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Autore: LyaStark    26/09/2017    4 recensioni
C'è qualcosa di oscuro all'opera nel villaggio di Briar, una bestia che sembra uscito dai peggiori incubi della popolazione. L'unica possibilità di salvezza è chiamare un Cacciatore, un membro di un'antica razza detestata e ormai quasi scomparsa, il cui compito è sempre stato uno solo: uccidere ciò che di mostruoso c'è al mondo.
Ma a volte i veri mostri non sono quelli che ci si aspetta.
Genere: Dark, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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WHAT KIND OF MAN
 
 
L’ARRIVO A BRIAR
 
“Got no way to prove it
So maybe I’m blind
But I’m only human after all
I’m only human after all”
Human, Rag‘n’Bone Man
 
Cenere e il gruppetto ci misero cinque giorni per arrivare a Briar, il villaggio del Licantropo. Marciarono sulla Strada ogni giorno dalle prime luci dell’alba fino a quando il buio diventava così fitto da impedirgli di vedere dove mettevano i piedi. Cenere poteva camminare molto più veloce di quanto facevano, ma poteva leggere la stanchezza sui volti degli uomini con lei ogni volta che si coricavano e quando si alzavano, al mattino. Nonostante ciò nessuno di loro si lamentò, nemmeno una volta.
Anche se non era molto abituata ad avere compagnia e spesso camminava in silenzio, Cenere incominciò a conoscere i suoi compagni di viaggio. Il capo del gruppetto si chiamava Arn, era il figlio del podestà di Briar. Aveva ventisei anni, una voce piacevole e si rivolgeva sempre a lei con cortesia, non con il disprezzo che aveva sentito così spesso. Se fosse solo perché aveva bisogno di lei, Cenere non sapeva dirlo.
Insieme a loro viaggiavano Sim, il figlio del fabbro, e Garrett, un tagliaboschi che osservava tutto con sguardo serio. Confabulavano spesso insieme, borbottando piano nel freddo, talmente vicini che la condensa dei loro fiati si mischiava nell’aria gelida. Fissavano Cenere quando erano convinti che lei non li notasse e la Cacciatrice si accorse che quando si addormentavano tenevano in mano dei coltelli che sarebbero stati più utili a tagliare il burro che a difendersi. Come se avessero potuto salvarsi se lei avesse deciso che li voleva morti.
L’ultimo era un uomo che tutti chiamavano Blackfriar. Quale fosse il suo vero nome non era dato saperlo. Cenere immaginò che il soprannome derivasse dalla sua veste lunga e tinta di un nero sbiadito, legata in vita da una corda sfilacciata e piena di nodi. Portava una barbetta corta e aveva uno sguardo sveglio e penetrante, circondato da rughe che facevano sembrare i suoi occhi sempre scherzosi. Era l’unico che aveva parlato con Cenere di sua volontà, facendole domande a cui non sempre lei aveva voglia di rispondere.
Fu durante una di queste conversazioni che scoprì che era il fratello del podestà, considerato un po’ stravagante da quando era tornato da Lamea dopo aver rinunciato ai voti. Secondo Cenere era molto più intelligente di quanto volesse far credere e sicuramente era il più istruito del gruppo. Nonostante il capo fosse Arn, capitava spesso che prima di prendere una decisione guardasse verso Blackfriar, come cercando una conferma a quello che stava facendo. Il più delle volte il vecchio frate stava in silenzio e lo guardava sorridendo con le mani in tasca.
Mancavano poche ore al loro arrivo a Briar e stavano arrancando nella neve quando Cenere si decise a porre la domanda che le ronzava in testa da parecchio tempo.
– Come fate a sapere che è un Lycan? –
Arn la guardò come se fosse improvvisamente impazzita. – Infatti è un uomo lupo. –
– Sono la stessa cosa – si intromise Blackfriar prima che Cenere potesse parlare. – Un Lycan, o Licantropo, è un uomo lupo. –
– Buono a sapersi – Arn si rimise a posto lo zaino. – Non ne siamo sicuri, comunque. Che sia un uomo lupo. Ma attacca sempre con la luna piena. –
Cenere scosse la testa. C’erano altre creature che si risvegliavano solo quando la luna era alta nel cielo. C’erano i Gamling, per esempio, e gli Snowman. I Lester attaccavano nelle prime fasi di luna calante e un occhio poco esperto avrebbe potuto ancora scambiarla per piena.
Arn continuò, ignaro dei ragionamenti di Cenere. – Abbiamo trovato delle orme, nella foresta. Orme strane. E i morti che abbiamo trovato, sembrano… –
La Cacciatrice aspettò che Arn proseguisse, ma quando l’uomo sembrò non riuscire a trovare le parole fu Blackfriar a venirgli in aiuto.
– Sembrano essere stati divorati. Da un animale molto grosso. –
– Potrebbe essere stato un orso, o un branco di lupi – commentò Cenere.
Blackfriar scosse la testa. – Nessun animale è in grado di fare un lavoro simile. Almeno, nessun animale normale – il frate guardò Cenere dritto negli occhi. – No, Cacciatrice, non ci sono risposte banali questa volta. C’è qualcosa di malvagio all’opera a Briar. Lo capirai anche tu quando vedrai quello che abbiamo visto noi. –
Il silenzio cadde sul piccolo gruppo che arrancava nella neve e Cenere sentì un brivido correrle per la schiena. Brivido che non c’entrava niente con il freddo e con il ghiaccio che il vento le gettava sul viso.
Fu di nuovo Blackfriar a rompere il silenzio. – Ma ora basta con questi discorsi. Siamo arrivati – disse, indicando la palizzata di legno che si intravedeva in mezzo a quella che presto sarebbe diventata una tormenta. – Benvenuta a Briar, Cacciatrice. –
 
▪▪▪
 
Cenere fu portata subito verso la casa del podestà mentre Garrett prese la sua cavalla e la condusse verso la piccola stalla. Arn camminava in testa al piccolo gruppo, tutto a un tratto impaziente di tornare a casa e di togliersi dalla tormenta. Il vento freddo spazzava il piccolo cortile davanti alla dimora di legno e pietra del capo villaggio.
Dopo l’esperienza di Tula Cenere non era molto ben disposta verso i podestà e si ritrovò a fermarsi sulla porta per qualche secondo. Fu Blackfriar ad invitarla ad entrare, cedendole il passo e accompagnandola con un gesto della mano.
Come a Tula, un fuoco scoppiettava allegro in un angolo della grande stanza. Dentro c’erano sei persone, tutte impegnate in conversazioni sommesse. Su una parete si stagliava un grosso arazzo intessuto con colori che dovevano essere stati splendenti, ma che con il tempo erano ormai sbiaditi. Nel centro della stanza si erigeva un grosso tavolo di legno scuro, liscio e usurato dagli anni. Dietro a uno dei due lati corti si vedevano due sedie con un alto schienale, molto diverse dalle panche che circondavano il resto del tavolo.
Era su uno di questi due scranni che era seduto il podestà, che stava parlando con Arn con un sorriso in volto. Assomigliava a Blackfriar abbastanza da far capire che fossero imparentati. Una lunga barba nera incorniciava il viso sottile, la cui severità era mitigata solo dal sorriso che incurvava la bocca. Aveva le spalle ampie di chi aveva lavorato tutta la sua vita e la schiena era dritta anche se appoggiata allo schienale. Cenere valuto che dovesse avere circa cinque decadi.
Quando la Cacciatrice fece il suo ingresso nella stanza sentì immediatamente il peso di sei paia di occhi su di sé. Inconsciamente, la sua mano corse più vicina all’elsa della spada.
– Padre – si rivolse Arn al podestà rivolgendo a Cenere il più ampio sorriso che lei avesse visto in molto tempo. – Lei è la Cacciatrice. –
Il podestà annuì e si alzò lento dalla sedia. Si avvicinò verso Cenere zoppicando lentamente ma comunque emanando un’aura di autorità. Quando le arrivò davanti tese la mano, guardandola negli occhi. Cenere rimase interdetta per qualche secondo. Non erano in molti che accettavano così spontaneamente un contatto con lei. Più titubante e stupita di quanto volesse far capire, strinse la mano che le veniva offerta.
– Lieto che il sole splenda sul tuo cammino, Cacciatrice. Sei più che benvenuta. Il mio nome è Bandicus, sono il podestà di questo paese. –
– Felice che la neve sia lontana dalla tua strada. Mi chiamo Cenere. –
Bandicus annuì, lasciandole la mano. – Vieni, accomodati. Dovrai essere stanca – la guidò fino a una delle panche, facendole cenno di sedersi. Poi prese per mano la donna che gli si stava avvicinando. – Lei è Galata, mia moglie. –
– Piacere di conoscerti – mormorò Cenere chinando la testa, ancora frastornata da tutta quella gentilezza.
– Il piacere è mio – rispose Galata sorridendo. La moglie del podestà non era una bella donna, ma aveva un’aria così materna che Cenere non poté fare a meno di sorridere a sua volta. Aveva gli stessi capelli castani di Arn, anche se ricci in una maniera più curata. Le guance erano rosate e gli occhi nocciola trasmettevano calore. Deve essere bello avere una madre così.
– Loro – continuò il podestà indicando le altre quattro persone sedute al tavolo. – Sono Nate, Will, Mo e Jean. – Gli uomini fecero qualche educato cenno col capo, mantenendo le loro espressioni gravi. Cenere si accorse che nonostante i sorrisi sui volti di Bandicus e Galata, tutte le persone all’interno di quella stanza avevano un’aria preoccupata. E spaventata.
Il podestà tornò a sedersi sul scranno, guardando gli uomini vicino a lui. Il sorriso sul suo viso scomparve definitivamente.
– Arn ti ha spiegato perché abbiamo bisogno di te? –
– A grandi linee – Cenere si schiarì la voce mentre si metteva più comoda sulla panca. – Ma vorrei sentire tutto dall’inizio. Da voi. Cosa sta succedendo qui? –
Fu l’uomo che si chiamava Nate a prendere la parola. A giudicare dallo spessore dei suoi avambracci, doveva essere il fabbro.
– È iniziato tutto circa quattro mesi fa, dopo una notte di luna piena. Quando ci siamo alzati, al mattino, nella piazza del mercato abbiamo trovato il cadavere di Ben. Sembrava… –
Nate si interruppe scuotendo la testa e fu Jean a finire la frase. – Sembrava divorato. –
– Divorato come? – Cenere sapeva che domande come quella non la rendevano più piacevole, ma aveva bisogno di avere altre informazioni.
– Aveva uno squarcio sulla pancia da cui fuoriuscivano metri di interiora. Una gamba era stata strappata e l’abbiamo trovata vicino alla fontana, cinque metri più in là. Sembrava che qualcosa gli avesse masticato la faccia. –
Cenere fece un lungo respiro, suo malgrado impressionata. – Chi l’ha trovato? –
– Mia figlia – rispose il fabbro con tono amaro. – Ancora non ha ripreso a parlare. –
Cenere emise un fischio basso. – Mi dispiace. –
Jean guardò il podestà. – Siamo stati stupidi – gli disse, per poi parlare direttamente a Cenere. – Ben era l’ubriacone del paese, capitava spesso che passasse la notte fuori. Quando l’abbiamo visto abbiamo tutti pensato a un branco di lupi, anche se era strano che si fossero spinti così vicino al villaggio e che soprattutto nessuno li avesse sentiti. –
– Non potevamo immaginare una cosa simile – rispose Bandicus conciliante.
– Io non la immagino nemmeno ora – si introdusse Mo, freddo. Era la prima volta che Cenere lo sentiva parlare.
– Ed ecco il nostro scettico – commentò ironico Blackfriar, accomodato sulla panca vicino alla Cacciatrice. – Non crede alle cose nemmeno quando ci sbatte il naso contro. –
Il rossore si diffuse sul collo di Mo, punto sul vivo. – Non è questione di non credere. Solo secondo me non era il caso di chiamare una Haris, una Simblantë. –
Tutta la simpatia scomparve dal volto di Blackfriar. – Non usare più quella parola! – il fratello del podestà sbatté pesantemente la mano sul tavolo di legno. – Siamo tra persone civili, qui! –
Cenere si stupì della reazione di Blackfriar. Non erano in molti a sapere l’origine di quella parola, ancora meno le persone che decidevano di non usarla o di redarguire chi la pronunciava.
– È tutto a posto – borbottò burbera, prima che Mo potesse ribattere. Tutto il tavolo stava fissando il vecchio frate con stupore. La Cacciatrice mise una mano sul braccio di Blackfriar, sperando di calmarlo. – È tutto a posto. –
Poi tornò a rivolgersi a Mo. – Se è davvero un Licantropo quello che dovete affrontare, non potete farlo da soli. Avete bisogno di aiuto. –
L’uomo sbuffò, incrociando le braccia. Il fabbro riprese la parola.
– In ogni caso abbiamo pensato che fosse stato un incidente, niente di cui preoccuparsi. Un mese dopo però, appena passata la notte di luna piena, abbiamo trovato i corpi di Lily e Harry sul limitare della foresta. Le loro condizioni erano simili a quelle di Ben. –
– Avevano diciassette anni – mormorò Galata. Aveva una voce bassa, adatta a cantare ninne nanne. – Si amavano, volevano sposarsi. –
Nate annuì torvo e continuò, titubante. – E poco più distante, nel folto della foresta, c’era il cadavere di Lucius. Il padre di Will – gli lanciò un’occhiata come di scuse.
– Mio padre era un bravo arciere – disse l’uomo con una smorfia amara. – Aveva l’abitudine di uscire nel pieno della notte per cacciare e nelle notti di luna piena la luce è talmente chiara da permettere di vedere molto lontano. Ha combattuto quando quella cosa gli si è avventata contro. C’erano segni ovunque, nella foresta. –
– Qualcuno ha letto le tracce? – domandò Cenere. Anche se non sarebbero mai stati bravi quanto lei, magari avevano notato qualcosa di strano. Un brivido di freddo le percorse la schiena. Gestire un Licantropo non sarebbe stata una cosa facile. Nemmeno per una come lei.
Blackfriar sollevò ironico un sopracciglio, indicando Mo con un cenno del capo. – Il nostro conestabile, qui. –
L’uomo non si degnò di rispondere, raddrizzando la schiena e sporgendo il petto in fuori. Cenere lo osservò inclinando la testa, per niente impressionata.
– Non è stato facile – iniziò Mo, sprezzante. – C’era sangue dappertutto e la testa di Lucius aveva tracciato un arco di sette metri per aria, lanciando schizzi ovunque. – Will distolse lo sguardo e Galata gli mise una mano sulla spalla. – Però ho trovato delle tracce. Delle orme. –
Cenere si fece più avanti sulla panca. – Descrivimele. –
– Erano orme di lupo, niente di più. –
– Dimensioni? Pressione? –
Mo fece una smorfia. – Più grandi di qualsiasi altre io abbia mai visto prima. E più calcate. Ma questo non vuol dire nulla. –
Cenere fece un sorrisetto e lo incalzò. – Segni di unghie? –
– Sì. –
– Quanti? –
Il conestabile non rispose.
Bandicus si intromise, parlando piano. – Rispondi Mo. –
– Cinque – L’uomo sputò quasi le lettere, come se ognuna fosse un insulto alla sua persona.
Cenere sorrise, tirandosi indietro. Tutti al tavolo fissavano Mo con occhi spalancati. Blackfriar scosse la testa e guardò schifato il conestabile. – Questo non ce l’avevi detto. –
– Potrebbe significare qualsiasi cosa! – schizzò Mo. – Solo perché vuoi assolutamente che quello che sostieni sia vero non vuol dire che dobbiamo tutti correrti dietro! –
Blackfriar si alzò in piedi facendo scivolare la panca, puntando il dito sul conestabile che si tirò su a sua volta. – Tu… –
– SILENZIO! – Bandicus sbattè le mani sul tavolo e il rumore rimbombò sulle pareti della stanza. – Sedetevi, tutti e due! –
Mo e Blackfriar tornarono a sedersi lentamente, continuando a squadrarsi in cagnesco. Il silenzio si diffuse come melassa nella piccola sala, rotto solamente dallo scoppiettare del fuoco. L’atmosfera era tesa.
– Qualcuno può spiegarmi? – domandò Galata gentilmente.
Cenere si alzò in piedi, portandosi verso il camino. Rimase ferma a guardare nel fuoco per qualche secondo, prima di girarsi. Quando lo fece, sette paia di occhi la fissavano. Mo teneva gli occhi puntati sul tavolo davanti a sé.
– I canidi, tutti i canidi, hanno quattro unghie. Quando lasciano un’orma, si contano solo quattro segni sul terreno, in corrispondenza delle dita. Invece… – Cenere alzò la mano aperta, in modo che tutti la potessero vedere. La rimirò per qualche secondo, muovendola nella luce rossa del fuoco. – Invece, se i segni che si contano sono cinque, vuol dire che qualcun altro si è preso la briga di lasciare un’impronta. – la Cacciatrice fece ondeggiare il pollice su e giù. – Qualcuno con un dito in più. –
– Quindi siamo sicuri – mormorò il fabbro scuotendo la testa. – È un Licantropo. –
– No – rispose Cenere. – Non siamo ancora sicuri. Dovrei vedere l’orma per poterlo dire con certezza. Avete fatto un calco? –
Fu Bandicus a risponderle con voce delusa. – No. Non ci abbiamo pensato. –
Cenere scrollò le spalle. – Non importa. Ma mancano ancora due lune piene al vostro racconto. Andate avanti. –
– Dopo ventotto giorni c’è stato un altro plenilunio – continuò il podestà. – E questa volta eravamo abbastanza preparati. Sapevamo di non dover uscire di casa. Avevo detto a tutti di chiudersi dentro e aspettare che sorgesse il sole – il podestà scosse la testa con aria sconsolata. – Anche così però al mattino erano scomparse sei persone. Fran l’abbiamo trovata vicino all’abbeveratoio. Suo figlio aveva la febbre, deve essere uscita a prendergli dell’acqua da bere. Mary e Jake, moglie e figlio di Luke, erano nella foresta, poco lontane dalle porte. Kit e Mark, i figli di Jean, erano sulla strada principale. –
Jean aveva gli occhi lucidi. – Il nostro cane guaiva disperato – spiegò. – Kit è uscito dalla finestra per andare a tranquillizzarlo. Quando non l’ha visto tornare, Mark deve averlo raggiunto – l’uomo scosse la testa e si alzò piano, allontanandosi dalla stanza.
Bandicus aspettò che Jean se ne fosse andato per continuare. – L’ultimo è Liam. Lui l’abbiamo ritrovato vivo nel bosco. Non so come abbia fatto a sopravvivere. –
– Mi dispiace – disse Cenere, e lo pensava davvero. Quelle che aveva davanti erano le prime persone decenti che incontrava da molti anni e quello era il ringraziamento. Se gli Dei esistevano, erano davvero crudeli.
– Anche a noi – rispose Will mesto.
– L’ultima notte di luna piena ho ripetuto a tutti di non uscire di casa e ho chiuso personalmente il cancello di ingresso del villaggio – ricominciò Bandicus. – Ho pensato che qualsiasi cosa ci tormentasse poteva benissimo restare fuori dalla palizzata. Non è stata una buona idea. –
– L’hai chiusa dentro – mormorò Cenere chiudendo gli occhi.
– L’ho chiusa dentro – ammise il podestà, stringendosi il pugno tra i capelli. Galata gli prese una mano, baciandone il dorso. Bandicus si rialzò e il momento di smarrimento sembrò essere passato. – Quella cosa si è avventata sulla casa dei Lancer e ha sfondato una parete. Li ha uccisi tutti e cinque. –
– E questo è tutto – concluse Blackfriar. – Almeno fino ad ora. –
– Puoi vederli, se vuoi – disse Mo. Erano le prime parole che pronunciava dall’alterco con il frate. – I Lancer, intendo – precisò, quando vide che Cenere lo fissava. – Non li abbiamo ancora seppelliti. –
 
▪▪▪
 
Stanotte ho fatto un sogno. Quando mi sono svegliato ero convinto che fossero ancora qui con me. Ho vagato per la casa, chiamando i loro nomi. Nessuno mi ha risposto anche se per un momento… per un momento mi è sembrato che fossero solo nascosti, come quando giocavamo a nascondino. Poi l’istante è passato e mi sono ricordato che sono morti. Morti e sepolti. Ho bevuto di nuovo e di nuovo mi sono addormentato, talmente ubriaco da non ricordarmi nemmeno il mio nome.
Al mio risveglio il sole era già alto nel cielo. Non avevo la forza per lavorare e avevo finito l’alcol. Sono uscito di casa, per la prima volta dopo quelli che mi sono sembrati anni. L’ultima volta che l’ho fatto è stato per il loro funerale.
La gente ha pietà di me, lo capisco dalle occhiate che mi lanciano. Tutti sono gentili e mi chiedono come sto, anche quelli che come me hanno perso qualcuno di caro. Li odio e li invidio. Non mi merito tutta questa gentilezza. Non ero con loro quando sono stati uccisi. Che tipo di uomo fa ciò? Scomparire quando la sua famiglia ha bisogno di aiuto?
Alcune occhiate che mi vengono rivolte sono di disgusto. Sono quelle che preferisco, il disgusto è tutto ciò che merito. Quando torno a casa e inizio a bere l’alcol che ho appena comprato, penso che vorrei essere morto anche io.
 
▪▪▪
 
Blackfriar e Mo accompagnarono Cenere verso il limitare del villaggio, in una casetta abbandonata vicino all’alta palizzata di legno. Bandicus era rimasto a casa, scusandosi per la sua zoppia che gli impediva di camminare bene nella neve. I due uomini non si parlavano e Cenere si prese quel tempo di silenzio per osservare meglio il villaggio. I loro fiati si congelavano e la Cacciatrice si strinse meglio nella sua casacca pesante.
Briar era uno di quei paesi dove tutti conoscono tutti e ognuno aiuta il proprio vicino. Camminando per le sue strade però Cenere vide molti sguardi tirati e occhiate inquisitorie, rivolte verso alcuni individui che probabilmente erano considerati sospetti. Non si sarebbe stupita se presto ci fosse stato un linciaggio sulla piccola piazza. Le situazioni di quel tipo non erano mai facili da gestire e un Lupo Mannaro… un Lupo Mannaro non era un mostro facile con cui avere a che fare.  
Mentre passavano sulla via principale Cenere notò una donna fare un scongiuro per scacciare il malocchio, rivolto verso di lei. Avendo visto la scenata che Blackfriar aveva fatto poco prima a Mo, era stata fortunata che il vecchio frate non se ne fosse accorto. A lei però non pesava, era il trattamento che riceveva da tutta la vita. Aveva presto capito che le alternative erano prendersela e cercare di rimediare l’offesa con parole cattive, pugni e coltelli, oppure tirare avanti per la sua strada. Inutile dire qual era la sua scelta. Nonostante questo però, le parole gentili di Bandicus e di suo fratello avevano smosso qualcosa dentro di lei, qualcosa che pensava di aver sepolto da molto, molto tempo.
– Siamo arrivati – disse Blackfriar, distogliendola dai suoi pensieri.
La casa dove riposavano i corpi dei Lancers doveva essere un ricordo dell’estate, quando la vita nei paesi era più vivace e molte famiglie passavano da un villaggio all’altro per scambiarsi merci e notizie. Ora era solo un edificio fatiscente.
Mo aprì il pesante lucchetto che chiudeva la porta, spalancandola.
– Prego – disse ironico rivolto alla Cacciatrice, accompagnando le sue parole con un gesto della mano. Come se la stesse invitando ad un ballo piuttosto che a vedere dei cadaveri.
Cenere salì i pochi gradini passando vicino al conestabile. Odorava di ferro e sudore. I suoi occhi neri la seguirono mentre si fermava sull’uscio.
– Voi non venite? – chiese, anche se sapeva già la risposta.
Blackfriar le scoccò un’occhiata imbarazzata. – Io… no, mi dispiace. È uno spettacolo che non voglio rivedere. –
Cenere annuì.
– Ti aspetteremo qui fuori. –
La Cacciatrice non rispose. Diede le spalle al mondo innevato di Briar ed entrò nell’oscurità della casupola.
La prima cosa che la colpì fu l’odore. Cenere lo conosceva molto bene, visto che l’aveva accompagnata per gran parte della sua vita. Nonostante la temperatura fosse di parecchio sotto lo zero, i corpi dei Lancer erano lì da quasi un mese ormai. Quella che sentiva era puzza di decomposizione.
Cenere avanzò piano nella piccola stanza che le si parava davanti. Era buia, visto che qualcuno aveva messo dei panni sulle finestre. Se per tenere lontano i curiosi o isolare il più possibile la casa, la Cacciatrice non sapeva dirlo. Il pavimento di legno grezzo cigolava sotto le suole dei suoi stivali mentre camminava, il suo fiato si congelava nell’aria gelida della stanza. Se Cenere fosse stata umana avrebbe avuto bisogno di luce per vederci qualcosa, ma quella luce debole era più che sufficiente per i suoi occhi di Haris.
In fondo alla camera c’erano quattro tavolacci di legno. Da dov’era poteva intravedere i corpi che giacevano là sopra.
Prima di avvicinarsi Cenere chiuse gli occhi, respirando piano. Non pensare, si disse, come le ripeteva sempre suo padre quando aveva bisogno di concentrarsi al massimo delle sue capacità. Non pensare, osserva e basta. Si sentiva tremare e non credeva che fosse per il freddo. Non pensare non pensare non pensare.
Respirò più profondamente e si gonfiò i polmoni d’aria gelata. Quando espirò si sentiva più calma. Aprì gli occhi e si avvicino ai tavoli. Il padre giaceva sul tavolo alla sua destra, al suo fianco il figlio minore. Cenere iniziò a osservare. Non pensare.
Qualcuno doveva avere ricomposto il corpo, anche se le ferite erano talmente tante e gravi che più che un essere umano sembrava carne da macello. All’uomo era stata strappata una gamba sotto al ginocchio e si vedevano segni profondi di artigli su un braccio. Probabilmente aveva cercato di difendersi. Sull’addome c’erano cinque squarci lunghi, che facevano intravedere gli organi interni. Gli intestini dovevano essere stati sparsi per tutta la casa quando l’avevano trovato. Qualsiasi animale avesse fatto quello, non l’aveva fatto per sfamarsi. Cenere non potè trattenere una smorfia.
Lo sguardo le cadde sul braccio dell’uomo. Al polso portava uno spesso braccialetto di cuoio, identico a quello che aveva visto per tutti i giorni felici della sua infanzia. D’un tratto il volto del cadavere si trasformò. Le tracce della decomposizione scomparvero, gli crebbe una curata barba scura. Le guance si scavarono, comparve una cicatrice sullo zigomo. Gli occhi cambiarono colore e diventarono uno azzurro e uno nero. Quello era il volto di suo padre.
Cenere singhiozzò e si portò le mani alla bocca, indietreggiando. Chiuse gli occhi con violenza mentre urtava sul tavolo dietro di lei. Nella sua mente i ricordi di quando aveva trovato suo padre si affacciavano con prepotenza: la bambina, la folla, la fune, le urla… non pensare non pensare non pensare… il vento, l’odore del fuoco, il sole sulla pelle… non pensare non pensare non pensare… lo sgabello, il boia, suo padre che le sorrideva da lontano… non pensare non pensare non pensare NON PENSARE!
Con uno sforzo inimmaginabile Cenere scacciò quelle immagini, richiudendole dietro alla porta della sua mente dove erano sempre state, nascoste e al sicuro, irraggiungibili. Quando riaprì gli occhi tremava vistosamente e non per il freddo.
Fece un lungo respiro per calmarsi, il suo fiato che si condensava nell’aria gelida. L’odore di decomposizione che le assalì le narici le fece venire un conato di vomito. Detestava quella parte del suo lavoro. A dir la verità ne detestava quasi ogni cosa, ma una Haris come lei non sarebbe mai riuscita a trovarne un altro. E come tutti, anche lei doveva mangiare.
Batté gli occhi per tre volte, in un rito vecchio come il mondo per scacciare gli spiriti maligni. Quando li riaprì, era di nuovo pronta.
Si dedicò prima all’ispezione del figlio maggiore, poi della madre, e infine dei due bambini più piccoli. Avevano tutti ricevuto più di una ferita mortale e i loro corpi erano rotti come quelli di bambole di pezza. L’animale che li aveva uccisi non li aveva mangiati, li aveva ammazzati solo per il gusto di farlo. Uno dei bimbi aveva ancora la bocca spalancata in un grido muto, congelato dal freddo e dalla morte. Il suo torace era un ammasso indistinto di ossa e sangue. Il mostro gli era salito col suo peso sulla cassa toracica, rompendola. La Cacciatrice sapeva che era un comportamento tipico dei lupi quello di salire con le zampe anteriori sulle prede più piccole.
Cenere stava per uscire quando l’occhio le cadde sulle mani del bambino, la sinistra ancora chiusa a pugno, come se stringesse qualcosa. Si abbassò, accucciandosi sul pavimento gelido in modo di avere gli occhi alla stessa altezza del tavolo. Qualcosa spuntava dalla presa delle dita.
La Cacciatrice si tolse il guanto, sapendo che aveva bisogno di sensibilità. Infilò l’indice nella stretta del bambino e, dopo qualche minuto di tentativo, una manciata di peli cadde sul tavolo. Erano peli scuri, lunghi e ispidi. Cenere li prese e li annusò. Sapevano di erba bagnata e di terra e di morte, ma la nota che faceva da sfondo a tutto quello era l’odore del sorbo.
Allontanò i peli dalle narici e sbatté le mani sul tavolo, in un accesso di rabbia. Si ricordò di suo padre, quando era più piccola, che le indicava un alto albero con delle bacche rosse e le diceva di annusare l’aria.
Quello è il sorbo, bambina mia. Quando sarai in mezzo a una foresta, con la luna piena, e sentirai questo odore, scappa. Scappa veloce e scappa lontano, e se non puoi farlo, preparati: un Lycan sta arrivando a farti visita.
Cenere si allontanò dai cadaveri, il profumo del sorbo ancora impresso nelle narici. Fino a quel momento non era stata sicura che il mostro di Briar fosse un Licantropo. C’erano molte creature meno pericolose in grado di fare uno scempio del genere. Adesso però doveva arrendersi all’evidenza. I Lycan erano bestie astute e crudeli, sconfiggerli non era mai un’impresa facile. Se pensava poi alla miseria che aveva pattuito per quell’impiego… fece una risata amara, piena di risentimento, e maledisse di nuovo Tula e il suo podestà.
Avrebbe avuto bisogno di un piano, di una strategia. E di molta, molta fortuna.
Cenere si incamminò verso l’uscita della casa.
E anche così, pensò, mi servirà un miracolo per uscirne viva.
 
▪▪▪
 
Mi sento più strano del solito, oggi. Ho dei momenti in cui divento assente, faccio cose che non mi ricordo. Ieri sono rimasto alla finestra per quelli che pensavo essere pochi minuti, ma quando mi sono riscosso dalla mia apatia mi sono accorto che erano passate più di tre ore.
Dormo sempre meno, di notte. Stanotte mi sono svegliato davanti alla porta d’ingresso. Non so come ci sono arrivato, quando ci sono arrivato. Ho paura che il dolore mi stia facendo impazzire. Ma poi mi chiedo, sarebbe così brutto? Dimenticarsi tutto quello che è successo e continuare a vivere nell’ignoranza?
May è venuta a trovarmi oggi, ad aiutarmi. Nonostante tutto quello che le ho fatto, c’è sempre per me. Non mi merito tutta questa gentilezza, non io. Mi ha preparato da mangiare, mi ha svuotato le bottiglie. Mi ha ascoltato mentre piangevo. Mi ha fatto promettere che avrei cercato di tirarmi su, di sopravvivere a questo momento. Non so se posso farcela.
 
▪▪▪
 
Cenere e Blackfriar erano tornati verso la casa del podestà in silenzio, lasciando Mo alla taverna del paese. La Cacciatrice aveva continuato a guardarsi intorno, scrutando ogni viso che le si parava vicino. Uno di loro era il Lupo, ma chi? Anche adesso, seduta alla tavola del capo villaggio, continuava a pensare a ogni faccia che aveva visto in cerca di un segno. Il Licantropo era Nate? O forse Mo? O persino Bandicus?
– ...di tempo. –
Cenere si riscosse a quelle parole, sentendo degli occhi puntati contro di lei.
– Cosa, scusa? –
Bandicus guardò Cenere negli occhi. – È solo questione di tempo prima che trasformi qualcuno in uno come lui. –
Cenere suo malgrado sorrise, godendosi il calore che la cena le stava liberando nello stomaco. – Quelle sono leggende, non c’è niente di vero. Almeno su questo, potete stare tranquilli – prese un altro cucchiaio di minestra. – Questa zuppa è buonissima, Galata. I miei complimenti. –
Galata sorrise, lusingata. – Grazie cara. –
– Com’è possibile che la trasformazione non sia trasmessa dal morso? – domandò Blackfriar, studioso fino all’ultimo.
– Se lo fosse – iniziò a spiegare Cenere gesticolando con il cucchiaio. – Vista la frequenza con cui i Lupi Mannari mordono, saremmo talmente pieni di Licantropi da essere quasi estinti. No, la faccenda non è così semplice. Esistono degli incantesimi molto complessi che permettono di trasformare una persona in una Lycan. Li ho visti solo una volta e ne ho compreso a malapena le istruzioni iniziali. –
Blackfriar la guardò stupito.
– Cosa c’è? – gli domandò Cenere aggrottando le sopracciglia.
– Credo che sia il discorso più lungo che ti abbia sentito fare da quando ti abbiamo incontrata. –
Cenere sorrise. – Il buon cibo mi rammollisce – alzò in aria il bicchiere in un brindisi a Galata, che arrossì.
– Ma quindi – il podestà guardò la Cacciatrice con aria seria. – Questo vuol dire… –
– Questo vuol dire che, se il Lupo Mannaro è nel vostro villaggio, cosa che, per inciso, credo molto probabile, allora c’è qualcuno che lo odia davvero molto. –
Cenere non riusciva a concepire che qualcuno potesse orchestrare una vendetta così crudele e meschina nei confronti dei suoi nemici. Dal suo punto di vista, un pugnale nel petto era una soluzione molto migliore. Meno subdola e più corretta, per quanto dolorosa.
– Non lo avrei mai creduto possibile – Bandicus si mise la testa tra le mani. – Ci conosciamo tutti qui. Pensare che uno dei miei compaesani sia responsabile di una cosa così… Che genere di uomo fa una cosa del genere? –
– È semplicemente orribile – intervenne Galata seria.
Continuarono a mangiare in silenzio per qualche minuto, gli unici rumori quelli delle posate che battevano contro i piatti.
– Ma noi umani non abbiamo la magia. Com’è possibile che qualcuno abbia fatto un incantesimo? – chiese Bandicus, rompendo il silenzio.
– Questo è già un discorso più complesso, non vi annoierò con i dettagli. Però voglio sapere una cosa: c’è qualcuno con sangue di elfo, qui a Briar? Qualcuno che magari si è allontanato per molto tempo? –
Il podestà si tirò indietro sulla sedia, lo sguardo pensieroso mentre faceva mente locale. – Non che io sappia, no. Gli elfi ci ritengono nei paria, sono troppo nobili per mischiarsi con noi. Ma potrei sempre sbagliarmi. –
Cenere fece un sorriso amaro. – Immagino che sarebbe stato troppo facile. –
La tavolata si fece silenziosa per qualche secondo. La Cacciatrice si dimenticava fin troppo spesso che anche gli umani non se la passavano troppo bene nei rapporti con le altre razze. Venivano considerati alla stregua di parassiti, individui troppo innocui per essere degnati anche solo della loro considerazione. Almeno gli Haris come lei erano temuti, sebbene odiati.
– Ce la farai a ucciderlo? –  chiese improvvisamente Blackfriar, guardando Cenere con aria preoccupata. – Il Lupo intendo. –
– In verità ci sarebbero due opzioni, quale dovrò prendere dovrete dirmelo voi. –
La Cacciatrice smise di mangiare e si mise più comoda sulla panca, osservando i suoi commensali. Galata e Bandicus la guardavano preoccupati. Blackfriar era semplicemente incuriosito.
– Posso rompere l’incantesimo – alzò la mano, interrompendo il vecchio frate prima che potesse esultare e fare domande. – Ma per farlo ho bisogno di conoscere il nome del Licantropo e dell’incantatore, quello che viene chiamato pastore di lupi. Quindi si tratterebbe di rovistare un po’ negli affari del vostro villaggio e non so quanto la gente possa prenderla bene. Soprattutto se a farlo sarò io. –
– I nostri compaesani faranno tutto quello che sarà necessario, te lo garantisco – il tono di Bandicus era gelido. – Qual è la seconda opzione? –
– La seconda opzione è che io aspetti la luna piena e lo uccida – Cenere guardò Blackfriar. – E per rispondere alla tua domanda di prima: sì, sarei capace di farlo – disse con più sicurezza di quanto in realtà provasse.
– Non puoi ucciderlo nella sua forma umana? –
Cenere scosse la testa, facendo un sorriso spiacente. – No, questo non lo farò. Non ucciderò un uomo inerme a sangue freddo per qualcosa di cui non ha colpe. So che ha ucciso molte persone, alcune delle quali vostre amiche, ma cercate di capire che non è in lui quando si trasforma. Ha tanto controllo su ciò che fa quanto ne ho io sul tempo. E probabilmente non sa nemmeno cos’è diventato. –
– Tu credi? – Galata era veramente addolorata. Sembrava l’unica ad aver capito cosa potesse significare ritrovarsi trasformato in un mostro.
Cenere annuì. – Forse inizia a sentirsi strano, ma sono sicura che non abbia ancora compreso appieno. Molti quando lo fanno si tolgono la vita. –
– È orribile. –
– Sì – la Cacciatrice non sapeva come altro descrivere tutta quella situazione. – Sì, lo è. Ed è per questo che io preferirei la prima opzione. L’unico che ha colpe è il pastore, è lui che deve essere punito. –
Bandicus sospirò. – Penserò a quello che mi hai detto – poi sorrise e il suo viso si distese, facendogli perdere qualche anno d’età. – Ma adesso basta con questi discorsi. Siamo tra amici, ed è una serata tranquilla. Parliamo d’altro. –
Il resto della cena trascorse tra conversazioni serene e tranquille. Galata raccontò qualche vecchio episodio del villaggio, quando c’era l’estate e i campi erano dorati per il grano maturo. Era da parecchio tempo che Cenere non stava così bene. Si sentiva, per la prima volta da tanto, benvoluta. E si era dimenticata cosa volesse dire.
Quando Blackfriar tornò a casa sua e ormai il fuoco nel camino si era ridotto a braci brillanti, Cenere era pronta per andarsene a dormire. Prese la sua sacca e si incamminò verso la porta.
– Dove stai andando? –
La voce di Galata la bloccò quando già aveva la mano sopra il pomello. La moglie del podestà aveva le mani sui fianchi e la guardava con un cipiglio offeso che fece sorridere Cenere.
– A dormire – la Cacciatrice aggrottò la fronte. – Ho abusato fin troppo della vostra gentilezza. –
Galata le si avvicinò, perplessa. – Non pensavo avessi una camera da qualche parte. Arn ci ha detto che nel vostro patto è compresa una stanza. –
Cenere annuì. – È così. Infatti sto andando a dormire nella stalla. –
– Nella stalla?! – l’indignazione di Galata era scritta a chiare lettere nella sua postura e nella sua voce.
– Beh, sì – Cenere era incuriosita dalla reazione della moglie del podestà. – Di solito è lì che mi fanno dormire, quando mi permettono di farlo. –
– Per gli occhi di Manita! – esclamò Galata, orripilata. – Non ti faremo dormire con gli animali! Vieni – disse, prendendola sotto braccio e allontanandola dalla porta. – Ti accompagno nella tua stanza. –
– Io… – Cenere era interdetta, non sapeva cosa dire. Sentì un groppo che le si formava in gola e deglutì forte per farlo passare. – Grazie. –
Galata scosse le spalle, come se tutta quella gentilezza nei confronti di una come lei, di una Haris, fosse normale.
– Vieni – le disse la moglie del podestà mentre attraversavano la sala in cui avevano mangiato. – Voglio farti vedere una cosa. –
Galata, sempre al braccio di Cenere, la condusse davanti al grosso arazzo rovinato che occupava quasi un’intera parete. I colori erano talmente sbiaditi che la Cacciatrice, nonostante l’avesse osservato per un po’ da lontano, non era riuscita a capire quale fosse il soggetto. Però, da vicino, i fili stinti presero forma. E, nel mezzo dell’arazzo, a dominare la scena, c’era un Haris. Aveva gli occhi come i suoi.
– L’ha fatto intessere il mio trisnonno. La sua storia mi è stata raccontata così tante volte quando ero piccola che mi sembra quasi di averla vissuta di persona. – Galata guardava l’arazzo con dolcezza. – Si chiamava Caran Al Mizar e aveva gli occhi come i tuoi, uno nero e uno azzurro – la donna si voltò verso Cenere con un sorriso. – Per fartela breve, ha salvato il mio trisnonno da un Basilisco. Proprio qui, nella nostra foresta, sulla strada per il mercato di Tempe. Avrebbe potuto aspettare che il mostro facesse quello che doveva e poi rapinarlo, visto che era mezzo morto di fame, ma invece decise di salvarlo. Per sdebitarsi il mio trisnonno si offrì di pagarlo, ma l’Haris si rifiutò. Chiese solo un posto dove passare la notte e un pasto caldo – Galata appoggiò la mano sul tessuto consunto dell’arazzo. – Non se ne andò mai più. Rimase con noi, a Briar, e anni dopo sposò quella che sarebbe diventata la mia bisnonna. –
Cenere sentì le sopracciglia schizzare verso l’alto mentre Galata continuava a parlare, senza accorgersi del suo stupore. Mai avrebbe pensato che avrebbe potuto trovare le tracce di un Haris a Briar. I matrimoni misti erano rari anche prima della guerra, ma dopo… dopo erano un’utopia. Alcune razze li avevano vietati addirittura per legge.
– Quindi sono un po’ come te anche io. Non ho le tue capacità, certo, ma io so che è così. Ed è questo che conta. So che pensi di non meritarti questa gentilezza… –
Galata bloccò Cenere prima che potesse parlare. – Ma anche se non avessi sangue Haris dentro di me la penserei nello stesso modo: sei una persona anche tu. Non lascerò che crimini avvenuti centinaia di anni fa ricadano su chi è innocente. Non è giusto che le colpe dei padri diventino la croce dei figli. –
Il groppo in gola che Cenere aveva da poco scacciato si ripresentò. La Cacciatrice si sentiva scossa come non era mai stata, come se alcune parte di sé che aveva lasciato atrofizzare e quasi morire fossero state riportate alla vita.
– Non sono in molti a pensarla così – mormorò, odiandosi per come tremava la sua voce.
– Lo so, – rispose Galata piano. – Ma so anche che molta gente si sbaglia. –
Cenere prese un lungo respiro, fissando l’Haris intessuto nell’arazzo. Sono felice per la tua fortuna, pensò. Che la terra ti sia lieve.
– E poi – continuò la moglie del podestà guardando Cenere con gli occhi che luccicavano. – Tu mi ricordi la mia bambina. Avrebbe più o meno la tua età, se fosse sopravvissuta. –
Galata le accarezzò delicata una guancia e la Cacciatrice si immobilizzò. Era da anni che nessuno la toccava con così tanta dolcezza. Un mare di ricordi si ripresentò alla sua mente: suo padre che le pettinava i capelli davanti alla finestra, che le cantava una ninna nanna per farla addormentare, che le faceva vedere come lanciare i sassi in modo da farli rimbalzare sulla superficie dell’acqua.
– Vieni ora – mormorò Galata dandole le spalle. – Sarai stanca. –
Cenere le fu grata per quella delicatezza, mentre si asciugava tremante la lacrima che le correva sulla guancia.
 
▪▪▪
 
Di nuovo non ho dormito. Sono uscito, stanotte, nonostante il podestà abbia detto di rimare in casa. Sono andato da May, non so perché. Era tutto buio per il paese, la luce della luna crescente illuminava la strada. Se davvero c’è qualcosa di pericoloso a Briar che prenda anche me, così mi riunirò alla mia famiglia.
La casa di May era buia. Tutta, tranne una luce al piano superiore. Non so bene perché sono andato fin lì, non so cosa mi aspettassi. L’ho vista affacciarsi e me ne sono andato, continuando a vagare per il paese.
A casa ho ricominciato a bere, fino all’incoscienza, ma non sono riuscito a dormire. Sentivo come se qualcuno mi fissasse, potevo quasi percepire i suoi occhi fissati dietro al mio collo. Non c’era nessuno con me. Per un momento, pensai che loro fossero tornati da me.  
Sono giorni che sono irrequieto, non riesco a riposarmi. Quando prendo sonno, mi sveglio dopo quelli che mi sembrano pochi minuti, agitandomi. Molto spesso quando apro gli occhi sono in piedi, davanti alla porta d’ingresso. Come già mi era capitato, solo di giorno riesco ad addormentarmi. Una volta lei mi teneva sveglio, ma adesso… adesso il sonno giunge sempre gradito.
E poi, non so come sia possibile, ma mi sembra quasi che i miei sensi siano amplificati. I rumori sembrano più fragorosi, gli odori più penetranti. Continuo a ripetermi che è l’alcol, che il mio corpo si sta ribellando, ma questa storia non mi convince più. Inizio ad avere paura. Cosa mi sta succedendo? Sto impazzendo?
Dei del cielo, aiutatemi.
Manita, proteggimi.

 

ANGOLO DELL'AUTRICE
Eccoci qua con il secondo capitolo, che sono riuscita a pubblicare anche quasi rispettando i miei programmi originari. Si capisce che il mostro che affligge il villaggio è un lupo mannaro, che ha qualche tratto un po' diverso dal classico licantropo. 
Spero che anche questo capitolo possa piacere, è un po' meno dinamico ma più discorsivo. Tra l'altro, mi sono accorta che con l'html i discorsi iniziati con il trattino fanno un po' di casino, spostandosi a capo quando non dovrebbero (con mio enorme fastidio). Spero non crei troppo disagio nella lettura, quando lo scrivo ha tutto un altro effetto. Con questo direi che ho concluso.
Lunghi giorni e piacevoli notti.
   
 
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