Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    29/09/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

I cavalleggeri di Carlo Orsini erano tornati in tempo al campo per riferire che i pontifici si preparavano a sferrare un attacco, probabilmente per scrollarsi di dosso i nemici una volta per tutte e così Vitellozzo Vitelli aveva, di comune accordo col figlio illegittimo del defunto Virginio, deciso subito di provare a sfruttare quel movimento improvviso a loro favore.

L'avanguardia papalina, guidata da Fabrizio Colonna e Antonello Savelli era stata così sbaragliata, ancor prima di scagliarsi sugli uomini di Vitelli, dalla cavalleria dell'Orsini, che aveva potuto giocare d'anticipo, spianando la strada alla seconda linea.

Lo scontro, tuttavia, era andato ben oltre, soprattutto per un improvviso moto d'orgoglio del Duca d'Urbino, ma i vitelleschi avevano subito contrattaccato, travolgendo gli avversari con la superiorità delle armi che portavano in dotazione: picche molto più lunghe e robuste, capaci di trafiggere senza troppa fatica un'armatura stando a distanza di sicurezza.

Vitellozzo, dopo aver gridato i suoi ordini, si era tuffato nella mischia assieme ai suoi e non aveva dato un momento di tregua agli avversari, cercando disperatamente di trovare nella confusione Juan Borja, o almeno Guidobaldo da Montefeltro. Voleva ucciderli con le proprie mani.

Quando finalmente intravide il profilo scarno e spaurito del figlio del papa, Vitelli si fece strada gettando in terra più di un papalino, ma quando fu abbastanza vicino al Borja, Muzio Colonna gli saltò davanti e ingaggiò con lui un duello spada a spada che presto divenne all'arma bianca.

Terrorizzato dal pericolo corso, Juan, rimasto malauguratamente senza elmo dopo una rovinosa caduta da cavallo, cominciò a correre per il campo, senza sapere in che direzione andare.

Quel 27 gennaio il cielo sopra Soriano era opalescente e gettava sui guerrieri una luce abbagliante e ingannevole. Il Borja si sentiva confuso e tutto attorno a lui pareva significare morte.

Era tutto così diverso dalle esercitazioni fatte nel cortile di Castel Sant'Angelo... Sotto agli occhi compiaciuti di suo padre, Juan aveva sfilato con uno dei suoi migliori cavalli da guerra, mostrando la sua bravura nella nuova tecnica del caracollo e aveva dato prova della sua destrezza con la lancia e con la spada. Ma poi era bastato trovarsi in mezzo a soldati veri e non pagati dal pontefice per farlo sembrare un Dio della guerra, ed ecco che l'amara verità era venuta a galla.

Strizzando gli occhi contro il riverbero, e trattenendo a stento lacrime di puro terrore, il figlio del papa continuò a mettere un piede davanti all'altro, sfuggendo a ogni possibile pericolo, ignorato da tutti, malgrado l'armatura laccata d'oro.

Siccome era troppo impegnato a guardarsi le spalle ogni due secondi, per paura di avere qualcuno alle calcagna, Juan finì per inciampare su un cadavere e scivolare in terra, sul fango impastato di sangue.

Mentre cercava di rialzarsi, vide un paio di piedi piantarsi davanti a lui e, quando sollevò lo sguardo, vide una lama calare contro di lui. Il nemico che stava per sferrare il colpo, però, non diede forza alla spada, cadendo morto in pochi istanti, trafitto all'altezza della nuca da una lancia di un soldato vaticano.

Tuttavia la punta della lama aveva sfiorato ugualmente il viso di Juan, quasi nello stesso punto in cui Bartolomea Orsini era riuscita a graffiarlo durante l'assedio di Bracciano. Questa volta la ferita era più profonda, e sanguinava vistosamente.

Il figlio del papa di portò una mano alla guancia e nel vederla poi macchiarsi di rosso, si sentì quasi mancare e il respiro gli divenne affannoso. Aveva così tanta paura di morire da non sentire più le grida dei soldati che si uccidevano attorno a lui, né riusciva più a vedere nitidamente. I suoi occhi erano offuscati e le gambe si rifiutavano di tenerlo in piedi.

“Andiamocene! Andiamocene! Ritirata! Ritirata!” gridò Muzio Colonna, raggiungendo Juan e prendendolo di peso: “Dobbiamo andarcene! Ritirata! Forza! Su!”

I papalini non si fecero ripetere l'ordine e, in rotta, cominciarono a fuggire dalle schiere del tarchiato Carlo Orsini che, al contrario, stava già festeggiando, tenendo per le braccia Giampiero Gonzaga e incitando due suoi uomini a non lasciare andare l'altro prigioniero di rango: Guidobaldo da Montefeltro.

“Cani eretici!” gridò Colonna, mentre continuava a correre, spintonando il figlio del papa per non farlo fermare: “Bestie e traditori! Orsini, maledetti! Possiate bruciare all'inf...”

La voce di Muzio si spense con un grido di dolore. Una freccia raminga l'aveva centrato all'inguine, facendolo accasciare al suolo senza fiato.

Juan, rallentando la corsa, si voltò a guardarlo un momento, rischiando anche di inciampare in uno scudo. Avrebbe dovuto prenderlo di peso e trascinarlo via, come Colonna aveva fatto con lui. Ma i soldati degli Orsini e di Vitelli stavano arrivando e reclamavano anche la sua vita. Lui era più importante di un Colonna. Era il figlio del papa. Non valeva la pena di rischiare la vita per un misero Colonna.

Ingoiando la vergogna per la propria codardia e abbracciando con forza l'istinto di sopravvivenza, Juan voltò le spalle a Muzio e tornò a correre a perdifiato.

“Venite, mio signore...” uno dei soldati vaticani più ritardatari fece segno a un altro di aiutarlo e in due, sfidando la sorte, presero uno per parte il Colonna ormai privo di sensi e sanguinante e, fortunosamente, riuscirono a portarlo in salvo.

 

Simone Ridolfi era ripartito quella mattina alla volta di Imola, portando con sé i documenti che lo legittimavano come nuovo Governatore della città.

Tommaso Feo aveva risposto subito alla lettera della Contessa, con cui lei gli spiegava l'evolversi della situazione, e aveva assicurato che avrebbe lasciato molto volentieri la sua carica a suo cognato, ritirandosi per qualche tempo a vita privata.

Risolta quella questione, Caterina si era presa qualche momento di riflessione, approfittandone per seguire più da vicino i lavori al mastio. Non mancava poi molto a finirlo, ma la neve intermittente di quei giorni continuava a ritardarne la messa in opera. Ci teneva a vederlo fortificato entro la fine dell'inverno, perché i venti di guerra stavano soffiando impetuosi, ma si accontentava dell'impegno che i costruttori ci stavano mettendo.

Non aveva più avuto notizie da Achille Tiberti, ma confidava che stesse facendo il suo mestiere come promesso. Carnevale sarebbe stato il 7 febbraio, dunque non mancava molto, se il Capitano voleva mettere in atto il piano così come la Leonessa l'aveva ideato, avrebbe fatto bene a sbrigarsi.

Quello era il tempo di attaccare Rimini. Non ci sarebbe stato più un momento tanto propizio, salvo la morte fortuita del Malatesta. Il Pandolfaccio, così dicevano le voci, stava perdendo il favore popolare a una velocità incredibile e solo sua moglie Violante, trincerata nel loro palazzo, pareva cercare una mediazione con il Consiglio Cittadino.

“Fossi in lei, direi all'esercito di andare a prenderlo e di farlo fuori. Potrebbero far finta di volerlo proteggere, e poi ucciderlo lontano da occhi indiscreti, dicendo che è morto per un malore, o qualcosa di simile.” commentò piano la Contessa, mentre il Novacula affilava i suoi rasoi, pensieroso: “Tanto dubito che qualcuno si darebbe pena di indagare.”

Si era ritirata nella barberia, approfittando della momentanea assenza di cliente, per cercare in Bernardi qualcuno con cui confrontarsi, sperando di calmarsi un po'.

Ne avrebbe parlato anche con Giovanni, che di certo aveva una visione più globale, rispetto al barbiere, ma ancora non si sentiva sicura a condividere con lui quel genere di perplessità.

Quando erano insieme e parlavano di quando erano piccoli e delle loro vite a Milano e Firenze, o leggevano o si amavano, si capivano alla perfezione, ma il Medici era ancora l'ambasciatore di Firenze e passargli informazioni così delicate, malgrado la fiducia che la Tigre ormai nutriva per lui, sarebbe stato un rischio.

Per quanto tra le sue braccia Caterina si sentisse completamente protetta, provando una sensazione molto diversa da quella di potere che aveva sempre provato con Giacomo, si rendeva conto che mescolare di nuovo politica e affari privati avrebbe potuto essere un grosso passo falso.

Non era da molti giorni che la Contessa aveva preso l'abitudine di recarsi nella stanza del Medici per la notte, eppure a entrambi pareva già la cosa più normale del mondo. La Tigre aveva cercato di lasciare fuori tutto il resto dalla loro camera, dato che comunque già durante il giorno capitava loro di dover affrontare insieme discorsi di ordine politico, tuttavia l'ambasciatore era tutt'altro che stupido e capiva più di quel che lasciava intendere.

L'intesa con Giovanni era così immediata, tuttavia, che la donna si era trovata a pensare che l'uomo avesse già subodorato qualcosa, tanto che, di quando in quando, era proprio lui a lasciarsi scappare qualche consiglio su come affrontare un'eventuale espansione territoriale.

Quando lo faceva, però, la Leonessa trovava sempre il modo di fargli cambiare argomento, o proponendo di leggere insieme uno dei suoi libri o di fare qualcosa di ancora più interessante.

“Non vi pare strano che il papa non abbia ancora fatto nulla, per Rimini?” chiese il Novacula, riponendo uno dei suoi preziosi rasoi sul tavolo e passandone un altro sulla cinghia che teneva allacciata in vita.

Caterina sospirò, incrociando le braccia sul petto e guardando distrattamente fuori dal vetro della porta, mentre i ricordi della notte appena passata con Giovanni si spegnevano, lasciando il posto alla visione geopolitica dell'Italia che aveva ben impressa in testa: “Il papa ha già di che pensare con suo figlio che sta combattendo contro gli Orsini. L'avrete sentito no? Non sono poi molto lontani da Roma, immagino che Rodrigo si senta il loro fiato sul collo...” disse la donna, mentre fare il cognome di Virginio le provocava una piccola fitta al cuore: “Vuole piegarli una volta per tutte, figuriamoci se sta pensando a Rimini...”

Il barbiere annuì lentamente: “In effetti il papa non ha alzato un dito nemmeno per fermare voi, perché dovrebbe farlo con il Malatesta?”

Accortosi in ritardo del tono sprezzante con cui aveva parlato, il Novacula cercò lo sguardo della sua signora e quando lo incontrò vi lesse un vago ammonimento, ma nulla di più.

Dopo una breve pausa di silenzio, durante la quale la Tigre si perse a ripensare a Virginio Orsini e a quello che avevano passato assieme, Bernardi provò a chiedere: “Pensate che la moglie del Malatesta chiederà il soccorso di suo padre?”

La Sforza fece una smorfia e poi scosse il capo: “Se anche lo facesse, per quel che conosco Giovanni Bentivoglio, dubito che lui interverrebbe.”

Citare i Bentivoglio aveva fatto tornare in mente tanto al Novacula, quanto a Caterina il matrimonio fallito tra Ottaviano e Isotta.

La Contessa aveva rivalutato abbastanza spesso la situazione di suo figlio, ormai praticamente adulto e chiaramente in forte disagio per la sua condizione che lo portava a non avere un titolo reale, né un impiego, né una moglie, tanto meno uno scopo nella vita. Tuttavia, più ci pensava, più si scopriva felice che non fosse riuscito a sposare alla figlia di Giovanni Bentivoglio. Facendolo, avrebbe solo creato una nuova infelice, e al mondo ce n'erano già abbastanza.

“Essendo suo padre, però, dovrebbe aiutarla.” obiettò il barbiere, che aveva appena finito di sistemare tutti i ferri del suo mestiere.

“Bentivoglio è un soldato – gli fece notare Caterina, scoprendo nel modo di ragionare del Novacula una sfumatura anche troppo popolana – ma è anche uno statista astuto. Ha altri figli e vedere fallire un'alleanza matrimoniale potrebbe essere meglio che imbarcarsi in una guerra che lo porterebbe a immischiarsi negli interessi della Serenissima, che potrebbe pensare che il Bentivoglio voglia prendere Rimini per sé. Anche se, in questo momento, cercare di mettere le mani su Rimini non conviene a nessuno. Solo un pazzo potrebbe volerla conquistare, con Venezia che la vuole strappare a Roma per avere un avamposto contro Firenze...”

Il Novacula sollevò un sopracciglio e fu sul punto di fare una domanda, ma erano appena arrivati due clienti, che, entrati in fretta per sfuggire al freddo della strada, si erano bloccati nel vedere la Contessa seduta su una delle sedie.

“Va bene, ora vi lascio.” fece Caterina, ben decisa a non ledere gli affari del suo amico con la sua presenza: “Ci vediamo.”

Bernardi fece un mezzo inchino e poi, con i gesti esperti della sua arte, fece sistemare il primo cliente e cominciò subito a sbarbarlo.

 

Alessandro VI era viola. Le narici del suo grosso naso si aprivano e si chiudevano a gran velocità, a ritmo con il petto che si espandeva sempre di più, mentre le sue mani si stringevano al tavolo con tanta forza da far scricchiolare il legno.

I due messaggeri che avevano appena riferito la notizia si spaventarono tanto da credere che il Santo Padre stesse per morire.

Alessandro VI balbettò sputacchiando qualche frase sconnessa, gli occhi che quasi uscivano dalle orbite, e tutti i porporati presenti si sforzarono di capire che stesse dicendo, ma senza riuscirvi.

Senza preavviso, in modo tanto repentino da far saltare sul posto i legati e anche gli altri presenti, il papa si alzò in piedi, batté un fortissimo pugno contro il tavolo, rovesciò in terra la metà delle carte che aveva davanti e anche il calice di vino, e cominciò a infilare una serie di bestemmie nella sua lingua madre tanto scurrili e aggressive da far rabbrividire tutti e non solo i più morigerati tra il pubblico.

Andò avanti per parecchio, dinnanzi a una piccola folla attonita, che non capiva se fosse solo una reazione eccessiva o se Rodrigo Borja avesse definitivamente perso il senno.

Alle sue spalle, suo figlio Cesare, compito, le mani giunte sul petto e gli occhi fissi sul padre, stava nascondendo a fatica la sua soddisfazione per la disfatta di Juan.

A far sbottare a quel modo suo padre era stata la notizia appena arrivata da Soriano, che voleva Juan battuto miseramente e umiliato dagli uomini di Carlo Orsini. Si aggiungeva che il figlio di Sua Santità era scappato dal campo senza aiutare i propri soldati, terrorizzato dopo una piccola ferita al volto subita, per altro, per colpa della propria inettitudine durante la fuga.

A peggiorare ulteriormente la situazione, c'erano la cattura del Duca d'Urbino e di Giampiero Gonzaga e il ferimento – molto più serio di quello di Juan – di Muzio Colonna.

I papalini, partiti in forte superiorità numerico, avevano perso in un soffio circa cinquecento uomini, mentre, dalle prime stime, gli Orsini ne avevano lasciati sul campo nemmeno trecento.

“Sembra che l'Orsini voglia portarsi a Monterotondo, per...” provò a dire uno dei messaggeri, appena il papa smise di ululare come un pazzo.

“Mio figlio sta tornando qui?” chiese Rodrigo, a voce bassa, roca e implacabile, bloccando il messo e lasciandosi cadere senza forze sul suo scranno.

“Sì, stanno ripiegando verso Roma.” confermò uno dei messaggeri: “Dovrebbe essere qui a breve, se non ci saranno incidenti di percorso.”

Alessandro VI si passò una mano sul volto, ancora rubizzo, e poi chiamò a sé Cesare con un cenno della mano.

Il figlio gli fu subito accanto e si piegò in avanti per sentire cosa il padre avesse da dirgli.

Il pontefice gli sussurrò nell'orecchio pochi semplici ordini, che riguardavano soprattutto le misure di sicurezza da adottare al ritorno di Juan, per evitare vendette dei Colonna – che di certo avrebbero accusato il giovane per la cattura del loro parente – o colpi di testa di questo o quel nobile della Curia.

Dopodiché il papa congedò i messaggeri e dichiarò sciolta la seduta: “Per oggi – aggiunse – ho sentito anche troppo.”

Si ritirò nei suoi appartamenti e dopo un po' qualcuno bussò alla porta. Chiese chi fosse, con voce strascicata e scontrosa e quando sentì che era suo figlio, lo lasciò entrare.

“Che altro c'è?” chiese il Santo Padre, abbattuto.

Era in abiti da camera, mezzo sdraiato su uno dei suoi preziosi divani, lo sguardo pesto e Cesare si trovò a pensare che forse suo padre avesse addirittura pianto. Se per dolore, vergogna o rabbia, però, non poteva dirlo.

“Lucrecia chiede se volete cenare con lei e con suo marito.” riferì il giovane, che era stato andato dalla sorella che, da quando il marito – dopo lunghissime insistenze proprio di Rodrigo – era tornato a Roma, evitava le stanze del papa.

Il pontefice chiuse gli occhi e poi incurvò le labbra verso il basso: “Dite loro che questa sera ho deciso di non cenare.”

Giovanni Sforza era tornato a Roma dopo aver sbeffeggiato tacitamente gli ordini del Santo Padre e Rodrigo non l'aveva ancora digerito. C'erano voluti fiumi di lettere e parole a volte minacciose a volte accomodanti e alla fine il signore di Pesaro aveva accettato solo per evitare di andare a combattere.

Alessandro VI si era imposto – e così aveva fatto fare anche ai figli – di trattarlo bene e di cercare di recuperare un po' il legame con lui e con tutto quello che rappresentava. Se Lucrecia avesse avuto un figlio, forse si sarebbe potuto rivalutare il legame con Pesaro, con gli Stati pontifici in Romagna e perfino con Milano.

Però, quanto gli pesava, pensarlo insieme a Lucrecia nel loro palazzo...

“Come desiderate.” chiuse Cesare, con un ossequioso inchino, ma senza andarsene.

“Tuo fratello Juan mi ha molto deluso.” si lasciò scappare Rodrigo, passandosi una mano sulla vestaglia e imbronciandosi ancora di più: “Forse ho sbagliato, a credere tanto in lui...”

Il figlio sentì il cuore battere con forza nel petto, pronto a qualche parola buona nei propri confronti, tuttavia, anche quella volta, suo padre riuscì a spegnere ogni suo entusiasmo.

“Forse, se tu non avessi avuto l'idea di far uccidere quell'inutile Virginio Orsini, suo figlio Carlo non si sarebbe dato tante pena per umiliare il mio Juan...” sussurrò malevolo il papa.

“Con permesso.” si congedò Cesare, ignorando perfino la voce del padre che lo riprendeva, dicendogli che il discorso era tutt'altro che concluso.

Tornato nei suoi appartamenti, il figlio di Alessandro VI si lasciò andare a un ringhio soffocato di rabbia. Anche quella volta suo padre era stato capace di voltare un fallimento di Juan a suo sfavore.

Desideroso di sfogarsi, il giovane batté il pugno contro il muro, ma si fece solo male.

Tenendosi la mano dolente con l'altra, cominciò a ragionare e l'unica persona che gli tornava in mente era il suo amico fraterno, Michelotto. Però, da quando avevano finito gli studi, era tornato in Spagna e difficilmente sarebbe potuto tornare in Italia a breve.

Comunque, pensò, forse era il caso di cominciare a ravvivare i rapporti. Prima o poi gli sarebbe servito avere accanto uno come lui.

Così andò alla scrivania e alla luce del proprio rancore, cominciò a scrivere una lettera indirizzata a Miguel de Corella, sperando che il suo vecchio amico trovasse il modo di raggiungerlo il prima possibile.

 

“Qualcosa ti turba?” chiese Bianca, guardando il fratello Cesare da sopra il libro che stava leggendo.

Il ragazzo, gli occhi al camino acceso e le gambe secche accavallate, era in poltrona e stava immobile dal almeno mezz'ora. L'unico segno di vita era un continuo stringersi e rilasciarsi dei muscoli della mascella.

I tre figli maggiori della Tigre si erano ritrovati per caso insieme nella stanza delle letture, eppure l'unica che stesse davvero dedicando del tempo a un libro era Bianca.

Ottaviano, scappato dal freddo pungente di quell'inizio di febbraio, se ne stava in un angolo, le braccia incrociate sul petto e gli occhi chiusi, nella speranza di addormentarsi. Non gli piaceva troppo stare in compagnia dei fratelli, ma non aveva voglia di stare da solo. Dopo il lungo isolamento seguito alla morte del maledetto stalliere, detestava stare da solo.

Cesare, invece, era arrivato dopo aver assistito alla Messa e stava aspettando l'ora di cena, solo per presentarsi a tavola e digiunare davanti agli occhi della madre, sperando forse di procurarle un dispiacere che però, puntualmente, non riusciva a scorgere nei suoi occhi.

“Mentre venivo qui – ripose a voce bassa il giovane in abiti scuri – sono passato davanti allo studiolo del castellano e la porta non era chiusa, così ho sentito delle cose...”

“Cosa, esattamente?” chiese Bianca, chiudendo il libro e concentrandosi sul fratello, che si era fatto ancora più pallido del solito.

“Secondo il Feo, qualche mese fa, forse addirittura più di un anno fa, i fratelli Orsi sono stati uccisi in Macedonia. Anche se secondo certi là è morto solo Domenico.” disse Cesare, ridestando improvvisamente anche i sensi di Ottaviano, i cui occhi si spalancarono all'istante.

Bianca dovette schiarirsi la gola, prima di riprendere parola: “Ebbene, se è così, finalmente hanno avuto la punizione che meritavano.”

“È solo che questa cosa mi ha fatto ricordare cose che non volevo – riprese Cesare, in uno slancio d'apertura che la sorella non ricordava di aver più visto in lui da quando il loro signor padre era stato assassinato – e ho finito per ripensare a come nostra madre abbia sterminato quasi tutti gli assassini del suo amante, mentre abbia lasciato sfuggire impuniti gli Orsi.”

Nessuno dei tre giovani Riario disse nulla e le parole di Cesare rimasero ad aleggiare tra loro come una nebbia. Tutti e tre, in cuor loro, avevano sempre fatto quel paragone, ma lui era stato il primo a condividere con gli altri il proprio pensiero in modo tanto espresso.

“Io lo ricordo bene, nostro padre.” continuò il ragazzo, portandosi una mano alla tonsura e una al crocifisso, in un gesto ormai inconscio di insicurezza: “Mi ricordo di come volesse passare con noi tutto il suo tempo libero, quando stava bene...”

“Io ricordo che mi metteva sul suo ginocchio, tenendomi le mani, quando ero molto piccola, e io facevo finta di cavalcare.” si aggiunse Bianca, mentre il ricordo di quel momento di calore quasi le faceva venire le lacrime agli occhi: “E ricordo di quando veniva in camera nostra per vederci mentre ci addormentavamo.”

“Quando la sua malattia lo lasciava lucido, era sempre molto dolce, con noi.” convenne Cesare.

“Io però – riprese Bianca, con un'espressione un po' meno malinconica – ricordo anche di quando nostra madre lo faceva vergognare di sé davanti a tutti. Quando litigavano, gridando così forte da mettere in imbarazzo perfino i servi. E ricordo pure di come nostra madre sia scappata a Milano e ci abbia lasciati soli con lui, poco prima che impazzisse e si chiudesse nella sua camera senza uscirne per giorni interi.”

Ottaviano, che era rimasto zitto fino a quel momento, puntò gli occhi scuri verso i due fratelli e poi, fissandosi la punta dei piedi, controbatté: “Io ricordo molto bene di quanto nostra madre avesse paura di lui. Ricordo delle scenate di gelosia che lui le faceva senza motivo. E ricordo anche di come nostra madre abbia sofferto nel sapere che i nostri fratelli più piccoli dovevano nascere. Ogni nuovo figlio, per lei era solo un dolore.”

Bianca e Cesare non dissero nulla, fissando il fratello straniti, non capendo come certe affermazioni potessero partire proprio da lui.

“Nostra madre non ha mai accettato nostro padre. Se solo l'avesse fatto...” provò a dire Bianca, che dopo l'esternazione di Cesare aveva cominciato a provare di nuovo il forte senso di vuoto che perdere il padre le aveva causato, ma anche la miscela contradditoria di emozioni che il ricordo portava con sé.

“E come avrebbe potuto accettarlo?” fece Ottaviano, spazientito, alzandosi dalla sua poltroncina e piazzandosi in mezzo alla stanza: “Voi non sapete nulla. Con quello che le ha fatto, se io fossi stato al suo posto, l'avrei ucciso con le mie mani, altro che dargli sei figli.”

“Ma di cosa stai parlando?” chiese Cesare, corrucciandosi.

Il Riario maggiore fece un respiro molto profondo e poi, senza avere il coraggio di guardare gli altri due, e non certo di star facendo una cosa corretta, disse: “Nostro padre le ha usato violenza quando si sono sposati, e lei aveva solo nove anni. Ed è andato avanti così per anni.” deglutì rumorosamente, pensando a quante volte anche lui, seppur previo compenso, avesse forzato delle donne ad accettarlo e per la prima volta avvertì un profondo senso di paura, oltre alla vergogna: “Al suo posto, anche io l'avrei odiato.”

Bianca e Cesare rimasero per un po' immobili a fissarlo. Nessuno dei due si era mai spinto tanto avanti da chiedersi cosa fosse stato davvero il matrimonio tra i loro genitori. Che non andassero d'accordo era palese, ma entrambi erano sempre stati almeno convinti dalla versione ufficiale che avevano imparato fin da piccoli, ovvero che la loro madre aveva sì nove anni, quando era diventata la moglie di Girolamo Riario, ma che non lo avesse mai incontrato fino a quando l'aveva raggiunto a Roma anni dopo.

“Sei sicuro di quello che dici?” chiese Bianca, con un filo di voce, cominciando ad assorbire l'informazione e a capire meglio certi atteggiamenti di sua madre.

“Sì.” confermò Ottaviano, che sentiva la schiena fradicia di sudore per la tensione.

“E chi te l'avrebbe detto?” chiese Cesare, indagando l'espressione del fratello con i suoi occhi un po' incavati.

“Me l'ha detto lei.” rispose il Riario più vecchio.

“Per screditare nostro padre direbbe qualsiasi cosa.” si oppose l'altro, alzandosi con un gesto di stizza: “La verità è che ha sempre disprezzato la legge divina e non ha mai voluto sottostare al volere di suo marito, come sarebbe stato giusto! È solo una donna che non ha mai saputo stare al suo posto!”

Dopo quelle frasi piene di rabbia, Cesare si diede uno strattone all'abito da prete e lasciò la sala delle letture, come a dire che per lui il discorso era chiuso.

“Tu credi che sia vero, quello che lei dice di nostro padre?” chiese Bianca, che si era alzata come Cesare, d'istinto, ma senza riuscire a fermarlo.

Ottaviano annuì, senza dire nulla e la sorella si rimise seduta, le mani in grembo e la fronte aggrottata, nel tentativo di capire davvero quello che aveva appena sentito. Ricordava le mancanze e i difetti di suo padre, ma pensarlo capace di una cosa del genere era troppo.

“Tu stai difendendo nostra madre – notò la ragazzina, deglutendo di quando in quando – e sembra davvero che tu le dia ragione su tutto, ma allora perché hai voluto uccidere l'uomo che l'aveva strappata da una vita di sofferenza? Non avresti dovuto essere contento, di vederla finalmente con un uomo che la sapeva amare?”

Ottaviano non rispose, incrociando le braccia sul petto e mordendosi con forza le labbra.

“L'hai fatto solo perché eri geloso di lei, vero?” sospirò Bianca, che riusciva a cogliere solo in quel momento il vero tormento di suo fratello: “E allora, se per te lei è così importante, perché ti comporti come se la odiassi?”

“Perché lei odia me.” rispose il fratello, indicandosi e assumendo una postura che a Bianca ricordò in modo spietato il padre.

 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas