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Autore: Adeia Di Elferas    30/08/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Trevignano era stata presa, su ordine espresso del papa, dall'esercito guidato da Juan Borja, ma nel giro di nemmeno un paio di giorni, Bartolomeo d'Alviano, alla testa di appena trenta uomini, era riuscito a riprendersela, lasciandosi alle spalle oltre duecento cadaveri nemici.

“Questi, invece – stava spiegando Bartolomeo, indicando con una delle mani callose il piccolo arsenale di artiglieria leggera che aveva appena fatto entrare al castello di Bracciano – li abbiamo presi a un contingente romano che stava scappando verso Cerveteri.”

Bartolomea passò in rassegna un pezzo dopo l'altro, commentando a bassa voce i pregi e i difetti delle varie armi e facendo mettere da parte quelle più danneggiate e istruendo il maestro d'armi su dove piazzare quelle in buono stato.

“Allora...” sussurrò Bartolomeo, avvicinandosi un po' di più alla moglie, mentre i loro soldati cominciavano a occuparsi del bottino: “Sono stato bravo?”

La donna gli sorrise appena e ricambiò bisbigliando: “Come sempre.”

Il cielo era grigio e freddo, come lo era da giorni, e Natale si stava avvicinando, eppure il figlio del papa non sembrava intenzionato a smettere le sue offensive.

A sprazzi abbastanza irregolari, interrotti soprattutto dagli ordini estemporanei del papa e dall'ansia di sapere Carlo Orsini sempre più vicino, il Duca di Gandia attaccava le mura del castello di Bracciano, perlopiù su pressioni del Duca di Urbino, che lo affiancava ormai in pianta stabile, ma per il momento non era ancora riuscito a far breccia nelle difese tenute magistralmente nella mano salda di Bartolomea.

“E il Borja s'è visto, quando hanno attaccato in questi giorni?” chiese Bartolomeo, a cena, mentre lui e la moglie mangiavano davanti al camino in una delle stanze più calde del castello.

L'Orsini scosse il capo, addentando un pezzo di carne salata e poi prendendone subito un altro, piantandoci in mezzo la punta del coltello con una forza che tradiva la sua irritazione: “Ma figuriamoci... Quello è un asino vestito da guerriero.”

L'uomo si fece un momento pensieroso, scuotendo la testa: “Non capisco perché questi ragazzini viziati vogliono andare in guerra, se poi non sono pronti a prendersi certi rischi. Se impugni l'elsa di una spada, devi pensare che potrai arrivare a due grandi estremi.”

“Uccidere o essere ucciso, hai ragione.” annuì la signora di Bracciano, allungando le gambe e poggiando i piedi sul bordo del tavolinetto: “È quello che dico anche io ai giovani che tirano in ballo l'idea di fare il soldato. Bisogna parlar chiaro con quelli, o alla prima baruffa se la fanno addosso e mettono a rischio tutti i loro commilitoni per niente. Ma questo è il figlio del papa e lo sai che il Borja vuole mettere a ferro e fuoco il mondo. O faceva il soldato e si metteva la gonna, come suo fratello. Piuttosto, continua a mandare verrettoni e a lasciare in giro editti in cui offre un buon compenso a chiunque dei nostri passi dalla sua parte. Non lo trovi ridicolo?”

Il marito fece segno di sì e si prese un altro pezzo di formaggio stagionato. Stavano già usando solo cibo della dispensa. Benché se l'aspettassero, quell'assedio era arrivato nel momento sbagliato. Con le campagne in crisi e molti uomini distolti dai loro impegni per andare in guerra, la disponibilità di derrate alimentari per gli Orsini era molto ridotta.

Forse pensando le stesse cose, Bartolomea fece un profondo sospiro e, agitando il coltello in aria con la naturalezza di chi gesticola mentre chiacchiera del più e del meno, soggiunse: “Ma se questi non attaccano davvero, dandoci la possibilità di batterli o almeno di sbloccare la situazione in un senso o nell'altro, andrà a finire che moriremo di fame. E io preferirei di gran lunga morire trafitta da una lancia, piuttosto che morire perché non metto niente sotto i denti da quindici giorni.”

“Mi è venuta un'idea...” fece a quel punto Bartolomeo, mentre la moglie masticava a bocca aperta, con gli occhi scuri fissi sul camino acceso.

Il giorno dopo, tra una spolverata di neve e l'altra, la porta principale del castello di Bracciano venne spalancata e, sotto lo sguardo attonito dell'avanguardia di Juan Borja, ne uscì un asino.

Con un passo ciondolante e lento, mentre il portone gli si chiudeva alle spalle, l'animale avanzò, arrivando fino al campo dei papalini, come se sapesse benissimo di dover andare là.

Quando raggiunse il cuore dell'accampamento, alcuni soldati lo presero e lo portarono a Juan, che era nel suo padiglione, coperto da tre mantelli e con le mani allungate sul focolare improvvisato che aveva acceso per scaldarsi.

Al collo dell'asino era stato appeso un cartello che recitava: 'lasciatemi passare perché sono un ambasciatore e reco un messaggio per il Duca di Gandia'.

Juan, avvampando per l'affronto, vide una lettera che penzolava attaccata alla coda della bestia. Nel tragitto, il foglio si era macchiato di fango e anche di letame.

“Stupido asino...” borbottò il figlio del papa, schifato, prendendo con la punta di due dita il messaggio, cercando di non sporcarsi.

Quando spiegò il foglio, però, si trovò davanti una tal serie di ingiurie e minacce condite dai più turpi insulti rivolti alla sua persona e a entrambi i suoi genitori che non si preoccupò più di insozzarsi le mani.

Strappando la missiva in mille pezzetti, Juan gridò: “Brutto cane d'un mercenario! Possa tu bruciare all'inferno con quella pazza che ti trovi per moglie! Preparate la mia armatura! Preparate il mio cavallo! Attacchiamo subito!”

 

Caterina aveva appena accantonato la lettera di suo fratello Piero che l'avvisava che Achille Tiberti era arrivato a Forlimpopoli, dove aveva incontrato il suo convalescente fratello Palmerio.

Quella notizia da un lato aveva rincuorato la Contessa, che era stata subito certa della buona riuscita della riconquista e del consolidamento di Civitella, ma dall'altro l'aveva indisposta parecchio.

Prima di tutto, Tiberti aveva fatto ritornare l'esercito a Forlì alla spicciolata, in modo caotico e senza farvi da guida, e quello non era il giusto modo di trattare una truppa presa in prestito.

Secondariamente, la Leonessa si era aspettata che il Capitano passasse prima da Forlì e solo dopo si recasse dal fratello a Forlimpopoli.

Così, già sulle sue per l'arrabbiatura arrivata di primo mattino, quando la Tigre si vide arrivare nella sala delle questue l'oratore milanese, sentì prepotentemente il desiderio di mandare tutti al diavolo e di andare a caccia da sola.

Però sapeva che non poteva farlo, così, giocherellando nervosamente con la collana che era stata di sua madre Bona e che finalmente poteva di nuovo indossare, salutò il milanese con un sorriso abbastanza convincente e lo pregò di dire ciò che doveva.

L'uomo, che da quando era a Forlì non aveva fatto altro che vedersi respingere pressoché ogni richiesta di colloquio ufficiale, aveva deciso di presentarsi come un questuante comune, in modo da non poter più essere rimbalzato.

Trovò comunque quanto meno irrispettoso il fatto che né la Contessa, né il suo cancelliere, né tanto meno i due Consiglieri che l'affiancavano si fossero alzati in segno di rispetto o avessero almeno accennato un mezzo inchino con il capo.

Tuttavia ricacciò indietro la sua irritazione e con sicumera disse: “Il mio signore, il Duca Ludovico Sforza, chiede di avere maggiori informazioni circa la vostra intenzione di sposare Giovanni dei Medici di Firenze e vi ricorda che ogni decisione in tal senso dovrebbe prima passare dal suo saggio vaglio, per evitare altri... incidenti.”

“Di cosa state parlando?” chiese piano Caterina, senza capire come e da dove una simile idea fosse arrivata fino a suo zio.

Anche Luffo Numai, Cardella e l'altro Consigliere guardarono l'oratore milanese con tanto d'occhi, fissandolo come se avesse appena detto qualcosa di impensabile.

“Il mio signore sa che state organizzando un matrimonio con suddetto Giovani dei Medici e che a patrocinare questa unione c'è niente meno che il re di Francia, grande benefattore dell'ambasciatore di Firenze e...” iniziò a dire l'oratore milanese, che si era aspettato una reazione irata o in ogni caso ben diversa dall'espressione stolida e sconcertata della Tigre.

“Quello che state dicendo non ha né alcun fondamento né alcun senso.” disse la donna, scuotendo con forza il capo e alzandosi dal suo scranno, troppo agitata per restare seduta.

“Eppure tutti sanno che il Medici è sempre alla vostra rocca e che con voi ha discorsi segreti e che siete stati visti parlare spesso e dunque è chiaro che Firenze vi sta rabbonendo per...” provò a dire l'uomo del Moro.

“Sì, certo – lo bloccò la Leonessa, concitata, ma cercando di tornare a lavorare come una statista, sfruttando quell'equivoco come meglio poteva, magari perfino a suo guadagno – Firenze mi sta facendo proposte molto allettanti, molto più di quelle che mi state facendo voi milanesi, ma dubito che la repubblica lo faccia per il mio bene. Uno Stato piccolo come il mio non può che godere della protezione di mio zio in riguardo alla nostra stretta parentela. Firenze cercherebbe la mia amicizia solo per derubarmi del mio Stato! Senza contare che non è il momento, per me, di pensare a sposarmi, non vi pare? E se mai lo facessi, è ben evidente che chiederei il consenso del mio carissimo zio.”

L'oratore sentiva la lingua impaniata. Quella che gli era parsa una cosa certa, improvvisamente, gli sembrava assurda.

Malgrado ciò, non demorse e provò ad attaccare un'ultima volta: “Però non negherete il fatto che Giovanni dei Medici vi è molto vicino e altro non fa se non spingervi verso Firenze e influenzarvi e...”

“Chiamate qui l'ambasciatore di Firenze. Subito.” ordinò a quel punto Caterina, perentoria, a Luffo Numai.

L'uomo annuì e si affrettò a lasciare la sala delle questue.

“Sentirete con le vostre orecchie, perché l'ambasciatore fiorentino mi è stato tanto appresso in queste settimane.” spiegò glaciale la Contessa e da quel momento si chiuse in un profondo silenzio che durò fino all'arrivo al palazzo dei Riario di Giovanni.

Il fiorentino, visibilmente sorpreso di essere stato chiamato lì e con tanta urgenza, si levò il cappello rosso su cui si era posata un po' di neve e poi, con una spalla drappeggiata da una cappa rossa e oro decorata dai simboli alternati di Firenze e dei Medici, salutò la Tigre con un profondo inchino e tutti gli altri con un breve cenno del capo.

“L'oratore milanese vuole sapere perché mi avete dato l'assillo per tutto questo tempo. Crede che noi due stiamo per sposarci, su ordine del re di Francia. Spiegategli tutta la storia del prestito che mi avete accordato per i gioielli che ho voluto ricomprare. Io non ho né la voglia né le capacità per dilungarmi in queste spiegazioni da banchieri.” fece Caterina, con un gesto annoiato della mano, tornando al suo scranno.

Il Medici, ben lungi dal farsi cogliere impreparato, elaborò in fretta una storia che potesse combaciare con la breve introduzione fatta dalla Sforza: “La Contessa aveva in animo di ricomprare i gioielli che suo marito, il defunto Conte Girolamo Riario, era stato costretto a impegnare, molti anni fa – cominciò, evitando perfino di cercare lo sguardo di Caterina, in modo da non destare alcun sospetto nell'oratore milanese – ma si trattava di una cifra veramente troppo alta, per avere un prestito dalle casse di Firenze. Così mi sono offerto, a nome della banca della mia famiglia, di mediare personalmente il prestito. Come potete vedere, la Contessa ha recuperato i suoi monili.”

A quelle parole, la Tigre indicò con entrambe le mani la collana d'oro che indossava quel giorno e il milanese la fissò stupito, chiedendosi come avesse potuto non notarne la presenza, dato che quella donna non portava mai preziosi.

“Siccome parte dei gioielli si trovava a Modena e una parte a Genova, la spesa è stata abbastanza ingente e la mia banca ha già dovuto anticipare oltre diecimila ducati per le prime spese – proseguì Giovanni, assumendo un tono pratico degno di un vero affarista – se sono stato visto spesso assieme alla Contessa, è perché questa transazione è molto delicata per via delle cifre molto alte e le garanzie che sono state date alla mia famiglia devono essere riconfermate molto spesso. La Contessa ha chiesto delle dilazioni per la restituzione e io sto cercando di contrattare le rate, in modo da ottenere un contratto favorevole per i Medici.”

“Come potete vedere – intervenne a quel punto la Leonessa di Romagna, che, pur essendosi attesa di sentire parlare di cifre simili, era rimasta ugualmente un po' impressionata al pensiero che Giovanni avesse potuto sostenere una simile spesa per lei – messer Medici non è qui né per comandarmi, né per influenzarmi, tanto meno per impicciarsi degli affari del mio Stato. Quel che ha fatto, l'ha fatto solo per il tornaconto proprio e della banca della sua famiglia. Ora, se mi volete dire che così facendo sta curando i propri interessi a discapito dei suoi doveri nei confronti di Firenze, non posso che darvi ragione, ma non vedo che c'entri io con i suoi errori.”

Dopo quella lunga dissertazione, e dopo le parole pungenti della Tigre, l'oratore milanese sentì di non aver altro né da chiedere né da dire.

Vergognandosi come un ladro e maledicendo internamente Ludovico Sforza per la figura da comare che gli aveva fatto fare, l'uomo abbozzò un inchino e si scusò: “Non era mia intenzione immischiarmi in questo genere di affari. Le finanze private di Sua Signoria non sono affare di Milano, avete ragione. Riferirò al mio signore il Duca che non c'è in vista alcun matrimonio tra voi e messe Medici. Perdonatemi.” e senza aspettare di essere congedato, lasciò la sala.

Mentre il cancelliere e i due Consiglieri, che apparentemente non avevano dato troppo peso a tutto quel discorso, controllavano le loro carte per vedere chi fosse il prossimo questuante in lista, Giovanni guardò per un lungo momento Caterina.

La donna annuì appena con il capo, come a dire che aveva fatto esattamente quello che lei si aspettava.

Le labbra carnose del fiorentino si strinsero appena, in un'espressione che la Tigre non riuscì a interpretare e poi, con un saluto generico, il Popolano si inchinò e lasciò anch'egli la sala senza aggiungere più nulla.

 

Raffaele Sansoni Riario camminava nervosamente lungo il corridoio stipato di statue antiche. I suoi passi risuonavano cadenzati e lugubri nell'aria immobile del dicembre e il suo abito talare, bordato di spesso pelo, lo difendeva a stento dai rigori di quell'inverno.

Da qualche anno aveva cominciato a sperare che gli inverni troppo rigidi fossero ormai solo un ricordo, mentre quello aveva tutta l'aria di voler ripiombare l'Italia nella morsa del gelo.

Dopo una tragica indecisione durata ore, il Cardinale sentì di nuovo le parole del papa risuonargli nelle orecchie e con loro le minacce ben poco velate che Alessandro VI gli aveva elencato a mo' di memorandum.

Sapeva benissimo che Rodrigo Borja era in quello stato di collera solo per motivi personali, ma la sua furia lo spaventava ugualmente.

Si diceva che il papa stesse uscendo di testa per la figuraccia che suo figlio Juan stava facendo contro gli Orsini, e che fosse altrettanto adirato con il genero, Giovanni Sforza, che fingeva di non ricevere le lettere in cui egli gli ordinava alternativamente di tornare a Roma e di andare a dar manforte a Juan a Bracciano.

E così c'era finito in mezzo Raffaele.

Alessandro VI aveva avuto notizie di un pericoloso avvicinamento tra Caterina Sforza e Giovanni Medici e subito aveva pensato di far pressioni al Cardinale Sansoni Riario affinché facesse pesare la sua parentela con la Tigre di Forlì.

“Quella strega maledetta!” aveva sbottato il Sommo Pontefice: “Ci manca solo che diventi una pedina di Firenze! Con quei suoi dannati soldati e la sua mania per i cannoni, sarebbe capace di fare da baluardo difensivo alla repubblica di quel pazzo di Savonarola! Quella virago è un pericolo! La è sempre stata! Dovevo farla sgozzare quando è morto quel buono a nulla del suo stalliere! Avrei avuto una scusa, almeno! O l'allontanate dal suo Stato con le buone, Cardinale, o io la farò spazzare via da mio figlio!”

Così Raffaele aveva chinato il capo e aveva deciso di fare un tentativo.

Si sentiva ancora in colpa per aver fomentato la congiura ai danni del Barone Feo, assecondando ciecamente le ombre inseguite da Ottaviano, e per aver cagionato la morte di uomo che, dopotutto, non aveva poi grandi colpe da espiare se non quella di aver allungato le mani sulla donna sbagliata.

E si sentiva anche in colpa per l'anno di prigionia che suo cugino Ottaviano aveva dovuto sopportare, mentre lui restava al sicuro nei salotti vaticani.

Così, lasciando con un sospiro la sua collezione di statue, il Cardinale arrivò al suo studiolo. Si sedette alla scrivania e prese il necessario per scrivere.

Con la mano inanellata che tremava un po', si passò le dita sulla pelata, pensando a come cominciare e poi scrisse direttamente alla Contessa, sperando che le sue parole non avessero solo l'effetto di adirarla ancora di più nei suoi confronti, spingendola a fare esattamente il contrario di ciò che lui caldeggiava.

Le chiese notizie dei suoi figli, in particolare di Cesare, rassicurandola sul fatto che i piani per il futuro di quel ragazzo erano ancora ben delineati e da lui protetti, e poi passò alla parte che interessava il papa.

Pur senza esagerare coi toni, la invitò a prendere in considerazione l'ipotesi di lasciare lo Stato a Ottaviano in via definitiva.

'Ormai – aveva scritto, sentendo il cuore pompare ansia nelle vene – vostro figlio Ottaviano ha espiato per la sua colpa e si è pentito molto per la sofferenza che vi ha arrecato e in più è prossimo al suo diciottesimo anno di vita, è buon tempo, dunque, che sia Conte non solo di nome, ma anche de facto.'

Si mise d'impegno nell'aggiungere qualche frase che avrebbe potuto lasciar capire alla cugina il vero motivo della sua lettera, sperando che la donna desse più colpe al papa che non a lui, e poi firmò in calce, ormai distrutto dalla tensione.

 

I soldati papalini avevano dato l'attacco al castello di Bracciano, guidati da un furibondo Juan Borja che, per la prima volta, si era mescolato ai suoi e si era dato da fare con scale e armi.

Stava cadendo qualche fiocco di neve e spirava un vento freddissimo e tanto violento da ridurre la gittata dei cannoni, rendendone la precisione inferiore alle aspettative.

Bartolomeo, però, che stava a capo dell'artiglieria, non si lasciò impensierire e ordinò che continuassero a colpire, non curandosi di quei problemi.

“I servi del papa sono tanti! Non importa chi colpite! Mirate alla massa!” gridava, dando di quando in quando qualche pacca sulla schiena ai suoi.

Anche in battaglia, era difficile sentire la voce di Bartolomeo d'Alviano e questo più di ogni altra cosa parve infervorare i soldati che, consci della straordinarietà della situazione, caricavano le bocche da fuoco a una velocità folle.

Bartolomea, invece, stava sui camminamenti, assieme ai fanti e agli arcieri e respingeva ogni offensiva che le si presentava.

A un certo punto i soldati del Borja riuscirono a issare una scala d'assedio senza che gli uomini degli Orsini potessero respingerla per tempo.

Juan, reso euforico dalla rabbia, si era messo a salire i gradini per primo, la spada sguainata in mano, lo scudo fissato all'altro braccio, e l'armatura luccicante d'oro che sfidava la neve e il vento.

Teneva in testa l'elmo, ma la celata non era abbassata, perché il giovane trovava troppo difficile salire quella scala ripida con una visuale tanto ristretta.

“Lui è mio.” sussurrò Bartolomea ai suoi, quando si accorse che era il figlio del papa, il primo soldato sulla scala.

Gli altri le si allontanarono un po' e quando Juan arrivò in cima, Bartolomea emise un profondo grido di battaglia e caricò il braccio della spada, pronta a colpire.

Il Borja vide i suoi occhi scuri, i suoi capelli neri sciolti al vento e poi la sua armatura e gli abiti di cuoio color pece. E infine vide la spada.

Quando la lama venne calata dall'alto, diretta alla sua testa, Juan si ritrasse, istintivamente, senza nemmeno pensare che alle sue spalle altro non c'era se non il vuoto e la colonna di soldati che stava salendo la scala dietro di lui.

La punta della spada di Bartolomea sfiorò appena la guancia del figlio del papa, facendone stillare un paio di goccioline di sangue.

Juan avvertì il bruciore di quello che era solo un graffio, ma poi, molto più agghiacciante, sentì il nulla dietro di lui e ricadde indietro.

Il colpo venne attutito da tutti quello che lo seguivano e il Duca di Gandia, per sua grande fortuna, non si fece nulla.

Tuttavia, tenendosi una mano guantata di ferro sulla misera ferita che già non sanguinava nemmeno più, Juan cominciò a correre, scappando a gambe levate verso il suo accampamento.

Intanto, dal castello, si alzarono risa e suono di piedi battuti ritmicamente in terra in segno di ammirazione per Bartolomea Orsini e di scherno per Juan Borja.

Chiamando il marito con ampio gesto della mano, poi, la donna fece sì che Bartolomeo le fosse subito al fianco e, levandogli la cervelliera, gli diede un lungo e profondo bacio davanti a tutti.

I soldati degli Orsini scoppiarono in moti di approvazione e urla di incitamento, mentre i loro signori continuavano a baciarsi, come mai avevano fatto in presenza di testimoni, mentre Juan ormai era ben lontano dalla vista di tutti.

Gli uomini del figlio del papa videro benissimo quella scena e così, in un battito di ciglia, dopo essersi disimpegnati dagli ultimi scontri, cominciarono a imitare il loro comandante, dandosela a gambe.

Bartolomea, staccatasi finalmente dalle labbra del marito, gli disse di tornare ai cannoni e poi ricacciò indietro gli ultimi due soldati che stavano ancora cercando di scalare le alte mura del castello.

Uno di questi riuscì ad affibbiarle un colpo molto forte alla spalla, con il piatto della spada, mentre l'altro, ormai disarmato, per qualche secondo era riuscito a stringerle le mani al collo.

In entrambi i casi, però, la donna aveva finito per infilzare i nemici sfruttando uno dei pochi punti deboli delle loro corazze e li aveva mandati al Creatore, gettandone i cadaveri giù dalle merlature.

 

Bianca Riario si passò tra le dita il pesante broccato che Giovanni Medici le aveva appena regalato.

“Spero che sia di vostro gradimento.” disse l'uomo, mentre la ragazzina guardava ancora incredula quella stoffa preziosa: “A Milano ne fanno grande uso. È proprio da lì che l'ho fatto arrivare., sapete? Immagino che anche vostra madre sarà felice, di vedervelo indosso.”

La figlia della Contessa, che aveva ricevuto in dono anche alcuni libri che il fiorentino si era premurato di farle arrivare direttamente da Firenze, non aveva più parole per ringraziarlo.

Poco prima, il Popolano aveva fatto avere anche a quasi tutti gli altri figli della Tigre i loro regali.

Si trattava per lo più di stoffe molto preziose, e di qualche giocattolo per i più piccoli. Se per il broccato di Bianca aveva speso circa trecento ducati, però, per le sete e i velluti che aveva comprato a Ottaviano aveva sborsato almeno il doppio, ma dallo sguardo brillante che il giovane Conte aveva fatto nell'aprire il suo presente, Giovanni era stato certo di aver fatto centro.

Da quando era stato rilasciato, Ottaviano vestiva con abiti prestati, o riadattati, e in modo abbastanza sciatto, mentre l'ambasciatore aveva sentito dire in giro che il ragazzo, prima della catastrofe della morte del Feo, fosse sulla strada del padre, per quanto riguardava il gusto per gli abiti di lusso.

“Non so come ringraziarvi.” disse Bianca, ripiegando con cura il broccato e sorridendo.

Lei e Giovanni erano nella stanza dei giochi e con loro c'era solo una cameriera dai capelli molto corti, amica della ragazzina.

Fu proprio lei, osservando con attenzione il prezioso dono del fiorentino, a esclamare: “Sarebbe perfetto per un abito da sposa!”

A quelle parole, Bianca si rabbuiò appena e sussurrò: “Io mi sono già sposata.”

“Non è detto che Astorre Manfredi sia il vostro ultimo marito – la contraddisse Giovanni, allacciandosi le mani dietro la schiena e preparandosi a congedarsi – siete ancora così giovane... E c'è una guerra alle porte. Date ascolto a me: prima o poi Astorre Manfredi potrebbe morire o il suo tutore trovare una scusa per cancellare la vostra unione e voi potrete innamorarvi di chi vi pare.”

“Ma mia madre...” provò a obiettare Bianca, benché quell'idea le stesse aprendo una nuova speranza nel petto.

“Credo che vostra madre in fondo la pensi come me.” concluse il Popolano, senza ammettere repliche: “E ora scusate... Devo ancora passare da vostro fratello Bernardino.” e così dicendo, lasciò la figlia della Contessa e la sua cameriera libere di parlottare come meglio credevano.

Attraversando il cortile della rocca coperto di neve, Giovanni, che era prima passato dalla sua camera per recuperare l'ultimo pacchetto, riuscì finalmente a trovare il piccolo nella sala delle armi.

“Posso parlare un attimo con messer Bernardino?” chiese il Medici al maestro d'armi.

Quello lo guardò un po' stranito, poi scosse le spalle: “Se ne avete interesse...”

Il fiorentino, allora, prese da parte il figlio più piccolo di Caterina e, dopo avergli spiegato a grandi linee il perché del suo regalo, gli porse un lungo pacco di stoffa pesante.

“State attento, quando lo aprite.” disse Giovanni, un po' divertito nel vedere l'espressione meravigliata e piena d'aspettativa del bambino.

Bernardino era veramente molto bello. Ricordava parecchio sua madre, anche se aveva i capelli più scuri. Aveva i suoi stessi occhi.

Tuttavia il Popolano si rese conto che in quel piccolo c'era anche molto del padre. L'espressione, la forma del naso, l'ovale del viso... Tutti quei dettagli ricordavano la statua del Barone Feo che stava davanti alla rocca.

Il piccolo scartò il regalo con grandissima attenzione, proprio come il fiorentino gli aveva detto, e quando dentro vi trovò una spada corta, che per un uomo adulto sarebbe stata poco più di un gladio, ma che per un bambino della sua età era un'arma dalle dimensioni notevoli, i suoi occhi grandi corsero al Medici: “Ma è davvero per me?”

Giovanni annuì e poi guardò il maestro d'armi: “Insegnategli a usarla bene, mi raccomando.”

 
   
 
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