo!” la voce di Violante arrivò alle orecchie del Pandolfaccio come la risacca del mare dopo la tempesta.

Premendosi le dita sulle tempie, il Malatesta strizzò gli occhi e, a fatica, si svegliò. Quando i suoi occhi si furono abituati alla penombra del salottino ed ebbero focalizzato il volto della moglie, l'uomo si mise a sedere.

“Che accidenti c'è? Perché sei venuta a chiamarmi..?” chiese il Pandolfaccio, afferrando Violante per il braccio e strattonandola con violenza: “Non lo vedi che ieri c'è stata una festa? Ho bisogno di riposarmi! Stupida donna!”

A quel punto, la Bentivoglio si tirò indietro e disse, fissandolo glaciale: “Tua madre sta male.”

“Come..?” la voce strozzata del signore di Rimini diede un piacere tutto particolare a sua moglie, che, per quanto avesse il terrore di restare da sola in balia di Pandolfo nel caso in cui la suocera fosse morta, non desiderava altro che farlo soffrire.

Pandolfo si levò come una furia dal divano e corse verso la stanza di sua madre. La trovò riversa su se stessa, intenta a vomitare in un vaso da notte sorretto da due servi.

“Chiamate il medico di corte!” abbaiò a uno dei domestici.

Elisabetta ebbe un altro conato, senza riuscire a buttar fuori più nulla e poi si riabbandonò sul letto senza forze, il viso trasfigurato dalla fatica e imperlato di sudore gelido.

Pandolfo non riusciva a capire che cosa fosse successo. Sua madre era tornata da Venezia in perfetta salute. Era stata lei a convincerlo a ritirare le truppe da Civitella, e aveva preso un sacco di altre decisioni, senza mai dare un minimo segno di cedimento.

Come poteva ora, da un giorno con l'altro, essersi fatta cerea e con gli occhi spiritati, il petto che si sollevava rapido e la mano che cercava nel vuoto qualcosa.

Il figlio, capendo che la madre si era accorta della sua presenza, si slanciò verso di lei e le afferrò la mano che vagava a mezz'aria: “Sono qui...” sussurrò: “Ma che cosa vi succede? Cosa vi sentite?”

La pelle della donna era rovente e quando Elisabetta provò a parlare, un nuovo accesso di vomito la scosse fino alla punta dei capelli.

Quando il medico finalmente arrivò, ancora in abiti da notte e con la barba bianca tutta arruffata, cominciò subito la sua visita, sotto l'occhio attento e terrorizzato del Pandolfaccio.

“Allora? Parlate, per Dio! Parlate o vi taglio la gola!” minacciò il Malatesta, sempre tenendo stretta la mano debole della madre.

“Non posso saperlo, ancora... Non sembra una febbre malarica, ma non posso escluderla con certezza... Potrebbe essere qualche morbo contagioso... Dobbiamo tenerla sotto osservazione e vedere...” farfugliò il dottore.

Se solo non fosse stato ben determinato a non lasciare la mano della madre nemmeno per un secondo, Pandolfo avrebbe volentieri spezzato il collo di quel pusillanime.

“Chiamate altri medici! Li voglio tutti qui! Non importa a che prezzo!” sbraitò e poi, quando si accorse che anche sua moglie si era affacciata sulla porta, l'additò e le ringhiò contro: “E tu! Vedi di fare qualcosa anche tu!”

 

Giovanni aveva ricevuto parte dei pacchi che aspettava quando era già tarda sera. Ne era stato molto contento e per prima cosa aveva controllato che si trattasse esattamente di quello che aveva ordinato.

Aveva letto con gioia la lettera d'accompagnamento, firmata da Simone, che soggiungeva l'ipotesi di tornare in Romagna prima dell'anno nuovo assieme alla moglie.

Ridolfi si era anche detto ottimista circa un possibile ritorno di Lorenzo Medici a Firenze, anche se per motivi tutt'altro che positivi.

'Con quella cornacchia del Savonarola che sta mettendo in testa a tutti di fare un falò con libri, quadri e opere d'arte, scommetto che il fratello tuo non desideri altro che tornare per mettere tutte le vostre belle cose sotto chiave' aveva scritto.

Il Popolano aveva passato qualche tempo a scrivere una risposta per Simone e poi aveva allegato anche una lettera da girare a Lorenzo, se il cugino avesse avuto la compiacenza di farla partire da Firenze.

Dopodiché aveva provato a prendere sonno. Era bastato coricarsi sotto alle coperte per capire che non ci sarebbe riuscito.

Un misto di inquietudine per le parole di Simone su Savonarola, e per quello che la Signoria gli aveva mandato a dire proprio quel giorno tramite missiva urgente si stavano mescolando a un sordo fastidio che prendeva le ginocchia e le caviglie.

Giovanni si rifiutava di star male di nuovo a così breve distanza dalla sua ultima crisi. Perciò, sudando freddo per l'agitazione, si rimise in piedi e si rivestì. Passare un po' di tempo fuori, in giro per la rocca o sui camminamenti, forse gli avrebbe giovato.

E così aveva fatto.

Quando stava rientrando nella sua stanza, ormai davvero abbastanza stanco da stendersi a letto e dormire come un sasso, il fiorentino si imbatté in qualcuno che non avrebbe voluto vedere nemmeno di striscio.

Non sapeva chi fosse, ma vederlo sgattaiolare fuori dalla camera della Tigre mentre ancora finiva di stringersi i lacci della giubba, per lui era un motivo bastante per odiarlo.

Quello, fingendo di non averlo visto, accelerò il passo e sparì in fondo al corridoio poco illuminato.

Il Medici lo aveva osservato con attenzione, per quello che le torce gli avevano permesso.

Era di certo un soldato. Era giovane, alto, dal passo svelto e dalle spalle larghe. Gambe forti e braccia muscolose chiudevano il quadro.

Entrando nella sua camera e rintuzzando il camino, il Popolano guardò il proprio braccio, lungo e flessuoso, ma asciutto. Poi si mise allo specchio.

Lo avevano chiamato per molto tempo 'il più bel giovane di Firenze'. Sapeva di non essere brutto, sarebbe stato ipocrita a pensare il contrario, ma più faceva il paragone tra sé e gli uomini che la Tigre si sceglieva, più si convinceva di non avere il genere di bellezza che interessava a lei.

'Se le piacciono i tipi come quello – pensò Giovanni, sistemandosi con un gesto stizzito i riccioli sulla fronte – allora io non ho speranze.'

Aveva riprovato a prendere sonno e in effetti per un po' ebbe l'impressione di aver dormito.

Tuttavia, quando riaprì gli occhi, si rese conto che il sole non era ancora sorto e anche che non nevicava più.

Si massaggiò con calma le ginocchia, convincendole a rimettersi a funzionare. Erano gonfie. E anche le caviglie erano come aggravate da dei blocchi duri, gli stessi che l'ultima volta erano diventati color del fuoco, doloranti e incandescenti.

Con il cuore che batteva più forte, già nel panico al pensiero di tutto il male che avrebbe dovuto sopportare di nuovo – perché se anche quella volta non fosse successo nulla, prima o poi la gotta lo avrebbe tormentato ancora – Giovanni si mosse un po' per la stanza e poi, deciso a fingersi mattiniero solo per sfuggire ai propri tormenti, indossò abiti pesanti e uscì di nuovo.

Passando davanti alla porta della Contessa, tese l'orecchio e sentì qualcosa che non gli piacque affatto. Siccome non era la prima volta, riconobbe subito i lamenti in cui la donna si abbandonava quando aveva degli incubi.

Anche quando aveva dormito accanto a lui le era successo.

Appoggiando il padiglione dell'orecchio al legno spesso della porta, il Popolano ascoltò con più attenzione e riuscì a distinguere dei nomi, in mezzo ai biascichii senza senso. Uno fra tutti era quello che per lui aveva più senso: Ludovico Marcobelli.

Indeciso su cosa fare, ma non sopportando più di sentire Caterina soffrire a quel modo, benché la causa fosse solo un brutto sogno, il Medici cominciò a picchiare il pugno sulla porta.

Ci volle qualche istante, ma poi i lamenti ebbero fine e dopo una leggera pausa di silenzio totale, la voce della Tigre domandò, rauca: “Chi è?”

“Sono io...” fece Giovanni: “Ma se disturbo...”

“Un momento!” fu l'unica risposta.

Il Popolano si mise in attesa, chiedendosi come avrebbe giustificato quell'incursione, ma quando la Contessa arrivò ad aprire, ogni parola gli parve superflua.

La donna indossava un camicione invernale da notte, coperto da una vestaglia chiusa malamente da una cintura.

“Voi non disturbate.” assicurò Caterina, restando appoggiata allo stipite.

I suoi occhi erano inquieti, i capelli arruffati e, sbirciando dentro, il fiorentino vide il letto completamente sfatto, con perfino un cuscino in terra, come se la donna si fosse dimenata all'inverosimile, preda dei suoi incubi.

“Vi ho sentita... Credo che steste sognando...” iniziò Giovanni, pensando che dire la verità fosse la tattica più semplice.

Il volto della Leonessa si rabbuiò, ma non per questo parve indispettita, anzi, quando parlò lo fece con molta calma: “Avete ragione, ho fatto uno dei miei incubi. Vi ringrazio per avermi svegliata.”

Colto da un'ispirazione improvvisa, nel vedere il collo liscio della donna che riluceva alla luce del camino in cui ormai restavano solo le braci, Giovanni disse: “Potete aspettarmi un momento? Ho una cosa che voglio mostrarvi. Arrivo subito!”

E così dicendo corse nella sua camera. Benché i passi fossero pochi, però, a Caterina non sfuggì il suo leggero zoppicare.

Mentre lo aspettava, la Contessa ritornò dentro, lasciando la porta socchiusa. Diede un minimo assetto al letto, e accese qualche candela. Si diede anche una rapida sistemata guardandosi allo specchio.

Quando il Medici tornò, portava con sé un bauletto. Chiuse la porta con cura alle sue spalle e poi lo posò sul materasso.

“Cos'è?” chiese la donna, curiosa.

Giovanni gonfiò un po' il petto e poi, con orgoglio, disse solo: “So che manca ancora qualche giorno a Natale, ma preferisco darvi il mio regalo adesso. Almeno vi distrarrete un po' dai vostri incubi. E in più, credo che potreste averne bisogno, per il banchetto di Natale.”

Caterina lo guardò interrogativa, ma l'uomo era impaziente e sembrava davvero sulle spine, come se realmente non sapesse di preciso che reazione aspettarsi da lei una volta sollevato il coperchio del baule.

Così alla Tigre non restò che sistemarsi sul copriletto, fare un profondo sospiro e scoprire cosa mai avesse comprato quello strano fiorentino per ringraziarla dell'ospitalità fino a quel giorno ricevuta.

Quando alzò il pesante coperchio del bauletto, la Contessa ci mise qualche momento per capire.

A un secondo sguardo, più attento, riconobbe benissimo quello che aveva davanti, ma non volle credervi.

Alla fine, vinta dalla realtà oggettiva dei fatti, tuffò una mano nel piccolo baule e ne estrasse qualche monile a caso, esclamando: “I miei gioielli! I gioielli che Girolamo aveva venduto! Tutti quelli che aveva impegnato! I gioielli che avevo portato da Milano... Quelli che avevo salvato da Roma...”

Stava ormai scuotendo il capo, ancora incredula, mettendo sul letto, in rassegna, tutti i preziosi che il Popolano aveva raggruppato nel bauletto e li stava sfiorando uno dopo l'altro come fossero state reliquie.

Quei gioielli, benché lei non ne avesse mai più fatto apertamente cenno a nessuno, se non saltuariamente al Novacula, erano stati il suo cruccio per molto tempo. Non essere mai riuscita a riscattarli, era stata per lei una grande onta, tanto che la sua mania di non portare mai monili era in parte dovuta allo scotto di quella vergogna mai repressa.

“Come... Come avete fatto?” chiese Caterina, guardando Giovanni.

L'uomo, le mani dietro la schiena, fece un sorrisetto serafico e disse solo: “La mia famiglia ha molte conoscenze. È bastato cercare.”

La Tigre sentiva dentro di sé una gioia tanto prepotente e inattesa da portarla agire senza pensarci troppo sopra.

Quello che l'ambasciatore aveva fatto per lei era straordinario. Di tutte le cose che avrebbe potuto comprare per farle piacere, quei gioielli erano la cosa migliore. Non tanto perché costellati di pietre preziose e forgiati in oro, ma per il loro significato.

Come avesse fatto a sapere di quei gioielli e della loro sorte restava per la Leonessa un mistero, ma in quel momento non gliene importava nulla.

Alzandosi dal letto come una molla, Caterina saltò al collo di Giovanni e l'abbracciò con forza.

Il Popolano, che aveva sperato in una reazione positiva della donna, non si era certo atteso così tanto entusiasmo – non palese, almeno – però si adattò molto in fretta e, se la Tigre lo stringeva a sé con prorompente riconoscenza, lui lo fece in modo meno aggressivo, con dolcezza, godendosi quel momento.

Poter tenere tra le proprie braccia il corpo matronale della Contessa Riario era per lui un sogno che diventava realtà. Anche se non era la prima volta che capitava, era comunque la prima volta che succedeva grazie a un suo merito, e questo lo faceva impazzire di felicità.

Caterina avvertì il trasporto con cui il Medici la stava abbracciando e per un momento ebbe un fremito di paura e di incertezza. Non era passato molto, da quando un altro uomo aveva lasciato quella camera. Lei poteva ancora avvertirne il sentore sulla propria pelle e il tocco, bramoso, ma teso, delle sue mani sulle sue membra.

Irrazionalmente, ebbe la sensazione che anche Giovanni potesse avvertire quella scomoda presenza e così, cercando di non sembrare troppo repentina nel muoversi, si staccò da lui.

“Non dovevate.” sussurrò, il volto arrossato e gli occhi verdi che correvano di nuovo a tutti i gioielli riversati sul letto.

“Sì, invece.” la contraddisse il Popolano, il respiro ancora un po' tronco per la scarica emotiva che l'aveva appena attraversato.

“Siete stato molto gentile.” continuò Caterina, mentre la parte più pragmatica e sospettosa di lei cominciava a rimetterla in guardia.

In fondo, pensò, perfino Giacomo aveva provato a pugnalarla alle spalle. Perchè un ambasciatore di Firenze avrebbe dovuto essere più disinteressato dell'uomo che l'aveva amata alla follia?

“Forse anche troppo gentile.” precisò: “Non vorrei che in cambio di una simile gentilezza vi aspettiate qualcosa di altrettanto prezioso.”

“Io non voglio nulla, in cambio.” si difese Giovanni, che non le fece una colpa per la sua diffidenza.

“Avrete speso molto...” soppesò la donna, tornando al baule e ripassandosi tra le dita un gioiello dopo l'altro: “Quando ho provato a riscattarne anche solo una parte, ho dovuto lasciar perdere, altrimenti avrei mandato le mie casse quasi in bancarotta...”

“Ho molti fiorini e per ora non ho modi migliori per spenderli, se non per aiutare le persone ca cui tengo.” disse Giovanni, avvicinandosi.

“Aiutare?” chiese piano Caterina, sentendolo mentre le si affiancava, ma fingendo di non avvedersene.

“La guerra si avvicina, avete ragione a pensarlo.” riprese il Popolano, cominciando a sfiorare gli stessi monili che stava sfiorando la Tigre, lasciando che le loro dita a volte si incontrassero: “E che voi mi crediate o meno, anche l'aspetto conterà. Indossateli, quando sarete in presenza degli emissari stranieri che verranno qui a convincervi di parteggiare per l'uno o per l'altro. Mostrate ai vostri nemici che siete ricca, che il vostro Stato non è in crisi come dicono. Fatevi vedere alle feste agghindata come una vera regina. È il momento di gettare fumo negli occhi a tutti, in modo da avere il tempo di caricare i cannoni.”

La Contessa assorbì le parole del fiorentino e comprese che aveva ragione. Non bastava più la sostanza, non per uno Stato come il suo. Non era mai bastata.

“Ve lo dico con serietà.” fece la donna, per l'ultima volta: “Questo dono è troppo, anche per un uomo ricco. Io non posso darvi nulla in cambio.”

“Non mi interessa.” si ostinò Giovanni, chinando un po' il capo, in modo da averlo proprio accanto a quello della Tigre.

Caterina fece un sospiro e, pur senza allontanarsi lei per prima, lasciò intendere al fiorentino che fosse il caso che si scostasse un po' da lei.

“Prima, per caso, ho visto un uomo uscire dalla vostra camera.” disse piano il Popolano, deglutendo rumorosamente e guardando in terra, mentre si ritirava seguendo la tacita richiesta della Leonessa.

Non avrebbe voluto toccare quell'argomento, ma la sua lingua s'era mossa prima di avere il permesso del suo cervello e così adesso di trovava davanti gli occhi verdi della Contessa che lo fissavano con freddezza.

“E quindi?” chiese ella, cominciando a rimettere tutti i gioielli nel bauletto.

Li riconosceva ancora tutti. Benché non avesse nessun bel ricordo legato a quelli di provenienza vaticana – quasi tutti regali o di Sisto IV o di Girolamo – ce n'erano anche di milanesi, in particolare, alcuni erano appartenuti a sua madre Bona, che gliene aveva fatto dono al momento di impacchettare il suo corredo, prima di partire alla volta di Roma.

Quanti anni erano passati...

“E quindi credo che dovreste smetterla.” sentenziò l'ambasciatore, stringendo e aprendo i pugni lungo i fianchi, teso come la corda di un arco.

Caterina fece uno sbuffo divertito, sistemando con cura una collana che era stata di Bona. Non aveva pietre preziose paragonabili a quelle che Sisto IV, con le sue casse stracolme, era riuscito a comprarle, ma alla Tigre pareva molto più bella delle altre.

Con un'alzata di spalle, dedicò un'occhiata ironica al Popolano e, ribadendo un concetto che aveva già sviscerato una volta in sua presenza, iniziò: “Se io fossi un uomo, non...”

“Ma non lo siete.” ribatté con durezza Giovanni: “Voi siete una donna. È inutile che vi ostiniate a fare come se non fosse così.”

La Contessa era rimasta molto sorpresa sia dal tono usato, sia dall'argomento che il fiorentino aveva sollevato. Era in momenti come quelli che si rendeva conto di come, pur avendolo a corte da molti mesi, ancora in fondo non lo conoscesse.

“Da voi non mi sarei aspettata un discorso del genere.” disse, chiudendo con uno scatto il coperchio del bauletto.

Giovanni si morse il labbro e poi si passò una mano tra i riccioli, scompigliandoli. Sembrava molto in difficoltà e dal rossore che stava prendendo piede sulle sue guance, Caterina cominciò a pensare che quel suo ammonimento non fosse stato dettato solo da una vena di moralismo.

“Ma io la penso come voi...” iniziò l'uomo, scuotendo la testa ed evitando il suo sguardo: “Cioè, preferirei che non lo faceste, ma non credo ci sia nulla di male. Voi siete una donna libera, non dovete rendere conto a nessuno. Non vedo perché dovreste per forza stare da sola. Io non critico il vostro modo di vivere. Il punto è un altro.”

Caterina restava in attesa, così il Popolano prese fiato e, dopo un respiro profondo, cercò di essere il più diplomatico possibile: “Io posso capirvi, ma il resto del mondo no. State rischiando troppo. So che non volete sentirlo dire, ma si sta chiacchierando di voi anche a Firenze, ormai. Se il papa volesse fare qualcosa contro di voi, il fianco che gli state prestando è anche troppo semplice da colpire. Non parlo per arrecarvi danno o fastidio, tutt'altro. Lo dico solo perché io vi...”

Ma la voce del fiorentino restò sospesa a mezz'aria. Le sue labbra piene rimasero mezze aperte, mentre nei suoi occhi si leggeva l'incapacità di proseguire.

“Voi mi..?” lo incoraggiò Caterina, che, con un brivido molto strano sulla schiena, pensava di aver capito cosa stesse per lasciarsi scappare.

“Io vi... Io vi parlo da amico. Non vi dico che dobbiate smetterla. Meglio questo che uccidere dei prigionieri, però...” farfugliò il Popolano, cercando di salvarsi in extremis.

La Tigre capì al volo che pure quella diceria era arrivata alle orecchie del Medici. E anche quella era corretta.

Anche se da tempo non era più scesa nelle segrete a torturare o uccidere uno degli assassini di Giacomo – e nelle celle di Ravaldino c'erano ancora non pochi detenuti in attesa disperata di un suo giudizio – non poteva negare che a volte la tentazione tornasse. E in quei casi, come quando era troppo tesa, preoccupata o si sentiva sola, cercava la compagnia di qualcuno.

Stringendosi nella vestaglia, Caterina sollevò le sopracciglia: “Capisco che mi parlate da amico, ma non sta a voi immischiarvi negli affari che mi riguardano. Dovreste pensare al bene di Firenze, non al mio.”

Giovanni incassò con distacco quell'ennesima stoccata che prendeva di mira la sua inadempienza al suo compito principale di ambasciatore e pensò fosse il caso di congedarsi: “Accettate comunque il mio dono?” chiese, indicando con un cenno del capo il baule.

“Solo se, malgrado la nostra discussione, voi siate ancora disposto a lasciarmelo.” precisò la donna.

“Ovviamente. E nei prossimi giorni darò i miei omaggi anche ai vostri figli.” assicurò il Medici: “E ora, con permesso.” sussurrò, e uscì in fretta.

Rimasta sola, Caterina chiuse un momento gli occhi e si premette il palmo della mano sulla fronte.

Perché doveva essere tutto così complicato? Perché la sua mente non poteva tacere e lasciarla libera di fare solo quello che voleva?

Erano stati così vicini...

Sedendosi sul letto, accanto al baule pieno dei suoi vecchi gioielli, la Tigre si chiese perché con Giacomo fosse stato così facile lasciarsi andare, quando invece con Giovanni non riusciva a zittire la propria coscienza.

“Forse sto solo invecchiando...” sussurrò tra sé, le labbra che si stringevano in una smorfia amara e le dita che cercavano una ciocca di capelli bianchi in mezzo a quelli ancora biondi come il grano.

 

Francesco Gonzaga camminava per le calli veneziane con la furia di una tempesta. Il cielo era grigio e prometteva pioggia e al solo guardare i canali un po' smossi dal passare delle barchette al Marchese veniva il mal di mare.

Era felice di aver fatto partire sua sorella Chiara assieme a Piero Gentile. La morte di suo marito, Gilberto di Montpensier, l'avrebbe presto messa in pericolo.

Francesco non aveva voluto pensarci, all'inizio, ma era bastato parlare con Barbarigo qualche volta da solo e qualche volta con del pubblico presente nel salone per capire che il Doge non aveva le idee chiare o, quanto meno, non voleva metterlo a parte dei suoi reali pensieri.

Venezia poteva dimostrarsi un pericolo per Chiara. Lei, vedova di un francese, era la madre di una sfilza di eredi che andavano subito messi al sicuro assieme a lei, prima che il Doge potesse anche solo pensare di usarli come ostaggi. Erano pur sempre dei Borbone, andavano protetti come oro.

Francesco rientrò nel palazzotto del Sanseverino e si levò la cappa con un gesto secco e stizzito. Si andò a mettere davanti al fuoco e rispose male alla serva che gli aveva chiesto se volesse qualcosa da mangiare.

Odiava starsene ad aspettare gli ordini. Piuttosto, avrebbe preferito tornarsene a Mantova. Era come se lo volessero distrarre a tutti i costi dai suoi affari.

Con gli occhi puntati contro il fuoco, Francesco pensò a sua sorella Chiara. In quel momento doveva essere ancora per strada, in fondo era solo il primo pomeriggio.

Sperò che Piero Gentile si dimostrasse un buon compagno di viaggio. L'aveva scelto soprattutto perché era per lui fidatissimo, tanto che negli anni l'aveva spesso portato con sé come segretario o sfruttato come ambasciatore.

Quando Chiara gli aveva chiesto preoccupata se fosse il caso che viaggiassero nella stessa carrozza, poi, il Gonzaga era stato ben felice di poter dire: “Tranquilla, sorella, da lui non avete a che temere.” e sapeva bene che era così.

A Piero Gentile, infatti, erano bastati un paio di sacchetti colmi di monete, con cui comprarsi la compagnia di qualche ragazzo di quando in quando. Non aveva alcun interesse in Chiara, come in nessun'altra donna.

Andando in camera sua e trovandovi ancora la schiava che il Doge gli aveva concesso di tenere con sé a mo' di contentino finché fosse rimasto a Venezia, il Marchese di Mantova ridacchiò tra sé, ritrovando un minimo di calma, pensando a come Piero avrebbe trovato inadeguato quel gentile dono di Barbarigo.

Era proprio vero che ogni uomo aveva il suo prezzo e che quel prezzo andava pagato in valute diverse di volta in volta.

“Se tu avessi un fratello – sussurrò Francesco, stendendosi accanto alla schiava e accarezzando con voluttà la sua spalla liscia e nera come la pece – saprei cosa regalare al mio amico Piero per ringraziarlo di tutti i servigi che mi ha fatto in questi anni...”

 
   
 
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