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Autore: Persej Combe    29/08/2017    1 recensioni
Un giorno, tanto tempo fa, ho incontrato un bambino. Non lo dimenticherò mai. È stato il giorno più emozionante di tutta la mia vita. Nessuno potrà mai avere la stessa esperienza che ho avuto con lui. Ciò che abbiamo visto, è precluso soltanto a noi.
...In realtà, non ricordo neanche il suo nome. Non ricordo nemmeno se ci siamo presentati, a dire il vero. Però non smetterò mai di cercarlo. Un giorno so che le nostre mani si uniranno di nuovo, come quella volta. Perché noi siamo destinati a risplendere insieme per l’eternità.

[Perfectworldshipping]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Elisio, Professor Platan, Serena
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Eterna ricerca'
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24 . La farfalla nel deserto


 

   Il gelo notturno le si insinuava sotto i vestiti facendola rabbrividire. Serena si sporse oltre la banchina a scrutare in lontananza se riusciva a scorgere il bagliore dei fari del vagone, tuttavia al di là della rotaia non vi era altro che il buio pesto del bosco e il suo silenzioso fruscio. Si aggiustò addosso la giacca pesante, ma le gambe tremavano ancora e così cercava di allungare i lembi della gonna più in basso che poteva. Scosse la testa, rimproverandosi di non aver dato ascolto a Shana. Alzò di nuovo lo sguardo: insomma, dov’era il treno? Non vedeva l’ora di salirvi a bordo per scaldarsi.
   Il Professor Platan la osservava, seduto su una panchina. Aveva un aspetto stanco, ora, il corpo affaticato dalle mansioni giornaliere si abbandonava contro lo schienale senza fare troppi complimenti. Le sue mani se ne stavano nascoste dentro alle tasche, ma non di rado uscivano per andarsi a poggiare sulle cosce a tamburellare con le dita, oppure sul petto, mentre teneva le braccia conserte. Ogni tanto, poi, venivano come scosse da un fremito e si precipitavano verso i capelli, ad arricciolare qualche ciuffo già dapprima scomposto. Il suo sguardo era attento e vigile, ma fisso in un luogo lontano all’interno della mente.
   Serena restò ancora qualche istante a controllare attorno. Si rassegnò. Con un sospiro spazientito si voltò, vide il Professore e decise che si sarebbe andata a sistemare al suo fianco. Mentre si sedeva urtò distrattamente una sua gamba, rallegrandosi per una manciata di secondi del calore che le veniva da quel contatto improvviso.
   Platan si riscosse. Vide la ragazza esitare un attimo mentre gli chiedeva scusa. Lui annuì distrattamente, pronunciando un paio di parole a bassa voce per tranquillizzarla, e le rivolse un sorriso non proprio convinto, ché ancora se ne stava aggrappato a qualche pensiero – c’erano tanti concetti, tanti discorsi da soppesare con cautela ora che il momento del confronto era ormai vicino. Si scansò un po’ di lato per farle posto.
   Serena allora si accomodò, tirò su la zip del giaccone e si strinse in sé stessa. Aspettò.
   «Ma hai freddo?» si sentì chiedere dopo un paio di minuti. Alzò lo sguardo: Platan si era accorto del modo in cui serrava le ginocchia e di come stringesse forte con le mani i bordi della gonna. Ella scrutò l’uomo a propria volta. Vi fu un lungo silenzio prima che egli prendesse coraggio e si decidesse a sollevare il braccio.
   Serena non capì subito. Rimase incerta a fissargli l’arto che ancora insisteva a stare sospeso in aria, accogliente, poi sussultò e cercò i suoi occhi con stupore, quasi incredula. L’uomo la incitò aprendosi un poco di più, e intanto le annuiva, cercando di trasmetterle la propria sicurezza. Serena si avvicinò lentamente, prima con una mano e poi con tutto il busto. Poggiò la testa sul suo petto e inspirò profondamente.
   «La ringrazio».
   «Figurati».
   Platan le accarezzò una spalla per farle calore, reclinando stancamente la testa contro il muro. Osservò per un po’ la rotaia in silenzio, concentrandosi sul cicaleccio dei Pokémon Coleottero nascosti tra la vegetazione circostante la stazione.
   Era un po’ strano, pensò Serena. Aver potuto condividere quasi spontaneamente considerazioni e sensazioni con una così importante figura di riferimento, un idolo, e ora questo abbraccio. Strofinò la guancia sul tessuto del cappotto finché non trovò una posizione abbastanza comoda in cui restare, attenta a non infastidire in qualche modo il Professore: un insolito profumo di gigli le giunse alle narici.
   Platan la sentì agitarsi contro il proprio petto. La lasciò libera di sistemarsi e una volta che si fu fermata la rassicurò di nuovo con qualche altra carezza. Mentre i Ledyba e gli Yanma continuavano a frinire, spostò la sua attenzione sull’orologio da polso per controllare l’ora. Passò un dito sul quadrante per lucidarlo, ma una volta fatto finì per trattenercelo sopra pensierosamente. Gli scappò una frase sottovoce, che tuttavia Serena non riuscì a sentire né a decifrare, poi sospirò fiaccamente. Eccolo, ancora quello sguardo.
   Piano piano, la ragazza cominciò a percepire nuovamente una certa stanchezza, accompagnata da una leggera sonnolenza. Solo allora si ambientò e riuscì a lasciarsi andare. Dopo un po’ parve persino dimenticarsi dei loro ruoli di Allenatrice e di Professore, e considerò entrambi soltanto persone. Si rilassò. Chiuse gli occhi, ascoltando il suono calmo del respiro di lui. Mentre il torace gli si allargava e gli si restringeva e la giacca frusciava sotto la pelle del suo viso, un insolito profumo di gigli le giunse alle narici. Non sapeva perché, tuttavia aveva come l’impressione che non gli appartenesse. Era lì, impregnato sui suoi abiti, come se qualcun altro ce l’avesse messo.
   L'uomo ancora strofinava il polpastrello sopra l'orologio. Serena riaprì gli occhi e restò a guardare per un po' con le palpebre socchiuse. Le mani di Platan erano lunghe e magre, le dita sottili e ben curate, con le unghie corte e pulite. Precise e dal portamento composto, avvezze al lavoro medico.
   Ad un tratto la ragazza si accorse che l'oggetto che stava accarezzando non si trattava di un semplice orologio, ma di un particolare modello di Holovox. Dunque si chiese se quello sguardo tanto riflessivo fosse dettato dall'attesa di un messaggio o da qualche chiamata che poteva aver ricevuto, magari da parte di quella certa persona di cui le aveva raccontato in precedenza. Le parve di scorgere un che di affettuoso in quel gesto che egli ancora continuava a compiere: avrebbe quasi giurato si trattasse più di una carezza che di una mossa distratta dettata dall'essere immerso nei pensieri. Stavolta, tuttavia, non volle chiedere, né ebbe l'interesse di farlo. Tornò ad accucciarsi in silenzio tra le braccia dell'uomo.
   «Lei profuma di gigli», disse piano dopo qualche secondo in cui quell'essenza era giunta di nuovo a stimolarle l'olfatto.
   Platan ritrasse il dito dall’orologio e portò la mano ad aggiustare un ciuffo di capelli dietro l'orecchio da dove era sfuggito.
   «È un profumo che mi piace molto», ammise con un timido sorriso, «Ci sono particolarmente legato».
   Ripensò a quando qualche ora prima aveva fatto un salto alla caffetteria ed Elisio lo aveva accolto sorpreso. Si erano seduti al loro solito tavolo, l’altro aveva avvisato uno dei suoi camerieri che si sarebbe concesso una piccola pausa e gli aveva chiesto che portasse da bere e qualche manicaretto di cui sapeva Platan andar matto. Avevano parlato per un buon quarto d’ora in maniera rilassata e tranquilla, ed era stato evidente che entrambi stessero cercando di ricostruire un mattoncino per volta il loro rapporto, come una grande casa che doveva essere ristrutturata pezzo per pezzo, con molta pazienza e cautela. Si erano scambiati le ultime battute e alla fine il Professore si era alzato ché doveva partire, e avevano deciso che per quel giorno sarebbe bastato così. Platan aveva raccolto la giacca dalla sedia, se l’era infilata e aveva messo la tracolla sulla spalla avviandosi alla porta. Poi però, accorgendosi del locale fattosi vuoto, tutt’e due erano rimasti a guardarsi a lungo, esitando di fronte all’uscita. Elisio aveva mosso piano le mani verso i bottoni della sua giacca e aveva preso a chiuderli uno ad uno, perché faceva freddo e c’era vento e tante altre scuse inventate lì per lì, in modo da trattenerlo ancora pochi minuti. A sua volta Platan gli aveva sistemato il colletto della camicia, ché c’erano finite sopra un po’ di briciole e qualche granello di zucchero e molti altri pretesti diventati poco plausibili dal momento che aveva ormai spazzolato via tutto lo spazzabile. A quel punto allora si erano guardati, entrambi consci di quanto i loro tentativi si fossero rivelati banali e palesi.
   «Sei davvero sicuro di non voler prendere una stanza in albergo almeno per stanotte così da ripartire domattina? Potresti anche chiedere alloggio presso il Centro Pokémon, non credo che per te facciano storie, dopotutto», aveva detto Elisio.
   «No, non posso proprio permettermelo. C'è un Pokémon ricoverato al Laboratorio da me e devo controllarlo. Sono un po' preoccupato per lui e non intendo lasciarlo solo la notte», aveva risposto, comunque grato dell'apprensione che mostrava nei suoi confronti.
   «Apprezzo molto il tuo spirito di sacrificio», aveva detto allora Elisio con grande e sincera ammirazione, «però, attraversare da solo la Landa di Luminopoli, per di più ad un'ora tanto tarda… Se potessi, ti accompagnerei».
   «Non temere, dico sul serio!» aveva scosso la testa rassicurandolo ancora: dopotutto non avrebbe potuto permettergli di scoprire quale sarebbe stato il vero motivo a spingerlo verso Temperopoli, oltre l'incontro con Diantha «Anche perché non sarò da solo. Porterò con me Bulbasaur e Garchomp, mi aiuteranno loro lungo il tragitto. Puoi stare sereno».
   Elisio alla fine aveva ceduto e si era limitato ad approvare con un lieve cenno della testa e una carezza sulla spalla.
   «D'accordo», aveva aggiunto poi, osservando intensamente negli occhi il compagno.
   Platan allora gli aveva sorriso, e quasi volontariamente aveva finito per trattenersi contro la sua stretta, nonostante cominciasse ad avvertire una certa impellenza addosso per il fatto di doversi mettere in cammino. Malgrado ciò, il tocco di lui era stato tanto premuroso e spontaneo, che sarebbe stato un imperdonabile peccato interromperlo troppo presto. Non si poteva sapere quando per loro sarebbe ricapitato un momento di intimità così semplice come quello. Ma forse, se fosse stato in grado di indagare la natura segreta di Serena, sarebbe riuscito ad ottenerne altri ed innumerevoli: di questo almeno era convinto. Ogni sua speranza era riposta nella prescelta.
   Si erano avvicinati un poco l'uno all'altro, ma non troppo, per potersi stringere in un abbraccio nascosto. Tuttavia l'irruzione improvvisa di una Recluta aveva riscosso Elisio, che di conseguenza si era ritratto, pur senza abbandonare la presa sulla spalla di Platan.
   «Mi perdoni, capo. C'è bisogno di lei ai Laboratori».
   «Arrivo».
   Quindi si era dovuto staccare e allontanare per andare ad occuparsi delle sue incombenze e aveva lasciato il Professore con un frettoloso quanto severamente trattenuto: «A presto e fa’ buon viaggio».
   Platan sorrise: aveva percepito in quelle parole tutto ciò che Elisio non gli aveva potuto dire in maniera più esplicita e che probabilmente sarebbe risultato poco calzante ad un comandante della sua stoffa.
   Serena intanto cominciava ad addormentarsi. Il respiro tranquillo del Professore sembrava conciliare il sonno, ed ella involontariamente prese ad abbandonarsi di peso contro di lui, con gli occhi chiusi. Il profumo dei gigli la raggiunse un’ultima volta ancora.
   «È tanto buono, in effetti», mormorò pigramente. Già davanti ai suoi occhi scivolavano vaghi scenari di sogno e suoni ovattati e lontani le sfioravano le orecchie.
   Quando Platan la sentì appoggiarsi così pesantemente non si riscosse subito, ma lasciò correre fino a che non avvertì la presa delle braccia della ragazza farsi meno salda. A quel punto le rivolse lo sguardo, allarmato, e si accorse di come il suo sonno si stesse facendo più profondo.
   «Santo cielo, perdonami…» sussurrò mordendosi le labbra mortificato. La chiamò, cercando di non svegliarla troppo bruscamente.
   Serena lo guardò con due occhi piccoli e assonnati, scusandosi e stropicciandosi le palpebre. Era evidente che avesse bisogno di dormire, e Platan si sentiva un po’ meschino nell’approfittarsi di lei in quel momento di debolezza. Però la necessità di sapere si era ormai fatta impellente e lo aveva corroso fin nell’intimo, non c’era verso di tirarsi indietro adesso. Testardo, decise che si sarebbe fatto prendere dai sensi di colpa più tardi, quando avrebbe riaccompagnato l’allieva all’albergo e dopo aver chiarito definitivamente la faccenda. Tuttavia, proprio mentre era immerso in questo ragionamento, un certo dispiacere lo vinse di nuovo per pochi istanti quando rivide che la giovane si era acquietata un’altra volta al suo fianco. La scrollò piano, sforzandosi di vincere il rammarico.
   «Sono sveglia, sono sveglia», si affrettò a rassicurarlo lei. Platan tirò un sospiro di sollievo.
   Due fari si accesero nel buio mentre un sibilo acuto iniziava a crescere sulle rotaie.
   «Di che cosa dobbiamo parlare, Professore?».
   Dall’interno della stazione si affacciò il controllore. Venne fuori sulla banchina aggiustandosi il cappotto addosso con un movimento brusco e tirando su col naso. Ci passò un dito sopra per strofinare la punta, poi si fermò a scrutare attorno, in attesa di accogliere il treno in arrivo.
   Platan strinse la presa sulle spalle della ragazza osservando con diffidenza l’uomo ed ella si acquattò contro di lui senza ribattere, ma percependo il suo nervosismo di fronte alla figura che era appena apparsa. Sembrava che la presenza di altre persone lo mettesse in soggezione.
   «Dobbiamo parlare del tuo bracciale», tagliò corto subito dopo aver visto che il controllore si stava dirigendo verso di loro.
   «Biglietti».
   Con fare distaccato, il Professore infilò una mano nella tasca della giacca e trasse fuori il tesserino, allungando il braccio di modo che l’altro non si dovesse avvicinare troppo. Serena invece dovette frugare un po’ più a lungo. Per un attimo temette d’aver perso il biglietto, ma alla fine riuscì a trovarlo in una delle sacche più profonde. Il controllore si assicurò che i titoli di viaggio fossero validi e con un cenno fece intendere che era tutto in regola. Serena lo salutò con un leggero inchino mentre si allontanava.
   «In effetti, ci sarebbe qualcosa che vorrei chiederle sul mio bracciale», confidò la ragazza dopo un po’, quando finalmente vide il primo vagone passarle davanti agli occhi.
   «Ossia? Dimmi pure», rispose Platan alzandosi dalla panchina e aspettando che fossero entrambi pronti per incamminarsi. Aiutò Serena a tirarsi in piedi e cominciarono ad avviarsi verso le porte del treno che intanto si era fermato. Alcune persone scesero dalle cabine, che si svuotarono in pochi minuti.
   «Prima la pietra ha brillato», spiegò meglio, «Non so per quale motivo, ma ha iniziato a splendere di una luce fortissima. Si è spenta dopo qualche secondo».
    «Ha brillato?» ripeté incuriosito, domandandosi se ciò che gli aveva appena raccontato potesse trattarsi di un segnale circa ciò che voleva indagare e rivelare sul conto della giovane, «Che cosa stavi facendo in quel momento?».
   «Nulla. Io e Shana stavamo parlando».
   «Sì? E c’è qualcosa in particolare che vi siete dette?».
   Serena si fermò di fronte ai gradini del treno. Indugiò prima di entrare e il suo atteggiamento si fece tutt’a un tratto pensieroso, vulnerabile.
    «Ecco...» mormorò.
   Le sue guance si tinsero di un rossore lieve e innocente, come di chi si affacci per la prima volta ad un sentimento nuovo e si soffermi a scoprirne a poco a poco le sfaccettature segrete.
   Platan rimase sorpreso da quella reazione, dal suo silenzio improvviso tanto profondo e intenso. Sorrise con tenerezza, appoggiando piano una mano sulla sua spalla quasi affettuosamente: di certo non si trattava del segnale in cui aveva sperato, ma almeno poteva dire di non esser stato l’unico quella sera a confessare il labirinto di emozioni recondite in cui si era perduto.
   «Sali, forza», la incoraggiò.
 
 
   Mentre stavano seduti l’uno di fronte all’altra, il vagone era vuoto, completamente a loro disposizione. L’unico rumore che si sentiva era quello del treno che sferragliava sulla rotaia. Fuori, oltre i finestrini, le chiome degli alberi a valle si scuotevano lievemente per il vento che soffiava nella notte. Tutt’attorno era scuro e buio, lontano e addormentato, tranne qualche piccolo bagliore che disegnava vagamente l'aspetto di città, strade e sentieri. Dentro, invece, la luce biancastra delle lampade a neon rischiarava quasi brutalmente l’abitacolo e Platan riusciva a scorgere distintamente la propria immagine nel riflesso del vetro che aveva di fronte, dietro la figura minuta e graziosa di Serena: c’era un viso stanco e fiacco, con le rughe e gli zigomi ben evidenziati nei punti più sgradevoli; gli occhi sparivano dietro due cerchi scuri che ne impedivano la visione.
   «Di che cosa dobbiamo parlare, Professore?».
   Serena era ormai a proprio agio. Si era ripresa dal freddo patito di fuori e adesso se ne stava sul sedile con una postura più aperta e rilassata. Col busto si spinse in avanti ad osservare l’uomo, attendendo la sua risposta.
   Platan cercava ostinatamente i propri occhi nella finestra. Non appena sentì la voce della ragazza si ridestò e spostò l’attenzione su di lei.
   Era giunto il momento, quindi.
   «Dobbiamo parlare del tuo bracciale».
   «Bene. L’ascolto».
   A quel punto ci fu un sospiro e il Professore lasciò cadere la testa tra le dita della mano per poter riflettere. Serena aspettò, ancora.
   «Cetrillo mi ha detto del tuo scontro con Calem. E anche della lotta che hai dovuto affrontare contro Ornella», disse lui, cercando di prendere tempo prima di arrivare al nocciolo della questione.
   «Sì. Sono state entrambe molto faticose, ma ho dato tutta me stessa».
   «Ho saputo anche questo. E di certo, ciò è il segno di come tu non sia un’Allenatrice qualunque. Cetrillo mi ha raccontato della forza impressa nei tuoi occhi, della tua grinta in battaglia».
   E di come assomigliasse a quella che anche io avevo una volta, precisò nella propria mente. Guardò Serena in silenzio. A quel punto cercò i suoi, di occhi, grigi anch’essi, e tentò di intravedervi qualcosa che gli appartenesse, che gli ricordasse di lui. Ma non ci riuscì.
   «Io non sono un’Allenatrice qualunque. Di questo sono cosciente, giacché ho con me questo bracciale e possiedo il potere della Megaevoluzione. Mi dica, lei sapeva, non è vero? Lei sa il significato di questa pietra e di tutte quante le altre, non è così? Il modo in cui esse si sono formate, il loro potere, ciò che accadde tremila anni fa...».
   Lo sguardo di Serena si era improvvisamente fatto ostile, come di chi sia stato messo a lungo all’oscuro di una verità preziosa e necessaria, e si ritrovi a combattere per rivelarla al mondo in ogni singola sfaccettatura. Platan accolse su di sé i suoi occhi con leggero timore e sconcerto, ma in fondo compiaciuto. Era lecito, dopotutto.
   «L’Arma Suprema...», quelle parole scivolarono taglienti fuori dalle sue labbra, «È a questo che tu alludi. Giusto?».
   Serena gli rivolse un’occhiata turbata: «Dunque lei sa», mormorò.
   «Io so... molte, molte cose, Serena», ammise, e una ruga inquieta andò a distendersi sulla sua fronte, mentre i suoi occhi si facevano ancor più grigi e infelici e tristi «Ma altrettante mi sono ignote ed è per questo motivo che ho bisogno di voi ragazzi. Di te, soprattutto. Da solo farei ben poco. Non sarei in grado di raggiungere i miei scopi senza l’aiuto di qualcun altro. Non posso contare su me stesso. Le mie capacità sono ridotte».
   La ragazza sembrò capire. L’espressione del suo viso cambiò: divenne più sensibile e paziente, maggiormente disposta ad ascoltare ciò che aveva da dire. Eppure, in qualche modo il suo sguardo pareva ancora stare sulle difensive, leggerissimamente distaccato.
   Sentiva che c’era qualcosa che non andava.
   «Quando sei venuta da me in laboratorio per la prima volta, ho sentito fin da subito che tu avevi qualcosa di speciale, rispetto agli altri ragazzini. E non può essere stato un caso. Le mie capacità sono ridotte, ma le tue, ne sono certo, devono essere molto ed infinitamente più sviluppate delle mie. Tu sei riuscita a trionfare laddove io ho fallito, hai superato gli ostacoli che non sono stato in grado di abbattere! Tuttavia non posso basarmi soltanto su queste nebulose congetture...».
   Il treno sembrava a tratti incagliarsi e rallentare, e poi riprendere a correre e poi di nuovo a rallentare.
   «Cos’è che vuole chiedermi veramente? Dove intende arrivare?».
   «Che cosa è successo sulla Torre Maestra?».
   «Come?».
   «Che cosa è successo sulla Torre Maestra?».
   Serena lo guardò spaesata. Perché quella domanda?
   «Ho lottato contro Ornella».
   «E poi? Dannazione, deve essere successo qualcosa d’altro!»
   «Ma che intende dire?».
   «Qualcosa d’altro, qualsiasi cosa! Che so, una magia, una melodia lontana, delle luci nel cielo! Da quel giorno, l’aurora ha cominciato ad apparire su Kalos e deve essere successo qualcosa d’altro, che mi riveli una volta per tutte che tu sei...!».
   Si bloccò all’improvviso. Il suo riflesso nel vetro si era fatto storto e deforme. I suoi occhi erano ancora nascosti nell’ombra. Solo allora Platan si rese conto della collera e del tormento che si erano impossessati così follemente di lui. Abbassò la testa, mortificato per ogni parola, ogni gesto, ogni singolo atto che fosse stato testimone di quell’intimo strazio che aveva così deliberatamente riversato sull’allieva, e nascose il viso tra le mani.
   «Perdonami, Serena», sussurrò, colpevole «Perdonami».
   La ragazza lo osservò con dolore. Intuì i suoi sentimenti e le sue paure, e sebbene non sapesse da che cosa fossero causate, riuscì comunque a tastarle e a sentirle grandi ed opprimenti. Comprese che Platan soffriva, e sembrava che quella ferita che si era appena scucita di fronte al suo sguardo bruciasse da tanto, incalcolabile tempo. Allora si alzò in piedi, restando ferma davanti a lui e cercando i suoi occhi, i suoi veri occhi, che ancora nascondeva dietro le dita come all’interno di un bozzolo squarciato e sanguinante.
   «Io ho scoperto me stessa», disse piano.
   Platan scostò un poco le mani e la fissò, incantato da quella frase tanto semplice.
   «Quel giorno, sulla Torre Maestra, ho scoperto me stessa», ripeté a bassa voce, consolatoria, nella speranza di poterlo rincuorare attraverso quell’unica e valida risposta che egli le aveva chiesto di dargli.
   Una scossa violenta fece traballare il vagone e le luci si spensero di colpo.
   Serena si sentì spinta da una parte mentre il treno si arrestava bruscamente e allungò rapidamente una mano verso la sbarra accanto al sedile per potersi aggrappare. Platan si tirò su, allarmato, assicurandosi che la ragazza stesse bene. Poi si guardò attorno smarrito e preoccupato, nel tentativo di capire che cosa fosse successo. Non appena vide al di là del finestrino, un brivido d’apprensione lo colse: tutti i luoghi nelle vicinanze erano stati lasciati al buio, città, strade e sentieri, da cui si riusciva a udire, in maniera ovattata, un brusio di voci intimidite e confuse che cercavano in qualche modo di far chiarezza; solamente un punto, al di sopra degli altri e in lontananza, risplendeva arrogante lungo il Percorso 13.
   «La Centrale Elettrica...», mormorò, come se improvvisamente sapesse ogni cosa, sovrappensiero «Vieni, stammi vicino», intimò poi all’allieva, allargando le braccia e invitandola a stringersi un’altra volta, «Sarà meglio rimanere insieme».
   Serena si acquattò senza che glielo dovesse ripetere. Si abbracciarono l’uno all’altra e in silenzio aspettarono che accadesse qualcosa, che le lampade si riaccendessero, che il treno ripartisse. Platan sospirò fiaccamente, accarezzandole i capelli con fare protettivo.
   «Andrà tutto bene», la rassicurò con un sussurro: «Andrà tutto bene».
   La ragazza si tranquillizzò. Lasciò cadere la testa contro la sua spalla e chiuse gli occhi. Tuttavia quelle parole continuavano ad uscire da quella bocca senza mai smettere e ad ogni singolo respiro si facevano sempre più sottili e strozzate. Allora la stretta di lui si allentò.
   Lacrime. Erano lacrime.
   «Come può andare tutto bene? Non c’è più speranza. Troppo a lungo ho sopportato questo supplizio, e il mio corpo e il mio animo non lo reggono più. Ho tentato, strenuamente e follemente, di fidarmi delle mie illusioni, che non potevano essere che tali. Ho provato a convincermi che qualcosa sarebbe potuto cambiare. Ma Astra aveva ragione, e non c’è soluzione che possa salvarci, poiché ogni cosa è già stata decisa e non posso far nulla. Non posso far nulla. Nessuna promessa e nessun giuramento potranno mai liberarci, poiché tutto quanto è già deciso, e perso e frantumato irreparabilmente. E io sento, nel profondo, di averla perduta per sempre, e che ogni mio sforzo per riaverla al mio fianco sarà inutile: eppure, come un pazzo non posso fare a meno di amare ed ammirare quella persona che mi è tanto cara, di gioire ad ogni suo singolo sorriso nonostante io sappia che prima o poi mi tradirà. Se soltanto potessi, farei di tutto pur di proteggerla e salvarla a mia volta. Tuttavia sono cosciente che ciò non sarà mai possibile. Vorrei limitarmi a godere semplicemente del presente, del tempo che ci è rimasto per stare ancora insieme. Ma a volte sento che potrei scoppiare e non ce la faccio più».
   Serena si ritrasse così da poterlo guardare in viso, nonostante egli cercasse in tutti i modi di distogliere il proprio sguardo affinché non ci riuscisse: dopotutto, non era quello il comportamento consono a un Professore, a una figura guida davanti agli occhi di un proprio alunno. Si sentiva così vile. E nonostante questo, allo stesso tempo non aveva più forza per opporsi e controllarsi. Tutto quanto gli sembrò precipitargli addosso e schiacciarlo.
   La ragazza abbassò il viso, comprendendo il tipo di vergogna che stava provando. Non lo guardò più, in modo da lasciargli quel poco di riservatezza di cui aveva bisogno per sfogarsi. Eppure, non poté fare a meno di tornare da lui, per stringerlo un’altra volta, quietamente.
   Allora sussurrò: «Un anziano vagabondo mi ha detto che presto, molto presto, l’Arma Suprema tornerà a brillare sopra le terre di Kalos. Lei capisce quello che intendo. Ecco, quel tempo che ci è rimasto, a cui lei si riferiva, sta per scadere. Mentre io le rivolgo queste mie parole, mentre noi due siamo qui, i secondi e i minuti passano ed esso diminuisce sempre di più. Per questo motivo non può permettersi di sprecarlo. Se vuole proteggere la persona che ama, allora bene, vada, lo faccia. Ma deve farlo concretamente e non con il timore di fallire, rimanendo succube delle visioni di ciò che potrebbe essere il futuro. Io non so chi sia costei, né quale sia il legame che vi unisce, nonostante sia evidente quanto per lei sia prezioso. Non deve dare ascolto a quello che dicono gli altri. Non deve basarsi esclusivamente sugli altri per ottenere ciò che desidera. Deve ascoltare sé stesso e i propri sogni soltanto. Deve avere il coraggio di rivelare completamente sé stesso e trovare la forza di dare vita a quello che ha dentro, di essere indipendente da tutto quanto il resto».
   L’uomo rimase senza fiato. Non riusciva a toglierle gli occhi di dosso e la osservava meravigliato, seppur ancora con lo sguardo lucido e annebbiato, affascinato da quel suo essere tanto matura e autorevole. Come una fata, o una tenera farfalla, la sentiva sfiorargli le ferite che erano rimaste aperte nel suo cuore e richiuderle, pulire con tenerezza e cura il suo fiore malato.
   «Quello che voglio dire, Platan» sussurrò ancora, paziente «Quello che voglio dire è che la deve smettere di continuare a nascondersi nel suo bozzolo, di tirarsi indietro di fronte ad ogni occasione, e non deve neppure essere un timido fiore con degli ideali e degli obiettivi incerti e poco saldi. Lei deve trasformare i suoi petali in ali e trovare finalmente il coraggio di diventare una farfalla. A quel punto, glielo posso assicurare, e non deve averne paura: andrà tutto bene».
   Improvvisamente, le luci tornarono a riaccendersi. Ci fu un tremore mentre il motore del treno si rimetteva in funzione. Ripartirono.
   Sul riflesso nel vetro, gli occhi di Platan splendevano, ed erano belli e limpidi.
 
 
   Il litorale era tinteggiato da tanti piccoli punti luminosi in mezzo al buio. Dall’alto della città si potevano ammirare le grandi onde del mare che si abbattevano sulla costa e le case e i palazzi addormentati lungo le strade più basse. Ogni cosa pareva essere ritornata alla solita e amorevole calma.
   «È davvero bellissimo», mormorò il Professore, le braccia incrociate sul petto e lo sguardo assorto nel contemplare il paesaggio. La sua voce risuonava bassa e tranquilla.
   «Già», disse di rimando Serena.
   Il bagliore bianco della luna si riversava tremolante lungo la superficie d’acqua.
   «Sa? Un giorno potrebbe portare qui la sua amata. Penso che si troverebbe bene».
   Platan rimase interdetto per qualche secondo. La ragazza provò di nuovo quell’imbarazzo iniziale, il leggero timore d’aver deliberatamente ficcato il naso in questioni personali che non avrebbero dovuto riguardarla; ma poi lo vide sorridere, tenerissimo, e ne fu felice.
   «Sì», le rispose, accompagnandosi con una leggera risata «Sì, credo proprio che lo apprezzerebbe molto. Ne sono certo».
   Dalla stazione si sentì un tintinnio di campanelli che scalpitava con urgenza, per annunciare l’ultima corsa della giornata che sarebbe partita in pochi minuti.
   «Professore, c’è qualcos’altro che ha bisogno di dirmi?».
   «Oh, no. Non più. Tutto quello che c’era da dire è stato detto. Volevo venire quassù per trovare un posto più tranquillo dove poter discutere lontano da occhi indiscreti, ma hai già risposto a tutte le domande che avevo. Ti ringrazio, Serena. E mi dispiace di essermi lasciato andare, so che non è stato un comportamento adatto da parte mia. Perciò ti chiedo scusa. Spero potrai perdonarmi, in qualche modo».
   La ragazza scosse la testa: «Non si preoccupi, Professore. Io... Anch’io sto passando un momento difficile. Per cui, la capisco. Custodirò con grande cura i suoi sentimenti e non ne parlerò a nessuno», lo rassicurò ancora, sorridendo. Poi si affrettò a nascondere uno sbadiglio dietro alle mani.
   I campanelli suonarono di nuovo, per un’ultima e perentoria chiamata.
   «Andiamo, adesso. Sarà meglio riaccompagnarti in albergo», disse l’uomo con premura.
 
 
   Una volta usciti dalla stazione, Serena e Platan si avviarono pigramente verso l’Hotel Temperopoli. Il Professore non aveva esitato un attimo ad offrirle il proprio braccio affinché potesse aggrapparvisi. Ormai non c’era più bisogno di convenevoli.
   Il vento soffiava e faceva freddo, ma stavolta per Serena era più urgente poter rimettere piede in camera e infilarsi tra le coperte a dormire. Si domandò se Shana fosse ancora in piedi, se l’avesse aspettata sveglia. Chissà?
   «Ci siamo quasi», la consolò Platan ad un tratto, dopo aver gettato lo sguardo su di lei ed aver visto sul suo viso quell’espressione assonnata per l’ennesima volta «Ancora un piccolo sforzo».
   In fondo alla strada cominciarono a definirsi i muri e le finestre dell’edificio. La ragazza si sentì piena di un’ultima e fervente riserva di energia, nonostante le gambe le si fossero fatte pesanti e indolenzite. Accelerò il passo. Platan si dispose a fare lo stesso, riadattando la propria andatura in modo da poterla accompagnare meglio. Si fermarono sotto la tettoia dell’ingresso. Serena si avvicinò verso l’entrata stropicciandosi gli occhi e nascondendo un ultimo sbadiglio contro le dita.
   «Grazie, Professore. Buonanotte».
   «No, Serena, grazie a te. Ti ringrazio davvero di cuore. Riposa bene».
   La ragazza annuì, riconoscente. Per un attimo lo sguardo le andò a posarsi sul cielo notturno e sembrò che qualcosa le fosse venuto in mente.
   «Ascolti. Da quello che ho sentito, mi pare di aver capito che la Capopalestra Astra le abbia fatto una profezia sul suo futuro. Però c’è una cosa che una persona mi ha detto, proprio oggi. E cioè, di lasciare che siano i nostri sogni a parlarci, perché in essi, più che in ogni altra cosa, è racchiusa la nostra anima e i moti che essa desidera compiere, insieme alle sue paure. È lì che più chiaramente può mostrarsi il destino, anziché, ad esempio, nelle stelle. Probabilmente le nostre situazioni sono diverse, ma magari questo consiglio potrebbe tornare utile anche a lei».
   Platan la osservò, riflettendo su quel che gli aveva appena detto. Per un attimo provò di nuovo nel cuore la stessa angoscia che lo aveva soffocato quel giorno, quando davanti alla veggente aveva assistito alla visione di quel destino terribile e brutale che sarebbe dovuto venire a breve. Ma durò solo un attimo, appunto, perché lo sguardo tenace e rassicurante di Serena lo abbracciò subito dopo.
   «Lo terrò a mente», disse, e ne era convinto.
   Si salutarono un’ultima volta, ma mentre ognuno stava per incamminarsi verso la propria strada, il Professore si ricordò di una cosa importante ed esclamò: «Ah, che sbadato! Serena, aspetta! Volevo darti questa».
   Corse indietro per raggiungerla e si affrettò a frugare nella propria borsa.
   «È qui da qualche parte... Un attimo solo, poi ti lascio andare veramente».
   «Che cos’è, Professore?».
   «...Eppure ero sicuro di averla messa in quella tasca, possibile? Ah, ecco! Ecco qui! Questa è per te».
   Le tese l’oggetto e Serena lo prese in mano, curiosa di scoprire che cosa fosse: era una custodia per dischi e all’interno c’era un CD-ROM.
   «Ora che hai ottenuto la Medaglia Pianta, credo che non avrai problemi nell’utilizzarla. Si tratta della MN02: Volo».
   «Caspita, Professore, è per me? La ringrazio tantissimo!».
   «Dopo tutti i progressi che stai facendo, mi pare il minimo. Diantha è molto orgogliosa di te, penso che ormai tu l’abbia capito. Utilizzando questa mossa potrai raggiungere in un istante tutti i Centri Pokémon che hai già visitato. E, beh, sarò felice di accoglierti se per caso un giorno dovessi ripassare a Luminopoli».
   «Tornerò presto, gliel’assicuro!».
   Allungò il braccio e gli mostrò il palmo aperto. Platan fu meravigliato da quel gesto che intendeva rivolgergli. Dopotutto aveva un significato molto intimo e personale. Fu lieto di poterlo condividere anche con la prescelta e che ella glielo permettesse così spontaneamente.
   Avvicinò piano le dita, un po’ incerto. Poi, non appena sentì la sua pelle sotto i polpastrelli, non esitò più, e le strinse con forza la mano: stretta a cui Serena rispose con altrettanto vigore. A quel punto, allora, una grande folata di vento si alzò da terra, scuotendo i loro vestiti e i loro capelli, e il cielo si illuminò di viola, rosso e blu. Un Vivillon svolazzava in lontananza, combattendo contro la corrente.
   «Ti aspetterò, allora. A presto».
 
 
   Si sentiva come un eremita nel deserto. Talvolta la vegetazione della Landa di Luminopoli si faceva talmente secca da trasmettere quello stesso senso di desolazione che poteva avere una steppa disabitata. Ma in realtà lui non era solo, e Garchomp e Bulbasaur vegliavano silenziosamente su di lui, racchiusi nelle Poké Ball che teneva legate alla cintura. Distrattamente le accarezzò con una mano: quasi gli pareva di sentire i mormorii sonnacchiosi dei suoi due fedeli compagni mentre dormicchiavano nelle loro sfere. Poi rimise le dita sul volante e sbirciò di sfuggita l’orologio da polso.
   Se il tragitto si fosse rivelato tranquillo, stimò che sarebbe riuscito ad arrivare a Luminopoli in poco più di tre ore. Allungò un braccio ad afferrare la borsa poggiata sul sedile vicino. L’aprì e rovistò velocemente dentro per controllare che avesse repellenti a sufficienza, in modo da non imbattersi in qualche Pokémon selvatico nottambulo lungo la strada. L’effetto dell’ultimo flacone che aveva utilizzato sarebbe dovuto bastare ancora un quarto d’ora circa. Tuttavia, in realtà, ciò che lo preoccupava di più non era l’eventualità di finire in certe trappole scavate dai piccoli e astuti Trapinch: c’era un ben altro gruppo altrettanto astuto a impensierirlo particolarmente, e non si trattava propriamente di Pokémon.
   Era ancora lontano, ma le pareti del complesso si riuscivano a distinguere comunque con estrema chiarezza. La centrale elettrica sembrava risplendere con arroganza ancora maggiore adesso che si trovava per strada, in macchina, mentre gli si avvicinava un chilometro alla volta.
   Se potessi, ti accompagnerei: gli tornarono alla mente quelle parole che Elisio gli aveva rivolto in caffetteria e si sorprese di starle accogliendo ora con un sorriso tanto cinico, che non riuscì a scacciar via presto.
   «Ma certo, così avresti potuto far man bassa coi tuoi giochi sporchi senza che io me ne accorgessi. Mi avresti tenuto bene a bada, Elisio», sibilò infatti. Poi però sentì del rimorso bruciargli in gola, poiché nello stesso momento gli rivenne da pensare a quella carezza tanto affettuosa che gli aveva dedicato così spontaneamente. Forse si sbagliava. Forse Elisio era stato davvero preoccupato per lui, senza considerare le sue incombenze da Capo Flare. Non seppe che cosa rispondersi.
   Sospirò sconsolato, aggrottando le sopracciglia. Si morse il labbro inferiore cercando di prestare particolare attenzione alla strada in un tratto difficoltoso. Non appena riuscì a venirne fuori, tuttavia, un’improvvisa risata rischiarò la sua espressione turbata.
   «La mia amata!» esclamò un po’ ridendo. Soltanto in quel momento si rese conto di non aver mai specificato a Serena che si trattava di un uomo. Non che ce ne sarebbe stato il bisogno, d’altronde. Allora, per qualche istante si divertì a fantasticare su come sarebbe stato Elisio se fosse stato una donna, probabilmente per distrarsi da quei timori che lo avevano vinto un’altra volta senza dargli via di fuga: s’immaginò una donna bellissima, con due occhi azzurri glaciali e al tempo stesso seducenti, fiera, orgogliosa, meravigliosamente intelligente. Pensò, e non se ne sorprese molto in realtà, che l’avrebbe amato anche così. Quel che aveva dentro, infatti, il suo animo, sarebbe rimasto intatto. Qualsiasi corpo, qualsiasi forma o aspetto avesse avuto, sarebbe sempre stato Elisio, con gli stessi ideali, gli stessi sogni e gli stessi orribili timori, gli stessi pregi e gli stessi difetti, e lo avrebbe amato ugualmente e profondamente.
   Le sue labbra presero una piega incerta. Gli occhi si fecero improvvisamente lucidi un’altra volta e ci passò furiosamente il braccio sopra, perché era buio e la vista era fioca già di sé, nel mezzo della notte.
   Possibile che una persona tanto valida dovesse inesorabilmente andare incontro al nulla, all’oblio e alla distruzione più assoluta? Fece un profondo sospiro. Sì che era possibile. Ormai ogni frammento del loro passato si era andato disintegrando, non c’era più nessuna promessa, nessun giuramento, nulla di nulla, per cui niente avrebbe potuto fermare Elisio dal perseguire i suoi piani, non aveva più vincoli. Tirò su col naso e strofinò di nuovo il braccio sopra gli occhi.
   E gli dispiaceva tremendamente, si sentiva quasi morire dentro al pensiero di non poter fare alcunché per bloccare la caduta precipitosa dell’altro in quella voragine terrificante, di essere limitato fin quasi a soffocare da tutta quella serie di circostanze che non gli permettevano di muovere neppure un dito. Eppure, c’erano ancora tanti progetti, tante cose che gli sarebbe piaciuto fare insieme a lui. Non voleva dire a addio neppure ad una singola di esse, sentiva che era troppo presto per lasciarle andare via. Sorrise pensando a loro un po’ distrattamente e si chiese se avrebbe mai avuto il coraggio di confessarne qualcuna ad Elisio, al cospetto del suo sguardo inquisitore e autoritario.
   Mentre si asciugava nuovamente gli occhi, vide apparire una macchia sfocata giù giù lontana, in fondo alla strada.
   Cos’era esattamente a trattenerlo? Non se l’era mai chiesto prima di allora. La profezia di Astra, il pessimismo irremovibile di Elisio, altro? Ci rifletté a lungo, con la massima attenzione, scomponendo ogni frase, ogni concetto che gli veniva in mente fino a ridurre tutto in forme semplici e lineari, innegabili. Poi all’improvviso il suo cuore mancò un battito.
   Era lui stesso?
   Che cosa gli impediva di sottrarsi alla profezia di Astra? Che cosa gli impediva di ribellarsi al destino? Di abbandonare ogni preoccupazione riguardo al suo ruolo in quella trama disordinata? Di tirarsi indietro per scegliere serenamente di vivere i tanti progetti e le tante cose che desiderava? Di mettersi effettivamente contro Elisio e di opporglisi nella maniera più convincente possibile?
   Solo in quel momento si rese conto di essere stato lui, e soltanto lui stesso, a intrappolarsi da solo con le proprie mani in quella gabbia di paure e a non volerne uscire fuori. C’erano tante possibilità, ancora, tante strade da poter prendere e si era appena solamente all’inizio! Non era ancora arrivato il momento della fine. Non doveva darsi per vinto così presto.
   Rincuorato da questo nuovo pensiero, spinse il piede sull’acceleratore, lasciandosi pervadere completamente dalla sensazione di gioia e di liberazione che gli dava. Se prima non aveva potuto far altro che rimanere piacevolmente colpito dalle parole di Serena, adesso si soffermò su di esse con maggior cura e le comprese. Gli entrarono come un dardo ardente dentro il petto.
   Non avrebbe rinunciato ai suoi sogni, non avrebbe rinunciato ai suoi progetti. Che la profezia seguisse il suo corso, che il giuramento si rompesse, non avrebbe abbandonato la promessa che si era scambiato con Elisio e avrebbe fatto tutto ciò che era nelle sue capacità – non importava quanto ridotte – affinché potessero finalmente risplendere insieme per sempre, uno vicino all’altro. E avrebbe agito da solo, di testa sua, senza farsi bloccare da nulla e da nessuno.
   C’era un fiore, lungo la strada. Un giglio bianchissimo e rigoglioso. Non appena lo vide, Platan rimase come incantato, perché i suoi petali iniziarono a brillare e a ricoprirsi di stelle e bagliori di ogni colore. Ad un certo punto, parvero come staccarsi dal gambo e prendere il volo, come fossero tante piccole ali.
   Era così incantato da quello spettacolo che non appena alzò lo sguardo si spaventò. Era il bambino, il bambino che vedeva sempre nei suoi sogni, che teneva il gambo tra le dita fermo e solenne! Come sempre sorrideva ed era meraviglioso. Ma la macchina correva ed era ormai quasi di fronte a lui. Se non si fosse fermato in tempo l’avrebbe ucciso.
   Non avrebbe rinunciato ai suoi sogni, non avrebbe rinunciato ai suoi progetti. Che la profezia seguisse il suo corso, che il giuramento si rompesse, non avrebbe abbandonato la promessa che si era scambiato con Elisio e avrebbe fatto tutto ciò che era nelle sue capacità – non importava quanto ridotte – affinché potessero finalmente risplendere insieme per sempre, uno vicino all’altro.
   Disperatamente si affrettò a sterzare, frenando bruscamente e lasciando un lungo solco nella sabbia. L’auto traballò con violenza e si sentì scaraventato da una parte all’altra, ma le mani erano salde sul volante e non l’avrebbero lasciato. Quando la macchina si fermò, rimase qualche secondo immobile ritto sul sedile, col fiatone e il batticuore. Poi si slacciò la cintura con un gesto fulmineo e scese a terra a guardare indietro.
   Era sparito. Tuttavia era certo di non averlo preso.
   Scosse la testa un po’ stordito. Era stato un sogno? In effetti si sentiva molto stanco e affaticato. Forse avrebbe fatto meglio a sbrigarsi a tornare a Luminopoli, si disse. Di certo aveva bisogno di riposare. Sospirò e si accinse a ritornare nella vettura, ma qualcosa lo fermò ancora qualche istante.
   La Centrale Elettrica distava ormai pochi metri alla sua sinistra. La fissò come a voler scoprire qualcosa, aspetti circa il suo piano che Elisio gli teneva nascosti e che aveva bisogno di rivelare. Gli parve di scorgere una persona in lontananza, ma il punto in cui essa sembrava stare era incerto e poco visibile.
   Mentre tornava a mettere in moto la macchina, rimuginò ancora sul fiore che forse aveva visto o che forse aveva semplicemente immaginato, e si preparò a tornare al Laboratorio.
   «Cielo, ho un altro fiore a cui devo pensare, adesso!» esclamò infine, scacciando via ogni altro pensiero e ripartendo.
 
 
   «È proprio bello, qui».
   Shana stava guardando il paesaggio con sguardo assorto.
   Serena era contenta che le piacesse. Si erano fermate lì dove lei e il Professore avevano sostato una volta arrivati a Temperopoli Alta. La luce mattutina rischiarava le case e i palazzi, mentre sul mare si trasformava in tante scintille rosee che si confondevano con la foschia violetta dell’aurora. Sul punto più lontano del litorale si riusciva anche a intravedere la ricca architettura dell’albergo dove avevano passato gli ultimi giorni. Serena non poté fare a meno di sorridere nel momento in cui ripensò all’espressione euforica di Shana quando nel corridoio si erano incontrate di striscio con Diantha.
   Ad un tratto la compagna si girò, facendo scuotere i lunghi ciuffi bruni.
   «Serena, non riesco a immaginare quante avventure ancora ci aspettino!» disse. Poi si aggiustò lo zaino in spalla e si mosse verso le porte del Percorso che avrebbero dovuto percorrere prima di raggiungere la prossima tappa. Serena la seguì affrettando il passo, incalzata dall’altra che la chiamava.
   Quando varcarono la soglia, davanti a loro si mostrò la distesa sabbiosa e solitaria che era la Landa di Luminopoli. In lontananza, sbiadita, la capitale le salutava un’altra volta.
   Quel Percorso aveva l’aria di essere più difficoltoso rispetto a quelli che avevano affrontato in precedenza. Questo, però, non sembrò affatto scoraggiare Shana: si avvicinò a Serena e le rivolse uno sguardo deciso e fiducioso. Poi si mosse avanti di qualche passo, accostò le mani alla bocca e a pieni polmoni gridò: «Luminopoli, stiamo tornando!».
   Il loro viaggio riprese.


 


Buongiorno a tutti!
Come state? Spero che abbiate passato delle belle vacanze!
Per quanto riguarda questo capitolo, mi rendo conto che sia stato molto riflessivo e non troppo dinamico, ma spero che non vi abbia annoiato troppo. Dovevo fare in modo che Platan si smuovesse dalle proprie insicurezze una volta per tutte, prima confrontandosi con la prescelta e poi soprattutto con se stesso. In realtà avrà ancora bisogno di un piccolo aiuto per qualche tempo, ma vi assicuro che presto riuscirà a prendere l'iniziativa da solo (...e a quel punto anche i capitoli diventeranno più leggeri!). Detto questo, spero comunque che vi sia piaciuto! Mi dispiace molto di averci messo tanto ad aggiornare, mi auguro per il prossimo di non farvi attendere troppo: ne vederete delle belle!
Nel frattempo mando un bacione a tutti e vi ringrazio di cuore per essere passati a leggere!
Alla prossima~
Pers

  
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