Serie TV > Elisa di Rivombrosa
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Autore: wolfymozart    27/09/2017    1 recensioni
Sullo sfondo delle prime rivolte contadine antifeudali, si snoda la vicenda che ha per protagonisti Anna e Antonio. Come i rivoltosi si ribellano alle ingiustizie della società del tempo, allo stesso i due protagonisti, sono alle prese con una personale rivolta contro i propri destini segnati dagli errori, dalle incomprensioni e dalle scelte avventate del passato. La giustizia riuscirà a trionfare o prevarrà l'arroganza della sorte?
Genere: Azione, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Anna Ristori, Antonio Ceppi, Elisa Scalzi, Emilia Radicati
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Una fitta pioggia scrosciava fuori dalle vetrate del palazzo provocando un rumore quasi assordante. L’oscurità stava calando ben prima del tramonto in quel pomeriggio autunnale: in casa stavano già accendendo le candele.
-Che tempo da lupi! – esclamò Fabrizio, alzandosi dallo scrittoio, dove stava sbrigando alcune pratiche, per avviarsi alla finestra. Il cielo era cupo, i suoi pensieri altrettanto. Si sentiva in colpa per aver lasciato partire la sorella, così, senza lottare. Ma sapeva bene che in quel momento non c’erano altre carte da giocare. In seguito si sarebbe potuta intentare un’azione legale, provando la condotta dissoluta di Alvise, si sarebbe potuto intervenire per farlo interdire, per togliergli la patria potestà. Era, però, un discorso complesso, da affrontare con calma, non nella foga del momento. E lui avrebbe fatto di tutto per riportare sua sorella a casa, si sarebbe rivolto ai migliori avvocati. Era consapevole che Anna aveva fatto l’unica cosa possibile: se si fosse rifiutata di partire col marito, avrebbe compromesso ancor più la sua posizione. Eppure non riusciva a darsi pace. Stava così meditando, in piedi davanti all’ampia vetrata del suo studio, mentre l’oscurità inghiottiva inesorabilmente il giardino antistante, quando tutt’un tratto una voce squarciò il flusso intricato dei suoi pensieri.
- Signor conte! Signor conte! – urlava Bianca, fuori di sé, percorrendo il corridoio a perdifiato.
- Fabrizio, ti prego, scendi subito! Subito! – rincarò Elisa, anch’essa allarmata. In preda all’agitazione la giovane serva fece irruzione nello studio senza tanti preamboli, a differenza di Bianca, che non si decideva ad aprire la porta senza aver prima udito il benestare del padrone.
- Che succede, Elisa? Mi stai facendo preoccupare! – domandò ansioso.
- Chiedono di te. È una cosa urgente, dicono, scendi subito! – rispose tutto d’un fiato.
Fabrizio non perse altro tempo, si diresse immediatamente verso il cortile. Stava scendendo gli ultimi gradini quando si materializzò a pochi metri da lui la sagoma di un uomo, che però non riuscì bene a distinguere in mezzo all’oscurità e allo scrosciare fitto fitto della pioggia. Doveva trattarsi di un popolano, lo si intuiva dal cappellaccio a larghe falde che portava e dal pastrano rattoppato alla bell’e meglio con cui si riparava dalla pioggia, ma chi fosse e quali fossero le sue intenzioni non riusciva a capirlo.
-Chi siete? – domandò impavido il conte, scrutandolo nella semioscurità. Il tono era perentorio, padronale, esigeva una risposta.
 
 
Ma l’uomo restò fermo, in piedi immobile sotto la pioggia scrosciante, non disse una parola. In quel momento alle sue spalle sopraggiunse un altro uomo, più esile, più giovane, che teneva fra le braccia una donna, incosciente, forse ferita o addormentata. Fabrizio non poté non riconoscerla, non poté non accorgersi che si trattava di sua sorella.
-Anna, per l’amor del Cielo! Che ti hanno fatto? Che cosa ti è successo? – esclamò disperato nel vederla, cercando di schiaffeggiarla per farla risvegliare. Soltanto allora Fabrizio distolse l’attenzione dalla sorella, esanime fra le braccia di quell’uomo, e si occupò dei due sconosciuti.
- Chi siete voi due? Che cos’avete fatto a mia sorella, luridi bastardi? Perché l’avete ridotta così?- ringhiò inferocito. Ma i due non si scomposero.
- Vi abbiamo riportato vostra sorella, non vi basta? – fece di rimando il primo.
- Ma che le è successo? – domandò Fabrizio, lo sguardo fisso sulla sorella.
- Un agguato. Non abbiamo dimenticato quello che ci ha fatto passare il marchese. Abbiamo assaltato la loro carrozza: dovevano pagare, dovevano pagare tutto. Ho perso due dei miei familiari solo perché hanno osato ribellarsi. Li hanno portati via, forse uccisi. Erano feriti e hanno messo a ferro e fuoco la casa di chi li stava curando pur di catturarli. Queste ingiustizie dovevano pur finire! E infatti il marchese ha avuto quel che si meritava. I miei compagni avrebbero voluto ammazzare anche vostra sorella. -
- Che cosa?! Volevate uccidere mia sorella? – esclamò sbalordito, infuriato, afferrandolo per il bavero della giacca. Gli era stato riferito del malcontento contro Alvise ma non si aspettava che si arrivasse a tanto. E poi Anna che colpa ne aveva? Conosceva sua sorella, forse poteva aver assunto uno dei suoi toni saccenti e altezzosi; magari aveva rimproverato in modo brusco qualche serva o uno degli stallieri; poteva aver fatto pesare la sua posizione di contessa Ristori a qualche abitante del borgo venuto alla tenuta; ma mai avrebbe agito in modo crudele contro i loro dipendenti, quegli stessi che avevano servito con ossequio e rispetto i loro genitori e prima ancora i loro avi da generazioni. No, non era da lei. La crudeltà non le si addiceva, l’orgoglio sì, la superbia forse. Ma la crudeltà no, mai. Aveva un animo sensibile e delicato, nonostante le apparenze. Era suo fratello, la conosceva fin troppo bene. Tutto questo aveva un unico responsabile, suo cognato il marchese Alvise Radicati, quell’essere viscido e spregevole che lui non aveva mai accettato nella propria famiglia.
L’uomo non rispose. Il compagno gli gettò Anna fra le braccia e lui aggiunse soltanto:
- Ringraziate il dottor Ceppi – poi fece per andarsene, ma Fabrizio lo afferrò per il braccio con una stretta vigorosa, squadrandolo minaccioso e inquisitorio. La situazione che gli si era prospettata a poche ore dal suo ritorno a casa era per lui incomprensibile, i nessi di causa ed effetto tra avvenimenti, nomi, persone gli erano del tutti oscuri. Quell’uomo sconosciuto ora se ne veniva fuori con quel nome…
- Che significa? Che c’entra il dottor Ceppi? –
-Chiedetelo a lui. – rispose laconico, poi si dileguò insieme al compagno sotto la pioggia battente, lasciando Fabrizio perplesso e angosciato per le sorti della sorella.
Ben presto tutto il palazzo fu in subbuglio.
-Svelti, muovetevi, non c’è tempo da perdere! – urlava Fabrizio, impartendo concitati ordini alla servitù mentre si precipitava su per le scale con la sorella al collo. –
-Anna, resisti, andrà tutto bene, sei a casa ora! –  aggiunse poi in tono accorato rivolgendosi a lei. Che giaceva inerme fra le sue braccia, gli abiti impregnati di acqua e fango e resi perciò ancor più pesanti, i boccoli scomposti e madidi di pioggia che le si appiccicavano alla fronte, il volto pallido, esanime, gli occhi che non accennavano a schiudersi. Solo dopo aver guadagnato il primo piano, Fabrizio si accorse dei rivoli di sangue che gli imbrattavano la giacca e gridò disperato:
- Angelo! Angelo! corri a chiamare Ceppi, muoviti! – ordinò imperioso. Il ragazzo non se lo fece ripetere due volte e, recuperato in fretta e furia un calesse, si affrettò sotto il diluvio verso la casa del medico.
 
Anna? Che cosa le era successo? Come diavolo era possibile che versasse in quelle condizioni? Chi aveva osato farle del male? Al solo sentire Angelo pronunciare quel nome la sua mente si era come oscurata: una cortina di angoscia, paura, dolore gli impediva di esercitare un controllo razionale sulle sue azioni. In un primo momento non si mosse neanche dallo stipite della porta: non riusciva nemmeno a realizzare dove si trovasse. Perché la sua mente era già lì, accanto a lei, nell’unico posto in cui sarebbe dovuto essere. Ma doveva sbrigarsi, doveva fare presto se avesse voluto riuscire a salvarla. Non si sarebbe potuto concedere il minimo dubbio, la minima esitazione. Si riscosse, in preda a una forza che non sapeva nemmeno di avere. Un istinto potente e viscerale che non gli avrebbe mai permesso di abbattersi, di darsi per vinto. Raccattò più alla svelta che poté i ferri del mestiere, riempì alla meglio la borsa e, senza dire una parola, seguì Angelo sotto la pioggia scrosciante.
Il calesse sobbalzava sullo sterrato, il telo con cui cercavano di proteggersi dalla pioggia era continuamente squassato dal vento, le torce che illuminavano fiocamente la strada minacciavano ad ogni passo di spegnersi. Ma Antonio non si accorgeva nemmeno di tutto ciò, non aveva altri pensieri se non quell’unico che gli si era affacciato prepotentemente alla mente assonnata alle parole di Angelo.
– Fa’ più in fretta! Forza! – ingiungeva ogni tanto al ragazzo; ma più che come un ordine suonava come una supplica disperata. – Non c’è tempo da perdere! Sprona questo dannato cavallo! –
-Dottore, avete ragione, ma permettetemi…con questo tempo non si riesce quasi a vedere la strada! Più veloce di così non è possibile! – si giustificava Angelo
- E tu non la conosci a memoria la strada? Non c’è bisogno di vedere, solo di correre! –
- Io sì, ma il cavallo…-
- Il cavallo si adeguerà, forza! Possibile che sia così lento questo ronzino? –
- Ronzino? Ma se è uno dei migliori cavalli che abbiamo? Dottore, voi state esagerando, calmatevi – Angelo aveva assunto un tono quasi sgarbato, di cui immediatamente si vergognò. Ma com’era possibile che il dottore non si rendesse conto della situazione? Del buio, delle intemperie? Le sue pretese gli sembravano fuori luogo.
Calmarsi? Pensava invece Antonio. E come si sarebbe potuto calmare? Non vedeva più nulla davanti a sé. E no, non era colpa del muro di pioggia che stavano attraversando, né dell’oscurità della notte che era scesa ormai prepotente. I suoi occhi si rifiutavano di vedere, nella sua mente appariva una sola immagine, terribile, angosciosa. No, non poteva essere vero, doveva fare di tutto perché questo non avvenisse, doveva fare di tutto per salvarla. Si rimproverava di averla lasciata andare quella mattina, che ormai gli sembrava perdersi lontana anni luce. Avrebbe dovuto insistere, pregarla, minacciarla semmai. No, minacciarla sarebbe stato impossibile: sapeva bene che non ne sarebbe mai stato capace, nemmeno per il suo bene. Eppure, per essere stato in quel frangente debole, esitante, arrendevole di fronte alla ferrea volontà di lei, l’aveva consegnata a quel destino. E un nuovo rimorso gli invase la coscienza.
Una buca più profonda delle altre diede un forte scossone al calesse. Una delle due torce si spense. Antonio si riscosse dai suoi pensieri. Infreddolito, fradicio, dolorante, mentre il vento gli sferzava il viso e gli sputava in faccia la pioggia, riacquistò quel poco di lucidità che gli permise di mettere a fuoco la catena degli eventi di quel giorno. Solo allora riuscì a ricordare il prima, ovvero tutte quelle cose ora insignificanti che erano successe prima di quelle fatidiche parole di Angelo: Dottore, abbiamo bisogno di voi, la marchesa Anna…
 
Altri colpi, altri insulti, altre bastonate. Poi l’avevano finalmente rilasciato. Contrordine del conte Ristori rientrato a casa: il marchese aveva così finito di spadroneggiare in lungo e in largo, di far arrestare, picchiare, torturare chiunque non gli andasse a genio per i più svariati motivi. Le guardie erano restate a lungo incerte sul da farsi, se ascoltare il vecchio o il nuovo ordine; ma alla fine si erano adeguate alla linea del legittimo padrone di Rivombrosa e avevano lasciato liberi tutti gli arrestati. Tra questi anche Antonio.  Alcuni contadini l’avevano riaccompagnato a casa con il loro carro, dolorante, malconcio ed esausto. Non aveva nemmeno avuto modo di realizzare che Fabrizio era ritornato, che finalmente Alvise avrebbe smesso di tiranneggiare in modo indegno, che Anna sarebbe stata finalmente libera di scegliere di stare con lui senza per questo dover rinunciare alla propria tenuta. Non era riuscito a formulare questi pensieri perché una volta a casa era crollato, vinto dalla stanchezza e dai dolori, accasciandosi sul tavolo della sala da pranzo. Un sonno senza sogni, profondo, che da troppo tempo non si concedeva. La pioggia scrosciava violenta fuori dalle finestre. Sembrava un acquazzone estivo, non una pioggerella autunnale, uno di quegli scrosci che paiono ribellioni della natura alla calura opprimente, tuoni e fulmini repressi a lungo che scatenano tutta la loro potenza sulla terra, accompagnati da vento, pioggia, grandine. Una rivolta anch’essa, simile a quelle di quei giorni. Ma Antonio non se ne curava: stravolto, dormiva profondamente, la testa appoggiata alle braccia distese sul tavolo. Si sarebbe detto il sonno dei giusti, il sonno di chi non ha macigni sulla coscienza perché ha messo il bene degli altri sempre prima del proprio, il sonno di chi ha pagato ingiustamente per colpe che non ha mai avuto, di chi ha saputo sacrificarsi per i propri ideali e principi. Ma no, non era così. Antonio non era in pace con se stesso, non era scevra di macigni la sua coscienza. E sì, anche se aveva pagato ingiustamente, anche se aveva subito ogni genere di sopruso indebito, erano molte le cose di cui non si riusciva a perdonare. Ma soprattutto non avrebbe mai avuto pace finché non avesse ritrovato lei. Tuttavia dormiva, e non avrebbe potuto fare diversamente, distrutto com’era dalla fatica. La luce se ne stava ormai pian piano andando quel pomeriggio, ma nessuna candela illuminava la casa, le ombre degli oggetti svanivano, confondendosi nella luce violacea di un crepuscolo forse prematuro per la stagione. Nessun suono, se non lo scrosciare della pioggia e i rintocchi ovattati del pendolo nella sala, cullava il sonno di Antonio. All’improvviso questo silenzio quasi irreale venne squarciato da un colpo sulla porta. Antonio sobbalzò nel sonno, senza tuttavia dar segni di svegliarsi. I colpi proseguivano, ma lui era del tutto incapace di muoversi: fluttuava in uno stato di dormiveglia da cui la sua sola volontà non riusciva a strapparlo. Ecco allora dei nuovi colpi, più vicini stavolta, che fecero tremare i vetri della finestra della sala da pranzo. E una voce nota che chiamava: - Dottore! Dottore! C’è bisogno di voi, la padrona è ferita. –
Come colto da un fulmine, si drizzò in piedi, allarmato. La sedia cadde fragorosamente sul pavimento. Si girò di scatto e inquadrò il viso di Angelo fuori dal vetro. Il giovane colse il suo sguardo esterrefatto, lo sguardo di chi, una volta destatosi, sembra invece essere precipitato in uno degli incubi peggiori.
 Da quel momento non fu più in grado di dominare i propri movimenti, di dare una coerenza logica ai propri pensieri. Corse alla porta d’ingresso, girò il chiavistello con foga, ansioso, spalancò i battenti e venne inondato dalla pioggia prima ancora che Angelo apparisse sulla soglia.
-Mi ha mandato qui il conte Fabrizio. Dottore, abbiamo bisogno di voi, la marchesa Anna è in gravi condizioni. Non si sa che cosa le sia successo, ma, vi prego, fate presto! Il conte è disperato, teme il peggio!-
Come si sarebbe mai potuto conservare lucido, freddo, distaccato di fronte a simili parole? Eppure doveva farlo. Era necessario, essenziale che lo facesse. Un suo minimo cedimento sarebbe potuto essere fatale. Doveva essere forte, come non lo era stato quella stessa mattina; come forse non lo era mai stato in tutta la sua vita. Questa volta non l’avrebbe lasciata andare, non l’avrebbe persa di nuovo, ne era certo. Quanto l’amava e quanto poco era riuscito a dimostrarglielo! Quanto aveva bisogno di lei e quante volte aveva fatto di tutto per negarlo! Quanto avrebbe desiderato averla e quante volte l’aveva lasciata andare! In nome di astratti principi e ideali, in nome dell’orgoglio, in nome di una paura sottile ma costante e incoercibile. Paura di un rifiuto, di non essere all’altezza, di perdere se stesso in lei. E quindi l’aveva fuggita, evitata, allontanata, perché era un pericolo, perché avrebbe messo in discussione i suoi principi, perché l’avrebbe trascinato nel suo mondo dorato, quel mondo da cui lui non voleva essere compromesso. Ma a che cosa gli era servito?  
Tutti gli errori commessi in sedici lunghi anni gli si pararono davanti, proprio nel momento che più di qualsiasi altro sentiva come irreparabile.
Il bosco si stava finalmente diradando, in lontananza già apparivano, sfocate in mezzo alla pioggia torrenziale, le luci della tenuta. Il cuore gli balzò in gola, le mani si aggrapparono nervose al bordo del biroccio.  
 
-Dov’è? – chiese saltando agilmente dal calesse ancora in corsa, senza preambolo alcuno, con una voce stridula, strozzata, irriconoscibile nel timbro e nel tono.
- Dov’è?! – ripeté, stavolta a mo’ di supplica, la voce tremante. Non si curava del diluvio che gli stava completamente inzuppando i vestiti, i capelli. Ottenne una risposta, infine, dopo attimi che dovettero parere eterni.
- Nella sua stanza – Fabrizio era sopraggiunto, composto, nonostante l’angoscia lo divorasse. – Vieni con me, saliamo! – aggiunse senza ombra di irrequietezza nella voce. Sangue freddo, si era detto. Perdere la calma sarebbe stato il peggiore degli errori. E c’era in gioco la vita di sua sorella.
Il conte improntò i gradini con passo svelto, ma fermo, sicuro; Antonio lo seguiva con respiro affannoso, salendo gli scalini a due a due, facendo sobbalzare i ferri contenuti nella borsa. Nessuno dei due osò aprir bocca, finché non si ritrovarono all’interno del palazzo.
 
 
   
 
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