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Autore: hey_youngblood    28/09/2017    0 recensioni
• Seconda classificata e vincitrice del PremioAria, del Premio Author in disguise, per il miglior IC, e il Premio Tipografo provetto, per la miglior impaginazione nel contest Memorie impresse su specchi rotti indetto da AriaBlack & Marina Swift sul forum di EFP.
Come si (soprav)vive dopo la morte di Alaska Young?
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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II
Rimorso
 
“Rimorso s.m. il rimordere della coscienza, la
consapevolezza tormentosa di aver fatto del male”
(Treccani)
 

Chip “il Colonnello” Martin
Stavolta Ciccio aveva davvero esagerato.
Durante il suo primo crollo gli ero stato vicino, avevo ricacciato indietro le lacrime e avevo cercato di assecondare quello che era diventato in poco tempo uno dei miei amici più stretti. Avevo finto indifferenza ogni volta che ne ricordava gli ultimi attimi passati insieme, ogni volta che si domandava di Alaska o che tirava fuori l’argomento. Non ce l’avevo con lui per questo, non ce l’avevo con lui perché non lasciava riposare Alaska neanche un giorno della sua morte, ma perché, egoisticamente, ne parlava come se fosse stato l’unico a volerle bene, ad amarla.
Dopo che fummo arrivati a quelle due ipotesi conclusive, credevo che Alaska sarebbe scomparsa dalla nostra vita per sempre, che ci avrebbe permesso di dimenticarci lentamente di lei, ma, a quanto pare, ci aveva dannato entrambi. Ciccio, che non riusciva a dimenticarla e ogni giorno finiva per nominarla in qualche modo, ed io, che sentendola nominare così spesso, non potevo far altro che sentirmi sempre peggio.
Ciccio ce l’avrebbe fatta ad andare avanti, dopotutto lui la voleva solamente indietro, riabbracciarla e baciarla di nuovo, perché questo era il lascito di Alaska per lui. Non sapeva quanto fosse fortunato ad avere qualcosa da tenere stretto, a non sentirsi così costantemente in colpa. Io le ero stato vicino per anni, da quando era arrivata a Culver Creek, e avrei voluto che mi dimostrasse, in tutto quel tempo che avevamo passato insieme, qualcosa a cui avrei potuto aggrapparmi in futuro, come aveva fatto con Miles quell’ultima sera, ma a quanto pare non mi riteneva degno di un simile dono.
Non capivo perché Ciccio non si sentisse in colpa per non averla fermata quella notte, magari l’aveva conosciuta meglio di me, magari aveva percepito qualche dettaglio, gesto, luce che io avevo ignorato e per cui ora mi rimproveravo severamente, o magari aveva avuto solo un ruolo diverso dal mio nella vita di quell’uragano dagli occhi verdi.
Sta di fatto, che io e Alaska eravamo sempre stati una squadra: lei era l’ideatrice di follie ed io quello che le metteva in atto. I piani che le avevo progettato erano sempre andati a buon fine e, nonostante vi fossero alcune piccole pecche, riuscivano sempre ad uscirne illesi. Avrebbe dovuto fidarsi di me abbastanza da rivelarmi dove sarebbe andata quella notte. Sapeva che non avrei fatto storie, avrei pianificato un piano con i fiocchi per evadere dal campus e portarla doveva voleva andare, e tutto sarebbe filato liscio. Perché non mi aveva chiesto aiuto?
Se a Ciccio non pesava il fatto di non averla fermata, a me, dall’altra parte, pesava infinitamente. Perché io ero il suo compagno di scherzi e so con certezza che avrei dovuto accompagnarla quella notte, sarei dovuto essere in macchina con lei, al posto del guidatore, con il controllo della vettura. Avevo bevuto molto meno di lei, sarei stato in grado di fare i calcoli giusti e non mi sarebbe venuta in mente l’idea folle di poter schivare quel camion.
 Alaska sarebbe ancora qui con noi, o probabilmente no, magari saremmo morti entrambi in quell’auto, come due veri compagni di vita e di avventure, mentre chi era rimasto organizzava due funerali al posto di uno. Quell’alternativa non sarebbe stata peggiore della realtà in cui mi trovavo.
Perché non l’avevo fermata?
Dio, era il mio compito! Avrei dovuto prenderla per le spalle, scuoterla e farla rinsanire un po’, in modo che i suoi occhi, offuscati dalle lacrime, guardassero dentro i miei.
“Tu non ti muovi da qui, hai capito?” le avrei detto con tono risoluto, un po’ severo, e lei mi avrebbe ascoltato, perché non mi ero mai mostrato a lei in quel modo e lei avrebbe pensato di non conoscermi affatto, che le facevo un po’ paura. “Tu non ti muovi da qui finché non sarai lucida e calma, finché non avrò strutturato un bel piano per evadere e tornare senza che nessuno se ne accorga. Tutto chiaro?”  Avrebbe annuito in silenzio e sarebbe scoppiata di nuovo a piangere, ma andava bene, perché la avrei tenuta tra le braccia e l’avrei stretta così forte da farle passare tutto il dolore che provava. Avremmo superato la cosa insieme.
Perché non l’avevo fermata?
Ora Ciccio se ne veniva fuori con un’idea nuova, qualcosa a cui non avevamo minimamente pensato fino a quel momento. Un’idea folle, assurda e autodistruttiva, che odiavo nel profondo solamente perché accendeva dentro di me per la prima volta, dopo la morte di Alaska, la speranza, la possibilità di redenzione, qualcosa che mi permetteva di essere perdonato da ciò che non ero stato in grado di fare quella notte del 10 Gennaio.
Perché non l’avevo fermata?
Folle, perché Ciccio non poteva sapere cosa avrebbe causato agli altri, ipotizzando un tale concetto. Gli era inconcepibile che altri, oltre a lui, soffrissero per la morte della ragazza dai capelli rossi, nonostante lui, fra tutti, fosse quello ad averla vissuta di meno. Non poteva sapere che in quel modo avrebbe fatto ricominciare a sanguinare una ferita ancora dolorosamente aperta. Non poteva sapere quanto male avrebbe fatto agli altri quel barlume di speranza che a lui, invece, faceva tornare il sorriso.
Perché non l’avevo fermata?
Assurda, perché non aveva le prove. Neanche uno straccio d’indizio della sua supposizione. Aveva risvegliato gli animi di chi voleva bene ad Alaska per un’insinuazione senza fondamento, e lo odiavo per questo, perché aveva agito pensando solo a sé stesso. Perché non sapeva a cosa aggrapparsi per supportare la propria tesi, ma ormai il danno era già stato fatto ed il tarlo si ormai insinuato nella mente di Chip, impossibilitandogli una via di fuga. Perché Alaska avrebbe lasciato che suo padre la portasse via da tutte le persone che le volevano bene –che l’amavano sinceramente – senza ottenere da parte sua che rassegnazione? Quella non era Alaska che avevo conosciuto, solo l’idea stralunata di una mente sofferente.
Perché non l’avevo fermata?
Autodistruttiva, perché quella speranza non avrebbe fatto bene a nessuno.  Non vi era vittoria nel credere in una cosa del genere, perché se tale tesi si fosse rivelata inconcludente –come lui stesso credeva – avrebbe solamente fatto riaffiorare un dolore che non aveva ancora finito di far male, mentre, al contrario, se si fosse rivelata veritiera –seppur non ci fosse la benché minima prova di questo –, avrebbe portato alla luce un’Alaska debole, diversa, condiscendente, umana, ma Alaska non era così. Alaska era un ciclone, distruttiva, vivace, lunatica, selvaggia,egoista, sofferente, passionale, straordinaria. Non sarebbe stato in grado di affrontare una versione stabile e patetica di Alaska, perché avrebbe perso la propria essenza. Non sarebbe più stata Alaska, ma un fantasma di ciò che era stata e che non era più, un alone di sé stessa.
Perché non l’avevo fermata?
No, non potevo crederci. Dovevo denigrare quell’idea, smontarla pezzo per pezzo e frantumarla, calpestarla con tutta la forza che possedevo, allontanarla dalla mente in modo tale da non permetterle di avvicinarsi mai più, uccidere quel barlume che sfarfallava in un angolo oscuro del mio cervello. Dovevo farlo per me stesso, per la mia sanità mentale, e per Alaska, per permettere al suo ricordo di perdurare* chi era stata in vita, ossia la cosa più bella che potesse mai capitarmi.
Dato che gli esami si avvicinavano, io e Ciccio avevamo deciso, poco tempo addietro, di impiegare il nostro tempo in qualcosa di produttivo, e così finimmo a metterci sotto con lo studio. Ciccio non aspirava a fare una gran figura, ma solamente a finire l’anno decentemente. Io, d’altra parte, avrei dovuto impegnarmi parecchio, perché dovevo dimostrare di meritare la borsa di studio con cui mi avevano accettato.
 L’estate era vicina e né io né Ciccio volevamo pensare a come sarebbe stato non avere niente da fare, perché significava che, ad un certo punto, qualche ricordo della ragazza più sexy del mondo sarebbe tornato violentemente alla memoria, mettendoci nella condizione precaria di doverli affrontare da solo. In un attimo di pausa, mi persi ad osservare il soffitto, chiusi gli occhi e risentii la voce di Alaska che, in lontananza, raccontava una delle sue storie estive. Mi mancava così tanto!
Era stato in quel momento, mentre scrocchiavo il collo sulla spalliera del divano, che Ciccio aprì bocca e mi sconvolse.
“Ti dico che credo che Alaska sia ancora viva!”
“No!” scuotevo la testa, non volevo ascoltare una parola in più sull’argomento, facevano troppo male quelle che si era già azzardato a pronunciare. Tentava di dirmi qualcosa, ma in un impeto di rabbia e dolore uscii dalla stanza sbattendo la porta dietro di me, e arrivai a grandi falcate fino a quello che una volta era il nascondiglio mio e di Alaska, allargato poi a tutta la cricca di amici, e crollai a terra.
Dopo mesi che tenevo tutto dentro, quel giorno, lì, sull’erba secca, piansi l’anima, perché la mia migliore amica era morta, perché non l’avevo fermata nonostante avessi il potere ed il dovere di farlo, perché l’amavo. Pensavo ancora di avere il possesso della mia essenza, scoprii solamente più tardi che se l’era presa Alaska, di prepotenza, portandola con sé nella tomba.
 
 
*volevo sottolineare il significato di questa parola, perché riporta volontariamente al carattere di Alaska : perdurare
v. intr. [dal lat. perdurare, comp. di per-1 e durare: v. durare] (aus. avere). Riferito a persona, mantenersi con tenacia o ostinazione su certe posizioni.
  
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