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Autore: Gagiord    03/10/2017    2 recensioni
Il ragazzo s’illuminò, vedendo che mancava solo un pezzo, quello al centro; presto, però, l’espressione gioiosa tramutò in un cipiglio indispettito: l’ultimo pezzo non combaciava. E allora cosa avrebbe dovuto fare?
E, quando, invece, ormai l'unico appiglio alla vita sta cadendo a pezzi, cosa si dovrebbe fare?
«Tu non ti preoccupare» lo rassicurò, arruffandogli i capelli nerissimi, «suona e basta.»
{ musician!AU | tanto angst | KageHina | IwaOi }
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Shouyou Hinata, Tobio Kageyama
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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III Capitolo



Tokyo, 12 maggio 2016, 19:39


Si buttò sul letto a peso morto, le braccia aperte. Nel buio fissò insistentemente il soffitto, come se potesse dargli le risposte che stava cercando in tutti i cassetti confusionari del suo cervello.

Si portò una mano alla fronte, emettendo un verso di frustrazione e chiudendo gli occhi. Aveva ancora il viso imperlato di sudore per le tre ore di allenamento e non vedeva l’ora di entrare nel box doccia, anche perché le giornate si andavano facendo sempre più calde.

Non si capacitò del tempo che stette in quella posizione, immobile tranne per il petto che si abbassava e alzava come una giostra.

Alla fine decise che l’avrebbe fatto. Solo per se stesso e per nessun altro.


Tokyo, 13 maggio 2016, 12:48


Il groppo in gola risalì come lo vide. Tobio gli aveva garantito un posto per continuare ad esercitarsi, vero ‒ in realtà si domandava ancora se non lo avesse sognato ‒, ma si era già affezionato a quello strumento. Succedeva con ogni pianoforte che toccava, eppure non se ne era dovuto separare mai così presto.

Lo consolava soltanto il fatto che avesse più di un mese per continuare a sentirlo, provarlo sotto le dita.

Camminò con passo lieve fino allo sgabello; appena udì un lento cigolio, però, si voltò di scatto.

Il ragazzo si infilò silenziosamente ma senza esitazione, fino a richiudere la porta alle sue spalle. Gli lanciò appena un’occhiata, poi si diresse verso gli arnesi accatastati alla sinistra e, come sempre, prese una sedia e un leggio.

«Ohi, Kageyama!» Shouyou lo guardò, per il secondo giorno di fila, come se stesse diventando folle. Notò che aveva la borsa del violino sulla schiena. «Ti sei scordato che oggi è il mio turno?»

Tobio non lo degnò di attenzione neppure stavolta. «Conosci Bach?» cambiò discorso come se non lo avesse sentito.

«Certo che lo conosco» rispose il pianista perplesso, la testa inclinata di lato. «Perché me lo chiedi?»

«Perché da oggi ti allenerai con me.»

«Che?» urlò, mentre l’altro sistemava la borsa sul legno chiaro e l’apriva con una certa premura. Lo raggiunse e gli si mise accanto.

«E abbassa quella cazzo di voce!» masticò, estraendo un libro che odorava di carta vecchia e aprendolo sul reggispartito.

Shouyou vide da sotto che era dell’autore che aveva appena menzionato. Poi tornò con gli occhi d’ambra confusi sul moro. «Kageyama,» fece con tono allarmato e gli posò il dorso di una mano sul volto, «tutto bene? Stamattina hai mangiato? È successo qualcosa?»

Tobio gli gettò uno sguardo storto e tanto bastò a fargli ritrarre il braccio. Afferrò anche il violino e l’archetto e si raddrizzò, lasciando la custodia aperta.

Il quindicenne dai capelli rossicci arricciò le labbra in un broncio. «E non mi guardare così! Stai facendo tutto tu, io non ci capisco niente!»

«Ma sei davvero così stupido? Ti ho detto che suonerai con me, che ci vuole a capirlo?»

«Suonare con te cosa? Come? Quando? E perché?»

Il violinista alzò gli occhi al cielo e sbuffò annoiato. Fece girare Shouyou e lo spinse poco gentilmente verso il piano. «Per il torneo di agosto, idiota. Nessuno dei due può partecipare se non troviamo qualcuno, e io mi sono stufato di stare a cercare.» Incrociò le braccia al petto e guardò il profilo smarrito e scandalizzato del rosso con fare altezzoso. «Perciò vedi di metterti a lavoro e imparare questo brano al più presto possibile.»

Shouyou si sedette sullo sgabello nero, ma non gli diede le spalle. «Si può sapere che cosa significa?» domandò con la voce più calma che gli uscisse in quel momento.

Tobio dovette appellarsi a tutto il suo autocontrollo per non far uscire nessuna imprecazione dalla bocca. «Significa» scandì, frugando di nuovo nella borsa, «che tu imparerai questo brano» e dicendolo estrasse un libro diverso da quello di prima ma con le stesse lettere scritte sopra, «lo suonerai insieme a me, parteciperemo al torneo e andremo ai nazionali. Ora hai capito, testa vuota?»

Tobio non era per nulla sicuro di quella scelta. Ma ci credeva. Credeva in Shouyou, credeva nelle sue abilità e credeva nella sua assurda tenacia. Che avesse talento lo aveva compreso subito, ma si era reso conto che avrebbe potuto tenergli testa solo durante il pezzo di Rachmaninoff, più di un mese prima. L’unico problema era che non aveva la testa e i mezzi per dimostrarlo. Se, invece, qualcuno lo avesse seguito, di certo sarebbe stato capace di diventare un mostro.

Lui voleva vincere contro quel mostro e, per questo, avrebbe anche aiutato quello stupido a tirarlo fuori.

«In realtà no» replicò più serio che mai. «Cos’è questa storia? Me ne hai parlato e me lo sono dimenticato?»

Per poco non si sbatté il tomo in faccia. «Te ne sto parlando ora! Leggi questo cavolo di spartito», dopo qualche passo glielo schiaffò sulle cosce, «e suona!»

«Aspetta un attimo! Io non ho mai detto niente! E poi chi te lo dice che non abbia già qualcuno che suona insieme a me?»

Il moro lo guardò come se avesse detto una delle sue solite sciocchezze. «Perché avreste già cominciato a farlo sul serio. E tu ti alleni da solo.»

Shouyou aggrottò le sopracciglia in un cipiglio quasi indignato. «Che fai, mi stalkeri?»

«Ovviamente no, imbecille!» strillò Tobio, le orecchie rosse come pomodori e la linea delle labbra sottile come un filo. Si girò e camminò fino al leggio col busto rigido e dritto come un palo. «Ma quando ho il turno di pulizie il pomeriggio non sento nulla.»

Il pianista si morse il labbro, colto in contropiede. «Continuo a non capire perché proprio io. Cioè, mi consideri una schiappa» rifletté mentre tamburellava distrattamente le dita sulla copertina.

«Tu sei una schiappa, è diverso.»

Gonfiò le guance e sporse le labbra come un bambino a cui è stato appena tolto il proprio giocattolo preferito. «Comunque» aprì una pagina a caso e vi buttò uno sguardo, «come mai tu non ne hai ancora uno? Di accompagnatore, dico.»

Naturalmente Tobio non gli avrebbe mai rivelato che era perché lui era l’unico pianista con cui parlava ‒ o, più generalmente, l’unica persona. Fece spallucce, come se non fosse niente d’importante o degno di nota, e diede un’occhiata in giro pur di non guardarlo.

Tornò a fissarlo con occhi curiosi, ma, dato che non aveva nessun’altra domanda da porgli, lasciò cadere l’argomento. «Allora, qual è questo brano che dobbiamo suonare?»

Il ragazzo dai capelli corvini sgranò le palpebre e rinforzò la presa sul violino, più per credere di aver sentito bene e di vivere ancora nella realtà che per altro. «Sei serio? Stai davvero accettando?»

«Di cosa ti stupisci, se me lo hai chiesto tu?» borbottò Shouyou. Poi storse la bocca, trovandosi in difficoltà. «E poi….» Abbassò lo sguardo. «La tua idea non è così male. Me lo potevi chiedere come le persone normali, però, stupido!»

«Senti, io te l’ho detto e basta, quindi non lamentarti!» Gli diede le spalle, come se stessero gareggiando per decretare chi fosse più sdegnato.

«Mi lamento eccome!» esclamò con il tono di chi sa di avere ragione, ma cambiò discorso: «Non mi hai ancora risposto, comunque».

Tobiòlo squadrò per qualche attimo, poi capì a cosa alludeva. «È la Gavotte en Rondeau della terza Partita. Se non sbaglio là è verso la metà» lo informò, indicando il volume con il mento.

Il rosso lo sfogliò un po’ mentre blaterava qualcosa come: “Fai davvero schifo in francese”, sperando che il violinista non lo sentisse.

Gli mostrò quello che pensava fosse lo spartito giusto, mettendo il dito sopra la carta. «Questo qui?»

Annuì. «Sono gli accordi per il piano. Vedi di studiarteli per bene.»

«Perché hai un libro per piano? Non pensavo che lo suonassi così spesso.» Shouyou lesse un po’ le varie note e le indicazioni di tempo, socchiudendo la bocca. «Oddio, devo premere il pedale così tante volte…» brontolò con la testa già fusa.

«Non lo suono quasi mai» rispose vagamente Tobio, ignorando l’ultima frase. Adagiò il violino sulla clavicola e sollevò l’archetto. «Ora ascoltami. Ti faccio un segno quando devi iniziare, o non lo capirai nemmeno tra un millennio.»

Gli gettò un’occhiataccia. «Ehi!»

Il violinista rispose all’occhiata torva, ma appena toccò la mentoniera iniziò a suonare.

Per quanto fosse una melodia allegra, Tobio era in grado di impregnarla di dolore. Non era cambiato dall’anno precedente: non c’era dubbio che fosse migliorato, tuttavia il suo stile era rimasto lo stesso.

Shouyou arricciò il naso, irritato. Aveva l’impellente voglia di prenderlo a schiaffi, ma non lo fece. Se ne restò lì, seduto e fermo, mentre il cuore gli si stringeva in una morsa amara e avvertiva il familiare groppo risalirgli in gola.

Di solito gli piacevano tutte quelle emozioni, anche a costo di piangere, poiché erano sempre positive e lo facevano sentire più vivo che mai. Con la musica di Tobio era diverso: tutto quello che provava era un’angoscia che non era sicuro di poter reggere. Eppure l’altro la reggeva da anni, sempre ammesso che suonasse così da quando aveva cominciato, e intanto era davanti a lui, che eseguiva il pezzo da portare a un concorso.

Dopo circa un minuto Shouyou sentì i peli delle braccia e delle gambe rizzarsi, e fu scosso da un brivido che partì dal petto. Avrebbe voluto urlargli di smetterla, ma non poteva. Non poteva perché Tobio aveva tutto il diritto di esprimere i propri sentimenti almeno attraverso le note, di sbatterglieli in faccia, dal momento che lui, dopotutto, aveva acconsentito a quella proposta ‒ o comando, per il moro non sembrava cambiare molto.

Si costrinse a non piangere, e come dopo un altro minuto si accorse di avere le guance bagnate, se le strofinò violentemente, nonostante la possibilità che l’altro si girasse e lo vedesse fosse davvero minima. Non pensò che, in effetti, essere scoperto con gli occhi rossi non lasciava troppe opzioni da scegliere.

Ascoltò fino alla fine, stringendo i pugni, conficcandosi le unghie nella pelle e torturandosi il labbro inferiore.

L’archetto non si trovava sulle corde già da qualche momento e Tobio lo stava scrutando con un’espressione che Shouyou non seppe decifrare. Nessuno dei due aveva ancora detto nulla.

«Hai capito quando devi partire?» chiese poi, ritrovandosi con il tono più basso e rauco del normale. Era impossibile non realizzare che Shouyou aveva pianto.

Scosse la testa, con un’aria che era tutto meno che sicura.

«Idiota!» gridò, lanciandogli il tappo di una bottiglia che chissà doveva aveva trovato, ma l’altro continuò a rimanere sconvolto e non reagì. «Ohi! Ma mi ascolti? Dove ce l’hai la testa, stupido?»

Il pianista sbatté le palpebre un paio di volte e si rese conto che il pezzo si era concluso veramente. «Che c’è?» fece con voce stridula dopo aver visto lo sguardo poco rassicurante dell’altro.

Tobio comprese solo allora che quello strano comportamento doveva essere stato causato dal modo in cui aveva suonato. Quell’intuizione gli fece esplodere nello stomaco un senso di soddisfazione e si trattenne a stento dal sorridere, anche se in modo accennato.

Sbuffò, ma non fu troppo convincente, e si rimise sulla spalla il violino. «Stavolta ascolta davvero, imbecille, non ho intenzione di farlo altre mille volte solo perché non usi il cervello!»

«Imbecille ci sarai tu, imbecille!» Shouyou si accorse subito dopo che quell’insulto probabilmente era esilarante e basta.

E infatti Tobio fece una smorfia derisoria, come a dire: Ma che problemi hai? Poi lo disse anche a voce.

«Parla per te!» replicò imbronciato. «Aspetta… Ma lo stai suonando di nuovo tutto

«Ovvio che no» chiarì piccato, guardandolo dall’alto al basso. «Non mi va di andare a prenderti rotoli infiniti di carta igienica.»

Divenne rosso almeno quanto i suoi capelli. «Dai, sbrigati, stai perdendo tempo!» se ne uscì distogliendo lo sguardo ed incrociando e la braccia al petto. Sperò che l’imbarazzo non fosse così evidente.

Tobio sogghignò beffardo, ma non aspettò a compiere ciò che doveva ‒ e ovviamente non perché gliel’aveva detto Shouyou.


Tokyo, 23 maggio 2016, 15:02


Non stava andando troppo male, pensava. Da più di una settimana si allenavano incessantemente sulle scale e sulla composizione di Bach, e nonostante imparasse tanto velocemente quanto un bradipo morto, doveva ammettere che ce la stava mettendo tutta.

Tuttavia qualcosa gli stava sfuggendo, e ogni volta che si concentrava per ricordarla quella sembrava scappare, come un animaletto spaventato.

Nella custodia del violino non c’era il libro, si ricordò. Durante la pausa pranzo, Shouyou si era presentato nella sua classe e, dopo aver preso senza permesso il suo bentou, aveva approfittato dell’effetto sorpresa e, sorridente come sempre, l’aveva trascinato di peso nel cortile esterno pieno di ragazzi. Avevano mangiato insieme a un gruppetto di compagni del pianista, ma Tobio aveva a malapena aperto bocca. Non che si fossero fatte chissà quali discussioni: si era parlato del più e del meno, come vedeva fare spesso ai suoi coetanei.

Alla fine dell’intervallo gli aveva mollato uno scappellotto sulla nuca e lo aveva rimproverato, perché anziché migliorarsi al piano aveva pensato a qualcosa di inutile.

Shouyou lo aveva guardato male. Successivamente, però, aveva contestato, serissimo: «La musica esprime te stesso. Se non fai esperienze e resti vuoto, cosa dovrebbe esprimere?»

Era rientrato in classe come al solito, non prima di ricordargli il loro allenamento in aula musica.

Tobio aveva avuto paura di quelle parole, e ne aveva ancora. Non traspariva nulla dalle sue note? Magari era sempre la stessa, identica cosa da anni: dolore.

Cinque minuti di riflessione e aveva scacciato quei pensieri come fossero stati dei mostri. Lui affondava se stesso nella musica, perciò era impossibile che non trasmettesse nessuna emozione. Che fosse tristezza o qualcos’altro non gli interessava: amava la musica e gli bastava.

Frugò nello zaino, ma non adocchiò ciò che cercava. Sgranò gli occhi, il qualcosa che gli era sfuggito ora impresso a caratteri cubitali nella sua mente.

«Il solfeggio!»

«Il solche

Tobio gli rivolse l’occhiata scandalizzata di chi è appena stato offeso. «Il solfeggio!» ripeté, agitando un tomo enorme sotto gli occhi del pianista. «Non mi dire che non hai mai fatto solfeggio!»

Shouyou fissò la copertina ingiallita, accovacciato accanto a lui davanti alla cartella. «Non so proprio cosa sia, in realtà» confessò, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

Rispose con un colpo di libro sul capo e l’«Idiota!» che ormai gli usciva naturale.

«Sei tu che ti scordi sempre che io non ho mai avuto insegnanti!» Si massaggiò la parte lesa. «E poi dovresti seriamente dare un taglio a questi istinti violenti» sbuffò.

«Il solfeggio per i pianisti è come l’olio per i cuochi: non puoi non conoscerlo!»

Shouyou, invece di annuire e dargli ragione, gli scoppiò a ridere in faccia. «Ma da quando fai queste metafore? Sembri una nonna!» Continuò a ridere come se l’altro non lo avesse appena fulminato con uno sguardo assassino.

A Tobio fu sufficiente una debole spintarella per farlo cadere sulla schiena. Si mise in piedi, si diresse al davanzale della finestra impolverato e sporco di scritte colorate e vi poggiò il volume sopra.

Si voltò a guardarlo, i lineamenti deformati da una smorfia irritata. «Se non smuovi il culo entro tre secondi, ti sbatto fuori, deficiente.»

Il rosso sbuffò, ma aveva ancora un sorriso leggero. «Che ci fai lì?» gli domandò curioso, mentre si alzava e si spolverava i pantaloni verdi della divisa.

«Oggi facciamo solfeggio» decretò, spostando l’attenzione al libro che cominciò a sfogliare freneticamente.

Lo affiancò con qualche passo, sbirciando gli spartiti che venivano sostituiti rapidamente da altri. «Quindi che cos’è questo solgeffo

«Solfeggio» lo corresse, lanciandogli l’ennesima occhiata torva. «Ora sta’ zitto, ascoltami e leggi le note.»

Shouyou si chiese cosa dovesse ascoltare, dato che nessuno dei due aveva strumenti in mano. «È così difficile spiegarmelo a voce?» si lagnò, appoggiando i gomiti sul marmo riscaldato dal sole.

«No» fece Tobio, fermandosi su una pagina senza alcun titolo. «Il problema è che il tuo cervello ci arriverebbe tra qualche mese e noi non abbiamo tutto questo tempo.»

«Sei insopportabile» mugugnò tenendo il muso lungo.

Gli arrivò un calcio allo stinco che non gli fece nemmeno troppo male ‒ da quando ci andava così piano? ‒, ma subito dopo il violinista esordì.

Shouyou strabuzzò gli occhi color nocciola, e finalmente capì cosa dovesse ascoltare.

Stava cantando.

O meglio, stava solfeggiando.

Diceva il nome delle note, ne riproduceva il suono, rispettava il tempo e le pause.

Non si sarebbe mai aspettato di pensare che Tobio avesse una bella voce. Si maledisse mentalmente, perché lui invece era stonato come una campana e non voleva perdere contro l’altro.

Il conflitto interiore non durò tanto. Si accorse ‒ non senza imbarazzo ‒ che stava apprezzando quel momento. Non gli sarebbe dispiaciuto ascoltarlo per sempre, mentre intonava quella melodia. La sua voce era sempre bassa, cupa, ma mutava del tutto rispetto a quella che usava quando lo insultava: era cristallina. Non c’era nessuna rabbia contro il mondo a contaminarla, era la voce di Tobio e basta.

Solo quando arrivò a metà dello spartito prese a leggere anche lui le note. Desiderò con tutto il cuore che il moro non lo avesse notato mentre lo fissava con sguardo meravigliato.

Finalmente lo spartito s’interruppe e per poco non tirò un sospiro di sollievo.

«Ora hai capito cos’è il solfeggio?»

Shouyou annuì senza troppa sicurezza.

Cambiò pagina e premette il palmo sul libro per tenerlo aperto. «Su, prova tu. Poi lo faremo anche al piano.»

Il pianista alzò lo sguardo su di lui, che invece lo lo faceva vagare per lo spartito. «Che significa?»

«Prima devi imparare a riconoscere subito le note e le pause, a cantarle, e dopo lo farai mentre le suoni.» Lo guardò di sottecchi, come ad avvertirlo. «Quindi vedi di concentrarti per bene, ché dobbiamo riprendere anche Bach.»

Fece sì col capo un’altra volta, allungò il collo verso il libro per vedere meglio e Tobio glielo avvicinò un po’.

Shouyou, quel giorno, scoprì che anche la voce poteva essere uno strumento.


Tokyo, 7 giugno 2016, 16:17


Avrebbe voluto prendere a schiaffi lui e se stesso.

Stavano passando un pomeriggio a non fare niente e gli dava un fastidio immenso.

Gli dava un fastidio immenso che Shouyou si comportasse con lui come con tutti gli altri. I suoi erano gesti naturali che di naturale, per Tobio, non avevano nulla.

Gli dava ancora più fastidio che lo spingesse a fare lo stesso, non come con tutti gli altri.

Era un fiume costantemente in piena, che, persino senza volerlo, riusciva a trascinare chiunque nel suo corso, ed era impossibile imporsi.

Parlavano un sacco.

Più che altro era il più grande a riempire i momenti di silenzio, anche quando non ce n’era bisogno. Gli raccontava un sacco di cose: come aveva passato le lezioni, quanto gli facesse antipatia il professore di economia domestica, cosa gli metteva sua madre nel bentou. Tobio rispondeva con insulti, prese in giro, ma solo da poco si era scoperto a concordare con lui su alcune cose, anche banalissime.

«Davvero, Nacchan è dolcissima! È impossibile non volerle bene. E secondo me ti toglierebbe quella cosa dalla faccia!»

Il violinista arricciò le labbra in una smorfia sdegnata. «Ma quale cosa

«Tutte quelle rughe che hai lì!» Shouyou lo indicò, seduto al contrario su una sedia di legno chiaro e plastica, le braccia appoggiate allo schienale e le gambe divaricate ai lati. «Però effettivamente potresti farle paura...»

Gli buttò addosso la bottiglietta da cui stava bevendo, offeso e stizzito. «Ci sono nato con questa faccia, idiota!»

Prese la bottiglia al volo e gli sorrise. «Nah, non ci credo.» La posò a terra sporgendosi in avanti. «Non potevi essere così imbronciato pure da bambino!»

«Non puoi saperlo.» Tobio sbuffò, chiuse violentemente il libro di letteratura e lo tirò da qualche parte, non curandosi di sapere dove fosse. Si sollevò dalla sedia vicina a quella di Shouyou, si rannicchiò davanti allo zaino e si mise alla ricerca di qualcosa.

Il rosso stette in silenzio a fissarlo per qualche attimo, stupito, ma non si mosse. «Kageyama, non abbiamo finito!»

«Studiare insieme è stata la più grande stronzata che tu abbia mai pensato, anche se quella di giapponese è la stessa, stupido!» Trovò quello che cercava e lo cacciò fuori. «Parli in continuazione e mi distrai. E fai schifo!»

Shouyou gli fece la linguaccia. «Parla per te, idiota!» rispose a tono, poi si esibì in un ghignetto. «Se sei una schiappa in letteratura moderna non è colpa mia.»

«Sì, e nel frattempo tu sei una schiappa anche nel solfeggio, quindi datti una mossa e siediti su quel dannato sgabello!» Si alzò e, dopo avergli schiaffato il libro sulla nuca, trascinò la sedia su cui stava davanti al pianoforte.

«Ahi!» Non si mise in piedi né si girò.

«Ohi! Sbrigati» lo esortò, aprendo il libro e poggiandolo sul supporto.

Non lo fece. «Kageyama...» bisbigliò, lo sguardo inchiodato al muro e le braccia ancora incrociate sullo schienale. «È passata anche da te oggi?»

«Cosa?» grugnì Tobio con aria annoiata.

Sapeva cosa gli stava chiedendo. In realtà, aveva sperato con tutto il cuore che non l’avrebbe fatto, e invece ora eccolo lì: con un’assurda voglia di piangere, di imprecare contro a tutti meno che Shouyou, per la prima volta da quando lo conosceva.

Strinse le labbra, per impedirsi di far uscire imbarazzanti singhiozzi, e gli occhi, per impedirsi di far uscire altrettanto imbarazzanti lacrime. «Lo sai.»

Il ragazzo dai capelli corvini sospirò stancamente. «Sì.»

Shouyou non era più riuscito a seguire le lezioni, ascoltato l’insegnante che pronunciava ad alta voce la circolare riguardante le vacanze estive.

Tutti avevano esultato, sebbene fossero a conoscenza degli esami che le precedevano.

Lui no. Aveva sbattuto la testa contro il banco ed era restato così per tutta l’ora, alzandosi con flemma solo alla fine.

Appena entrato nell’aula di musica si era sentito il pianto pungergli gli occhi. Tobio era già dentro e, come lo aveva visto, aveva cominciato a parlare a macchinetta. Forse, aveva pensato Shouyou, per distrarlo, e, nonostante avesse fallito, gliene era grato.

Il violinista, invece, si era accorto solo dopo di come stava agendo. Si era per caso inconsciamente preoccupato per lui? No, impossibile. Non gli voleva bene, non erano amici: suonavano insieme, punto. Certe volte, voleva urlare contro a quella vocina nella sua mente che gli rammentava che suonare insieme da un mese era straordinario, e che la musica, spesso, poteva unire due persone meglio di gesti o parole.

«Hai cambiato idea, no?»

Tobio aggrottò la fronte. «Su cosa?» Questa volta non comprese veramente.

Shouyou lo guardò da sopra la spalla, come a chiedergli: Sul serio?

«Andare a casa tua per allenarci, tutte quelle cose… Voglio dire, magari i...»

«Ma tu stai male!» lo interruppe, il tono stridulo e urtato. «Un mese a sopportarti e secondo te lo mando a quel paese?» Spostò lo sgabello indietro con il piede con tanto impeto che quasi si rovesciò. «Ora vieni qua. È l’ultima volta che te lo dico, alla prossima ti porto su ‘sto coso a forza di calci in culo!»

Il pianista sbatté le palpebre, sorpreso. «Come sei volgare, Kageyama-kun!» esclamò infine, dopo aver aperto e chiuso la bocca circa tre volte.

Poi sorrise.


Tokyo, 21 giugno 2016, 7:29


Chi se ne importava se il giorno successivo ci sarebbero stati gli esami?

«Kageyama!» Spalancò la porta praticamente buttandocisi sopra, ma dentro non vide nessuno.

Adocchiò l’orologio a muro: strano che ancora non fosse arrivato. Poi fece qualche piroetta nella stanza illuminata dalla luce tenue del sole del mattino, ma non si rischiò a guardare il pianoforte. Non quel giorno. Non era ancora pronto.

Quando gettò un’occhiata fugace all’ingresso, si rese conto di non essere più solo. Un sorriso radioso gli ravvivò il viso.

«Ti avranno sentito anche alla segreteria, idiota» lo rimproverò con la voce roca e assonnata di chi si è appena alzato dal letto, una spalla appoggiata allo stipite di legno e le braccia incrociate al petto. Si raddrizzò e prese a camminare verso l’angolo sinistro.

«Kageyama» allungò le vocali, buttando lo zaino a terra. «Ma non sai che giorno è oggi?»

Il violinista si voltò a osservarlo come se fosse completamente rincitrullito. «Martedì…?»

«No!» Arricciò il naso, offeso. «Cioè, anche. Ma è un giorno molto più importante del martedì!»

«Quello in cui mi irriti così tanto da ritrovarti senza ossa?» replicò, già stizzito da tutta quella vitalità di prima mattina.

«No!» ripeté Shouyou ancora più impermalito. «Quello in cui mi fai un regalo!»

Ok, è pazzo, si disse. «Da quando consideri la morte un regalo?» Trasportò una sedia al centro dell’aula e vi adagiò la custodia del violino, mentre la cartella scolastica andò a finire sul pavimento.

«Kageyama!» protestò il rosso con i pugni chiusi, avvicinandosi a lui. «Te lo avevo anche detto.»

«E secondo te mi ricordo tutte le stupidate che mi dici?» Aprì la zip della borsa.

Lui gli diede un pugno sul braccio, per tutta risposta. «Oggi è il mio compleanno!»

Tobio, d’istinto, come se fosse qualcosa che faceva abitualmente, tese una mano e la chiuse sulla zazzera rossiccia, stingendola. «Non me ne potrebbe fregar di meno.»

In realtà doveva ancora deciderlo. O meglio, doveva deciderlo il suo cervello appena lo avrebbe ritenuto più opportuno, e da solo, perché lui non si sarebbe mai chiesto se gli interessasse qualcosa di quel piccolo scocciatore. Mai.

«Ahi!» piagnucolò dimenandosi il più possibile. «Sei antipatico!»

«Ora vai a sederti, prima che il regalo ti arrivi subito!» Non provò nemmeno con le buone: lo fece voltare e lo sospinse con poca gentilezza verso lo sgabello.

Si massaggiò la cute dolorante, andando verso il piano con le spalle curve e borbottando lamentele.

Era combattuto. Shouyou migliorava sempre di più, vero, tuttavia non aveva ancora raggiunto neanche un livello prefetturale. Poi si chiese cosa facevano di solito in quei quindici minuti mattutini. Solfeggio e, se avanzava tempo, un paio di scale o esercizi per la mobilità delle dita.

La sua mente vagò fino al giorno del suo ultimo compleanno, ovviamente passato da solo, in una casa buia e riscaldata dai termosifoni. Aveva suonato il suo pezzo preferito per tutta la sera, dopo essersi concesso una porzione di maiale al curry e una fetta di torta alle mele, la sua preferita. Aveva dedicato ogni giorno un piccolo spiraglio di tempo a quel brano di Bach, e alla fine aveva potuto definirsi soddisfatto.

Forse Shouyou aveva organizzato una festa con i suoi amici, o con la sua famiglia; eppure, lo aveva detto a lui, gli aveva chiesto espressamente un regalo.

Magari Shouyou teneva anche al suo, di regalo. Magari una persona gli voleva bene, nonostante lui fosse Tobio Kageyama.

Il moro sbuffò rumorosamente, chiuse il libro che aveva appena preso e lo ripose dentro la custodia, scambiandolo con un altro. Non sapeva neppure perché lì c’era un libro di Rachmaninoff, dato che ormai suonavano le stesse cose da più di un mese.

Giunse al fianco del ragazzo ora sedicenne, che stava premendo qualche tasto a caso, sventolandogli sotto il naso quell’immenso mattone. Si mise a sedere sulla sedia di plastica e legno che aveva messo in quella posizione settimane fa e che ancora non era stata rimossa.

Posò su di lui lo sguardo sorpreso e di nuovo vivace. «Rachmaninoff?»

Tobio rimase incantato da quell’ambra fusa, luminosa come le stelle. Si riscosse dopo nemmeno un instante e, mentre annuiva, volse il capo, ancora più irritato di prima.

«Vedi di sbrigarti, ché me ne sto già pentendo!»

Di credere a tutte quelle sciocchezze. Non doveva illudersi: era impossibile che qualcuno tenesse a lui.

Tuttavia, non si fece sfuggire il sorriso smagliante di quel pianista che stava riponendo tutti i suoi sogni in lui.


All’inizio non vi aveva dato troppa considerazione: aveva creduto che fosse un normalissimo gesto gentile. Poi, ripensando a tutte le vicende della giornata come faceva ogni sera, disteso sul futon, realizzò che quel normalissimo gesto gentile lo aveva fatto Tobio per lui.

Anche se un po’ in ritardo, Shouyou accettò il suo regalo con un sorriso spensierato.


Tokyo, 22 giugno 2016, 7:48


Quella mattina si sarebbero tenuti gli esami.

Fallirli significava usare tempo prezioso per qualcosa che non fosse suonare, ed entrambi lo sapevano bene. Se fino a un mese fa iniziavano a esercitarsi subito, appena finite le lezioni, adesso passavano la prima ora del pomeriggio a studiare ‒ in un modo tutto loro, certo ‒ e gli ultimi quindici minuti della mattina a farsi domande per verificare se quello che avevano imparato il giorno prima fosse ancora impresso ‒ anche questo in un modo tutto loro.

«Dai, scrivi qui tutti i kanji di ieri!»

«Ti ho detto che me li ricordo! Dovrei fartele io le domande, sei tu l’idiota.» Gli strappò malamente il libro e il quaderno fucsia di mano.

Shouyou, seduto accanto a lui, gli pestò un piede. «Io non posso sapere se te li ricordi, stupido. Se poi fai schifo ai test io che dovrei fare?»

La fece passare come se fosse la mancanza del violino in sé a pesargli, e non sapeva se sperare che Tobio cogliesse anche l’altra sfumatura. Gli sarebbe mancato anche lui, ovvio. Nonostante ogni giorno non vedesse l’ora di urlargli contro, di vincere contro di lui in qualunque cosa, di rispondere a qualche scappellotto del giorno precedente, gli sarebbe sicuramente mancato. Ormai era diventata una routine abituale ma mai noiosa, quella di suonare insieme di mattina, durante la pausa pranzo e di pomeriggio. Magari si era affezionato più a lui che ai suoi compagni, che paradossalmente erano circa mille volte più simpatici e divertenti di lui.

Il fatto era che non aveva mai avuto qualcuno con cui parlare di musica e che ne sapesse più di lui. Gli altri ascoltavano il suo fiume infinito di parole, ma solo per dargli corda, poiché naturalmente non sapevano quanto fosse complesso usare la sordina a tempo mentre faceva il cambio degli accordi e andava avanti con la melodia principale.

Lui lo capiva, invece. Sarebbero potuti restare giorni interi a parlare solo di musica ‒ e anche questo, come in tutte le cose che facevano insieme, in un modo tutto loro.

Ma non glielo avrebbe detto, non adesso.

Tobio scrollò le spalle, come se non passare gli esami, per lui, fosse meno grave che per l’altro. «Ti alleni da solo, dato che sono nettamente superiore a te.»

«E sei anche molto più antipatico» si lagnò il rosso. Si riprese il libro e in cambio gli ficcò una penna tra le dita e diede una manata alla pagina bianca e a righe del quaderno. «E ora scrivi questi kanji, o stamattina non riuscirai manco a scrivere “Ciao”!»

Lui accettò di malavoglia. «Non è normale non riuscire a scrivere “Ciao”, imbecille» non si fece problemi a ribattere.

«Come se tu fossi normale» bofonchiò.

«E ora sta’ zitto, per la miseria!» tuonò, prendendo a pressare violentemente la penna sulla carta.

Shouyou continuò a brontolare qualcosa, mentre Tobio, con le sopracciglia aggrottate e le labbra contratte, ricordava tutti i kanji da scrivere.

«Qua, ho finito» lo avvisò il violinista dopo appena tre minuti, allungandogli il quaderno per fargli vedere la trentina di ideogrammi messi in colonna uno sotto l’altro.

Sbarrò le palpebre di scatto, come uscito dal suo mondo. «Di già?» fece con tono sorpreso. «Chissà che casino hai combinato...»

Ghignò con sicurezza. «Vedremo.»

Un paio di minuti dopo, il pianista dovette arrendersi. Tutti e trentadue i kanji erano giusti, fin nei minimi particolari. Decise che, con tutti quegli sforzi compiuti per l’inglese, non avrebbe assolutamente perso.

«Tieni.» Sbuffò, chiudendo il quaderno e porgendoglielo. «Nessun errore. Quindi vedi di non confonderti, oggi!»

Tobio lo freddò con un’occhiata e afferrò il quaderno fucsia con forza, come se fosse una specie di tesoro. «Lo dovrei dire io a te, imbecille.»

Lui sorrise, gonfiando il petto. «Vedremo» lo imitò, chinandosi sullo zaino e tirandone fuori un libro, che poi diede al moro. «Forza, scegli tu gli esercizi, tanto ormai sono come un madrelingua!» Si batté una mano sul petto con orgoglio.

Lo guardò come se fosse un fenomeno da baraccone nel bel mezzo del suo spettacolo. «Ma se non sai manco cosa sono, i madrelingua.» Aprì il testo di inglese e lo sfogliò con poco interesse.

Shouyou si limitò a fargli una linguaccia con tanto di verso.

«Se non finisci entro cinque minuti puoi già considerarti fuori.» Con una mano ferma a tenere la pagina, gli indicò uno di quegli esercizi verifica che si trovano alla fine delle unità.

Annuì e iniziò, la matita mordicchiata impugnata tra pollice, indice e medio.

Tobio spostava lo sguardo dal pianista all’orologio e dall’orologio al pianista, aspettando impazientemente che lui terminasse.

«E sbrigati, tra poco cominciano!» lo avvertì quando la lancetta dei minuti arrivò al numero undici.

Il rosso scrisse più velocemente e, alla fine, lasciò che la schiena urtasse contro lo schienale con un sospiro stanco. Osservò l’altro agguantare il volume dalle sue gambe e controllarlo attentamente, cambiando pagina di tanto in tanto ‒ probabilmente perché molte cose non le ricordava nemmeno lui.

Avevano scelto di studiare insieme soprattutto per quel motivo. Aiutandosi l’un l’altro sulle lacune maggiori, si finiva per ripassare un po’ tutto, e così limitavano il lasso di tempo speso a studiare.

«Quanto ci ho messo?»

«Più di cinque minuti.» Richiuse il testo senza correggerlo neppure una volta, segno che non aveva fatto errori.

«E quanto, allora?» Lo infilò dentro la cartella, in cui c’erano sì e no altri due libri e solo un quaderno.

Lo sguardo del violinista su di lui fu indecifrabile; poi disse annoiato: «Cinque minuti e qualche secondo, credo».

S’immusonì, mentre serrava la cerniera grigia e si portava lo zaino azzurro sulla spalla, alzandosi. «Sei pure pignolo, ora!» lo accusò dandogli le spalle.

Il suo volto si deformò in una smorfia infastidita. «Ho detto solo la verità» si giustificò, rimettendosi in piedi a sua volta.

Il sedicenne seguitò a scimmiottarlo sottovoce; la campana, però, lo troncò e paralizzò davanti alla porta.

Tobio lo affiancò e abbassò la maniglia. Poco prima di voltarsi e proseguire verso la sua classe, gli lanciò uno sguardo penetrante, ma non freddo. Forse aveva anche le labbra curvate in su.

A Shouyou piacque interpretarlo come un augurio di buona fortuna. Perciò si sentì in dovere di rispondere a tono anche stavolta, anche se non c’era più niente e nessuno, se non i brusii provenienti dai corridoi.

«In bocca al lupo, Kageyama.»


Tokyo, 27 giugno 2016, 12:02


Si guardarono nello stesso istante, annuirono e si sollevarono dalla sedia all’improvviso. Tesero il braccio verso la cattedra, posando i fascicoli sulla pila di quelli di letteratura e di inglese.

Si potevano ritenere soddisfatti, dopotutto: avevano fatto un buco nell’acqua solo in due materie, Tobio nella prima e Shouyou nella seconda. Soddisfatti fino a un certo punto, certo: il test di letteratura si era focalizzato sulla comprensione del testo e non sulla memorizzazione degli ideogrammi; in quello di inglese, invece, Shouyou aveva inserito le risposte giuste nelle caselle sbagliate. Tobio glielo aveva rinfacciato per tutta la giornata.

Schizzarono fuori dalla stanza sotto l’espressione stralunata della professoressa, fiondandosi al piano di sotto, dove stava l’aula di musica.

Il pianista provò a spingere, ma la porta non volle aprirsi. Ritentò con una spallata ‒ che, prendendo in considerazione la sua stazza, non avrebbe fatto molto comunque ‒, e anche stavolta la serratura la bloccò.

«Piantala, deficiente!» Lo allontanò rozzamente con un braccio, e si appoggiò sullo stipite a braccia conserte. «La scuola è finita, in teoria, quindi l’avranno già chiusa» ipotizzò, guardando la smorfia arrabbiata dell’altro divenire sempre più angosciata.

«L’hanno portato via…?» sussurrò, la voce strozzata e dei fastidiosi brividi che gli correvano su per gli arti.

Strinse le labbra e strizzò la stoffa della sua maglietta. «No, non credo. Non ancora...»

Shouyou puntò gli occhi a terra, imponendosi in qualsiasi modo possibile di non piangere. Poi si voltò muovendo appena un passo avanti, non degnandolo di uno sguardo. «Allora ci vediamo in giro, Kageyama… Spero che l’esame di recupero ti sia andato bene.»

Fece per camminare ancora, il capo piegato in giù, ma una mano che gli tirava le ciocche rossicce glielo impedì.

«Ma che cazzo hai, l’Alzheimer?» esclamò dentro al suo orecchio, rischiando probabilmente di rompergli il timpano. «Tu vieni a casa mia e ci alleniamo là, idiota!»

Il più basso si girò, e solo dopo un paio di attimi si riprese. «Ah, vero!» Le iridi color ambra brillarono per pochissimo; poi s’incurvò di nuovo come se lo avessero appena bastonato.

Poteva sembrare stupido, ma lui l’aveva salutato. Aveva salutato il pianoforte. Quando, alle sette, Tobio se ne era andato, si era messo a spolverarlo con una delicatezza che non aveva avuto nemmeno prima, e mentre lo fissava aveva pianto per dieci minuti buoni. Alla fine, si era presentato a casa alle nove.

Non ne aveva parlato con nessuno, ma non perché se ne vergognasse. Provava un sentimento più vicino alla gelosia, perché quel pianoforte ormai era suo. E glielo stavano portando via.

Si sentì in pieno diritto di farsi scappare un singhiozzo.

Tobio si ritrasse quasi spaventato. «Ohi, stupido, guai a te se mi piangi davanti!»

Shouyou lo guardò con quei suoi occhi enormi e ora lucidi e gli sfuggì un altro singulto. Tirò su col naso e finalmente una lacrima solcò la sua guancia, fresca e brillante come rugiada.

Voleva dire qualcosa, qualunque cosa, però non ci riuscì: restò quindi con la bocca aperta a boccheggiare come un pesce appena pescato. «N-no» si ritrovò a balbettare. «Ti ho detto di no!»

Il ragazzo dai capelli rossi non fece nulla se non continuare a piangere, ma gli fece il favore di abbassare lo sguardo.

Alla fine agì d’istinto: lo aggrappò per un braccio e prese a trascinarlo lungo il pavimento di granito. «Andiamo!» Non ebbe la volontà di voltarsi. «Chiama i tuoi di’ che sei da me, e subito, imbecille!»


Tokyo, 27 giugno 2016, 12:36


La casa di Tobio era grande, mastodontica, rispetto alla sua che aveva giusto due vani oltre alla cucina e al bagno. Non solo: era in stile occidentale, come tutte le villette del residence che la circondavano. Era piuttosto sobria, almeno all’esterno: le pareti di un celeste chiarissimo, quasi bianco, poche finestre e un tetto spiovente con mattoni di un rosso caldo, tendente al marrone.

Tobio cacciò fuori un mazzetto di chiavi che parevano tutte uguali, non contraddistinte neanche da una targhetta. Ne infilò una nella serratura della porta massiccia, di scurissimo legno lucido. Con un tac, la porta si aprì e lui la spinse con un piede, entrando.

«Permesso...» La stanza era completamente avvolta nell’oscurità, tanto che Shouyou non riuscì più a vedere dove stava mettendo i piedi. «Alzare le serrande no? Si muore pure di caldo!»

«Puoi resistere fino al primo piano.»

Quindi c’erano addirittura due piani. Più che plausibile, dato che l’abitazione, oltre ad essere larga, era anche alta almeno la metà della palazzina dove stava.

«Ma i tuoi la tengono così?»

Il quindicenne non rispose, lasciando che quella domanda, che in alcuni casi poteva risultare inopportuna, echeggiasse tra le pareti di quella che sembrava una casa fantasma.

Qualche secondo dopo si sentì un fruscio e un tonfo, seguito da un’esclamazione di dolore.

Si voltò lentamente, fulminando con lo sguardo qualsiasi cosa, poiché non poteva vederlo e allora tanto valeva guardare male anche i mobili. «Che. Cazzo. Hai. Fatto?» scandì, con una specie di rabbia gelida a incupirgli la voce.

«Ahi» continuò comunque a lamentarsi il rosso. «Ma che diamine era?» Si mise carponi, gattonando e tastando quello che gli capitava sotto le mani.

«Ohi! Rispondimi, cretino.» Frugò nelle tasche, tirò fuori il cellulare e fece luce davanti a sé.

Il raggio artificiale lo accecò per un attimo, ma rivolgendo di nuovo gli occhi a terra, scorse un libro aperto che dava la copertina. Era di musica.

Sollevò lo sguardo sul violinista, appoggiandosi ai talloni. «Mi vuoi spiegare perché sono inciampato su un libro buttato a terra?»

«Perché sei demente, magari?» rispose, sarcastico. «E ora alzati: abbiamo da fare!»

«E allora degnati di accendere la luce, idiota!» Fece comunque come gli aveva detto, dal momento che restare sul pavimento freddo ‒ era marmo? ‒ non era la migliore delle possibilità.

Tobio si girò, ma non spense la torcia del cellulare, e proseguì. «Non ce n’è bisogno.»

«Ma che ti costa?» sbuffò, mentre arrancava dietro di lui, saltando e zigzagando in mezzo ai mille tomi e quaderni, gettati lì in mezzo senza alcun ritegno.

Provò anche a guardarsi attorno per pura curiosità; la luce bianca, però, arrivava giusto a qualche centimetro dai suoi piedi, e poi era nuovamente totale oscurità.

Raggiunsero i gradini ‒ Shouyou tutto integro ‒, anch’essi costellati di volumi enormi e libriccini di nemmeno cento pagine.

«Non voglio nessun cadavere sulla mia scala, quindi fa’ attenzione.» Cominciò a salire, velocemente, come se per lui fosse normale effettuare quella corsa ad ostacoli. Tuttavia, non sentì alcun passo prima di lui. «E spiccia...»

«Aspetta, Kageyama!» lo interruppe, sotto di lui. «Ma non dovremmo salutare i tuoi? Non è educato...»

«I miei» lo disse con un’inflessione che lo fece quasi rabbrividire, «non sono a casa» lo informò, secco e distaccato.

«Ah...»

Mentre andava su per gli scalini, avvertì un senso di disagio strano, come se non fosse adeguato a quel luogo. Sembrava che là ci avesse sempre messo piede solo Tobio, e che ora l’appartamento rispecchiasse la sua mente: caotica, buia e inaccessibile praticamente a tutti.

Shouyou, tuttavia, aveva bussato a suon di capocciate ‒ come faceva sempre ‒ e alla fine Tobio aveva ceduto.

A questo punto si sarebbe meritato anche un giro turistico, no?

«Che lavoro fanno?» ruppe il ghiaccio, ormai arrivati al corridoio di sopra finalmente illuminato.

Non avrebbe mai fatto quella domanda a qualcun altro: per lui stesso la famiglia e il lavoro erano un nervo scoperto. Ogni volta che glielo chiedevano si rabbuiava di colpo; dopo un po’, si era detto che non era mica colpa degli altri, perché non potevano sapere. Non era neppure colpa sua, perché non era tenuto a comunicarlo a tutti: non era colpa di nessuno. Lui, però, aveva deciso di essere più sensibile su quell’argomento.

Il problema era che non trovava più un argomento di cui parlare, e per lui era a dir poco soffocante. Gli sembrava che Tobio si fosse allontanato anni luce con quell’ultima risposta.

Sobbalzò, ma volle augurarsi che l’altro non l’avesse notato, dato che era avanti a lui di qualche metro. «Mio padre ha un ruolo importante nell’UNESCO, ma non ricordo come si chiama,» esitò, mandando giù un fastidioso groppo in gola, «e mia madre è una pianista.»

Era stato inopportuno, sì, ma c’era abituato. Alle medie glielo avevano chiesto compagni di classe, professori, insegnanti di musica e accompagnatori. La metà di questi sapeva chi era sua madre e che oramai non suonava più.

Sgranò gli occhi color nocciola e corse accanto a lui. «Tua madre è una pianista? Davvero? È stata lei ad insegnarti a suonare il piano? E il violino?»

Il moro non ebbe la voglia di irritarsi per tutto quell’inutile fomento. Doveva occuparsi del suo cuore impazzito e del formicolio che gli stava invadendo le braccia. Soprattutto, doveva far cadere quell’argomento al più presto, ma se fosse stato zitto o lo avesse insultato in qualche modo, probabilmente, sarebbe risultato sospetto e Shouyou si sarebbe incuriosito ancora di più.

Con la vista un po’ annebbiata, scorse la sua stanza e accelerò il passo. «Ho imparato ascoltandola.»

Anche la bocca si spalancò. «Ascoltandola?» esclamò, stupito.

Fece sì col capo. «Mi piaceva nascondermi sotto il piano e ascoltarla ogni volta che si sedeva per suonare» ricordò accennando un sorriso, così sincero e triste al tempo stesso.

Il pianista non capì per cosa si meravigliò di più: che Tobio stesse sorridendo, o che avesse imparato solo grazie all’udito. Anche a lui servivano gli spartiti se voleva fare qualcosa per bene.

Ringraziò qualunque divinità ci fosse in cielo per essere giunti all’ingresso della sua camera. La porta era socchiusa e usciva un piccolo spiraglio di luce, dunque almeno lì dentro Shouyou non avrebbe rischiato di inciampare.

Entrò per primo, facendo volare lo zaino fino al letto con poca grazia, e lasciò posto all’altro.

La stanza era molto più grande della sua, che condivideva con sua sorella, come d’altronde tutta la casa. Una parete, quella alla destra dell’entrata, era di un blu elettrico, mentre le altre erano completamente bianche, con due calendari ‒ uno del 2015 e l’altro del 2016 ‒ e qualche poster di violinisti e musicisti appesi a dei chiodi storti. Dalla parte opposta era posizionato un letto a una piazza e mezza, coperto da un lenzuolo blu e giallo, a cui era affiancata una scrivania di legno chiaro solo con cose riguardanti la musica sopra. C’era un mobile, alla sinistra, che ne era altrettanto pieno: libri, quaderni, trofei, piccoli strumenti come la fisarmonica o miniature di altri più grandi.

A Shouyou non sarebbe dispiaciuta una camera del genere.

Se non fosse stato per i vestiti e i volumi aperti sul marmo lucido. Solo un piccolo cerchietto al centro era lasciato libero da quel guazzabuglio, sicuramente perché potesse suonare in piedi, davanti a uno spartito, senza dover stare attento a non muoversi di un millimetro.

Fece una smorfia disgustata, ma entrò comunque. Si accorse del pianoforte verticale soltanto allora, poiché nella posizione in cui stava prima la concavità dovuta alla costruzione della porta gli aveva ostruito la visuale in quel punto del vano. L’abete spiccava sotto l’accurata lucidatura, rosso come terracotta. Shouyou si innamorò per l’ennesima volta.

«Wow» esalò a bassa voce, accarezzando delicatamente la cassa armonica, liscia e pulitissima.

Davanti allo strumento si trovava lo sgabello. La parte imbottita era di pelle, come quasi tutti quelli di ultima generazione, ma di un marrone scuro, non del nero lucido che aveva sempre trovato.

Il violinista si trattenne dal sospirare per il sollievo: era riuscito a distrarlo. Poi, immobile al centro, le braccia incrociate al petto, scrutò il sedicenne girare intorno al pianoforte, totalmente rapito.

«Dai, stupido, posa lo zaino e siediti. Sembra che tu non ne abbia mai visto uno.»

Lui si girò con un sorriso a trentadue denti. «Ma è bello!»

«Sono tutti belli» asserì, fece spallucce e saltellò tra tutti gli oggetti a terra, trovandosi davanti agli scaffali colmi di libri ed estraendone uno.

«Stavolta sono d’accordo» commentò, accentuando il sorriso, e avanzò verso la portafinestra, tentando di non pestare nulla. La aprì con forza, lasciando che un colpo di vento gli colpisse la faccia e chiudendo gli occhi. «Ah! Si moriva di caldo.» Poi mise piede sull’ampio balcone, che affacciava sul gran cortile del residence, spoglio come un albero d’inverno.

«Ohi! Piantala di fare come se fossi a casa tua!» gli gridò Tobio da dentro.

Il ragazzo si imbronciò e, suo malgrado, tornò all’interno della stanza. «Di solito è la prima cosa che si dice ad un ospite» brontolò, polemico.

«Tu non sei un ospite e non sei neanche a casa tua, perciò muoviti e siediti!» Sistemò il tomo sul reggispartito del piano, accomodandosi successivamente sulla sedia di legno che aveva posto accanto allo sgabello.

«Manco il tempo di vederla...» Sbuffò ma, quando si ritrovò davanti al piano, sorrise.

«In questo brano inizi prima con la sinistra e poi con la destra, capito?» Posò l’indice vicino alla chiave di violino all’inizio dello spartito. «Anche questo è in diesis, come la Gavotte

Shouyou sbatté le palpebre un paio di volte. «No, aspetta» fece brusco, mettendo le mani avanti. «Che è questa cosa?»

Il quindicenne alzò gli occhi al soffitto, come se fosse ovvio. «Il brano per i prefetturali. Il primo concorso è solo per i ragazzi dei ventitré quartieri di Tokyo, idiota.»

«Ti devi togliere questo vizio di non dirmi mai niente.» Ancora offeso, passò gli occhi alle pagine piene di note. «Paga… nini?»

«Non dirmi che non conosci Paganini.»

«Certo che lo conosco! Però non avevo mai sentito parlare di questo Cantabile...»

Tobio non parve sorpreso. «Perché sei pure ignorante» decise con una scrollata di spalle.

«Come se tu conoscessi i brani di tutti i musicisti!» Sospirò sonoramente; poi cominciò a leggere la partitura. «Cavolo, è difficile...» Sorrise: si sarebbe dovuto allenare ancora più duramente.

«Per questo te lo sto facendo imparare ora» chiarì. «I prefetturali sono solo due settimane dopo quello di Tokyo, e siccome noi lo passeremo, dobbiamo prepararci sin da ora.»

Se c’era qualcosa su cui non erano quasi mai in disaccordo, quella era la musica. E la vittoria. Soprattutto la vittoria: nessuno era in grado di privarli dello spaventoso spirito combattivo che possedevano.

Il rosso gli regalò il suo solito sorriso smagliante, annuendo vigorosamente. «Ti posso chiedere una cosa?»

«Mh.» Nel frattempo, si raddrizzò e andò a cercare un altro libro, stavolta per violino.

«Dopo i prefetturali ci sono i regionali, e poi i nazionali, giusto?» Vide la testa corvina, che schizzava tra una mensola e l’altra, assentire. «Tu ci sei mai andato?»

Si morse il labbro inferiore più forte che poté, le spalle si irrigidirono. «No.»

Il pianista fece una smorfia incredula. Un prodigio come lui non aveva mai suonato su un palco nazionale? «Uh… Come mai?»

Gli indirizzò un’occhiataccia da sopra la spalla e, afferrato ciò che voleva, si voltò. «Che motivo può non farti andare ai nazionali, secondo te?»

Di sicuro, Shouyou non poteva immaginare quello che aveva impossibilitato Tobio.

«Che ne so io se ti sei qualificato o meno» farfugliò, sporgendo le labbra in un broncio.

«Io mi qualifico sempre» ribatté il violinista, piccato e risoluto.

«Sì, sì, blablabla. Non ci sei andato comunque» lo sbeffeggiò divertito.

Il ragazzo si sedette di nuovo, stringendo un po’ troppo la carta tra le mani, e lo guardò minaccioso. «Un’altra parola e ‘sto libro sarà spaccato in due sulla tua testa» sibilò.

Shouyou, che ormai sapeva che gli unici colpi che gli rifilava non facevano nemmeno così male, ridacchiò. «E prendila sul ridere, scemo!»

Grugnì qualcosa, ma anziché rispondere per le rime si mise alla ricerca di una pagina precisa.

«Ah, Kageyama!»Si volse di scatto verso di lui, alla sinistra.

Il suddetto sollevò la testa lentamente. «Che vuoi?»

«Posso scegliere io il brano per i regionali? Finora li hai scelti sempre tu!» Lanciò un’occhiata allo spartito un po’ sbiadito della Cantabile di Paganini, ancora in bella vista. «Non è che questi non mi piacciano, ma ce n’è uno che vorrei tanto fare...»

Per la prima volta nel giro di circa tre quarti d’ora, Tobio non gli diede uno sguardo torvo. «In realtà ho già scelto e imparato anche quello per i regionali, ma lo inizieremo tra qualche settimana, o il tuo cervello troppo piccolo potrebbe scoppiare.»

«Uffa!»

«Però a quello per i nazionali non ci ho ancora pensato, in effetti» gli concesse, appoggiando un gomito a un ginocchio e sostenendo il mento con il pugno chiuso.

«Sono a metà settembre, vero?» Una luce vivissima si accese nelle sue iridi e non poté fare a meno di un sorriso. «Ci sarebbe la Gioia di Amare, di Kreisler...»

«Assolutamente no» lo bloccò, mentre un brivido gli faceva venire la pelle d’oca sulle braccia scoperte. «È troppo difficile e il tempo è troppo poco.»

«Ma sono tre mesi!» protestò, sporgendosi in avanti.

«Non basterebbero comunque. Non va bene.»

Shouyou sgranò gli occhi, interdetto e anche leggermente deluso. «Fa strano sentirti dire che non riusciresti a suonare qualcosa per il poco tempo...»

«Io ci riuscirei, qua il problema sei tu!» Occhieggiò la sua sveglia nera accanto al letto, che segnava l’una, e il suo stomaco infierì brontolando. «Senti: ne riparliamo un altro giorno. Ora mangiamo, suoniamo e tu te ne fili a casa, perché mi hai già rotto abbastanza.»

Dovette acconsentire: anche il suo, di stomaco, non stava mancando di farsi sentire. «E comunque, ti ho rotto con cose che riguardano anche te» rimarcò, raggiungendo lo zaino azzurro che aveva abbandonato sul letto, accanto a quello nero di Tobio, per prendere il bentou che aveva portato da casa.

«Sta’ zitto e scendi.»

«Aspettami, Kageyama!»

Tokyo, 11 luglio 2016, 11:30


Alla fine, ci era riuscito. Dopo due mesi di allenamento ‒ circa quattro ore ogni giorno ‒, fu finalmente capace di suonare tutta la Gavotte en Rondeau di Bach.

Ora il problema stava nel coordinarsi. Per le due specie di competizioni in cui si erano lanciati all’inizio era uscito tutto naturale, come se suonassero insieme da anni e fossero destinati a continuare così.

E poiché era circa la trentesima volta che provavano le prime note della Gavotte en Rondeau e la coordinazione pareva essere un concetto inesistente, era decisamente un grosso problema. Nell’arrangiamento di August Wilhelmj, in due mezzi, la mano destra al piano aveva una pausa di un quarto esattamente all’inizio, mentre il violino eseguiva il primo bicordo e la mano sinistra la prima nota: al primo accordo della destra, però, Shouyou arrivava sempre in anticipo o in ritardo.

Tobio fu tentato piuttosto spesso di gettarlo fuori a calci e andare a elemosinare un qualsiasi altro pianista per strada.

Alla trentatreesima volta, ripose un attimo il violino e l’archetto sul letto ancora sfatto, e si diresse alla parte opposta della stanza.

«Hinata,» esordì, forzandolo a girarsi con una mano sui suoi capelli morbidissimi, «devi solo contare. Un, due. Al due cominci, punto.»

«Con il violino mi confondo!» controbatté il ragazzo più basso, con le dita sulla tastiera. «Mi serve solo un po’ di pratica… Ce la posso fare!»

«No che non ce la puoi fare, se continui così.» Si sedette velocemente sulla sedia di legno, che era sempre rimasta davanti allo strumento, e si protese in avanti. Gli avambracci poggiati sulle cosce, l’espressione più seria che mai. «Tu non conti. Se lo facessi, andresti a tempo.»

«Io conto! Solo non al tuo stesso modo...» Si mordicchiò il labbro e abbassò per un secondo lo sguardo: quel piccolo fattore era capace di cambiare completamente la situazione.

Dovette stringere i pugni per evitare di staccargli il collo. «Conta ad alta voce» gli intimò. «Sin dalla pausa, anche da prima. Basta che mi dici quando inizi.» Notando che Shouyou lo fissava con un’espressione perplessa, gli diede un calcio sullo stinco. «E sbrigati, idiota!»

Si lasciò sfuggire un’esclamazione di dolore, ma non si smosse. «Ora? Tu non suoni?»

«Ti ho appena detto che devo sapere quando inizi a contare! Ce le hai le orecchie, usale.»

Sospirò rassegnato; rivolse comunque la sua attenzione al pianoforte, chiuse gli occhi dopo aver guardato un’ultima volta il viso corrucciato del più alto, e disse: «Un, due, tre...»

Li riaprì nello stesso momento in cui suonò la prima nota con la sinistra e arrivò al quattro. «Un,» e suonò il primo accordo con la destra, mentre con la sinistra fece una pausa di un quarto, «due.» Di nuovo nota con la sinistra e pausa con la destra.

Tuttavia, Tobio gli impedì di andare avanti con un pugno in testa. «Sei un idiota! Non puoi iniziare al quarto tempo, e un quarto tempo non dovrebbe nemmeno esistere! È una misura binaria!»

«Smettila di urlarmi nell’orecchio» urlò a sua volta, una goccia di sudore che gli scendeva lungo la tempia. «Che c’è di male? Ci riesco, quindi va bene!»

«Ma non esisti solo tu. Ti ricordo che suono anche io insieme a te!»

Solo un attimo dopo si accorse che quelle parole, dette da lui, apparivano stonate. Lui, che aveva sempre voluto suonare da solo e che non si era mai curato di agevolare l’accompagnamento, stava rimproverando un pianista al riguardo. Sentì l’improvviso impulso di sorridere, ma lo represse perché era troppo irato, al momento. Si sarebbe preoccupato più tardi di cosa esattamente quel pel di carota stava suscitando in lui.

Shouyou fece per dire qualcosa, ma chiuse immediatamente le labbra, stringendole e mordendone l’interno.

«Che devo fare?» sussurrò, trascorso un minuto in silenzio ‒ che di certo non riguardava anche i loro occhi: sembravano voler sputare fuoco da un momento all’altro.

Il violinista lo guardò con soddisfazione e tese le mani sui tasti. «Questo.»

«Un,» la sinistra, «due» la destra. E così un’altra battuta, per poi proseguire con entrambe.

Squadrò i suoi movimenti per dieci secondi, la fronte aggrottata e le mani congiunte in grembo. «Va bene, ho capito» sentenziò, prendendogli gli avambracci e spingendoli giù.

Tobio aveva eseguito tutto magistralmente in quei pochi secondi, non aveva battuto ciglio. La sua voce era andata a tempo con le sue dita, che quasi non pressavano sull’avorio bianco per quanto erano leggere. I pedali, la diminuzione e l’aumento della dinamica, persino l’emotività: c’erano stati tutti, in un modo così naturale che avevano l’aria di essere le cose più facili del mondo.

Shouyou, invece, si era esercitato per mesi che, a quanto pareva, non bastavano.

Non osò posare il suo sguardo sul suo viso, una maschera di agitazione e disappunto. «Lascia fare a me.»


Tokyo, 11 luglio 2016, 12:49


Espirò dal naso, stanco e sudato. Ci avrebbe riprovato un milione di volte, se necessario, pur di non darsi per vinto.

Mentre il polpastrello stava per aderire al tasto, intervenne con tono grave: «Basta così, Hinata. È meglio se torni al metodo di prima: così perdiamo solo tempo».

Era inzuppato di sudore anche lui, nonostante non stesse suonando: quell’afa era estenuante e, molto probabilmente, stava friggendo il cervello ad entrambi. A Tobio in primis, dato che temeva di starsi preoccupando per quello stupido.

«No» contestò, il fuoco nelle sue iridi immensamente più ardente di quel clima. «Ti ho detto di lasciarmi fare.» Trattenne il respiro e inchiodò gli occhi sul marmo grigio. «Se ci sei riuscito tu, ci devo riuscire anche io: tu suoni il violino, io il piano.»

Il quindicenne scattò in piedi, spazientito. «Peccato che ci rimanga un mese, tu faccia schifo negli altri due brani e quello per i nazionali lo dobbiamo ancora scegliere!» Gli premette l’indice sulla fronte con forza. «Non abbiamo tempo per stare dietro ai tuoi capricci, stupido!»

Per quanto l’altro stesse spingendo, non si mosse di un centimetro. «Allora dimmi cosa dovremmo fare.»

«Conta di nuovo come prima.»

Tobio molto probabilmente aveva ragione: se si fosse dovuto tenere occupato con quel brano ancora per un mese, non avrebbero avuto il tempo materiale per praticare gli altri. Ciò non significava che gli piacesse lasciar risolvere la questione al violinista. Poteva essere solamente un accompagnatore, ma era lui che decideva di muovere quelle dita, che rendeva quel pezzo com’era stato trascritto.

Shouyou scrollò appena le spalle, eppure la determinazione che aveva dipinta in volto non si cancellò.

«Un, due, tre» alzò il polso, «quattro» e lo fletté. «Un, due» seguitò, muovendo le dita sul bianco e sul nero.

«Va bene» affermò dopo qualche secondo. «Ripeti quattro tempi a vuoto, e poi conta di nuovo così.»

Si girò e sollevò il capo, gli occhi lievemente più grandi del solito. «Che vuoi fare?»

«Tu fa’ come ti ho detto!» Incrociò le braccia al petto e restò a studiarlo dall’alto.

Il suo sguardo si trattenne ancora un po’ sull’espressione indecifrabile del moro, cercando qualche segno che gli facesse capire dove voleva andare a parare. Infine annuì con vigore, mostrando un sorriso sicuro.

Chiuse le palpebre e adagiò le mani sul piano. «Un, due, tre, quattro» scandì a ritmo. «Un, due, tre, quattro.» Il tasto scese e risalì, rapido come un battito d’ali.

Le labbra di Tobio si piegarono in un ghigno inquietante, scatenato, che faceva presagire solo azioni altrettanto scatenate.


«Prima di tutto mi devi guardare.»

«E tu spiegami» ribatté immusonito, guardandolo comunque.

Gli gettò un’occhiataccia innervosita. «Lo sto facendo, imbecille!»

Si trovava dentro al cerchietto libero di tutti gli oggetti sparsi a terra, con il violino in una mano e l’archetto nell’altra. Non era del tutto certo di ciò che stava facendo: lui doveva fidarsi di Shouyou e Shouyou doveva fidarsi di lui. Anche se, seppure non se ne fosse mai reso conto, non era la prima volta.

«Quando poggio il violino sul mento, tu comincia con i primi quattro tempi» gli illustrò con voce ferma e perentoria. «Conta ad alta voce, come se io non ci fossi. Vai con l’altra battuta da quattro e suona. Hai capito?»

Il sedicenne, accigliato, arricciò le labbra. «Diciamo...»

«Allora facciamolo» ghignò, come l’altro avesse detto: “Sì”.

Sospirò, ma non si sottrasse a quella che, per loro, era anche una sfida. Si voltò, ma con la coda dell’occhio non smise di monitorarlo.

Lo vide sollevare lo strumento fino a fargli raggiungere la propria clavicola, e la sua mente scattò, automatica: «Un».

E in quell’istante le sentì di nuovo: quelle strane emozioni di quando suonava con Tobio. Le aveva provate solo due volte, tempo fa, e gli mancavano come una droga potentissima che non si assume da troppe ore.

Sembrava che degli elefanti stessero organizzando una festa di compleanno nel suo stomaco, che si divertissero a ostruirgli la gola ad intermittenza, che facessero marciare un esercito di formiche sulle sue braccia e sulle sue gambe, ma non si fermò. Non si fermò perché, nonostante tutto, amava quella sensazione di essere con le spalle al muro, in cui poteva suonare o suonare.

Perché cazzo non sta contando?, era stata la prima frase che gli aveva attraversato la mente. Lo aveva guardato male sebbene sapesse che non potesse notarlo mentre era tanto concentrato: era difficile che tenessero il conto in modo identico, anche se era la stessa composizione. Era necessario che lo ascoltasse mentre anche lui prendeva il ritmo, o non sarebbero stati capaci di sincronizzarsi.

Solo in seguito aveva realizzato che non avevano sbagliato. Che, invece, era venuto spontaneo che eseguissero la prima nota nello stesso momento, come fossero una persona sola. Dunque, potevano continuare a suonare insieme.


La sveglia sul comodino vicino al letto segnava anche la temperatura: quel giorno si superavano i 35 gradi.

Effettivamente, se fosse stato gennaio, non avrebbero di certo avuto il retro della t-shirt e l’attaccatura dei capelli completamente bagnate. Tuttavia, quello era l’ultimo dei loro pensieri.

«Abbiamo finito?» boccheggiò Shouyou, scrutando una mano come se non fosse sua.

Poiché la mano sinistra gli tremava, passò il violino nella destra. «Secondo te?» replicò con voce strozzata, come se le parole non volessero uscire.

Si tamponò la fronte umida con un braccio, e la pelle d’oca gli fece il solletico. «Ah.»

Per diversi minuti parve che la stanza fosse rinchiusa in una bolla di tranquillità e immobilità assoluta, meno che per i loro respiri pesanti.

Tobio era stato sull’orlo delle lacrime. Era fermamente convinto che fosse solamente per l’amore per la musica, per la soddisfazione di aver messo in pratica qualcosa di così complesso e di averlo fatto bene. Al fatto che potesse trattarsi di Shouyou non aveva neppure pensato. Non aveva pensato che Shouyou gli era stato accanto per due mesi, ogni giorno, anche con il suo caratteraccio, e di sua spontanea volontà, non perché un insegnante glielo aveva ordinato.

Quando si riscosse, però, non si fece problemi a riprendere a criticarlo.

«Perché cazzo non hai contato?» esclamò, ancora con il battito accelerato, ma di nuovo irritato.

«Ho contato nella mia testa.» Non gli diede neanche uno sguardo.

Lui indietreggiò fino a cadere sul letto, sfinito ‒ di solito un singolo brano non lo stancava così tanto. «E io ti avevo detto di farlo ad alta voce, deficie...»

«Mi avevi detto di non farlo come se tu non ci fossi!» lo interruppe, alzando i toni, stringendo i pugni, e calò il capo. «Non rimproverarmi per una cosa che fai anche tu!»

Il violinista contrasse le labbra ed evitò con tutto se stesso di guardare il profilo del ragazzo, parzialmente coperto dai capelli rossicci. Per quanto gli avesse dato tempo di rispondere, non lo fece.

«Non posso contare ad alta voce...» Volse lentamente la testa. «Perché» gli rivolse un sorriso leggero, piccolo, «tu ci sei, Kageyama.»




Nota d’autrice:

Sì, finalmente ho finito anche questo! Ci ho messo tanto anche stavolta perché, da come potete vedere, non è esattamente un capitolo breve… Il bello è che mi ero anche prefissata di arrivare più in là. :’) mi sa che questo è l’effetto della KageHina AHAHAHAH

Allora, passiamo alle note tecniche. Questo è un capitolo di passaggio? Sì e no. Sì perché, ai fini della trama vera e propria non succede nulla di particolare (se non la finale riuscita del brano); no perché, di fatto, il rapporto tra Hinata e Kageyama si evolve enormemente, per i piccoli accenni alla famiglia di Kags (!!warning: alto contenuto di angst!!) e perché ci sono dei concetti a cui tengo. Inoltre, questa è un’AU, il che significa che i personaggi non possono essere uguali a quelli del canon per vari fattori che li hanno influenzati e che continuano a influenzarli. Perciò, ho provato a caratterizzarli al meglio, oltre a far vedere la loro ‒ parziale, per ora ‒ evoluzione anche come personaggi in sé per sé; ovviamente, siete voi a dovermi dire se ci sono riuscita. >.<

Qui, tra l’altro, vi lascio i link che spiegano le varie “regole” (chiamiamole così, ma a dir la verità io ho fatto solo pochi mesi di piano e la maggior parte delle cose che so è grazie a internet) sparse per il testo.

Misure, batutte, tempo (le ultime, insomma): https://it.wikipedia.org/wiki/Misura_(musica)

Lo spartito di alcune parti della Partita n.3 per violino, tra cui la Gavotte en Rondeau (basta scegliere “Arrangements and Trascriptions”, scendere un po’ cliccare “view” su “For Violin and Piano (Wilhelmj)”): http://imslp.org/wiki/Violin_Partita_No.3_in_E_major,_BWV_1006_(Bach,_Johann_Sebastian)

Solfeggio (che in questa storia è cantato per motivi di KageHina sottotrama): https://it.wikipedia.org/wiki/Solfeggio


Infine ringrazio tanto Maiko_Chan e _Lady di Inchiostro_ per supportarmi sia qui su EFP che su twitter. <3

Bene, ora mi dileguo! Spero di poter aggiornare al più presto. :3


Baci

Shizuha



  
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