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Autore: Selena Leroy    29/09/2017    1 recensioni
Il progetto "Les Enfant Terrible" aveva uno scopo: dare alla luce una nuova generazione più consapevole, più capace e più ambiziosa della precedente. Non era rimasto molto, d'altronde, agli ultimi superstiti di un pianeta arso vivo dalla Peste, un nuovo morbo che infesta il pianeta uccidendo qualunque creatura esistente si trovi sul suo cammino.
Yuya Sakaki è una di queste speranze, cresciuta assieme al padre e alla medicina. Ha solo sedici anni, ma il suo quoziente intellettivo supera di gran lunga quello delle sue normali coetanee; con il suo amico di sempre, quel ragazzo di nome Yuto segretamente innamorato di lei, continua una battaglia che però sembra persa in partenza.
E la situazione, per lei, volgerà inaspettatamente verso il peggio; alla morte improvvisa del padre, le decisioni di un uomo mai visto né sentito e che risponde al nome di Leo Akaba, la porteranno via dal suo luogo natio, dai suoi affetti e dai suoi amici, e in quella solitudine imposta da estranei, nelle cui menti si cela un segreto dalle cupe ombre, tutto ciò che le rimane da fare è lottare, e continuare quella ricerca ora così preziosa. Se farlo o meno da sola, dipenderà solo da Reiji Akaba...
[Pendulumshipping]
Genere: Fantasy, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akaba Reiji/ Declan Akaba, Yuto, Yuya Sakaki
Note: AU | Avvertimenti: Gender Bender
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“Q

uale parte di ‘Non fare nulla finché non te lo dico io’ hai frainteso... Roger?”

Da un becchino che aveva usato la più grande catastrofe abbattutasi sul pianeta come mezzo per guadagnare soldi ad alambicchi non ci si poteva aspettare altro se non un’empia simpatia che diveniva insubordinazione. Collaborazione diveniva un termine eccessivamente corrosivo, in simili frangenti, e mai come all’avvenire di simili episodi Leo Akaba aveva da maledire un’umanità troppo debole – perché davvero avrebbe accettato qualsiasi altro aiuto, se l’alternativa era quel lupo travestito da agnello.

Il giorno che vedeva il loro incontro era iniziato nei più foschi auspici. La prima – e da quel momento in poi l’unica – morte che aveva colpito il casato degli Akaba aveva costretto il povero Leo a chiedere consiglio all’unico essere vivente disposto a lasciare la propria dimora per disporre esequie onorevoli nei confronti di quella figlia tanto amata e oramai definitivamente scomparsa, l’unico che non aveva mostrato alcun problema a lasciare il suo luogo natio per avventurarsi in zone dove la peste aveva mostrato il suo ghigno funesto, minacciando eventuali nuovi morti che accordassero la loro sofferenza alla prima che si era venuta a creare. Era, quello, l’inizio dell’infestazione totale, i primi momenti che avevano visto soltanto il panico e una disperazione accecante in grado di paralizzare l’intera popolazione in attesa. In attesa di essere giustiziata da un castigo divino che, si presupponeva a quei tempi, si era abbattuto sui mortali in seguito al loro continuo agire a dispetto di ogni norma etica contrastante quella parità di diritti trascritta su volumi dalla millenaria storia e dalla veridicità ancora messa al bando. Leo non era ancora quel genio da cui dipendeva l’intero genere umano – erroneamente – e di tutto quel trambusto venutosi a creare, egli soltanto pensava al semplice piacere quotidiano che la vita gli offriva con una famiglia ancora sana e in salute.

Questo, ovviamente, fino alla morte di Ray. Fino alla scomparsa di quella figlia che aveva rappresentato tutto, che era divenuto il perno della sua vita e che – non si vergognava ad ammetterlo – l’aveva posta su un piedistallo capace di opacizzare tutti coloro che venivano dietro di lei. Predilezione, amore incondizionato, forse cieco senso del dovere nel nome di padre che portava... a lui non importava. Non cercava ragioni per spiegare quel suo profondo affetto e non volle nulla per etichettare su un livello superficiale - quale era la parola - quell’acuto dolore che annebbiava i sensi e lacerava il cuore.

“La vita è fragilità sul ciglio di un burrone. Non ho mai compreso per quale motivo, ma gli umani si sono sempre ostinati a rifiutare un simile concetto... forse perché, al contrario mio, non sono mai stati così a contatto con la morte”

Il disinteresse per ogni umana emozione aveva soffocato persino qualsiasi sfumatura capace di definire i contorni della figura di Jean Michel Roger, tramutandolo in una cassa ambulante il cui unico intento era quello di riempirsi di denaro sonante. La pecunia era diventata l’unica ragione di vita che lo muovesse, sebbene - proprio da quel contatto con la morte di cui parlava - egli avrebbe dovuto apprendere quanto inutile fossero quei conti correnti di fronte a divinità esattrici che con nulla potevano essere pagate se non con l’anima delle persone.

Leo l’aveva capito, ma a quei tempi non vi aveva visto, in quei sintomi di avidità, una motivazione sufficiente per soffocare il grido di aiuto che le sue labbra non riuscivano a soffocare. La vendetta non si otteneva con solo odio, eppure l’odio era l’unico mezzo che l’uomo poteva affermare di avere. E da quell’odio era poi scaturito un patto dalle fattezze faustiane, nel quale il probabile era divenuto fattibile solo nel mezzo concreto che Roger aveva pagato profumatamente. Finanziamenti, mecenatismi... tutti termini idonei a descrivere quello che era accaduto tra i due, eppure era quasi irritante che – sciocchi di dubbia sanità mentale – vedessero in loro una qualche forma di amicizia puramente estranea ai loro estratti conto.

“Però ero davvero curioso, non sono riuscito a trattenermi”

 L’essenza stessa del concetto di amicizia era andato bellamente alle ortiche proprio in quell’istante, con i suddetti compari che lustravano di ironia e disprezzo ogni frase usata per condire i loro discorsi. Serietà era già di per se un concetto astratto, ma con loro due acquisiva una tale forma laconica da meritare nuovi studi glottologici.

“E, giusto per curiosità, cosa pensavi di ottenere, con quell’incursione a sorpresa?” A braccia conserte, lo sguardo che Leo rivolgeva a chi gli stava dinanzi assomigliava fin troppo ad un gelido barlume di acuto disprezzo, un sentimento di astio talmente evoluto da non essere nemmeno meritevole di una maschera che lo abbellisse.

“Beh, volevo stuzzicarlo un po’, metterlo sotto pressione... e non è detto che non ci sia riuscito. Tu, d’altronde, cosa pensi di ottenere standotene chiuso qui tutto il santo giorno?”

Il laboratorio di Leo Akaba aveva assunto, nel corso degli anni, un aspetto disdicevole che tanto degenerava quanto più lui si ostinava a trattare simile asettica scientificità in una dimora nel quale sostare per un tempo indeterminato. Isolarsi non era mai apparsa come una vera soluzione, una definitiva sentenza in grado di trascinare nel baratro tutto quello che aveva costruito per la sua famiglia e per la propria felicità, e le sue scarne apparizioni avevano sempre corroborato una tesi malridotta che parlava di un padre i cui legami non dovevano in alcun modo essere separati per sempre. Ma le cose, con la grave rivelazione fatta al proprio erede, erano cambiate; non si chiamava codardia – Leo Akaba amava troppo le sfide per rifuggirle dietro un muro di silenzio – e nemmeno momentanea apnea di fuga. Era tutto un calcolo, la sua vita, una complessa equazione che – a causa dei recenti avvenimenti – presentava una variante del quale tener conto. Abbastanza da scombinare tutti i suoi piani.

“Cerca di capirmi, collega... ho bisogno di tempo, per finire al meglio tutti i preparativi del viaggio”

Quella che ormai era divenuta la sua cucina privata non aveva con se alcun artificio, se non un paio di sedie scoordinate e un tavolo traballante. Credenze e ripostigli erano stati ricavati da vecchi armadi ormai inutilizzati e che un tempo ingombravano i locali adibiti alla detenzione di medicinali - e il loro scarso livello estetico rifletteva la grande incuria nella quale l’uomo aveva deciso di vivere. Eppure, in mezzo a quel deserto di bellezza, l’uomo agiva quasi come se avesse accolto il suo ospite in una reggia di sublime eleganza, e simile – sciocca – presentazione la si intuiva nella cura con cui sostava dinanzi a Roger, seduto ora elegantemente su una delle sedie di plastica che lui stesso aveva requisito da uno studio oramai inutilizzato. Forse era eccesso dell’abitudine nelle restrizione che lui stesso si era imposto nel corso degli anni, pensò Roger, ma l’uomo era più propenso a credere che, dalla morte della figlia, quel soggetto apparentemente freddo come il ghiaccio avesse in realtà talmente subito la dipartita di lei da divenire insensibile verso qualsiasi concetto materiale. La bellezza era senza dubbio un bene superfluo, del quale l’uomo non ne avrebbe più apprezzato il piacere.

“Quindi alla fine hai deciso di andarci?” chiese Roger, un pizzico di curiosità ad aleggiare nelle iridi cristalline “Pensavo non ti saresti mosso prima di...”

“Oramai è inutile continuare questa messinscena” lo interruppe bruscamente lui, con un colpo di tosse a fermare ogni altra parola inutile “La mia ricerca aveva sempre avuto lo scopo di trovare un responsabile, un colpevole... una qualsiasi causa da debellare. Ora che l’ho trovata, che senso ha che me ne resti chiuso qui? L’hai detto tu stesso, è inutile”

“Sì, è inutile... ma credo di aver perduto un passaggio. Che significa per te colpevole? Pensi che la peste sia colpa di un qualcuno?”
“Perché, non dovrebbe esserlo?” Il tono sarcastico con il quale rispose infastidì parecchio Roger, che la figura del fesso davvero non la voleva fare, nemmeno lì dove – come aveva osservato prima innanzi Reiji – la sua ignoranza dominava sovrana.

“Non è che le malattie siano origine dell’uomo, sai?” proruppe dunque, con una mano a sollevare le sue questioni quasi fossero una sostanza solida da presentargli come prova “Parliamo della vera peste, ad esempio. Lo sanno tutti che quella malattia è nata dal batterio ...

“Tu parli della vera Peste, della malattia che decimò la popolazione europea nel medioevo e oltre. Una malattia che al giorno d’oggi non esiste più, ed una malattia che ha lavorato tanto alacremente solo perché gli esseri umani erano ancora troppo inesperti per concepire cosa fosse una vera difesa”

“Ti rendi conto, tu, che stai parlando quasi come se ipotizzassi una guerra batteriologica?” esclamò quindi l’altro, seccato dai toni sibillini che promettevano conclusioni senza mai veramente giungervi in porto “Se ci fosse qualcuno, dietro tutto questo sfacelo, il suo nome sarebbe già nella lista nera degli esseri umani, al primo posto!”

“Il responsabile, amico mio, c’è... solo che è stato furbo a non farsi trovare. Beh, non lo è stato abbastanza, dato che l’ho scoperto” il ghignò di Leo si estese allo sguardo sbalordito del suo interlocutore, occhi inespressivi che brillavano di una vittoria raggiungibile solo col mezzo della parola “E ora che l’ho scoperto... voglio davvero finire questa partita. E salvare l’umanità tutta dalla sua estinzione”

“Quindi quello che hai dato a tuo figlio cos’è? Uno specchietto per le allodole?” chiese Roger, finalmente conscio che la serietà aveva fatto la sua prima reale comparsa nel mezzo dei loro discorsi.

“Esattamente” E vi era molta soddisfazione, in quella singola parola “Lasciamolo a giocare al piccolo chimico, mentre ci riprendiamo il nostro diritto alla vita”

 

***

 

‘Come ci sono finita, io, in questa situazione?’

Era proprio lei a domandarselo, lei che in quel momento viveva quella medesima scena che tanto arduamente tentava di descrivere. Il passato ha mille difetti, il suo modo di incasellarsi al presente diviene, alle volte, talmente nocivo da risultare disturbante, se non addirittura letale, eppure aveva anche il pregio di dare un significato alle azioni che di volta in volta venivano ad accatastarsi alla storia di tutti i giorni. Per questo, per quel passato segnato dal rancore, adesso Yuya non riusciva a spiegarsi per quale assurdo ed inspiegabile motivo adesso si trovava lì, dinanzi alla scrivania di Reiji, con in mano un plico di fogli che attendevano solo il momento giusto per essere consegnati.

“Hai già completato le analisi che ti avevo richiesto? Sei stata veloce. Non per nulla sei una de Les Enfant Terrible...”

Il cameratismo di cui era stata privata ad un tempo in cui lo riteneva d’obbligo ritornava proprio quando appariva più importuno e ingiustificato. Una dimenticanza che aveva quasi del grottesco, e che Yuya non sapeva interpretare se non come una nuova messinscena, una sorta di proseguo di quanto avvenuto nei suoi primi giorni in quella dimora, oppure un nuovo schema di tortura che Reiji stava sperimentando appositamente su di lei.

L’evoluzione era stata talmente netta da risultare drastica, e vedeva il suo inizio nella figura di Shun Kurosaki e nelle parole da lui pronunciate.

“Il capo vuole parlarti. Puoi seguirmi, per favore?”

Il tempo di salutare Reira e si era ritrovata fuori - il dubbio insinuatosi nella sua mente su un possibile fraintendimento di quanto detto nei giorni precedenti – a seguire corridoi che aveva percorso un’unica volta in spiacevoli eventi. Eppure in quel momento non aveva compreso quanto davvero innovativa si rivelasse quella svolta, troppo radicata nelle sue certezze per smuoversi in qualunque teoria ne andasse ad inalberare l’ombra. Convocarla, dal suo personale punto di vista, non aveva altro valore se non al fine della ricerca – che adesso la vedeva come protagonista in quanto benefattrice di una cura la cui natura rimaneva tuttavia un mistero – e nel suo spiraglio di eventi futuri compariva solo un composto contegno in cui ella, cercando di apparire indifferente a chi le stava dinanzi, avrebbe soltanto risposto a brevi domande di circostanza nel quale, forse, si tentava di intuire utili indizi che avrebbero diretto il team verso la giusta direzione.

E invece tutto quello che aveva avuto, al suo ingresso nel piccolo studio del ragazzo, era stato solo un camice e una brutale direttiva.

“Segui Shun. Ti dirà lui cosa devi fare.”

Fosse stata una battuta, la ragazza sarebbe anche scoppiata a ridere, forse perfino in modo indecoroso – d’altronde, lei stessa, agli inizi, aveva pensato a come essere utile a quella cosa, per il semplice motivo che tutta la sua educazione partiva dal compromesso che essa si fondava sulla scienza e sulle promesse che essa concedeva – ma tanto apparvero seri quando lei si ritrovò con una sua postazione, dei suoi orari di lavoro – tra l’altro eccessivamente lunghi e privi di qualunque attimo di tregua – e dei compiti la cui risoluzione era suo espresso compito svolgere.

“Capo, come mai i miei lavori non sono diminuiti, sebbene lei abbia assunto una nuova assistente?”
Caotico come il vento in burrasca ed esagitato come ormai lei aveva imparato a riconoscerlo, Crow Hogan aveva fatto il suo ingresso con il camice spiegazzato pieno di carte e le mani che – tenacemente – tentavano di tener chiusa una cartelletta il cui contenuto minacciava di trasbordare all’esterno – cosa che mai l’uomo seduto dietro la scrivania avrebbe potuto perdonare, data l’inclinazione al pulito e all’ordine che dimostrava tenendo quel piccolo spazio angusto, chiamato pomposamente ufficio, in un nitore capace di suscitare l’invidia delle casalinghe più ossessive.

“Perché non sono i tuoi compiti a diminuire, ma il lavoro generale ad aumentare” presa dalle mani della ragazza i documenti attesi, lanciò un occhiata di sbieco a colui che sembrava essere venuto unicamente per dare aria ai denti “Piuttosto, come vanno i pazienti 1B e 2B che ti ho chiesto di osservare?”

“Vanno esattamente come spiegano queste carte!” rispose il rosso, lasciando sulla scrivania il contenitore di plastica ormai dilatato oltre il ragguardevole, producendo tra l’altro un rumore sordo che nulla prometteva se non altre estenuanti letture.

“D’accordo... Yuya, analizza i documenti di Crow, per favore. Io ho da finire questi”

Se anche la ragazza avesse avuto un briciolo di prontezze di riflessi capaci di farla controbattere, il tanto declamato capo lasciò il suo posto, gli occhi a scrutare attentamente le parole, e l’intenzione di abbandonare la stanza che si intuiva dai suoi movimenti.

“A-aspetta, capo... deve farlo da sola? Nemmeno io sono riuscito a leggerli tutti, e sono quello che li ha stampati!”
“Perché tu sei distratto, caro Crow, per questo mi fido di più a lasciarli nelle sue mani” la mano appoggiata sul pomello avrebbe dovuto segnare la fine di una discussione, ma prima che essa cingesse il metallo con più forza una nuova voce smorzò le sue intenzioni.

“Nelle mie mani? Mi era parso di capire che tu non avessi alcuna fiducia nelle mie capacità... non rischi troppo ad affidarti a colei che è troppo sentimentale per raggiungere risultati concreti?”
Se avesse dovuto definire un vero movente capace di spiegare la natura all’origine delle sue parole, la stessa ragazza avrebbe avuto serie difficoltà a trovare le giuste risposte; l’unica cosa che avrebbe saputo dire era che l’istinto si costruiva quale forza incapace di essere spiegata, eppur tuttavia anche impossibile da contraddire, e in quanto tale era la stessa Yuya a trovarsi sguarnita e senza adeguate precauzioni che la difendessero da se stessa. O forse, un po’ lo doveva ammettere, era quel suo perenne metterla in agitazione che, in un certo senso, aveva quasi invitato la ragazza a sfidarlo con domande dirette e che – in altri casi, casi in cui il suo nemico era qualcun altro – avrebbero messo in difficoltà ogni arguto interlocutore.

Non Akaba Reiji.

“Un uomo intelligente riconosce quando sbaglia le sue conclusioni, e io ammetto le mie colpe. Se davvero il tuo lavoro fosse stato errato, non avrei avuto alcuno scrupolo ad allontanarti nuovamente da questo posto... d’altro canto, credo che il mio rischio maggiore sia quando riesco a farti arrabbiare. In quel caso, è bene che ti stia alla larga

Nel dir questo, nell’enunciare quelle parole cariche di ironia – sì, ironia, ma di una forma gentile che rallegrava gli astanti – l’iride magenta di lui non staccò neppure per un istante il suo contatto con quelle carmini di lei, rossa per quel precedente schiaffo che ancora alleggiava su un rapporto dallo sbocciare incerto. E – sebbene alla ragazza apparve assurdo – egli le sorrise, un semplice piegarsi delle labbra che però ebbe il potere di scaldarle il cuore.

Mai Yuya Sakaki avrebbe pensato che il sorriso di Reiji Akaba potesse essere così affascinante.

 

 

 

   
 
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