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Autore: StormButterfly    29/08/2017    0 recensioni
L’amore può infrangere ogni regola con la forza di un uragano.
Quando Rain Donovan scappa di casa non sa dove andare, né a chi chiedere aiuto. L’unica cosa che
desidera è lasciarsi alle spalle quel vuoto che la sta soffocando da quando, un anno prima, ha
perso il padre e una parte dei propri ricordi in un incidente.
Da allora ha trovato un solo modo per sopravvivere ai maltrattamenti subiti in silenzio tra le mura
di casa: seguire le regole che si è imposta rinunciando a tutto, anche al fratellastro Duncan di cui è
segretamente innamorata.
Quello che ancora non sa è che quella notte l’incontro con un misterioso ragazzo e il ritorno di
Duncan nella sua vita sconvolgeranno ogni regola, costringendola a fare la scelta più importante di
tutte. Continuare a scappare o lasciare che l’amore la investa come un uragano, restituendole quei
ricordi che potrebbero lasciarla spezzata?
Quando il cuore batte sino a togliere il respiro, c’è una sola regola: non innamorarsi.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Prologo

 
 
 
Casa dolce casa.
Per alcuni è l’odore dell’arrosto del pranzo domenicale, per altri le coccole del cane o le fusa del gatto quando ci si chiude la porta d’ingresso alle spalle.
Per me era l’odore dei biscotti allo zenzero di mia madre e il sorriso di mio padre.
Ma non mi è mai sembrata una frase tanto inappropriata come in questo momento.
Casa mia non ha nulla di dolce, non somiglia per niente a un nido accogliente in cui rifugiarsi durante un temporale. Nella mia famiglia le tempeste nascono in un battito d’ali, e la facciata di perfezione e benessere che ostentiamo non è altro che una gelida maschera di vetro dall’anima incrinata, uno specchio che riflette solo immagini distorte.
Ma non è sempre stato così. Un tempo anche io avevo una famiglia, una vera, non il patetico surrogato con cui convivo ora, ed ero felice come può esserlo qualsiasi persona normale con una vita normale. Un tempo che ora mi appare così lontano e sbiadito che a volte mi chiedo se c’è stato realmente o se me lo sono soltanto immaginato.
«Falling like the rain. Falling like the rain» anticipo di qualche secondo la cantante dei Birthday Massacre che mi tiene compagnia dagli auricolari dell’mp3. Canticchio il ritornello a bassa voce, anche se non mi sentirebbe nessuno nemmeno se urlassi a squarciagola. Ma non si sa mai.
Volto la pagina del libro che ho in mano, impaziente di arrivare alla fine. So che tra poco il casino che proviene dal piano di sotto si interromperà con il tonfo della porta d’ingresso, e a quel punto non potrò più nascondermi qui dentro sperando che, per una volta, si dimentichino di me. Come ogni sera scenderò silenziosamente le scale e mi infilerò in cucina per riordinare i resti della loro cena, stando attenta a non attirare la loro attenzione. Se sarò fortunata, riuscirò a tornare in camera prima che qualche bicchiere venga scaraventato a terra. O che qualche bottiglia mi colpisca. Se tutto andrà come al solito, sarò sopravvissuta all’ennesima, faticosa giornata, e potrò segnare sul calendario un giorno in meno che mi separa dal mio obiettivo.
Alzo la testa e i miei occhi incontrano quattro facce di sconosciuti che ho imparato a memoria. Mi sorridono inconsapevoli dalla brochure dell’università del Galles che ho attaccato con dello scotch al muro di fronte a me. La mia stanza è talmente piccola che solo mezzo passo separa il letto su cui sono distesa a pancia in giù dalla sedia della scrivania. Così ogni mattina, quando riapro gli occhi, quel piccolo rettangolo di cartoncino plastificato mi dà il buongiorno con la sua promessa scritta a grandi caratteri neri: “Il tuo futuro è qui”. E ogni notte, prima di spegnere la luce, è lì per ricordarmi che l’inutile e vuota giornata che sta per concludersi mi ha avvicinata di un altro passo alla possibilità di ricominciare.
Quattro colpi violenti alla mia porta mi avvisano che è arrivato il momento di scendere. Tolgo le cuffie e salto giù dal letto, prendendo il libro con me. Leggerò le ultime pagine mentre entro in cucina, così potrò tenere gli occhi bassi ed eviterò di incontrare i loro. Questa è la prima regola che ho imparato per proteggere me stessa: evita qualsiasi contatto. Sparisci. Se per gli altri non esisti, nessuno ti farà del male. La seconda è: tieni gli altri lontani da te e non ci sarà nessuno che potrai ferire.
Mettere a tacere il dolore è facile, basta seguire le regole e fare le scelte giuste, anche a costo di sacrificare qualcosa di importante.
Rimetto velocemente le Converse che ho scelto per questa serata, sono rosse come il vestito che ho addosso. Lei mi ha imposto di mettere qualcosa di elegante, nel caso qualcuno dei loro amici avesse chiesto di me. Questa è una delle loro regole: fingere di essere una famiglia felice.
Prima di uscire dalla mia camera, do una veloce occhiata al cellulare che ho lasciato sopra la scrivania, accanto al portatile. Nessun messaggio. Venerdì 1 ottobre. Mezzanotte meno tre minuti. Otto gradi. Pioggia.
Tre colpi alla porta.
Meglio sbrigarmi, prima che diventino due. Non sono mai arrivata a uno, e non voglio scoprire cosa mi aspetta proprio stanotte. Non negli ultimi minuti del giorno del mio compleanno.
Abbasso la maniglia con un colpo secco. Prendo un respiro e lancio un’occhiata al cassetto del comodino col suo contenuto rassicurante. Se le cose dovessero andare storte, dovrò semplicemente correre sino alla mia camera e aggrapparmi all’unica via di fuga che conosco.
Stringo il libro al petto ed esco, richiudendo la porta lentamente per non fare rumore. Ma quando mi giro, incontro due occhi che mi fissano con disapprovazione. Ho appena infranto la prima regola. E una nuova si aggiunge alle altre, mentre le conseguenze della mia piccola scelta sbagliata di oggi si preparano a investirmi.  
 

 
 

 

1. Collisione

 

Corri.

Muovi le gambe e concentrati solo su questo.

Non voltarti indietro e soprattutto non pensare.

Non pensare a quello che è successo stanotte. Soffoca la rabbia e il dolore. Concentrati sui muscoli tesi sino allo spasmo e sui polmoni che bruciano, sul vestito freddo che ti si è incollato addosso e sulla tela fradicia delle tue Converse sporche di fango.

Non pensare a quello che hai chiuso dietro la porta di casa, al vuoto che la riempie, all’uragano che stanotte si è abbattuto su di te lasciandoti senza fiato. Sul serio.

Non respiro.

Qualcuno mi aiuti.

Perché le mie stupide gambe continuano a muoversi?

Non ho un posto dove andare, e quando mi fermerò non ci saranno dei vestiti asciutti e un letto caldo ad attendermi, ma solo le strade buie del mio paese che profumano di mare e dell’erica che cresce sulla costa.

Devio lungo il sentiero che porta alla collina, attraversando il fitto bosco avvolto dall’oscurità. Qui non ci sono urla che mi feriscono le orecchie, solo il suono cadenzato dei rami secchi che si spezzano sotto i miei passi violenti, posso respirare gli odori della terra bagnata in cui le mie scarpe affondano e del muschio che accarezza viscido la corteccia degli alberi. Qui mi sento al sicuro, ma devo continuare a muovermi, perché se mi fermo comincerò a pensare. Comincerò a sentire. E io non voglio sentire più nulla.

Esco dal sentiero e mi ritrovo sulla strada in cui si fermano gli autobus diretti a Dublino.

Le case tutt’attorno sono silenziose e illuminate solo da qualche tenue luce, a eccezione di una da cui provengono musica e risate.

Improvvisamente vengo attraversata dal pensiero dell’ultima volta in cui sono stata davvero felice. Quel giorno, indossavo questo stesso vestito.

Scaccio il pensiero prima che possa farsi troppo doloroso e stringo i pugni. Chiudo gli occhi e porto una mano sul petto, dove sento il metallo della catenina col ciondolo a forma di mezza mela premere contro la pelle, nascosto sotto la scollatura. Ed è esattamente così che mi sento da tanto, troppo tempo, spezzata a metà, incompleta e terribilmente sola.

Il cuore batte frenetico sotto la mia mano e rimbomba nella mia testa, lo sento pulsare nelle vene al ritmo con cui risuonano i bassi della canzone che mi raggiunge dall’altra parte della strada. Il respiro accelerato mi fa ingoiare enormi quantità di aria gelida, troppa per rifornire di ossigeno i miei polmoni, e ho la sensazione che ogni muscolo del mio corpo possa strapparsi da un momento all’altro. Per questo rallento, trascinandomi sino al cartello che segna gli orari degli autobus.

Mi appoggio esausta alla superficie bagnata e fredda, tentando di riportare il respiro a un ritmo regolare. Sento che le mie gambe stanno per cedere. Sto crollando.

Ma se lo faccio, loro avranno vinto. Se lascio che le emozioni dentro di me esplodano come un sovraccarico di energia, non potrò più rialzarmi.

Mando giù il groppo che mi serra la gola e con il dorso della mano scaccio le lacrime che mi pizzicano gli occhi. Non voglio sentire il loro calore sulle guance, ma solo le gocce di pioggia che mi trafiggono la pelle, una miriade di minuscoli aghi ghiacciati che la rende insensibile.

Muovo incerta un passo, poi un altro, avanzando meccanicamente oltre il bordo del marciapiede. La suola delle mie Converse entra in contatto con l’asfalto scivoloso della strada. Rumore di pioggia. Musica. Freddo. Vuoto. Finalmente, la mia mente è anestetizzata. Non sento più nulla.

«Ehi, vuoi farti mettere sotto?»

Una voce si insinua nel silenzio, costringendomi a riaprire gli occhi e voltarmi di scatto. Vedo una figura in lontananza, ma non riesco a metterla a fuoco subito. Le lacrime mi offuscano la vista e c’è troppo buio.

Avanza verso di me e mi irrigidisco, pronta a reagire se dovesse rivelarsi un malintenzionato, carica di un’energia che mi fa bruciare lo stomaco e tremare le mani. Si ferma a pochi passi da me e si appoggia al palo. È un ragazzo e non deve essere molto sobrio, in mano ha una bottiglia di birra che porta alle labbra per bere un sorso. Chiude gli occhi e reclina indietro la testa, lasciando che la pioggia gli bagni il viso illuminato dal bagliore fioco di un lampione.

Lo sto ancora fissando quando li riapre e si gira verso di me.

«Andiamo, non ne vale la pena. Sono sicuro che ti abbia tradita perché era un insensibile.» Sgrano gli occhi e lo fisso sgomenta, intuendo ciò che sta pensando.

«Cosa? No, io non…»

Un clacson attira la mia attenzione, e quando mi volto i miei occhi vengono accecati da un bagliore giallognolo.

Non ho il tempo di capire quello che sta succedendo, perché mi sento tirare per un braccio e in un secondo mi ritrovo sul marciapiede, premuta contro il petto di questo sconosciuto, mentre la macchina che mi ha quasi messa sotto ci supera con una serie di imprecazioni.

Con uno strattone mi allontano dal ragazzo che mi ha appena salvato la vita, e lo vedo fissarmi sgomento.

Ora che è davanti a me riesco a vedere chiaramente il suo viso. I suoi occhi sono neri come questa notte senza stelle e le labbra carnose sono dischiuse in un’espressione sorpresa. Ha un’aria da bravo ragazzo, ma arretro di un altro passo tenendomi pronta a scappare se dovessi essermi sbagliata nel giudicarlo.

Ci scrutiamo in silenzio, con il respiro accelerato. La sua espressione è spaventata, mentre io mi lascio andare a una risata isterica.

«Sei impazzita? Non c’è nulla da ridere!» esclama mentre cerco di riprendere il controllo. «Sì. Sei decisamente pazza» afferma, senza però riuscire a trattenere un sorriso.

«Scusami, io…» Tento di calmarmi, prima che la tensione e lo spavento trasformino la mia risata in un pianto incontrollabile.

«Che diavolo ci facevi in mezzo alla strada?» chiede, ma a questa domanda non voglio dare una risposta. Non una risposta sincera, almeno.

«Io volevo solo...» Prendo un respiro profondo. «Ero a una festa, sto aspettando un’amica per rientrare a casa e mi è sembrato di vederla arrivare.» Mi stringo nelle spalle e mi volto verso la strada. Sicuramente adesso vorrà delle spiegazioni che non sono pronta a dargli.

«Hai dimenticato l’ombrello?» domanda invece. Torno a guardarlo.

Indossa una felpa nera sui jeans dello stesso colore, e non ha nemmeno messo il cappuccio per evitare di bagnarsi i capelli, che ora gli ricadono sul viso in disordinate ciocche scure.

«Non sono l’unica, mi sembra.» Lui ignora il mio commento e mi porge la sua birra.

«Vuoi?»

Fisso la bottiglia quasi vuota in silenzio, non sono intenzionata a portare avanti la conversazione, tantomeno a diventare la sua compagna di bevute.

Lui interpreta il mio silenzio come un rifiuto e se la porta alle labbra per bere l’ultimo sorso, quindi la lancia nel cestino.

Per essere sbronzo ha un’ottima mira.

Si siede a bordo strada, mentre io resto in piedi indecisa se chiedergli il cellulare. Non saprei chi chiamare, tuttavia non mi va di stare qui da sola con questo tipo che, ne sono certa, mi sta fissando, perché sento i suoi occhi puntati sulla schiena.

Devo trovare in fretta una soluzione e l’unica che mi viene in mente è anche l’ultima che avrei mai immaginato di scegliere.

«Hai una sigaretta?» chiede all’improvviso, distogliendomi dai miei pensieri.

Fingo di non aver sentito e continuo a fissare la strada. Lui si porta nuovamente al mio fianco, irrequieto come un animale in gabbia.

«Ehi, hai una sigaretta?» Alzo gli occhi al cielo. Mai incontrato prima un tipo così pedante. Stavolta mi giro per rispondere.

«No, non ce l’ho. Non ho neanche tasche in cui tenere un pacchetto.» Idiota, aggiungo mentalmente.

«Non bevi, non fumi... Sei una brava ragazza?»

«E tu, invece, saresti un cattivo ragazzo?»

«Credi che lo sia?» mi chiede con un sorriso. Non sopporto questo genere di discorsi, ho imparato a mie spese che non esistono brave e cattive persone, ma solo delle sfumature che oscillano da una parte all’altra a seconda degli eventi che la vita ci pone davanti.

«Dimmelo tu. Lo sei?».

Lui inarca un sopracciglio e tace, ha capito il mio gioco e si riappoggia al palo. Mi rilasso un pochino, sinceramente soddisfatta di averlo messo a tacere. Ma il silenzio dura troppo poco.

«Non hai freddo?» mi domanda, accennando al fatto che indosso solo questo vestito a maniche corte che mi copre sino a metà coscia e sono completamente fradicia. «Ci saranno quanto, cinque gradi al massimo?»

A quanto pare è una di quelle persone a cui l’alcol scioglie la lingua.

«Otto. E non ho freddo.» Mento, consapevole del fatto che sto tremando.

Lui si allontana dal palo e mi viene vicino, poi appoggia una mano sul mio braccio nudo. È calda.

«Stai congelando.» Lo vedo aprire la zip della felpa, sfilarsela di dosso e porgermela, sorprendendomi per la seconda volta. «Prendila, a me non serve.» Aspetta che io la afferri, mentre me ne sto a braccia incrociate cercando di scaldarmi.

«Così congelerai anche tu» gli faccio notare con una certa diffidenza. Quante persone resterebbero in t-shirt per aiutare una sconosciuta?

Dato che non accenno a muovermi, lui si fa più vicino e mi poggia l’indumento sulle spalle. Inspiro l’odore della sua maglietta che ora è vicinissima al mio viso, sa di sigarette e legna che brucia nel camino. È un odore confortante, mi riporta in un luogo sicuro della mia infanzia. Ma lui si scosta troppo presto e il ricordo scivola via.

Infilo la felpa, che è decisamente troppo grande per me, e mi calo il cappuccio sulla testa. Chiudo la zip, portando poi le mani alla bocca per scaldarle. Non sento più le dita.

«Grazie» mormoro, confusa e imbarazzata, mentre il mio respiro si condensa in piccole nuvole di vapore evanescente. Lui se ne sta in piedi davanti a me, fissandomi in silenzio, con le mani infilate nelle tasche dei jeans e le braccia strette nella maglietta nera a maniche corte che mette in risalto il suo fisico asciutto. Una parte di me è innegabilmente attratta dal suo aspetto, così resto a guardarlo riconoscente e affascinata.

Ci scrutiamo in silenzio un po’ troppo a lungo, quindi decido di spezzare il momento prima che diventi imbarazzante.

«Sei sicuro di non volerla tenere? Perché nel caso...»

«Ti ho già detto che non ne ho bisogno. Ho bevuto parecchio e non sento freddo» dice indicando con un cenno della testa la casa davanti a noi. «O almeno, non lo sentirò sino a che non passerà l’effetto dell’alcol» aggiunge con una risata che io non ricambio. L’idea che abbia bevuto mi fa tornare in mente cose spiacevoli che voglio dimenticare. «Ad ogni modo…» La sua voce si fa più bassa mentre avvicina il suo viso al mio, e quando sollevo il mento per poterlo guardare negli occhi li vedo farsi più seri. «Non ti hanno insegnato che la notte si possono fare brutti incontri passando nel bosco?»

Sgrano gli occhi e mi irrigidisco, mentre il cuore riprende a battere furioso. Non può avermi vista uscire dal sentiero, quindi o sta facendo un’allusione inquietante o mi ha seguita a distanza, il che è decisamente peggio. Mi allontano di un passo.

«Mi hai seguita?»

Mi guarda perplesso e si passa una mano tra i capelli umidi. «Di cosa stai parlando?»

«Come fai a sapere che sono arrivata dal sentiero nel bosco?»

«Hai delle foglie tra i capelli, e le tue Converse sono in pessimo stato» spiega agitando un dito in direzione delle mie scarpe. In effetti hanno visto giorni migliori, ma mai come ora ringrazio la mia avversione per i tacchi e la mia testardaggine nella scelta del mio abbigliamento, anche quando questo può causarmi dei guai. Guardo il mio polso destro nascosto sotto la manica nera della felpa e ripenso a quello che è successo questa sera.

«Ehi, Cappuccetto, va tutto bene?» il suo tono si è addolcito e ora percepisco una nota di preoccupazione. Questo ragazzo mi confonde con i suoi cambi repentini di atteggiamento, ma al tempo stesso accende in me qualcosa di molto simile alla curiosità.

«A meraviglia» borbotto, passandomi una mano sotto il cappuccio per togliere i pezzetti di foglie bagnate che si erano attaccate ai miei capelli, e la mia bocca si piega in un sorriso che cerco invano di trattenere al pensiero di come mi ha chiamata. «Quindi Sherlock, fammi capire» riprendo, togliendo un rametto che si era impigliato nella gonna «era una minaccia la tua, o un consiglio?»

«Cambierebbe qualcosa?»

«Per le tue parti basse direi di sì.»
Lui distoglie lo sguardo fissando un punto impreciso nella boscaglia, e posso giurare che si stia sforzando di non ridere. Poi incontra di nuovo i miei occhi.

«Dico sul serio, faresti meglio a tornartene a casa. Io non posso passare tutta la notte a farti da balia, e sarebbe meglio se…»

«Stai dicendo che mi lascerai qui da sola?»

« Dimentichi la tua amica.»

«Quale amica?» lo guardo come se avesse fatto una battuta di cui mi sfugge la parte divertente.

Scuote la testa e mi rivolge un’occhiata che non riesco a decifrare. Mi rendo conto di aver appena fatto la figura dell’idiota e sospiro. Probabilmente aveva già capito che era una bugia, ha solo voluto che lo ammettessi.

«E va bene, non c’è nessuna amica. Ho inventato una scusa perché volevo che mi lasciassi in pace.»

«Come vuoi, allora tra poco ti accontenterò.» Guarda alla mia destra e istintivamente mi volto seguendo il suo sguardo. Vedo arrivare un autobus e mi sento invadere dall’ansia. Lui si sposta per avvicinarsi al bordo del marciapiede, e io agisco di impulso afferrandogli un braccio, spinta dal panico che ricomincia ad assalirmi a ondate.

«Hai davvero intenzione di lasciarmi qui così?»

«Credimi, non sono una buona compagnia» dice serio, e a quelle parole lo lascio andare.

Annuisco debolmente e una ciocca bagnata mi finisce sugli occhi. Lui allunga una mano e la scosta gentilmente con le dita, indietreggiando poi di nuovo.

L’autobus alle sue spalle sta aprendo le portiere.

«Ci vediamo, Cappuccetto» dice prima di voltarsi per salire. Sto per rassegnarmi all’idea che lo vedrò andare via nel giro di pochi attimi, quando mi ricordo che assieme a lui se ne sta andando la mia occasione di fare una telefonata, quindi, prima che possa mettere i soldi per pagare la corsa, richiamo la sua attenzione costringendolo a voltarsi verso di me.

«Ehi, aspetta! Hai un cellulare?» Su una cosa devo dargli ragione: non posso stare qui tutta la notte, e se voglio dormire con un tetto sopra la testa devo chiamare una persona. E sperare che non mi chiuda il telefono in faccia.

Lui borbotta qualcosa all’autista e le portiere si chiudono davanti al mio naso. Mi volto delusa, cominciando a camminare in direzione delle scogliere e calciando un sasso con stizza. Non so più cosa fare. Qualsiasi ragazza in giro per Howth a tarda notte farebbe meglio a tornarsene a casa, ma non io.

Sto già pensando a come procurarmi un cellulare quando mi sento toccare una spalla.

Sobbalzo e mi giro di scatto, ritrovandomi di fronte due occhi color notte.

«Ti hanno mai detto che sei una gran seccatura?» chiede porgendomi uno smartphone.

«No, tu sei il primo.» Gli sorrido grata e afferro il telefono dalla sua mano, poi digito il numero incrociando mentalmente le dita nella speranza che mi risponda una voce familiare. Per quanto ne so, la persona che sto chiamando potrebbe anche avere cambiato numero. O città. O pianeta.
Mentre il telefono squilla mi allontano un po’ in cerca di privacy. Non so cosa potrei lasciarmi sfuggire e non voglio che Sherlock tragga un’altra delle sue brillanti conclusioni.

“Pronto?”

Di nuovo, il mio cuore comincia a battere furioso nel petto. Rilascio il fiato e pronuncio il suo nome in un soffio.

«Duncan?»

“Rain?”

Quando mi chiama per nome, vengo invasa da una marea di ricordi ed è come se non fossimo stati lontani per tutto questo tempo.

«Sì. Sono io.»

Sorrido, finalmente rilassata, ma il suo tono cambia bruscamente, passando dallo stupore iniziale a una freddezza che non promette niente di buono.

“Che succede?”

La sua voce è piatta e dolorosamente distante. Mi faccio coraggio e decido di mostrarmi distaccata vuotando il sacco.

«Non posso tornare a casa e non so dove andare, così mi chiedevo se...»

“Dove ti trovi?” mi interrompe. So che ha capito la situazione anche se non mi ha dato il tempo di spiegare. Tra noi non c’è mai stato bisogno di parole.

«Sono alla fermata degli autobus dopo il Summit Inn.»

“Ok, aspettami lì.” Chiude la chiamata senza lasciarmi nemmeno il tempo di ringraziarlo.

Restituisco il telefono al proprietario che ora mi guarda con aria interrogativa.

«Grazie, senza di te avrei passato la notte qui al gelo.»

Abbozza un sorrisetto furbo e mi guarda con una luce maliziosa negli occhi.

«Se mi avessi detto subito che cercavi un posto per la notte, te lo avrei offerto io. E credimi, avrei saputo come tenerti al caldo.»

Alzo gli occhi al cielo perché con questa frase ha appena perso metà della mia stima.

«Che galante.» Lo prendo in giro, e mi accorgo che comincio a prenderci gusto.

Quasi mi spiace che presto arriverà Duncan, sia perché non so se sono pronta a rivederlo, sia perché, per quanto mi costi ammetterlo, questo ragazzo mi diverte e mi sorprende continuamente. Ma proprio per questo dovrei essere sollevata all’idea di allontanarmi da lui.

«Sono già in debito per la felpa e il cellulare, non potrei approfittare oltre di te.»

«Direi che, considerando che mi hai fatto perdere l’ultimo autobus, devi almeno lasciare che sia io a deciderlo.»

Non mi lascia il tempo di ribattere perché mi afferra una mano e mi attira contro di sé. In una frazione di secondo mi ritrovo tra le sue braccia forti e istintivamente tento di tirarmi indietro.

«Che cosa stai facendo?» chiedo, ma lui non mi lascia andare, continuando a tenermi premuta contro di sé come se fossi una farfalla pronta a volare via.

«Ti tengo stretta, così non sentirai freddo.»

«Ma io non sento freddo.»

«Allora ti sto tenendo stretta e basta.»

Mi avvolge i fianchi, e per la prima volta in questa notte mi sento davvero al sicuro. Per la prima volta dopo tanto tempo, decido che posso abbassare le mie difese. E inaspettatamente, non desidero più staccarmi da lui.

Chiudo gli occhi godendomi la sensazione, e mi accorgo che si sta muovendo lentamente a destra e a sinistra. Stiamo ballando seguendo il ritmo di una canzone che proviene dalla casa di fronte.

Lui sposta una mano dal mio fianco e mi abbassa il cappuccio, poi la posa sulla mia spalla.

Ha smesso di piovere.

Lo sento appoggiare una guancia sulla mia nuca e canticchiare sottovoce.

Gli circondo le spalle con le braccia e sorrido con il naso affondato nel suo petto, dimenticandomi persino di questa brutta serata.

«Hai uno strano modo di provarci, sai?»

Si allontana un po’ da me e mi fa fare una giravolta.

«Oh-oh, qualcuna qui è un po’ presuntuosa.»

Mi tira nuovamente a sé, cingendomi la vita.

«Se questo non è un tentativo di conquistarmi, allora come lo chiami?»

«Ballare» risponde senza esitare, con la sua logica esasperante. I suoi occhi brillano di una luce divertita mentre la bocca ha una piega rilassata che gli addolcisce i lineamenti. «Credimi, se voglio portarmi a letto una ragazza, glielo dico e basta. Non perdo tempo con inutili corteggiamenti.»

Lo guardo perplessa, per nulla convinta.

«Oh-oh, qualcuno qui è un bel po’ sicuro di sé» gli faccio il verso, cercando di imitare la sua voce bassa e profonda.

Finalmente, un sorriso sincero lo illumina.

«Non penso che il tuo ragazzo apprezzerebbe un mio approccio, non credi?»

Non capisco di cosa stia parlando, poi realizzo che si sta riferendo a Duncan. A quel pensiero mi allontano bruscamente da lui e mi ritrovo a fissare il nero dei suoi occhi. Ha uno sguardo serio e profondo che mi turba, mentre sento la sua mano risalire dalla mia spalla sino a sfiorarmi il collo. Mi accarezza la guancia col pollice.

«Da cosa stai scappando, Cappuccetto?»

Ho un sussulto e lui se ne accorge, perché mi stringe ancora più forte. «Va tutto bene, va tutto bene. Qualunque cosa fosse, ora è lontana.»

La sua voce è quasi un sussurro e mi tranquillizza. Quando mi ha rivolto la parola la prima volta, desideravo solo che mi lasciasse in pace, ma ora, anche se non so nulla di lui se non che è imprevedibile e un gran rompiscatole, sono grata per aver incrociato la mia strada con la sua.

«Grazie» mormoro. «Per essere tornato indietro. Se avessi ignorato la mia richiesta, ora saresti su quel bus di ritorno a casa.»

«Ma tu non saresti qui, con me.»

Annuisco in silenzio e lui prosegue: «Beh, allora direi che ho fatto bene, no?»

«Non lo so. Qualcuno mi ha detto che non sei una buona compagnia.»

«Quel qualcuno a volte parla troppo.» Sposta il viso e sfiora i miei capelli con le labbra.
A quel contatto così intimo mi irrigidisco.

«Scusami» mormora, e dopo qualche istante torno a rilassarmi.

Continuiamo a ballare in silenzio, anche quando la musica finisce e nella strada tutto tace, a parte il battito dei nostri cuori. Lo sento tremare lievemente, si è bagnato dalla testa ai piedi proprio come avevo previsto.

«Non avresti dovuto darmi la tua felpa. Ti prenderai un malanno.»

«Non se ti stringi un po’ di più a me.»

Sto per ribattere quando veniamo distratti dal motore di una moto che si accosta accanto a noi.
Riconosco il modello e anche il pilota, nonostante indossi il casco.

Quando se lo toglie e scende dalla Kawasaki per venire verso di noi, Duncan ha un’espressione dura e gli occhi verdi sono accesi di rabbia.

«Tieni giù le mani da mia sorella!» esclama scagliandosi contro il ragazzo di fronte a me.

Lui lo guarda disorientato, in effetti io e Duncan non ci assomigliamo affatto. È logico, dato che non siamo figli degli stessi genitori.

«Dun, calmati, mi stava solo tenendo compagnia. È stato lui a permettermi di chiamarti e...»

Lui non sembra intenzionato ad ascoltarmi, e continua a fissare minaccioso l’altro che gli sorride sfrontato.

«Amico, ti assicuro che non hai nulla da temere. Ho fatto la guardia a tua sorella sino al tuo arrivo.»

«Sarà meglio per te» ribatte Duncan ostile.

«Dun, per favore. Mi ha solo tenuto compagnia.»

Vedo la sua mascella rilassarsi e il suo sopracciglio destro, su cui brilla un piccolo piercing, distendersi.

«Se le cose stanno così, ti ringrazio» dice con freddezza rivolto al suo interlocutore, che ricambia con un cenno della testa. Poi, senza mai guardarmi negli occhi, si rimette il casco e si dirige verso la moto. Mentre ne prende un altro per me e accende il motore, io inizio a tirare giù la cerniera della felpa che indosso, ma il ragazzo che mi sta di fronte, di cui realizzo solo ora di non sapere il nome, mi ferma.

«Tienila tu» dice, chiudendo la sua mano sulla mia.

Restiamo a fissarci per qualche istante, poi sento il rombo della Kawasaki Ninja di Duncan e la sua voce che cerca di sovrastarlo.

«Rain, muoviti o ti lascio qui!» urla in tono secco.

Lo sconosciuto lascia andare la mia mano, e sento la mancanza di quel tocco farsi prepotente.
Mi volto e afferro il casco che Duncan mi porge, fissandolo bene sulla testa, poi salto su e mi stringo al suo giubbotto di pelle.

Mi giro per guardare un’ultima volta il ragazzo senza nome e mi sembra di vederlo sussurrare “buonanotte Rain” prima che ci allontaniamo, sfrecciando per le strade di Dublino diretti a casa del mio fratellastro.

   
 
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