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Autore: LaFormicaElettrica    01/09/2017    1 recensioni
"Forse sono un fantasma, un fantasma di un ragazzo morto qui dentro tempo fa, di cui però non conservo nessuna memoria affettiva, solo memorie pratiche su come funzionano le cose. O forse sono un tipo di animale molto raro, che l'uomo non ha ancora scoperto, un animale senziente. O forse ancora una specie di semi dio, un angelo caduto, o un demone emerso dal sottosuolo, o dalle fogne."
Genere: Introspettivo, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non mi aspettavo una risposta del genere.

Avrei preferito se avesse deciso di non rispondermi, di troncare i contatti con me, o almeno di arrabbiarsi, di chiedermi se la stessi prendendo in giro.

Non mi sarei mai aspettato da lei quel modo di fare ambiguo, opaco.

Quando le chiesi se mi credeva lei mi rispose che capiva la mia disperazione, che le dispiaceva che stavo così male. “ma credi alla mia storia”? Ribattevo, e lei mi proponeva un timido si, per poi subito tornare a parlare delle mie emozioni, e di come avrebbe voluto guarire la mia sofferenza. “Mi accetti per come sono?” “io ti capisco”. Le mandavo delle foto del mio volto orribile, e lei due volte su tre faceva finta di non averli ricevuti, oppure mi rispondeva semplicemente con un “ciao”, come se il mio fosse stato un modo come un altro per aprire la conversazione, come se quella foto non ci fosse proprio.

Si era ritirata lontano da me. I miei tentativi di raggiungerla si appiattivano contro lo schermo dello smartphone e restavano lì, parole e foto che restavano schiacciate su quel vetro luminoso, mentre lei se ne nascondeva dietro, lontana, continuando a vivere la sua vita, invisibile a me.

I miei modi si fecero col tempo più violenti. La contattavo spesso, anche sei, sette, otto volte al giorno. Le mandavo dei video terrificanti, nei quali mi riprendevo mentre piangevo o vomitavo la mia roba, e di solito glieli inviavo in dei momenti precisi, quando sapevo che era a lezione all'università o fuori con gli amici. Volevo rovinare i momenti più felici della sua vita, contagiare la realtà che la avvolgeva e rassicurava con l'orrore della mia esistenza, far marcire il suo mondo e le sue certezze.

Qualsiasi cosa facessi, però, lei non smise mai di rispondermi. I suoi modi si fecero sempre più formali, le sue parole svuotate e ripulite da tutto quell'affetto fatto di emoticon e punti esclamativi che le aveva colorate fino qualche settimana prima, il suo linguaggio ridotto a formule di compassione che mi concedeva oni volta, come lanciando degli spiccioli a un mendicante molesto, per potersene liberare e proseguire sulla propria strada. Mai una volta, però, mi negò quegli spiccioli, né mai io smisi di cercare la sua compassione.

 

Del resto è proprio per questo che ora sono qui. Non ho mai perso la speranza che lei possa tornare a scaldarmi con le sue parole, a comprendermi come faceva all'inizio. Questa speranza è l'unica cosa che mi permette di sopravvivere qui dentro.

Appena ieri, scorrendo per l'ennesima volta durante la mattinata sul suo profilo facebook, ho letto che la sua coinquilina avrebbe dato una festa per il suo compleanno l'indomani. Così ho scritto a Caterina, le ho detto che sarei passato anch'io alla festa perché avevo un paio di amici tra gli invitati. Lei, con la sua cordialità formale, mi ha risposto che le andava bene, solo che lei sarebbe arrivata un po' più tardi alla festa perché era da un'amica a studiare fino a cena.

Quindi oggi, verso le sei, mi sono incamminato a piedi. Ho percorso circa dodici chilometri, prendendo vie secondarie, addentrandomi tra i vicoli, cambiando marciapiede se vedevo qualcuno avvicinarsi nella mia direzione, facendo di tutto per restare il più possibile anonimo e distante dagli altri. Ho coperto quanta più pelle ho potuto con tutti i vestiti raccolti dagli spogliatoi del campo da calcio e ho indossato questa maschera che avevo creato tempo addietro con la mia roba, per gioco, modellandola sui tratti del ragazzo a cui ho rubato le foto da internet per usarle sul mio facebook. La pelle della maschera è un po' troppo chiara, e si fa quasi trasparente se viene esposta ad una luce troppo forte, ma per il resto i tratti del viso e la sua consistenza sono molto realistici.

Questo è il mio ultimo tentativo. Quando arriverà le chiederò di restare un po' da soli io e lei, magari entreremo nella sua camera, e quando sarò lì mi toglierò la maschera. Si ritroverà la mia verità davanti agli occhi, e non potrà far altro che iniziare daccapo ad accettarla o rifiutarla del tutto, e cacciarmi via. In ogni caso vedrò una sua reazione, vedrò i lineamenti del suo volto distorcersi per la paura, o per la tristezza, comunque cambiare. Riuscirò finalmente a toccarla di nuovo, a provocare qualcosa di vero in lei.

 

-Sei un'amica di Sara?

Di nuovo la voce di Pietro. Lo cerco con lo sguardo nella stanza. Eccolo lì, in piedi, con una bottiglia di birra in mano e lo sguardo abbassato sul divano davanti a lui. Il divano è di spalle rispetto a me, e dell'interlocutrice di Pietro non vedo che la parte superiore della testa, coperta da una folta chioma di capelli neri, spuntare da oltre la spalliera.

Un gruppo di ragazzi, seduti intorno al tavolo da pranzo nell'angolo cottura, iniziano ora a suonare la chitarra e cantare, riempendo col loro rumore tutta la stanza. Gli altri ospiti, radunati intorno al tavolo del buffett o appoggiati ai muri e sui braccioli del divano, cominciano a parlare gesticolando e scandendo le parole con esagerati movimenti della bocca, per farsi capire nel fracasso della musica. Anche la voce di Pietro viene sovrastata, e neanche sforzandomi di leggere il suo labiale riesco a capire di cosa stia parlando.

Mi chiedo perché si comporti in quel modo. Se ne va in giro per la stanza a presentarsi con cordialità agli invitati, a chedergli se hanno bisogno di qualcosa, come fosse il proprietario di un ristorante di lusso con la responsabilità di far sentire a proprio agio i clienti.

 

Il telefono vibra. Lo prendo, lo sblocco.

-Ehi come va? La mia amica purtroppo si è sentita male, siamo tornate da lei, non credo che riuscirò più a venire :( spero che ti divertirai con i tuoi amici!

Resto qualche secondo a fissare lo schermo.

Non verrà.

Sento come un telo scivolare via dalla realtà, lasciarla nuda, spoglia da tutte le speranze.

Non ho più parole. Non riesco più a tessere discorsi intorno alle cose.

Non ho neanche più motivo di essere qui.

Ovviamente non ci sono mai stati quei due amici che ho usato come giustificazione per essere qui stasera. Se solo avesse dato un minimo di valore alla mia storia lo avrebbe capito, ma lei la mia storia non l'ha mai voluta accettare. La mia storia è uno di questi stracci che ora se ne sta ammucchiato per terra, caduto via dal mondo, insieme all'intera matassa dei miei pensieri, dei miei dubbi, delle mie emozioni. Non ho più niente.

Sento solo il caldo. C'è un caldo insopportabile qua sotto.

Mi alzo, mi tolgo il cappello, mi tolgo gli occhiali, mi tolgo i guanti, infilo le dita tra il collo e il tessuto gommoso e sfilo la maschera.

Non sento più la musica, non sento più il brusio dei discorsi tra gli invitati, non sento neanche la voce di Pietro.

Però continuo a sentire caldo, quindi lascio che anche l'impermeabile mi scivoli via dalle spalle.

Ora va molto meglio.

Alzo lo sguardo. Mi fissano tutti.

Hanno gli occhi sbarrati, le bocche semi aperte. Alcuni si guardano intorno con i palmi delle mani rivolti verso l'alto, come cercassero spiegazioni, mentre altri camminano indietreggiando oltre i mobili, con passi lenti e trattenendo il respiro.

Anche la ragazza con cui Pietro parlava fino a pochi secondi fa si è alzata, e ora il suo viso, piccolo e pallido dentro la cornice dei capelli, è contratto in un'espressione arrabbiata. Inizia a rivolgermi contro uno strano urlo scimmiesco

-Ooh!Ooooh!Oh!

È come se per lei la mia assurda presenza fosse un affronto diretto alla sua persona.

Guardo Pietro.

Se ne sta stretto nelle spalle e guarda i presenti con un'aria mortificata, mentre la sua bocca continua ad allargarsi e restringersi senza mai chiudersi del tutto, come cercasse di pronunciare una frase di scuse, ma ogni volta che ne pensasse una gli sembrasse ridicola rispetto alla situazione, una risposta idiota a una domanda troppo assurda.

Neanche lui, come del resto mi aspettavo, è stato in grado di accogliere una cosa del genere.

Sono una grumo di orrore depositato sulla superficie pulita della normalità. Lo sono in questa stanza, nei loro sguardi, come lo sono nel mondo.

Ora che ne ho la certezza mi sento molto più calmo. Mi sembra tutto così logico, vedo con chiarezza il problema e la soluzione matematicamente esatta che ne segue.

Non dovrei esistere, quindi non posso continuare ad esistere.

C'è una porta-finestra accanto al frigorifero. Oltre c'è un piccolo balcone affacciato su una strada secondaria e vuota.

Siamo al terzo piano, ad un'altezza sufficiente perché il mio corpo fragile, schiantandosi a terra cadendo da qui, faccia la stessa fine che farebbe un palloncino pieno d'acqua.

Mi spargerei in una macchia appiccicosa sull'asfalto. Di me non resterebbe nient'altro. E quando domattina passerà la nettezza urbana, a spruzzare un getto d'acqua contro i miei resti per farli colare giù nel tombino, anche l'ultima traccia della mia esistenza sarà pulita via dal mondo.

 

   
 
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