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Autore: StormButterfly    09/09/2017    1 recensioni
L’amore può infrangere ogni regola con la forza di un uragano.
Quando Rain Donovan scappa di casa non sa dove andare, né a chi chiedere aiuto. L’unica cosa che
desidera è lasciarsi alle spalle quel vuoto che la sta soffocando da quando, un anno prima, ha
perso il padre e una parte dei propri ricordi in un incidente.
Da allora ha trovato un solo modo per sopravvivere ai maltrattamenti subiti in silenzio tra le mura
di casa: seguire le regole che si è imposta rinunciando a tutto, anche al fratellastro Duncan di cui è
segretamente innamorata.
Quello che ancora non sa è che quella notte l’incontro con un misterioso ragazzo e il ritorno di
Duncan nella sua vita sconvolgeranno ogni regola, costringendola a fare la scelta più importante di
tutte. Continuare a scappare o lasciare che l’amore la investa come un uragano, restituendole quei
ricordi che potrebbero lasciarla spezzata?
Quando il cuore batte sino a togliere il respiro, c’è una sola regola: non innamorarsi.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Dopo ieri sera, credevo non avrei mai più rimesso piede in questo posto.
E invece mi trovo qui, ferma sulla soglia a osservare la stanza che è stata il mio rifugio per tutti questi anni. L’unico posto in cui ho sempre potuto essere me stessa. La luce fredda del giorno si insinua come un ospite timido tra le tende, rischiarando appena l’ambiente immerso nella penombra.
Rabbrividisco. Indosso lo stesso vestito di ieri sotto la felpa, Duncan me lo ha fatto trovare sul letto insieme alla mia biancheria e a un bigliettino in cui mi chiedeva se non sia troppo grande per usare completini a fiorellini. Sorrido sbuffando e scivolo lentamente verso la finestra socchiusa, dalla quale entra un filo di vento gelido che riempie la stanza del profumo salmastro del mare. Da qui posso vederlo, e anche se adesso mi spaventa, in passato mi sono spesso soffermata ad ammirarne la danza selvaggia, desiderando essere come queste acque grigie e infuriate, capace di riversare fuori quello che si agita dentro di me. Ma le mie gambe sono fatte per scappare, non per danzare.
Allontano il viso dal vetro e mi avvicino al letto su cui ho lasciato l’mp3. Lo accendo e lascio che gli Skunk Anansie riempiano il silenzio, chiudendo gli occhi e cominciando a muovere la testa a destra e sinistra seguendo il ritmo della batteria. Mi lascio trascinare dalla chitarra e dalla voce arrabbiata della cantante mentre riapro gli occhi e faccio scorrere lo sguardo su ciò che mi circonda. I poster, le foto, la brochure del college e i disegni di Duncan appesi alla parete, scarabocchiati con i gessetti dalla sua manina paffuta di bambino o tracciati con la china dalla sua mano di adolescente. La stessa mano che ha più volte asciugato le mie lacrime e si è serrata in un pugno, pronta ad alzarsi in mia difesa contro chi, a scuola, si prendeva gioco di me. Ma che ha sempre tenuto abbassata quando nei miei occhi scorgeva una supplica silenziosa.
Mi soffermo sul disegno di una farfalla. L’ho preso dalla sua camera dopo che lui se n’è andato via di casa. Le ali maestose sono spiegate in un’armonia di nero e blu, fragili e magnifiche. Immediatamente, il mio sguardo si sposta su una foto che ci ritrae alla festa del suo diploma. Io indosso questo stesso vestito e ho ancora i capelli ramati, mentre lui non è molto diverso da ora, se non per l’assenza del piercing al sopracciglio. Ci è stata scattata mentre ballavamo, e lui doveva aver appena detto una stupidaggine perché io sto ridendo a crepapelle. È l’unico ricordo che mi rimane di quella sera di luglio di un anno fa, la stessa in cui ho perso mio padre e dimenticato dieci mesi della mia vita.
È bastata un’unica scelta sbagliata per mandare il mio mondo in pezzi. E sono stata io a farla.
 Ma per quanto mi sforzi, non riesco a ricordare il perché. Perché ho chiesto a papà di venirmi a prendere prima, perché non sono rientrata con Duncan.
Continuo a fissare la foto, in cerca di una risposta che non sono sicura di voler trovare. L’espressione serena che abbiamo mi appare lontana anni luce, appartenuta a un altro Duncan e un’altra Rain. Non so se un giorno ritroveremo quella complicità che ci permetteva di essere felici nonostante tutto. So che, dopo quella sera,  qualcosa tra di noi si è spezzato e non è possibile riunire i pezzi.
Ogni scelta che facciamo ha delle conseguenze, e dopo non si può tornare indietro.
Spengo il lettore e sollevo la testa. Sulla mensola, tra le sfere di vetro con la neve che papà mi portava dai suoi viaggi, ce n’è una con una profonda filatura. Con un nodo alla gola, osservo la crepa che si dirama nel cielo di vetro in cui è racchiusa una piccola Tour Eiffel, poi distolgo lo sguardo e lo porto su una foto dei miei genitori. Papà stringe la mamma che lo guarda con un’espressione colma di amore, la stessa espressione che mi rivolgeva quando mi impiastricciavo le mani e i vestiti nel goffo tentativo di aiutarla a fare i biscotti.
Un disegno raffigurante la mia famiglia così com’era quando avevo dieci anni mi ricorda che per un po’ sono stata felice anche dopo la sua morte. Ho disegnato mio padre con indosso un buffo maglione, di quelli con i ponpon che amava portare nel periodo di Natale. In una mano stringe la mia, che somiglio a uno dei folletti che popolavano i disegni infantili di Duncan. Accanto a me c’è lui e al suo fianco Riona, così come la vedevano i miei occhi di bambina: bella, con il grembiule e una corona in testa, perché il suo nome significa regina. Tutti e quattro sembriamo felici, per quanto possano sembrarlo quattro scarabocchi. Osservo l’immagine della mia matrigna, e stento a credere che sia stata una buona madre anche per me, una che a Natale e per il mio compleanno faceva i biscotti allo zenzero per non farmi sentire troppo la mancanza della mamma.
Mi chiedo come sarebbe ora se mio padre fosse ancora vivo, o se Harry, il suo nuovo compagno, fosse un uomo migliore.
Con un profondo respiro mi dirigo all’armadio, da cui tiro fuori un borsone abbastanza capiente che poggio sul letto.
Sfilo le cuffie e butto l’mp3 sul fondo, poi faccio lo stesso con la felpa che indosso. Prendo dei maglioni, dei jeans e un beauty case, e stipo tutto in modo che ci sia spazio anche per delle scarpe.
Chiudo la borsa ed esco dalla stanza, diretta al bagno, ma quando mi avvicino alla porta sento la voce di Riona strozzata da un singulto violento.
Non è la prima volta che la sento vomitare dopo essersi ubriacata, e non mi è difficile immaginare come sia andata avanti la serata di ieri dopo la mia fuga.
Torno velocemente indietro, ripetendomi che questa sarà l’ultima volta e che da oggi potrò lasciarmi tutto questo alle spalle.
Rientrata in camera, mi avvicino alla scrivania sulla quale ho lasciato il portatile e il cellulare. Nessun messaggio di auguri nemmeno oggi. Prendo la tracolla appesa alla sedia, con dentro le chiavi e il portafogli, e ci seppellisco il telefono. Mentre stacco la brochure dal muro, la mia attenzione viene catturata da una candela che profuma di marshmallow. La sposto e tiro fuori il libro che avevo nascosto tra i volumi dell’enciclopedia. Dopo che papà è morto, Riona ha buttato tutte le sue cose. Ho salvato solo questo, perché era nella mia borsa quando mi sono risvegliata in ospedale. Un’infermiera mi disse che era passato un ragazzo a riportarmela. Non ho mai saputo chi fosse, probabilmente uno degli amici di Duncan che erano alla festa, forse Michael Walsh o Rob Sullivan, un idiota che giocava nella squadra di rugby della scuola. Non siamo mai andati d’accordo, ma forse in quei mesi che ho dimenticato le cose tra noi erano cambiate, non lo so. La mia memoria si è bloccata e ogni volta che cerco di riportare a galla un pezzetto di quei dieci mesi sto male.
Afferro il libro. La copertina nera è resa opaca dalla polvere che si è accumulata. Lo apro e inizio a sfogliarne lentamente le pagine sottili, fermandomi quando arrivo a una pagina su cui è adagiato un fiore di melo essiccato. Non ricordo dove l’ho preso, né quando ce l’ho messo, ma sento che il ricordo è celato tra le pieghe della mia memoria, pronto a riaffiorare. Ne osservo la consistenza e il colore, un tempo doveva essere liscio e di un bianco rosato, mentre ora appare ruvido e scolorito come una foto ingiallita.
Una morsa dolorosa mi stringe la testa.
«Hai già finito di fare i bagagli?»
La voce di Duncan alle mie spalle interrompe il filo dei miei pensieri.
Mi volto e lo vedo sulla soglia, con le braccia incrociate sul petto, stretto in un paio di jeans e in un maglione grigio a collo alto. Mi sta osservando con un’espressione dubbiosa.
Chiudo velocemente il libro, in mezzo al quale ho riposto il fiore, e lo sistemo nella tasca posteriore del borsone.
«Ci hai messo più di quanto immaginassi» ironizzo richiudendo la cerniera.
«Te l’avevo detto che saremmo venuti a prendere la tua roba.»
Sorrido rassegnata. È inutile ribattere. Quando si mette in testa una cosa non c’è modo di fargli cambiare idea. Mi volto verso di lui che se ne sta ancora appoggiato allo stipite, e mi scruta con aria inquisitoria. So che sta cercando di capire se ho ricevuto il bentornato da sua madre, ma fortunatamente quando mi ha aperto la porta Riona si è limitata a farmi entrare ed è sparita, probabilmente per chiudersi in bagno.
«Credevo fossi andato a lezione» dico a Duncan. Stamattina, quando ho riaperto gli occhi, era già uscito, ed ero pronta a scommettere che non l’avrei rivisto sino a stasera, magari in compagnia di un’altra modella.
Frugo dentro l’armadio in cerca di qualcosa di comodo da mettermi, sia perché non sopporto più questo vestito, sia perché l’anta mi offre un riparo sicuro dallo sguardo di Duncan, e tiro fuori un jeans e un maglione nero. Mentre richiudo, lui si avvicina al letto e si carica il mio borsone su una spalla.
«Non frequento più il college» dice semplicemente. «Ti aspetto fuori.» Poi se ne va lasciandomi in piedi accanto all’armadio come un’ebete, con il jeans e il maglioncino ancora in mano.
Mentre mi cambio, penso a quello che mi ha detto e non riesco a trovare una spiegazione. L’anno scorso si è iscritto al corso di arte del Dublin College, il suo sogno da quando eravamo bambini. Per quale motivo ci ha rinunciato?
Afferro la borsa col portatile e prendo la brochure e la foto dei miei genitori, per metterle nella tasca della tracolla, poi mi carico le due borse sulla spalla. Esito quando il mio sguardo si posa sul comodino. Nel cassetto, nascosto tra la biancheria, c’è il flaconcino delle mie medicine. Sono tentata di lasciarlo lì, ma alla fine decido di prenderlo.
Mi guardo intorno un’ultima volta. Non so se e quando metterò nuovamente piede qui dentro, non è facile allontanarmi da questo posto intriso di ricordi, anche se è qui che abitano le mie paure, e quando mi chiudo la porta alle spalle mi sento svuotata.
Scendo velocemente le scale che portano all’ingresso. A metà, l’occhio mi cade sul libro di Tolstoj che stavo leggendo ieri sera, aperto a faccia in giù sul gradino. Mentre lo raccolgo e lo metto in borsa, il pensiero di quello che è successo mi investe, costringendomi a chiudere gli occhi e a respirare a fondo per contrastare la nausea.
«Sei ancora qui?» la voce fredda di Riona mi riscuote come uno schiaffo e per la prima volta le sono grata per avermi rivolto la parola.
Attraverso l’ingresso fingendo di non averla sentita, ma lei mi sbarra la strada incombendo minacciosa su di me, gli occhi segnati da profonde occhiaie rese ancora più evidenti dalle tracce del trucco che portava ieri, i capelli biondi raccolti in modo disordinato. Deve avere dormito poco, e dall’odore di alcol che ha addosso ho la conferma di come abbia passato la notte.
«Stavo giusto per andare» rispondo sbrigativa.
   
 
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