Vorrei ringraziare tutti quelli che
hanno ricordato, preferito e seguono questa storia, soprattutto al91 che ha
recensito (spero che anche il resto possa piacerti ;) grazie mille!), ma anche
tutti quelli che hanno letto.
Vi adoro!
E vi lascio al secondo capitolo e,
spero, buona lettura! ;)
Dark Garden
Quando
riapparve, pochi secondi dopo, il cancello di Hogwarts
faceva bella mostra di sé davanti ai suoi occhi, proprio come lo aveva lasciato
mesi prima, e in quel momento, guardandolo, guardando tutto quello che significava
quel posto, non sapeva se gli sembrava fossero passati anni o pochi istanti
soltanto.
Era
così confuso, frastornato, che non credeva che Minerva lo avesse portato
proprio lì come se non fosse successo niente, come se non avesse lasciato che
poche righe abbandonando tutto e tutti. Forse abbandonando anche una parte di
se stesso che sarebbe sempre rimasta tra quelle pietre e tra tutti i ricordi di
cui erano intrise, legate come se fosse stata calce.
Rimase
immobile a fissarlo, solo ogni tanto spostava la testa a destra o a sinistra
per sfiorare le mura con lo sguardo: cosa ci faceva lì? Si chiese, e cosa
avrebbe dovuto fare?
Entrare
oppure no? Andarsene nuovamente?
Erano
troppe domande alle quali dare una risposta, e lui non ne aveva nessuna, fissava
i contorni del castello ed era come non sapere più nulla, come se la sua mente
fosse stata svuotata non appena aveva messo piede sopra quell’erba così
familiare.
Snape
esaminò l’anello che ancora stringeva nella mano, l’Incantesimo Passaporta era svanito, e riuscì ad osservare piccole gemme
nere che s’incrociavano le une nelle altre e una piccola incisione al suo
interno.
«Era
di mio padre.»
Una
voce lo distrasse, facendogli cadere il gioiello dalle dita, e fu solo con
prontezza che lo afferrò poco prima che toccasse terra.
«Hai
deciso di farmi morire d’infarto?»
Minerva
McGonagall era dietro di lui e ridacchiava, mentre Severus cercava di ricomporsi: avrebbe dovuto immaginare
che sarebbe comparsa da un momento all’altro visto che era stata proprio lei a
lasciargli quel sacchetto che lo avrebbe condotto nuovamente su quelle terre
che erano state la sua casa per anni e, forse, lo erano ancora, e sempre lo
sarebbero state, perché nonostante tutto si sentiva di appartenere a quel luogo, di avere ogni singolo angolo
della scuola dentro di sé come la scuola possedeva gran parte di lui stesso.
«Adesso appari dal nulla come Albus?»
«No»
e smise di ridere. «Sapevo che saresti venuto.»
Sapevo di poter contare
su di te…
Perché
sembravano tutti sapere cosa avrebbe o non avrebbe fatto?
Era
così prevedibile?
Snape
si avvicinò e le porse l’anello, ma l’anziana strega scrollò la testa,
rimanendo con le braccia intrecciate al petto: «Vorrei che lo tenessi.»
«Perché?»
«Ho
sempre pensato che un giorno l’avrei donato a mio figlio.»
«Ma…»
«E
vorrei che lo tenessi tu perché ti ho sempre considerato un po’ come un figlio»
continuò prima che il mago potesse muovere obiezioni, sorridendogli. «Un figlio
che vedi poco e col quale parli ancora meno, che comprendi e che hai compreso poco,
che ti fa soffrire e piangere, e che più di una volta ti strappa un sorriso.»
Severus
la guardava, guardava il suo sguardo supplicante che nascondeva sentimenti
materni che avrebbe voluto riversare sul proprio figlio e che invece le scelte
di vita l’avevano portata altrove, ad essere un po’ la madre di tutti gli
studenti – alcuni più di altri – che entravano ad Hogwarts
da bambini e ne uscivano quasi da uomini.
«Andiamo?»
lo esortò, mentre faceva un passo verso l’entrata della scuola, e poi un altro,
fermandosi al terzo per guardare il mago e aspettare che anche lui si muovesse,
ma Snape non lo fece.
«Non
adesso. Io non sono…» e rimase per un attimo in silenzio a fissare il castello
al di là del cancello, poi tornò a guardare Minerva, confuso: «Non adesso»
concluse, semplicemente, per poi voltarle le spalle e andare altrove. Lontano
da lì e da tutto quello che gli ricordava.
Perché
erano ancora troppi i ricordi che lo tenevano ancorato al dolore. Con il
passato ormai conviveva, era stato quel che era stato e non avrebbe potuto
cambiare le cose, conviveva con quello che aveva fatto, con gli occhi azzurri
che aveva estirpato dalla vita su quella stessa torre che svettava e pulsava
alle sue spalle come un cuore ancora vivo e come sangue che si faceva cristallo
affilato pronto a trapassargli il petto.
Ciò
che aveva perso negli anni viveva dentro di lui, ormai, ma esistevano immagini
che ancora gli facevano male e gli toglievano il respiro, troppo recenti per
farne semplicemente un altro pezzo d’anima.
Erano
istantanee non ancora sbiadite di sguardi rubati tra un corridoio e l’altro, di
visite improvvisate per sottrarre momenti sbagliati e baci alcolici. Di occhi
negli occhi e corpi troppo vicini.
O lontani.
Di
scuse d’amanti e verità mai dette.
No,
non era ancora pronto a rivivere tutto quello. Non con quella confusione che
albergava dietro ai suoi occhi e tutte quelle parole vecchie e nuove che si
muovevano frenetiche cercando di non toccarsi.
Continuò
a camminare verso Hogsmeade e poi oltre, Smaterializzandosi
per poi riapparire vicino ad un sentiero che s’inerpicava verso un bosco oscuro
e talmente fitto che si faceva persino fatica a respirarci dentro, ma lui
proseguì, sicuro, Smaterializzandosi ancora e di nuovo fin quando non si trovò
davanti ad una statua decadente di un angelo, logora del tempo e dell’umidità
che permeava l’aria.
Con
il volto triste rivolto a terra, gli aveva sempre un po’ ricordato se stesso
quando andava a nascondersi lì, la osservava ed era come specchiarsi, come
vedere la sua stessa disperazione in quegli occhi di pietra, ma lui, le ali,
non le aveva mai avute. Quelle dell’angelo, invece, erano ancora lì, non più
candide ma ormai sporche, ben ancorate alle sue spalle come lui aveva sempre
avuto dolori e nient’altro, e peccati che ancora lo macchiavano come muffa che
continuava ad espandersi.
Eppure
su quel volto inerme c’era l’ombra di un sorriso, non lo aveva mai notato
prima, soltanto in quel momento si accorse di quelle labbra piegate appena.
Perché
lo vedeva solo adesso? Significava qualcosa?
Aveva
sempre pensato che sorridere era un gesto sopravvalutato, un’azione meccanica
cui la gente dava troppa importanza. Si poteva fingere un sorriso pieno di
felicità mentre dentro si moriva lentamente, un sorriso di cortesia per qualcuno
che si odiava e un sorriso di odio quando in realtà si voleva bene alla persona
che era davanti. O la si amava.
Essersi
accorto soltanto in quel momento delle labbra piegate all’insù di quell’angelo,
significava, dunque, che anche lui doveva farlo?
Lo
guardò di nuovo, in tralice, quella solenne tristezza e solitudine che aveva
amato contemplare per giorni e notti, sorrideva anche, e lui non lo aveva mai
notato.
«Perché
dovrei farlo, eh?» gli chiese come se avesse potuto rispondere in qualche modo
come aveva fatto il piccolo uccello spostandosi e cinguettando e infine volando
via.
Che
sciocco, pensò, che patetico sciocco doveva essere per finire a parlare con una
statua incrostata dal tempo e ricoperta qua e là di muschio.
Ne
percorse gli angoli con le dita come spesso aveva fatto sulla tomba di Dumbledore, ma non c’era niente della sua levigatezza e
candore, era ruvida e sporca, con una patina umida che si appiccicava alla
pelle, e non c’era nulla del calore – e del dolore – che si sentiva addosso
quando pensava al mago che giaceva ormai inerme. Al suo sorriso ormai spento.
Non
c’era niente in Albus del sorriso perfetto
dell’angelo, il suo era così incompleto eppure così vivo e umano da farlo
sentire allo stesso modo, come se meritasse di essere altrettanto vivo e fosse
altrettanto umano. Ma lui era sempre stato soffocato, opaco, un essere
abominevole che aveva peccato d’amore quando l’amore non era mai stato per lui.
E
guardare quell’angelo, improvvisamente gli ricordava il sorriso che non poteva
fare mentre guardava il sepolcro di se stesso farsi più spesso e granitico.
Sarebbe
diventato anche lui una statua da mettere ai margini di luoghi remoti? O forse
lo era già?
Si
sentiva così immobile, impotente. Nient’altro che un pezzo di marmo che pian
piano si sostituiva alla sua carne.
Sfiorò
di nuovo la pietra in qualche punto, con le dita e oltre con gli occhi, poi,
semplicemente, sfilò al di là di essa, lasciandosi quel sorriso e quella
tristezza alle spalle, quasi fossero il passato, e salì gli scalini di roccia
logora.
Dovette
prestare più attenzione del solito per avanzare, quel paesaggio ormai era
diverso dall’ultima volta che vi aveva messo piede, c’erano profonde crepe
sulle scale, pezzi in bilico e erba che ne aveva confuso i contorni, facendoli
quasi scomparire; alcuni piccoli rampicanti si ritiravano al suo passaggio,
riconoscendo nei suoi passi la magia che li aveva fatti rinascere, e poi altri
ancora, in alto, lenti e poi veloci, finché non scoprirono un cancello di ferro
che sembrava composto di rami e foglie neri e lucidi.
Lo
spinse in avanti a fatica creando un cigolio sinistro che spezzò per un attimo
la quiete tutto intorno, quella sorta di oasi che lo aveva accolto più di una
volta in quegli anni.
Ancora
ricordava perfettamente la notte in cui era caduto ai piedi dell’angelo,
sembravano passati che pochi giorni, eppure era molto il tempo trascorso da
quando aveva levato la bacchetta contro Albus
gettandolo ormai morto tra le braccia della gravità.
Era
stato una statua priva di dolore e sentimenti di fronte alla gioia degli altri
e del suo Signore, moriva dentro mentre loro ridevano, e aveva continuato a
morire dentro aspettando il momento in cui avrebbe potuto andarsene, scappare a
piangere ogni lacrima che aveva in corpo fino a togliersi l’anima come un
vestito ormai logoro e da buttare. Uno straccio inutile.
E
lo aveva fatto. Era corso lontano, in un posto che aveva scoperto per caso e
aveva continuato a correre finché non aveva visto quella pietra scolpita così
familiare e vi si era aggrappato disperato come se fosse stato sul punto di
affogare in un mare in tempesta, cercando con forza di stringere le dita ai
bordi di una barca, e lui le aveva strette ai piedi di marmo fino a farsi male,
fin quando non aveva visto il sangue imbrattare tutto quel candore.
E
aveva pianto davvero ogni lacrima mentre il verde che inghiottiva l’azzurro gli
aveva riempito gli occhi per poi uscire di nuovo e cadere a terra, e strisciare
tra le foglie e i rami finché non avevano preso vita e si erano fatte da parte
per condurlo oltre tutto quello, lì dove sarebbe stato solo con se stesso. Solo
con il suo dolore.
Ed
era tornato in quel luogo, lì dove aveva scoperto di poter essere semplicemente
Severus Snape. In silenzio.
Nel buio e nella solitudine.
Ed
era scappato da Hogwarts, ed era tornato lì, in tutto
quello per riuscire a capire, ma cosa? Cosa esattamente doveva comprendere di
se stesso e di quello che doveva fare?
Sapeva
chi era. Sapeva quali fossero i suoi sentimenti. Ma era anche ben consapevole
di non poter far nulla, che non dipendesse da lui.
Desiderava
solo che fosse felice, e se quello avrebbe significato non vederlo mai più, lo
avrebbe fatto, e si era allontanato proprio per quello. Alla fine si sarebbero
dimenticati a vicenda e avrebbero continuato le loro vite, ma allora perché
Minerva era andata a cercarlo?
Avrebbe
potuto mandarla via, gli disse una voce nella testa, sarebbe potuto rimanere e
scordarsi quella visita, quelle parole, eppure qualcosa lo aveva scosso,
qualcosa in quello che aveva detto l’anziana strega lo aveva colpito, tanto da
farlo tornare a casa. O quasi.
Percorse
ancora una volta il perimetro del chiosco, lento, guardando ogni angolo come se
lo avesse visto per la prima volta, eppure quelle colonne lo avevano sorretto più
di una volta, e quei rami che correvano lungo la sommità si erano allungati e
stretti spesso per proteggere il suo pianto e chiudere le urla al mondo.
Toccò
alcune foglie, percorrendo ogni estremità con le dita, volendo quasi sentire la
vita che scorreva fluida dentro di esse, ogni singolo atomo sulla pelle come
piccole creature che si muovevano una dietro l’altra.
E
avrebbe voluto ascoltare ancora una volta le sue urla disperate, il grido di
dolore che gli era fuoriuscito quando quel vecchio stolto di Dumbledore gli aveva rivelato che avrebbe dovuto ucciderlo.
Lui.
Levare la bacchetta contro l’uomo che gli aveva regalato una seconda
possibilità, che gli aveva donato una seconda vita.
Ed
era stato costretto ad ucciderlo. Su quella maledetta torre lo aveva pregato di
pronunciare quelle due parole per salvare l’anima di Draco.
«E
la mia anima, Dumbledore? La mia.»
«Tu
solo sai se evitare a un vecchio sofferenza e umiliazione sarà un danno per la
tua anima.» [1]
E
poi lo aveva ringraziato. Lo avrebbe ammazzato e lo aveva ringraziato per
quello.
Molte
notti, dopo aver chiuso gli occhi, aveva sentito spesso quelle parole, ogni
sfumatura di ogni singola lettera gli era apparsa davanti come una processione
perpetua di spettri che non lo lasciava dormire. Né vivere.
E
la solitudine della sua casa non lo aveva mai aiutato in quello.
Poi
era arrivato lui a travolgerlo come un’onda alta e impetuosa, e nelle notti in
cui il suo corpo era accanto al proprio, ogni spettro svaniva pezzo dopo pezzo,
e più lo stringeva a sé, più quelle immagini scolorivano velocemente, fin
quando non erano svanite del tutto.
Alla
fine, però, era lui ad essere svanito.
Riprese
a camminare per fermarsi di nuovo e poi voltarsi e scendere rapido gli scalini
che conducevano lungo un altro sentiero che, man mano che si andava avanti, si
ricopriva di rami e foglie che si facevano via via più fitti creando una sorta
di copertura naturale che faceva filtrare a malapena la luce.
Proseguì
svelto finché il bosco non si aprì su di una piccola radura dove l’erba alta
iniziò pian piano a ritirarsi, così come lunghissimi e intricati rovi si fecero
lentamente più corti ed esili, scoprendo un massiccio ponte in pietra che
conduceva ad una costruzione fortificata che secoli prima – forse, non lo
sapeva con certezza – era stata innalzata sopra ad uno sperone di roccia, una
sorta di penisola che per trequarti si immergeva nella nebbia mentre il resto
si perdeva tra una fitta schiera di alberi.
Era
un luogo isolato, solitario, che aveva sempre rispecchiato il suo essere in
ogni minima parte: impenetrabile a chiunque tranne che a se stesso – o a coloro
che lui avrebbe fatto entrare –, circondato da spesse e forti mura che
proteggevano piante e fiori di diverse specie, delicati e fragili.
Lui,
beh, non si era mai ritenuto delicato né fragile, ma aveva comunque in sé cose
che non voleva mostrare a nessuno, aspetti che nessuno doveva conoscere.
Per
paura di essere compreso fino in fondo? Probabile.
Aveva
imparato con il tempo ad essere così, a nascondersi dietro maschere ogni volta
diverse che tirava fuori all’occorrenza, diverse per le diverse situazioni – o
persone –, ma aveva ancora senso tutto quello?, gli chiese quella fastidiosa
voce sempre nella sua testa. Aveva ancora senso far finta di non esistere, di
essere vuoto? Di non provare mai nulla?
Severus
sospirò dopo aver respirato profondamente tutta l’aria pulita e fredda che
c’era lì, come se quella purezza avesse potuto infondersi nel suo stesso corpo,
ma a cosa sarebbe servito? Lui era quello che era.
Non
desiderava più finzioni né maschere. Bastava tutto. Non gl’importava che la
gente lo amasse o meno, voleva soltanto essere ciò che era. Null’altro.
Voleva
soltanto essere libero di poter amare.
Almeno
una volta nella vita essere libero di amare davvero e senza nascondersi
nell’ombra o nella sua stessa anima che veniva soltanto corrosa e attorcigliata
da ciò che non poteva essere veramente.
Un
passo dopo l’altro attraversò il ponte, svelto, e altrettanto veloce sfilò
oltre un portico di alte colonne che cingeva un giardino su tre lati, mentre il
quarto si apriva ancora oltre, perdendosi più in là tra pietre e boschi.
Arrestò
i passi di fronte ad un cumulo di polvere e niente per poi piegare le gambe,
spostando il mantello da una parte per essere più libero nei movimenti, e si
bloccò per un attimo a contemplare le piante che si ravvivavano davanti ai suoi
occhi e diversi fiori che ripresero a crescere e ad aprirsi ai suoi tocchi
leggeri e a parole appena sussurrate.
La
lavanda cominciò ad allungarsi e a disegnare spighe dove il viola si faceva
sempre più intenso, e continuavano a tendersi mentre un giglio dietro l’altro
si schiudeva, bianco, quasi accecante da dargli fastidio, ma rimase immobile ad
osservarne ogni movimento e a sentirne i profumi che si espandevano nell’aria
così penetranti da riempirgli i polmoni.
E
continuò a guardarli come faceva un tempo, fissando le parole che i loro aromi
creavano nell’aria, quelle che prima avrebbe spiato con soltanto dolore e
lacrime sul volto, adesso si ritrovava a sfiorarle con nient’altro che un
sorriso.
Stava
davvero sorridendo? Stava davvero facendo quello che aveva sentito suggerirgli
la statua dell’angelo minuti prima?
Era
come se avesse voluto dirgli che occhi nuovi avrebbero visto il mondo tutto
intorno in maniera nuova, diversa, ma lui non aveva occhi nuovi, lui era sempre
lo stesso.
Oppure…
«Il
tuo ricordo è sempre stato la mia unica felicità,» e prese una lunga pausa,
trattenendo a lungo il respiro, prima di confidare al silenzio che c’era
intorno, quel nome che era sempre stato un simbolo di sofferenza per lui, che
gli aveva riempito il cuore mentre ogni lettera lo aveva trapassato facendolo
sanguinare.
«Lily…»
pronunciò infine, respirando di nuovo e sentendosi improvvisamente leggero.
Perse
per un attimo l’equilibrio e dovette poggiare una mano a terra, poi fece lo
stesso con entrambe le ginocchia, mettendosi più comodo per osservare le piante
alla sua destra e poi quelle che crescevano alla sua sinistra, in mezzo alle
quali iniziarono a farsi strada giacinti colorati di porpora che si
ingrandivano come sotto al sole della primavera.
Ma
per lui, lì, non era mai stata primavera. Lì ogni singolo grappolo che
sbocciava perpetuo, era stato soltanto il ricordo di tutto il dolore che aveva
provato nella sua vita, di ogni folle sofferenza che lo aveva reso solo ed
odiato, privo di qualsiasi affetto che non aveva mai creduto di meritare.
«Perdonami.»
A Lily, ad Harry, e, forse, anche a se stesso.
Quello
che lui non era mai stato capace di confessare con le parole, che mai aveva
preteso di ricevere – né d’esserne degno –, lo aveva svelato la magia di quel
luogo per lui, trasformando i suoi silenzi in colori e fiori e profumi; e lui
non aveva fatto altro che guardarli uno ad uno, guardare ogni pianta, ogni ramo
e ogni spina che cresceva, sperando, nelle notti di pena e solitudine, di
esservi avvolto fino a farsi prosciugare ogni lacrima di vita che aveva dentro.
Eppure…
Eppure
in quel momento continuava a sorridere. Era una piega appena accennata sul suo
volto, soltanto un angolo alzato, ma gli sembrava di sentire un certo tepore
irradiarsi dentro se stesso, qualcosa di nuovo che mai aveva percepito prima –
o forse faceva solamente fatica a ricordare.
Si
mise seduto a terra, continuando a scrutare ciò che lo circondava, tutte quelle
piante e quei fiori che crescevano e mutavano mentre lui, per un attimo,
ripensò all'angelo, e poi più indietro e ancora più lontano nel tempo. Chiuse
gli occhi al presente per osservare i ricordi, e poi li riaprì, spalancati e
fissi su ciò che aveva davanti.
Di
nuovo avanti.
E
i fiori si mossero come spinti dal vento e cambiarono colori, forme e ogni
cosa. Le tenebre di ogni speranza svanita che tingevano ogni vilucco sparirono e lasciarono spazio ad una nuova
speranza. A tante nuove speranze.
E
la loro assenza di profumo fu coperta da un aroma dolce e delicato che
s’innalzava nell’aria mentre piccoli fiori bianchi con lievi pennellate di rosa
spuntavano ovunque, oltre a dove arrivava la vista, creando un drappeggio
candido più accecante dei gigli che c'erano prima.
Si
rialzò da terra mentre un tappeto di biancospini aveva ricoperto tutta una
porzione di giardino, e ne percorse i confini e li sfiorò, sentendoli
ondeggiare uno ad uno sotto le dita; voleva sentirseli addosso, lasciare che il
loro profumo invadesse i suoi abiti e poi la sua pelle, ma non voleva
calpestarli né rovinare tutta quella bellezza e perfezione, e si limitò a
toccarli e fissarli, sentendosi ad ogni passo più leggero, stranamente più
leggero.
Cos’era
che stava succedendo tutto intorno e dentro di lui?
Girò
su se stesso, lento, fissando ogni angolo che poteva essere lambito con lo
sguardo, e vide tutto mutare, ogni cosa che aveva osservato per anni sparire e
tramutarsi in altro, in nuove piante, nuovi fiori e aromi che mai aveva
sentito.
La
magia di quel posto cambiava come lui, ogni suo stato d’animo, ogni sua parola
che non riusciva a dire, veniva fuori in colori, ogni dolore e ogni pianto che
non fuoriuscivano dai suoi occhi o quelli che, al contrario, non era in grado
di arrestare, colavano a terra, ricrescendo in piante tetre dalle mille spine,
contorte e alte da coprire ogni spiraglio di luce che poteva entrare.
E
adesso sembrava mostrare qualcosa che lui ancora non sentiva pienamente,
qualcosa che sapeva esserci ma che ancora faceva fatica a far uscire.
Trasse
un profondo respiro, e continuò a camminare, un piede davanti all’altro per
allontanarsi, lì dove le colonne non arrivavano, distante da quelle tinte e da
quelle essenze, sotto ad un muro di pietra dove poteva scorgerle appena, come a
non volersene dimenticare seppur non stando vicino, distinguerle un poco da
lontano senza toccarle.
E
si buttò di nuovo a terra, la schiena alle pietre fredde e gli occhi ancora una
volta chiusi a pensieri che erano distanti da lì. A quel volto che sembrava
svanito tra la nebbia e man mano si faceva sempre più nitido: prima pochi
tratti di una matita e poi sfumature e dettagli.
E
sorrisi.
E
una voce.
Riaprì
gli occhi, ma li tenne fissi in alto, oltre il colonnato e oltre il cielo
stesso, cercando qualcosa che non c'era. Qualcuno.
Continuava
a guardare sopra la sua testa quando si sentì sfiorare la mano poggiata a
terra, un tocco leggero che divenne sempre più forte finché non si sentì
avvolgere le dita e poi il polso e sempre più su, sul braccio fino al collo e
fino alle labbra dove si schiuse un fiore viola e nero che sembrava intessuto
nel velluto.
«Comincio
ad odiarvi, sapete?» ma quelli continuavano a sbocciare uno dopo l’altro,
sfumature che si intrecciavano le une nelle altre, smeraldi nel buio e notti
che si perdevano nel verde di infinite speranze.
E
fiorivano, uno ad uno, con estrema lentezza per mostrargli ogni singolo colore,
così piccoli e delicati che avrebbe voluto si preservassero per sempre, come il
significato che si portavano dietro e come ogni pensiero felice che aveva
attraversato la sua vita.
Come il suo viso.
Perché
doveva essere così difficile l’amore?
Perché
ci si doveva legare a qualcuno che non poteva far parte della nostra vita?
Essere
innamorati di qualcuno che non ricambiava o esserlo di qualcuno che amava
un’altra persona, era tutto così stupido e ingiusto che spesso si desiderava
soltanto di non provare mai un simile sentimento.
E
Severus lo aveva bramato spesso, un click nella sua testa e tutto ciò che si
legava a quella parola, svaniva, come se non fosse mai esistito.
Niente
più sentimenti malati per Lily. Niente più peccato d’amore folle per Harry.
Forse
sarebbe stato meglio se non avesse attraversato le loro vite, si disse. O,
forse, sarebbe stato meglio se fosse scomparso davvero dalle loro vite, da
quelle di tutti.
Tutti
quei germogli, però, sembravano svelare lettere della sua anima ben diverse, e
ogni viola del pensiero che si schiudeva in mille colori gli sussurrava ben
altro – o probabilmente erano grida –, qualcosa che aveva paura di rivelare.
E
il fiore proseguiva la sua corsa sulla sua carne.
All’improvviso
una piccola luce volò rapida verso di lui, una luce che da azzurra divenne
rossa e pulsante: era il segno di un intruso nelle vicinanze.
Si
alzò di scatto scostando di dosso il fiore che lo aveva avvolto, e corse veloce
con la bacchetta ben stretta nella mano destra, all’erta, cercando di percepire
ogni minimo movimento o il più piccolo dettaglio che non c’entrava con lui e
con quel luogo, corse più che poteva facendo a ritroso tutto il percorso che lo
aveva portato lì dopo tanto tempo e si arrestò quando si ritrovò di nuovo
vicino all’angelo, lì dove una barriera magica avrebbe dovuto celarlo a
qualunque occhio.
Cercò
di normalizzare il respiro, ritrovare la calma, e attese. Semplicemente.
Una
testa di lunghi capelli spettinati uscì a fatica da un alto intrigo di rami e
foglie, e si guardava intorno, curiosa.
Ficcanaso,
specificò nella sua testa, aggiungendo ancora fra sé che lo era sempre stato,
fin da quando lo aveva conosciuto.
«Come
hai fatto a trovarmi?» parlò, facendo un passo avanti, oltre la barriera; un
passo appena per essere visto.
«Sono
il Ministro della Magia. Il mio lavoro è anche trovare le persone.»
Harry
Potter, come di suo solito, come se fosse stato ancora uno studentello al primo
anno, dall’alto della sua sempre presente arroganza, non si scompose affatto
nell’essere stato scoperto dove non doveva essere, d’altronde Snape non lo aveva attaccato né, fortunatamente, ucciso. Lo
vide sorridere.
“Irritante.”
«Pensavo
fosse firmare scartoffie.» Il giovane mago non rispose, lo fissò sghembo con
una strana espressione sul volto, poi raddrizzò lo sguardo e, semplicemente,
sorrise. Di nuovo.
«Anche
Cornelius Fudge era
Ministro della Magia. E non era il massimo dell’intelligenza» aggiunse, quasi
divertito, vedendo che il sorriso sul volto del giovane Ministro scompariva.
«Non
paragonarmi a quell’inetto!» Lo vide scurirsi in volto, irritato, forse perché
ancora ricordava con risentimento quando non aveva voluto credere al ritorno di
Voldemort, accusando sia lui che Dumbledore.
«Ti
manca, vero?»
Harry
rimase per qualche istante in silenzio, aveva capito benissimo a chi si
riferiva nonostante non avesse pronunciato alcun nome.
«E
a te?»
Anche
Snape comprese senza che aggiungesse altro. «Mi
mancano molte persone che ho perso.»
«Lo
stesso vale per me.»
Rimasero
entrambi in silenzio, come se non avessero più altro da dirsi o forse ne
avevano solo il timore, la paura di quelle voci che potevano rovinare ogni
cosa, ne bastava una sbagliata, una detta in un modo invece che in un altro, e
tutto andava in frantumi, evaporava, e non sarebbe rimasto nulla da ricomporre.
Spesso
era stato così tra di loro: le parole li avevano fatti a pezzi più dei gesti.
Harry si mosse lentamente, come se
avesse avuto paura di avvicinarsi troppo a lui per un motivo che non comprendeva,
e prese ad accarezzare quello stesso angelo che lui aveva sfiorato allo stesso
modo minuti e minuti prima, una sorta di continuità tra le proprie dita e
quelle del ragazzo, e si ritrovò per un attimo, uno soltanto, a desiderare
quelle mani su di sé.
Si massaggiò per alcuni secondi gli
occhi, tornando poi a guardare Harry. «Non mi hai ancora detto come hai fatto a
trovarmi.»
Il giovane Ministro rimase ancora un po’
a fissare quella statua, come rapito – che
cosa aveva di così speciale quel pezzo di marmo? –, poi si voltò verso di
lui: «L’anello.»
«L’anello?» chiese perplesso Snape.
«Sì, l’anello.» Severus
non parlò e quando capì che stava solo aspettando spiegazioni – con le braccia
accuratamente piegate al petto come quando era ancora a scuola – continuò: «Sì,
beh…» e si grattò la nuca, quasi imbarazzato, come lo aveva visto fare tante
volte, quel gesto che lo aveva sempre fatto impazzire, facendogli desiderare
ogni volta di stringere quei capelli tra le dita, con forza, e tirarli mentre
s’impossessava famelico del suo collo.
Cercò di allontanare quelle immagini da
sé e tornò a fissarlo come avrebbe fatto con chiunque altro, in attesa di una
spiegazione.
«Allora?» lo incalzò.
«Quello che ti ha dato la professoressa McGonagall,» ma Snape non disse
nulla, aspettava curioso. «Le ho chiesto di fare un Incantesimo di
Localizzazione, così mi è bastato seguire il segnale ed eccomi qui.»
Continuò a non dire nulla.
«Bene. Bella alleanza, la vostra.»
«Non arrabbiarti, per favore.»
«Non sono arrabbiato.»
«Non ancora, ma il viso inizia a
contrarsi, e la tua deliziosa ruga della
rabbia è già spuntata» e gli sorrise mentre si avvicinava, con il corpo, e
con le dita verso il volto, sfiorando quel piccolo tratto ad un lato della
bocca.
Come gli era mancato il suo tocco, sentire
la sua pelle sulla propria, e quanto desiderava baciarlo in quello stesso
momento sentendolo avvicinarsi ancora, troppo, con l’anima stessa e fino a
sentirne ogni battito.
Scostò di scatto la mano di Harry,
spostandosi di lato per allontanarsi da lui e da quel tormento che cresceva in
lui. «Non possiamo. Non… dobbiamo.»
«Perché?»
«Lo sai il perché. I motivi sono gli
stessi di sempre, quindi non chiederlo.»
«Severus, noi…
noi dobbiamo parlare.»
Cosa c’era di strano in quelle due
parole che erano capaci di affliggere così tanto chiunque?
Snape
ricordava le volte in cui sua madre le aveva pronunciate, quando suo padre era
ancora fuori, ricordava il giorno in cui Lily era corsa da lui, arrabbiata, e
gli aveva detto quelle stesse parole ma con più decisione, senza sospensioni né
tentennamenti; e gli passò davanti persino l’immagine di Dumbledore
che gli aveva sorriso prima di ripetere quelle lettere ben scandite.
Non era mai stato nulla di buono. Mai.
E sapeva che in quel momento sarebbe stato
altrettanto. Come poteva essere altrimenti per uno come lui? Come poteva
esserci la felicità ad aspettarlo dietro l’angolo?
Avrebbe riso volentieri a tutto quello,
a quella pazzia che lo aveva portato lì, di nuovo ai piedi dell’angelo a
soffrire per desideri e sogni che non gli sarebbero mai appartenuti, per dolori
che sembrava dover continuare ad avere.
Avrebbe voluto ridere e dare fuoco ad
ogni dannatissimo fiore che era ricresciuto e ad ogni dannatissima pianta che
continuava a muoversi e ad allungarsi, bruciare ogni simbolo di ogni menzogna a
cui per qualche istante aveva davvero creduto.
Era venuto per chiudere tutto, ne era
certo, e forse era meglio così. Era meglio gettare cumuli e cumuli di detriti
sopra qualcosa che era stato destinato a morire prima ancora di nascere.
Perché allora tutto quel teatrino con
Minerva, l’averlo fatto tornare ad Hogwarts, tornare
lì?
Perché? Si chiese ancora e ancora, nella
sua testa, anche se avrebbe voluto gridarlo. Urlarlo mentre prendeva a calci la
statua e la buttava giù e la distruggeva in mille pezzi e poi ancora mille,
finché non fosse diventata polvere da far volar via, da disperdere per sempre
insieme alle sue speranze.
«Questo non è un buon posto per parlare.
Andiamo» e lo esortò a seguirlo, e, senza dire nient’altro, oltrepassarono
entrambi la barriera magica, salendo poi la vecchia scalinata, uno dietro
l’altro.
In silenzio.