Anime & Manga > Daiku Maryu Gaiking
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Autore: BrizMariluna    29/09/2017    6 recensioni
Il Gaiking, il Drago Spaziale e il loro equipaggio vagamente multietnico, erano i protagonisti di un anime degli anni settanta che guardavo da ragazzina. Ho leggermente (okay, molto più che leggermente...) adattato la trama alle mie esigenze, con momenti ispirati ad alcuni episodi e altri partoriti dai miei deliri. E' una storia d'amore con incursioni nell'avventura. Una ragazza italiana entra a far parte dell'equipaggio e darà filo da torcere allo scontroso capitano Richardson, pilota del Drago Spaziale. Prendetela com'è, con tutte le incongruenze e assurdità tipiche dei robottoni, e sappiate che io amo dialoghi, aforismi, schermaglie verbali e sono romantica da fare schifo. Tra dramma, azione e commedia, mi piace anche tirarla moooolto per le lunghe. Lettore avvisato...
Il rating arancione è per stare dal canto del sicuro per alcune tematiche trattate e perché la mia protagonista è un po' colorita nell'esprimersi, ed è assolutamente meno seria di come potrebbe apparire dal prologo.
Potete leggerla tranquillamente come una storia originale :)
Con FANART: mie e di Morghana
Nel 2022/23 la storia è stata revisionata e corretta, con aggiunta di nuove fanart; il capitolo 19 è stato spezzato in due capitoli che risultano così (secondo me) più arricchiti e chiari
Genere: Avventura, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Gaiking secondo me'
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~ EPILOGO ~
 
Dieci anni dopo
 
 
L’estate di Santa Barbara era calda e secca, come il vento dell’est che, spirando dal deserto, scompigliò i capelli biondo scuro di Pete mentre scendeva dal vecchio Ford Kuga. Anche se ora li teneva un pochino più corti, non aveva perso il vizio di dimenticarsi troppo spesso di farseli tagliare, e a trentasei anni, suonati da ormai sei mesi, continuavano a creargli tumulto sulla fronte proprio come dieci anni prima.  
Era di ritorno dall’università, dove aveva affiancato il Professor Marcus Brody1 che aveva tenuto una lezione su come gli Zelani, nel corso dei secoli, avessero sfruttato i più famosi e importanti siti archeologici terrestri per farne i loro avamposti, nonché covi per Mostri Neri, contro cui la Terra aveva combattuto un decennio addietro. Era l’argomento che Pete aveva scelto, a suo tempo, per la propria tesi di laurea e sul quale era piuttosto ferrato, avendo vissuto quei drammatici avvenimenti in prima persona.
Ebbene sì, alla fine aveva ottenuto la sua sospirata laurea in Archeologia, proprio come Fabrizia era riuscita a diventare veterinario, al prezzo di ore passate insieme, col naso affondato nei testi più disparati, dalla storia alla chimica, dall’arte antica alle patologie tipiche del gatto o del criceto. Pete ricordava quel periodo sempre con piacere: era stato impegnativo e faticoso, ma molto soddisfacente, poiché entrambi avevano amato, e amavano tuttora, ciò che avevano studiato.
Era anche vero che, durante quelle lunghe giornate di studio, a volte era capitato loro di distrarsi, ma bisogna dire a loro favore che non era mai successo prima di un esame importante e, anche se non erano usciti con il massimo dei voti, se l’erano cavata più che dignitosamente. In ogni caso, l’impegno di Pete con l’università, come quel pomeriggio, era solo saltuario: gli piaceva collaborare con l’Ateneo e con il suo anziano professore – a cui era molto affezionato – assecondando la sua vecchia passione; ma il suo vero lavoro era, come aveva, in fondo, sempre desiderato, volare e insegnarlo agli altri.

Per un anno, dopo la fine del conflitto, lui, Briz e il resto dell’equipaggio, avevano girato il mondo con il Drago Spaziale, portando aiuti materiali, umanitari e a volte anche solo morali. Per chi aveva perso beni, affetti e quant’altro a causa dell’Orrore Nero, vedere da vicino chi li aveva salvati, liberati e, in un certo qual modo, vendicati, era sempre e comunque psicologicamente utile, proprio come constatare che gli Eroi del Drago Spaziale – come tutti li chiamavano, loro malgrado – una volta finita la guerra non si erano dimenticati del resto del loro pianeta.
Allo stesso modo, era stato fondamentale il loro intervento nell’appoggiare i Governi dell’Alleanza Terrestre per perorare la causa dei profughi Zelani, che agli occhi di alcune nazioni era una questione ancora molto difficile da accettare; ma alla fine, con tempo, pazienza e collaborazione, anche quella faccenda si stava risolvendo, e gli alieni ora convivevano in modo più o meno pacifico e piuttosto amichevole con la maggior parte dei terrestri.
Negli anni successivi alle Missioni di Pace e alle dimissioni dell'intera squadra, il Drago Spaziale, il Gaiking e Balthazar, erano rimasti, insieme agli altri mezzi d’appoggio, a Omaezaki. Non c’erano minacce imminenti dallo spazio, ma i robot da battaglia erano mantenuti operativi per ogni evenienza, anche perché in quegli ultimi tempi a volte erano intervenuti, con un nuovo equipaggio, per sedare sul nascere qualche conflitto in giro per il Globo.
Infatti, come Fabrizia aveva ben previsto anni prima, i terrestri non erano tutti interessati al mantenimento della pace sul pianeta, e in alcune parti del mondo, dopo diversi anni di tranquillità pressoché totale, qualche scaramuccia si era ripresentata, anche senza che gli alieni c’entrassero qualcosa: questioni religiose, xenofobia, deliri di onnipotenza di qualche pazzo salito chissà come al potere… Insomma, la pace completa continuava ad essere un’utopia. La situazione sulla Terra era sicuramente migliore, rispetto agli anni precedenti la guerra contro Darius, ma era purtroppo chiaro come il sole che l’essere umano non sarebbe mai cambiato: non era capace di imparare dalla Storia, tantomeno dai propri errori.

Il Drago e tutti i mezzi annessi erano tuttora sotto la responsabilità del dottor Daimonji che, ancora in piena forma pur avendo da poco superato la settantina, era tuttora alla dirigenza del Centro di Ricerche di Omaezaki. Il dottore, grazie ad un nuovo team di giovani studiosi di ingegneria genetica, era riuscito, negli ultimi anni, a estendere la possibilità di pilotare Balthazar ad altri piloti che, insieme ad altri ragazzi e ragazze, erano stati sostituti più che degni dei precedenti.
E ora c’era un ulteriore nutrito gruppo di una nuova generazione di giovani che studiavano e si addestravano, per diventare il terzo equipaggio del Drago Spaziale. Tra tutti i loro nomi, alcuni spiccavano più di altri: per esempio quello del venticinquenne Hakiro Kobayashi, che stava scoprendo tutti i segreti del Gaiking; o quello di Yock Zenon, di un paio d’anni più vecchio, che aveva tutte le carte in regola per pilotare il Drago, e quello di sua sorella minore Lyra, che era in grado di connettersi perfettamente con Balthazar senza problemi di sorta.
Hakiro e Lyra, dopo una breve e innocente liaison adolescenziale, si erano persi di vista, ma da alcuni anni si erano ritrovati ai corsi di addestramento: il rapporto inquieto e litigarello che si era instaurato tra i due, ora che erano adulti, ricordava a Daimonji un’altra turbolenta coppia del primo equipaggio. Tutti avevano già intuito come stessero in realtà le cose, per questi due giovani che, tra un bacio e un diverbio, avevano comunque perso meno tempo dei loro due predecessori.
 
Durante l’anno successivo alla fine del conflitto, in cui lo storico equipaggio del Drago era stato Ambasciatore di Pace, c’erano stati anche i famosi impegni diplomatici, tanto temuti da Fabrizia e che invece, alla fine, la ragazza aveva imparato ad apprezzare. Non era stato poi così difficile tirare fuori la parte più femminile di lei, anche se il suo fidanzato aveva aiutato non poco, in questo. Ma aveva cominciato a tenere a freno la lingua, a muoversi con grazia e, udite udite, non diceva più le parolacce! Cioè… non in certe situazioni, per lo meno. Il pirata della Tortuga, a volte non poteva fare a meno di palesarsi, ma accadeva raramente, e solo quando proprio era necessario. Ma soprattutto, cosa che aveva stupito tutti, Briz aveva imparato a indossare un abito da sera non solo con disinvoltura, ma addirittura con classe. Fabrizia, Jamilah e Midori, ad ogni evento avevano lasciato senza fiato gli amici e i rispettivi fidanzati, nonché i vari presidenti, monarchi e relativi ministri e delegati.
 
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Ma lei stessa aveva dovuto ammettere che Pete e i loro compagni con lo smoking erano davvero qualcosa di impagabile: persino Yamatake faceva la sua bella, pur se ingombrante, figura!
Naturalmente Briz aveva imparato anche a ballare il valzer e altre cose più impegnative.
Ecco, quello non era stato facile, non nel senso pratico in sé: il problema era che lei, considerandosi una schiappa e non volendo dare spettacolo, aveva deciso che Pete le avrebbe dato lezioni nella privacy della loro stanza. Se non che era questione di pochi minuti, una manciata di volteggi, e si ritrovavano a fare tutt’altro che ballare il valzer! Così, quando il numero di lezioni saltate era diventato improponibile, avevano optato per la palestra; ma pure qui, dopo aver scoperto che era sufficiente chiudere la porta a chiave per non venire disturbati, anche Fabrizia si era arresa, convenendo che non si potesse andare avanti in questo modo e decidendo che l’unico posto possibile fosse la terrazza o la sala comune, con o senza spettatori. E, senza nemmeno troppo stupore, le erano state sufficienti un paio di volte per capire come funzionasse: come Pete, a suo tempo, si era scoperto portato per cavalcare, per Fabrizia, imparare qualche classico ballo di coppia senza distrazioni inopportune – per quanto piacevoli – era stato uno scherzo.
 
Ridendo fra sé a quel divertente ricordo, Pete varcò la soglia della grande hacienda bianca, affacciandosi poi alla porta della cucina.
– Hola, Felicita! – salutò, alla vista della governante messicana che metteva insieme una delle sue ottime cene e che ricambiò il saluto con un sorriso.
– Hola, Pete! Bentornato!
Tra loro non c’erano formalità: Felicita e suo marito Joaquim – che si occupava del grande giardino, dei lavori manuali più pesanti e aiutava nella cura dei loro cavalli – erano stati l’ennesima sorpresa, per Fabrizia. I due, poco più che cinquantenni, non avevano figli e vivevano nell’ampia mansarda all’ultimo piano della grande casa: erano custodi della tenuta fin da quando erano giovani sposi, quando Pete aveva una decina d’anni e Tom circa un paio. Era stato del tutto naturale che rimanessero alle loro dipendenze, visto che la coppia non era mai stata considerata come servitù, ma parte della famiglia, e il loro aiuto era assolutamente indispensabile perché, nonostante Briz ce l’avesse messa tutta – e avesse effettivamente qualche piatto della cucina italiana come cavallo di battaglia – come cuoca era rimasta, in generale, un vero disastro; senza contare che il suo lavoro la impegnava parecchio, e stare dietro a una casa così grande da sola, sarebbe stata comunque un’impresa.
Pete attraversò l’ampia sala, dall’arredamento perfettamente equilibrato tra classico e moderno, e il suo sguardo, come spesso accadeva, si posò sulle quattro foto che facevano mostra di sé sulla mensola del grande camino.
In una era ritratto Alessandro a diciassette anni, con un sorriso scanzonato e gli occhi verdi e luminosi: più uguale di così a sua sorella, non sarebbe potuto essere; Pete aveva sempre pensato di dovere molto a questo ragazzo che il destino non gli aveva concesso di conoscere, ma ciò non gli impediva di amarlo come un altro fratello.
Nella foto più grande, che risaliva a circa sei anni prima, Pete e Briz si sorridevano, gli sguardi persi uno nell’altro, lui in abito scuro e lei con i capelli raccolti in un’elaborata acconciatura e un lungo vestito color avorio dal corpetto in pizzo e ornato di piccole perle. La ragazza sfoggiava un’espressione felice e soddisfatta, probabilmente per essere riuscita, un paio d’ore prima di quello scatto, a mettergli la classica corda al collo; anche se, in realtà, era difficile dire chi avesse accalappiato chi.
 
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E insomma, a un certo punto, senza troppo sfarzo e alla sola presenza dell’equipaggio del Drago Spaziale, della famiglia Del Rio, di Tom Richardson, George Blackwood e pochi altri, si erano anche sposati. 
Ospite d'eccezione, un occhialuto giornalista giapponese, col quale, dopo la fine della guerra, erano rimasti in contatto diventando grandi amici: Ippei Hondo. Il ragazzo aveva fatto poi una discreta carriera, grazie alle sue indubbie doti narrative e alle sue foto dal tocco artistico e incisivo. Briz e Pete gli avevano concesso l'esclusiva, sapendo che avrebbe raccontato il loro matrimonio, tramite le sue immagini e le sue parole, in modo divertente, originale e piacevole, ma mantenendo sempre toni sobri e non gossippari.
I Richardson non erano stati i primi, però, ad ufficializzare la loro relazione: Jamilah e Sakon, pur continuando tuttora ad intervenire periodicamente nei lavori di manutenzione e miglioramento del Drago Spaziale, erano tornati a vivere ad Auckland, in Nuova Zelanda; erano docenti all’università, e avevano compiuto il grande passo parecchio prima di Pete e Fabrizia.
Pete trattenne a stento una risata nel ricordare il momento, a due mesi dalla fine del conflitto, in cui Jami aveva dato l’annuncio ufficiale: lei e il suo Prof aspettavano un bambino, e lui era stato l’unico a non stupirsene più di tanto. Dopo alcune impertinenti illazioni degli amici, nonché un paio di calcoli buttati a caso, Jamilah non aveva potuto far altro che confermare, fugando il sospetto di molti: solo su Marte, per forza di cose, i due non avevano preso alcuna precauzione. Sakon non era uno che arrossisse facilmente, ma in quel frangente, con gli amici che, insieme alle felicitazioni, avevano fatto commenti più o meno mordaci sul fare centro al primo colpo – e per di più sotto pressione, come i due dovevano essere stati in quel momento – non aveva potuto fare a meno di diventare letteralmente paonazzo; ma la luce che gli si era accesa nello sguardo aveva rivelato quanto il diventare padre, pur così in fretta e all’improvviso, lo rendesse felice, tanto che, nel giro di altri due mesi, lui e Jami si erano sposati. Il loro bambino ora aveva nove anni, i capelli corvini e mossi di Sakon e la pelle ambrata e gli stupefacenti occhi chiari di Jamilah. Chiamarlo Martin, ovvero Dedicato a Marte, era venuto fin troppo naturale, ma la cosa che rendeva felice Sakon più di ogni altra, era che suo figlio era sì, un bambino sveglio, brillante e intelligente, ma assolutamente nei canoni. A differenza di lui, avrebbe avuto una vita normale, in scuole normali, con amici normali, dove non si sarebbe annoiato e si sarebbe anche divertito con i compagni della sua età.
 
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Il dottor Daimonji si era ritrovato ad essere un orgoglioso nonno, ma Martin Gen era stato solo il primo, di una schiera di nipotini che alcuni dei suoi ragazzi gli avevano regalato.
Midori e Sanshiro – il quale era tuttora l’allenatore di baseball più richiesto del Giappone – erano rimasti a vivere a Omaezaki, dove Midori affiancava il padre nel suo lavoro al Centro e, talvolta, lo sostituiva più che degnamente. Avevano seguito anche loro la scia di Sakon e Jamilah, ma, più tradizionalmente, avevano prima pensato al matrimonio; successivamente erano nati i loro figli, un maschio e una femmina: Daisuke e Hikaru,2 che ora avevano sette e cinque anni. I due bambini erano bellissimi, ed erano l’ulteriore prova vivente, se mai ce ne fosse stato bisogno, che gli abitanti di Pijon erano esseri umani al cento per cento.
Stufi di fare gli eterni fidanzati, erano convolati a nozze anche Solange e Bunta, che ora avevano un figlio di sei anni di nome Koji,2/a e una figlia di tre, di nome Vivienne. Le loro professioni di oceanografo e biologa marina gli consentivano di lavorare insieme, ma li costringevano spesso in giro per il mondo; i bambini, però, li seguivano senza troppi problemi, e avevano una casa a Yokohama alla quale tornare dopo ogni viaggio.
Fan Lee e Yamatake avevano aperto in società una scuola di arti marziali a Shizuoka, la città la cui prefettura comprendeva Omaezaki. Erano la coppia di soci più improbabile che si fosse mai vista: il primo alto, asciutto, un po’ taciturno; il secondo incombente, chiacchierone e casinista. Ma andavano d’accordo, anche perché l’esuberante carattere di Yamatake era spesso tenuto a freno dalla simpatica ma pacata Kaori, la ragazzona che il lottatore, grazie all’intervento di Briz, aveva conosciuto dieci anni prima, alla festa sulla spiaggia, e che aveva sposato già da alcuni anni. Yamatake divideva equamente le sue attenzioni tra la scuola di sumo, il ristorante della moglie, e la piccola Mariko, di appena un anno, arrivata finalmente di sorpresa, quando ormai nessuno ci sperava più.
Quanto a Fan Lee, non si era ancora sposato ma, all’alba dei quarant’anni, finalmente, da qualche tempo frequentava Sakura, una donna dal carattere tranquillo, ma aperto e solare, che si completava perfettamente con l’indole riservata di lui… e che aveva la bellezza di dodici anni in meno. Era presto, per parlare di figli, ma avevano tutto il tempo per pensarci.
Ripensare ai suoi amici fece volare la mente di Pete a suo fratello e a Jessica Del Rio i quali, laureati in Medicina a Bologna, si erano poi trasferiti in America e si erano specializzati all’università di Santa Barbara: Tom in Pediatria e Jessie in Ginecologia e, subito dopo le specializzazioni, erano entrati a far parte di uno studio medico associato. Avevano appena cominciato a parlare di matrimonio e si ritrovavano già in procinto di mettere in pratica i loro studi, poiché Jessica era felicemente in attesa da circa quattro mesi.
Pete e Briz si sentivano zii di tutti i figli dei loro amici, ma il bambino, o bambina, di Tom e Jessie, sarebbe stato davvero loro nipote e, soprattutto, sarebbe stato lì con loro, nell’ala opposta della grande casa in cui vivevano, e questo li emozionava moltissimo.
Vivendo tutti sparsi tra Stati Uniti, Giappone e Nuova Zelanda, gli amici non si vedevano molto spesso, ma per fortuna Internet aiutava non poco a mantenere i contatti: raramente passava un giorno in cui almeno alcuni di loro non si sentissero, tra videochiamate, messaggi e invio di foto e notizie varie. In tutto ciò, vigeva un patto tacitamente sottoscritto: non lasciar mai perdere un’occasione per trovarsi di persona; e c’erano comunque le due volte all’anno, fisse e insindacabili, a giugno e dicembre, in cui si tenevano le adunate ufficiali in Italia, a Boscombroso alla fattoria dei Del Rio.
 
Il pensiero di Pete si spostò di nuovo, e con esso gli occhi che si posarono su altre due immagini incorniciate sulla mensola: anche lì erano ritratte due coppie di sposi, ma le fotografie erano datate, dai colori un po’ sbiaditi.
In una erano ritratti Andrea Cuordileone e Serena Monforte, i genitori di Briz; nell’altra, William Richardson ed Elizabeth McBride.
Quasi subito dopo la fine del conflitto contro l’Orrore Nero, il processo a carico di Will era stato riaperto in base alle rivelazioni di George Blackwood: le testimonianze di Tom e Pete, e di alcuni altri componenti dell’equipaggio della Blue Princess, circa i rapporti tesi di Rico Serrano con il Comandante Richardson, erano stati sufficienti a far riaprire il caso e mettere sotto indagine il portoricano che, messo alle strette, e forse fiaccato da anni di rimorsi, era alla fine crollato e aveva confessato il suo delitto. Il nome di Will Richardson era stato finalmente riabilitato e ricordato con tutti gli onori, e l’unica ombra che Pete sentiva nel cuore, ripensando a lui, era il rimpianto di non avergli mai potuto chiedere scusa per le pesanti frasi che gli aveva rivolto durante quel maledetto, ultimo litigio. Ma Briz, ogni volta che l’argomento saltava fuori, riusciva sempre a sollevarlo un po’: alla fine, la famosa storia che “La morte non è la fine di un bel niente, ma solo un ostacolo lungo il cammino”, lo convinceva del fatto che i suoi genitori, ovunque fossero, lo avessero perdonato di ogni cosa e continuassero ad amare lui e Tom e ad essere orgogliosi di loro; e la cosa era, ovviamente, assolutamente reciproca.

Un movimento improvviso accanto al caminetto attirò la sua attenzione, distogliendolo dai ricordi: da una delle teche illuminate e riscaldate, una Pogona vitticeps, altrimenti detta Drago Barbuto, originaria del deserto australiano, lo osservò curiosa e vagamente speranzosa.
– È inutile che fai la ruffiana con quello sguardo languido, Saphira!3 Non ti tiro fuori di lì, scordatelo! Ci penserà la tua degna padrona più tardi, se io glielo permetterò! – disse Pete, redarguendo l’animale e immaginando già Briz che, di lì a qualche ora, se ne sarebbe andata in giro per casa con il lucertolone su una spalla. Spostò lo sguardo nella teca superiore, dove facevano gli splendidi non uno, ma ben tre esemplari di Eublepharis macularius, i gechi leopardini dell’Afghanistan: due femmine e un maschio. Le due femmine erano le ultime arrivate e ciò non lo faceva ben sperare, circa il fatto che gli occupanti di quel terrario sarebbero rimasti in tre ancora per molto. Quella dei rettili era l’ultima passione che era spuntata in sua moglie e, sebbene lui all’inizio fosse molto perplesso, doveva ammettere che aveva finito per affezionarsi a quelle strane bestiole quasi quanto ai loro cavalli, e cani, e gatti, che, loro sì, erano già aumentati di numero ormai da tempo.
Atlas era un vecchio cane di quasi quattordici anni, col muso imbiancato e qualche acciacco che Fabrizia curava con dedizione e affetto, e persino Kora e Syrio, due grossi e giovani pastori australiani, sembravano quasi sostenerlo e proteggerlo. Al gatto Balto si erano aggiunti altri felini trovatelli – che all’inizio si erano limitati a bazzicare nelle scuderie ma, col tempo, come ogni gatto che si rispetti, avevano inevitabilmente finito per impossessarsi di buona parte della casa – ai quali Briz aveva affibbiato i soliti nomi presi dai suoi film preferiti, tipo Jyn, Solo e Rey.4 L’unico con un nome normale era il più piccolo, Teo, ma perché glielo aveva dato Pete.
I due mitici cavalli, Indy e Obi-wan, pur anzianotti tenevano botta più che bene, ma a far loro compagnia erano arrivati, da un paio d’anni, Cisco, Thunder e Moonlight.
Nella dépendance dietro alle scuderie si trovava l’ambulatorio veterinario di Fabrizia, al quale si accedeva, da un cancello sul retro, passando sotto a un’insegna di legno che ne recava inciso il nome: Noah’s Ark. Il nome era venuto fuori così, praticamente da solo, ma del resto tutta la loro casa, in generale, era davvero un’Arca di Noè.
Gettato un ultimo sguardo ai rettili, Pete si diresse all’esterno, attraversando il patio sul retro per raggiungere le scuderie, sicuro che avrebbe trovato lì sua moglie. Balto gli venne incontro strusciandosi contro le sue gambe e lui si abbassò ad accarezzargli il morbido manto bianco e rossiccio.
– Ehi, ciccione, è bello non fare un accidente dal mattino alla sera, eh? Più invecchi, e più diventi grasso! Forse è proprio vero che i cani ci insegnano ad amare, ma voi gatti a vivere! – commentò divertito.
Proprio in quel momento, i suoi due animaletti preferiti sbucarono dal portone spalancato della scuderia, correndogli incontro e saltandogli letteralmente addosso, senza nemmeno dargli il tempo di rialzarsi.
Quando ci riuscì, lasciò a terra il maggiore dei due, cinque anni appena compiuti, al quale stare in braccio non importava più di tanto: Alex ormai era grande, e gli bastava una scompigliata di capelli da parte di suo padre per sentirsi importante; capelli che erano identici a quelli scuri di Briz, proprio come la spruzzata di lentiggini sul naso. A dire il vero, quel bambino era la copia stampata di sua madre e, di conseguenza, dello zio di cui portava il nome, anche se in inglese: Alexander. Ma Pete aveva pareggiato i conti scegliendo come secondo nome William e prendendosi la soddisfazione di vedere che gli occhi di suo figlio, crescendo, erano diventati dello stesso azzurro intenso e trasparente dei suoi.
Alex corse di volata a sedersi sul recinto, a guardare Joaquim che faceva muovere alla corda Moonlight, mentre Pete li raggiungeva con la figlia in braccio.
Ecco, questa piccoletta di quasi quattro anni invece, che si era annunciata a sorpresa quando Alex era ancora un neonato, e aveva fatto il suo ingresso nel mondo a soli quattordici mesi dalla nascita del fratello, era uguale a lui: i capelli biondo scuro dai riflessi rossicci, il nasino diritto e l’espressione decisa, ne facevano una Richardson sputata, fatta e finita. Beh, proprio fatta e finita, magari no: anche qui, una spruzzata di lentiggini non mancava e gli occhi erano inequivocabilmente verdi, come quelli di Briz.
La prima parola di Alex era stata mamma, a quasi un anno di età, quando ormai disperavano di sentirlo pronunciare qualcosa. Invece, quando la piccola aveva pronunciato per la prima volta papà, a soli otto mesi, lui si era quasi commosso.
Briz lo aveva guardato, e aveva detto: – Pete, ha parlato! È un miracolo, così piccola! 
Lui si era ripreso immediatamente e aveva ribattuto molto seraficamente: – Bri, è tua figlia: il miracolo sarebbe se fosse stata zitta.
Ed effettivamente, ora, l’atteggiamento da adorabile streghetta nonché piccolo maschiaccio, insieme alla lingua sciolta, non lasciavano molti dubbi su quale ramo della famiglia avesse predominato, dal punto di vista caratteriale.
Del resto, i due nomi della bambina erano quelli dei nonni Cuordileone: AndreaSerena, e comunque Andy, come tutti la chiamavano, aveva davvero un debole per il suo fortissimo e bellissimo papà. Era un debole pienamente ricambiato, va detto: ogni volta, come in quel momento, che sentiva le braccine di sua figlia stringersi intorno al suo collo, a Pete sembrava di sciogliersi.
Aveva imparato da sua moglie e dai suoi figli, come l’amore potesse davvero avere mille modi e sfumature diverse, su come manifestarsi e riempire la vita.
Posò a terra Andy, non prima che gli avesse stampato sulla guancia un appiccicoso bacino, e la guardò, agile e svelta, nei suoi jeans e camicetta a quadretti, raggiungere il fratello. Joaquim sollevò Andy e la mise a cavallo di Moonlight, poi toccò ad Alex, che fu posto dietro di lei, e il bambino le passò le braccia attorno alla vita con un gesto protettivo. Adorava la sorellina, che faceva parte della sua vita da quando aveva memoria: c’era sempre stata, per lui. Erano ancora piccoli per andare a cavallo da soli, ma Moonlight – una giumenta di razza palomino di un sauro chiarissimo con la criniera e la coda argentee – era buona e tranquilla e, con Joaquim, erano in buone mani.
 
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Pete scacciò il pensiero di come sarebbero stati questi due meravigliosi bambini di lì a dieci anni, in piena adolescenza, tra scuola, paturnie di crescita, innamoramenti vari e altre piacevolezze…
“Alt, affrontiamo un problema per volta!” si disse convinto.
 
Raramente Pete e Fabrizia parlavano della guerra contro l’Orrore Nero.
Gli incubi e i risvegli improvvisi che li lasciavano senza fiato, ansanti e sudati, col rumore dell’allarme o lo stridore delle battaglie che risuonavano loro nelle orecchie, non avevano risparmiato nessuno dei due: c’erano voluti mesi perché cominciassero a diradarsi, e diversi anni affinché sparissero quasi del tutto. Almeno, risvegliarsi nello stesso letto, insieme, era sempre servito a mitigare il disagio causato da quei sogni inquietanti.
Una volta cresciuti, i bambini avrebbero per forza imparato di essere figli di due guerrieri che avevano contribuito alla salvezza della Terra, ma lui e Fabrizia non li ritenevano ancora abbastanza grandi per capire appieno la situazione; e quando parlavano tra loro di quel periodo, non era quasi mai per ricordare gli scontri o i loro nemici, ma solo i legami con i loro compagni o le tappe del loro rapporto personale che, dopo quell’inizio disastroso, li avevano lentamente portati fino a quel momento. Però, ogni tanto, il nome di Zhora affiorava nei loro discorsi, a volte risvegliando il ricordo della paura provata durante quell’avventura – che aveva lasciato segni indelebili e tuttora visibili sulla loro pelle – altre invece finendo per strappare loro qualche battuta e risata.
 
Pete entrò nella scuderia, guidato dalla voce di Fabrizia che parlava con Indy in un italiano pesantemente inflazionato da un paio di accenti dialettali.
– Poggia in là, bischero! Mo sta’ fermo, dai… Sei un bel ciù, ve’!
Ecco, le sue ascendenze toscano-romagnole che ogni tanto si facevano sentire, e alle quali si era abituato: ogni tanto tirava fuori dei termini che lo facevano davvero ridere, come appunto ciùossia allocco, o il suo solito e collaudato “Dai, va là”, che conosceva ormai da tempo.
Sembrava stare bene, a giudicare da come continuava a cianciare con il cavallo.
A dire il vero, era un po’ preoccupato: quella mattina Fabrizia si era alzata pallida come un cencio e con la nausea, e nel giro di dieci minuti aveva vomitato l’anima. Poi era passato tutto e quando lui era uscito, a malincuore, per andare prima al campo di volo e, nel pomeriggio, all’università, Briz era di nuovo in perfetta forma e l’aveva mandato via accusandolo di preoccuparsi troppo. Ma lui le aveva strappato la promessa che sarebbe passata da Jessica, allo studio medico, a farsi vedere.
Era più di un anno che si erano messi alla ricerca del terzo figlio, ed era altrettanto tempo che ogni venticinque-quaranta giorni – Briz non era mai più stata regolare col ciclo naturale, dopo gli sconvolgimenti dovuti a quel dannato dispositivo ormonale portato più di due anni – dovevano fare i conti con la delusione. Ma avevano deciso di prenderla con filosofia: in fondo Briz aveva appena trentadue anni, e pure scarsi, avevano un mucchio di tempo, ancora. Se un altro bambino fosse arrivato, bene; se invece no, pazienza: non si poteva avere tutto, nella vita, e loro, al tutto, c’erano già molto vicini.
Il suo malessere di quella mattina li aveva fatti sperare, anche se vederla stare così male non gli era piaciuto per niente. Le gravidanze per Alex e Andy erano state delle passeggiate: Briz aveva sempre detto di non essere mai stata tanto bene come quando era incinta e aveva sfornato i pargoli con ragionevole facilità, affrontando travagli intensi, ma non troppo lunghi.
Pete era stato al suo fianco in ambedue le occasioni, non si sarebbe perso le nascite dei suoi figli per tutto l’oro del mondo, ma quando lei era in vena di prenderlo un po’ in giro sulle sue debolezze, gli ricordava senza pietà che entrambe le volte, nei giorni successivi, sembrava lui, quello che aveva partorito! E lui rammentava benissimo, anche se non lo avrebbe mai ammesso, che effettivamente, in quei concitati momenti in sala parto, aveva respirato e spinto quasi più di lei.
Ed eccola lì, ora: lo aveva sentito arrivare e gli andava incontro, nel calore della scuderia odorosa di fieno, una lama di sole rossastro a tagliare la penombra e ad illuminare il sorriso sulle labbra piene, i capelli raccolti in una treccia e la ciocca bianca che risaltava, accarezzandole il viso.
– Buenas tardeprofesor – lo salutò, prima di abbracciarlo.
Pete le sollevò il mento per baciarla, approfittando del fatto che i mocciosetti non potessero vederli e rompere le scatole con i loro: “Uffa, ma perché vi baciate sempre?”
In realtà, non è che passassero tutto il loro tempo libero a sbaciucchiarsi, ma chissà perché i bambini avevano come un radar, che consentiva loro di spuntare fuori come per magia ogni qual volta ciò capitava.
Aver affrontato due gravidanze aveva solo leggermente arrotondato le curve di Briz… nei punti giusti, reputava Pete, per il quale la compagnia di sua moglie, tenersela fra le braccia e fare l’amore con lei, erano ancora tra i privilegi migliori che la vita gli avesse concesso; e sapeva che la cosa era profondamente ricambiata.
Questo non significava che non discutessero mai, ma avevano imparato a conoscersi: Briz aveva l’arrabbiatura svelta, durante la quale urlava ed era capace di lasciarsi scappare robacce delle quali si pentiva immediatamente e di cui si affrettava a scusarsi, almeno quanto Pete si affrettava a dimenticarle; e  dopo si parlava. Lui, invece, aveva l’arrabbiatura lunga, che consisteva, quando qualcosa lo contrariava, nello smettere di parlare e tenere il muso per ore. Briz aveva imparato a lasciarlo ruminare e, anche in questo caso, dopo, si parlava.
Una volta, quando, agli inizi della loro relazione, Pete aveva superato i limiti e la crisi di mutismo gli era durata tre giorni – ora come ora non ricordava nemmeno più il motivo del litigio – Briz aveva sofferto moltissimo di questo suo comportamento. Quando finalmente avevano chiarito la cosa, lei gli aveva chiesto, abbracciandolo stretto, di non farlo mai più: qualche ora di silenzio per sbollire, la poteva comprendere e sopportare; di più, no. Pete aveva capito, e da quella volta avevano instaurato un patto, tra loro: non si andava a dormire senza aver fatto pace, a costo di metterci tutta una notte per risolvere una questione; e, finora, il sistema aveva sempre funzionato.
– Sei bellissima, lo sai?
– Anche tu, accidenti. Sei il prof barboso e secchione più sexy che conosca – gli disse, studiando il volto abbronzato di suo marito e pensando che quei dieci anni trascorsi avessero aggiunto fascino ai suoi bei lineamenti; in fondo aveva solo qualche ruga d’espressione in più, agli angoli degli occhi, perché rideva più spesso.
– Come stai? – chiese Pete affrontando gli occhi verdi di Fabrizia, nei quali aveva visto brillare una luce malinconica, o forse solo rassegnata.
La cosa non lo stupì più di tanto: aveva immaginato che il responso della dottoressa Jessie non sarebbe stato diverso da tutti gli altri di quell’ultimo anno e gli risultò evidente che Briz, quella mattina, avesse avuto solo un imbarazzo di stomaco.
– Sto bene, è tutto a posto – sospirò lei, chiudendo gli occhi e affondandogli il volto nel collo, godendosi il calore del suo abbraccio e il famigliare profumo della sua pelle.
Pete le accarezzò i capelli e la schiena e le baciò la fronte, reprimendo anche lui un sospiro di vaga frustrazione; era vero che cercavano di prenderla con filosofia, ma quel leggero senso di delusione si faceva vivo lo stesso, ogni volta.
Briz sollevò il viso e il suo respiro gli solleticò l’orecchio e i sensi, insieme alle sue parole.
– E vabbè… dopo tutto, i nostri figli non saranno tre. Dovremo farcene una ragione.
– Non angustiarti, fanciullina, non è colpa di nessuno, se anche stavolta non sei incinta.
– Pete…
– In fondo quelle due pesti bastano e avanzano, se ci pensi…
– Sì, ma Pete…
– Abbiamo tempo, ancora. Vorrà dire che avremo motivi per… divertirci insieme qualche volta in più.
La sentì soffocare una risata contro la sua spalla, poi lei si scostò per guardarlo in faccia.
– Pete, amore mio, guardami.
– Ti sto guardando: che sei bellissima te l'ho già detto oggi, vero?
– Sì, poco fa!
Il sorriso di Fabrizia si accentuò; la luce che le scintillò negli occhi lo abbagliò per un attimo. Ma… si era perso qualcosa?
Lei gli cinse di nuovo il collo con le braccia e se ne uscì con una strana cosa, sussurrata al suo orecchio.
– Ho detto che i nostri figli non saranno tre… non che non sono incinta.
Passò un secondo…
Due…
Tre…
…o forse quattro o cinque…
Pete le prese il viso tra le mani e la guardò incredulo.
– Oh! Mio! Dio!
– Eh… – fece lei, laconica.
– Ma… come abbiamo fatto a non pensarci mai, a questa eventualità? Dopotutto tu sei…
– …già: una gemella. Sì, era geneticamente possibilissimo… ma è accaduto solo stavolta.
– E perché tu mi sembri felice, ma non del tutto?
– Io non… non sapevo come l’avresti presa. Mi sembri perplesso anche tu, infatti.
– Beh, sì… Cioè, no! Insomma è… è fantastico, Bri! In fondo il posto e le possibilità economiche per crescerli non ci mancano. Sono solo… un po’ preoccupato per te.
– Ho scodellato gli altri due senza colpo ferire, Pete, non vedo perché dovrebbe essere così diverso; mia madre diceva di non aver avuto problemi, con me e Ale, ed eravamo i primi. Nella peggiore delle ipotesi dovranno farmi un taglio cesareo, ma sono una tosta, io. Dopo aver imparato a connettermi con Balthazar e aver combattuto con l’Orrore Nero, qualunque altra cosa sarà una bazzecola…
– Oh, questo è poco, ma sicuro. Io… scusa, sono solo un po’ frastornato – esclamò, stringendola forte, per poi allentare la stretta subito dopo, come se avesse paura di farle male.
– Ehi, sono un po’ più incinta delle altre volte, è vero, ma non sono di vetro: non mi rompo mica.
– Hai ragione, mi ci abituerò, suppongo. Io… oh, al diavolo, solo tu potevi farmi una cosa del genere! – poi non le diede modo di ribattere e la baciò appassionatamente, non prima che lei si fosse lasciata sfuggire un sospiro di sollievo.
– Oh, no! Alex, si baciano ancora! – gridò costernata la vocetta squillante di Andy, affacciandosi al portone seguita dal fratello.
Con espressione rassegnata, Pete e Fabrizia si staccarono e si guardarono.
– Ti amo, fanciulla selvatica – le disse, incurante dei bambini.
Briz gli accarezzò il volto, spostandogli i capelli dalla fronte.
– Lo so – fu la serafica e scontatissima risposta, che era ormai diventata un gioco tra di loro con la variante, a volte, di: “Sarà meglio!”
Briz aveva davvero temuto, per un attimo, che lui l’avrebbe presa piuttosto male, ma si diede della stupida: era di suo marito, che si parlava, quello che, dopo dieci anni insieme, riusciva ancora a sorprenderla… Anche se, quel giorno, era sicura di averlo battuto su ogni fronte!
Un vecchio detto recita che è un peccato, lasciar trascorrere anche un solo giorno senza essersi stupiti… e mentre Pete appoggiava istintivamente una mano sulla pancia ancora piatta di Fabrizia, entrambi non poterono fare a meno di pensare che, quello di non sorprendersi più a vicenda, fosse un rischio che, restando insieme, non avrebbero mai corso.
La loro vita era lì, in quei due fagiolini che si erano appena formati dentro di lei, e in quegli altri due nanerottoli che, stagliati fianco a fianco contro la luce del tramonto, nel vano del portone della scuderia, li osservavano con espressioni che erano un perfetto mix di disgusto e divertimento, ma che erano anche piene di quell’amore assoluto e genuino che solo i bambini riescono a mostrare.
La felicità era fatta di attimi, e i momenti difficili facevano parte di ogni vita degna di questo nome: ce n’erano stati in passato, e Dio solo sapeva quanto fosse stata dura affrontarli… E ciò non significava che non ce ne sarebbero stati altri in futuro, ma, per ora, il destino sembrava aver deciso di ripagarli di tutte le perdite e sofferenze subite.
Il programma che Briz aveva esposto sulla spiaggia di Omaezaki, una lontana sera di tanti anni prima, al loro stralunato amico giornalista, a quanto pareva, si stava realizzando, perché in quel preciso istante si sentivano, davvero, felici da fare schifo!
Pete passò un braccio intorno alle spalle della moglie e insieme si diressero all’aperto, mentre Briz prendeva la manina di Alex e lui quella di Andy.
L’ultimo particolare che i suoi occhi colsero, prima di uscire nella rossa luce del tramonto estivo, fu una frase, di quelle che piacevano tanto a Fabrizia, incorniciata in uno dei numerosi quadretti disseminati sulle pareti di legno della scuderia:
 
“La Vita ti porta in luoghi inaspettati.
L’Amore ti porta a casa.”
 
 
92-Richardson-family 
 


 
 
FINE
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note:
 
1 Un mio piccolo omaggio a Marcus Brody, il simpatico professore della saga di Indiana Jones, capace di “perdersi nel suo stesso museo” di cui era direttore.
 
2-2/a Daisuke, Hikaru e Koji: i nomi dei figli di Sanshiro e Midori, e di Bunta e Solange, sono un piccolo tributo a Goldrake, essendo quelli di Actarus, Venusia e Alcor, nella versione originale giapponese.
 
Saphira: un altro piccolo tributo, alla dragonessa protagonista della saga fantasy “Eragon”, di Christopher Paolini.
 

4 Jyn, Solo e Rey, sono naturalmente nomi presi dai film di StarWars. Solo, non c’è bisogno di specificarlo, Rey dalla trilogia sequel, Jyn dal bellissimo e commovente “Rogue One”.
 
L’Italia è l’unico paese in cui Andrea è considerato un nome maschile; nel resto del mondo è femminile.
  
 
 
 
Pensieri finali e ringraziamenti dell’Autrice: (che piange…)
 
Scusate se mi dilungherò un po’, ma non posso farne a meno.
Ringrazio infinitamente e di cuore, chi ha voluto affrontare questa storia recensendola, finora. E cioè:
 

Kamony, ex Divergente Trasversale, che spero arriverà fin qui nonostante i suoi mille impegni, per l’entusiasmo che ha messo fin dall’inizio per questa cosa, per i consigli e la sua sincerità quando qualcosa non la convinceva, e che ha avuto l’onore di lasciarmi la PRIMA, nonché la CENTESIMA recensione. Ciao, cara, spero che ti trovi un po’ di tempo libero e a presto!
 
MiciaSissiper la sua puntualità e simpatia, che è tra quelle che mi hanno incoraggiata a pubblicare, e per i consigli vari che mi ha elargito soprattutto all’inizio, quando ero parecchio impedita. E anche per essere una cara amica, con la quale condividere risate in compagnia. Ma anche perché con la recensione a questo epilogo, sarà la PRIMA ad aver recensito tutta la storia! Un bacio e Grazie, Micia!
 
2015Robinche è una carissima ragazza, che è ancora indietro nella lettura, ma che spero un giorno arrivi anche lei a leggere queste righe! Ti aspetto, amica mia!
 
The Blue Devil, un maschietto, quale onore! Anche lui è tuttora indietro, ma ha promesso di finire. Grazie infinite, amico, per le tue recensioni al limite del surreale e tutte le rotture di scatole che mi hai propinato sugli accenti, gli apostrofi e altre mostruosità del genere, e per avermi segnalato errori un tantino madornali e pure imbarazzanti, facendo, come tu stesso ti sei definito, il maestrino fastidioso (ma ho imparato, un po', visto?) Ma grazie anche per essere stato disponibilissimo e tempestivo quando ti ho chiesto aiuto su come correggere i capitoli già pubblicati. Devo inoltre ringraziarti per avermi detto due cose fantastiche: 1) che questa storia potrebbe servire come trama per un remake di Gaiking migliore della schifezzuola che è stata fatta realmente; 2) hai detto che ti ho "rovinato" Gaiking perché ogni volta che lo guarderai ti aspetterai di veder spuntare fuori Briz che risveglia Pete dall'ipnosi col bacio, o cercherai senza trovarlo l'episodio con Zhora la panterona… sei troppo buono, davvero! Aspetto anche te qui al varco, sai, ci conto!
 
E… soprattutto, la mia amicissima Morghana, che cito per ultima solo per darle più peso. È arrivata praticamente per ultima, ma è stata la causa istigatrice di tutto! La ringrazio per aver amato questa storia, per non avermi denunciato alla webmistress di Efp accusandomi di aver copiato dalla sua “Burrasca nel Cuore” (ihihihih! Senza quella storia che mi aveva incuriosito, io non saprei né cos’è Efp, tantomeno le fanfiction), ma per avermi addirittura detto che era felice se mi aveva aiutata ad ispirarmi! In realtà ora ci ispiriamo e citiamo a vicenda, scambiandoci consigli, anticipazioni e battutacce, rischiando di strozzarci dal ridere! E la faccenda di un remake di Gaiking usando questa storia me l'ha tirata fuori anche lei, una volta... grazie, anche se non credo che Nagai e soci approverebbero, anzi temo mi fulminerebbero con l'Idroraggio...
Adesso sarò io a mandarti gli Arf Arf Arf, per avere gli aggiornamenti alle tue storie!   
E… che altro dire? Ti voglio bene, cara! Ci si sente! Sempre!


Faccio un'aggiunta speciale oggi, 2 settembre 2021, per un'altra amica speciale, che arriverà a questo punto tra qualche settimana: EleWar. A lei è dedicato il passaggio (anche questo aggiunto solo ora) del giornalista Ippei Hondo come inviato speciale al matrimonio di Briz e Pete. So che lei capirà e, spero, apprezzerà. ;)
Ele, grazie per la tua amicizia e per un mucchio di altre cose! So che non c'è bisogno di dilungarmi troppo, con te! Un bacione! 
😘
 
Vorrei puntualizzare che tutti i miei recensori sopra citati, sono anche autori, su Efp. (Qualcuno, ormai, anche fuori, da Efp.) Chi ha orecchi, intenda...
 
Un grazie infinite anche a tutti quelli che hanno letto (e magari leggeranno) in silenzio. E a quelli che hanno messo, o metteranno, tra preferite, ricordate o seguite. E magari vorranno recensire in futuro…
 
 
Beh, ragazzi. Che cosa posso dire? Sono arrivata in fondo. E devo dire che posizionare il cursore e mettere la spunta su "Completa", gesto che sanciva la fine di questa storia, non so se mi ha intristita o sollevata. È stata la mia prima storia pubblicata. Dopo così tanti capitoli, il Faro di Omaezaki, il Drago Spaziale, la mia protagonista sciroccata (e soprattutto quel gran figo del suo capitano…) mi mancheranno. Ma per fortuna resteranno sempre qui nel mio computer, su Efp per chiunque avrà voglia di leggere le loro avventure, e sicuramente anche un po’ nel mio cuore. Perché le nostre storie sono un po’ come i nostri figli (anche se le concepiamo con i nostri deliri, invece che con un marito/moglie). Però le partoriamo, letteralmente, e proprio come i figli, costano fatica, ore insonni, e magari anche qualche arrabbiatura e qualche lacrima. Ma di sicuro ci fanno anche fare molte risate e ci danno soddisfazioni, e tutto si compensa. E alla fine, sempre come i figli, bisogna anche… lasciarle andare.
Se sono riuscita a incuriosirvi, divertirvi e magari emozionarvi un po’, ho raggiunto il mio scopo.
 
Ah, dimenticavo. Qualcuno, o meglio qualcunA, mi aveva chiesto qualcosa su Fabrizia e Pete intenti a fare insieme una certa DOCCIA…
Ecco, i due protagonisti mi hanno detto di riferire a questa qualcuna, di farsi una portaerei di affari suoi.
In realtà io so il motivo per cui non vogliono parlarne.
Dopo il primo tentativo, hanno appurato che non è proprio come nei film, e che tra sapone negli occhi che brucia, fondo scivoloso con rischio di ruzzoloni, e soprattutto colpi inconsulti al rubinetto con conseguenti gelature e scottature… beh, sensualità e romanticismo sono andati a ramengo in un amen! Esattamente dove può andare anche il farlo nella doccia! Ci sono posti migliori!
(Ma siccome io sono un po’ suonata, nel 2020 ho fatto vivere questa esperienza a qualcun altro… la ff incriminata è nella sezione City Hunter,  è di cinque capitoli e ha per protagonisti Ryo Saeba e Kaori Makimura. Si intitola “Muschio & Vaniglia” e... è a rating 
rosso!).  
  
 
Vi abbraccio e, ancora, grazie di cuore, a tutti.
Marina
  
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