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Autore: Adeia Di Elferas    03/10/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Le navate di Santa Maria del Fiore erano così stipate e l'aria così viziata da odori umani – sudore, fiati pesanti e abiti incrostati di sangue secco dei flagellanti – e divini – incenso, fumo di candele e olii sacri – che la maggior parte dei presenti faceva perfino fatica a respirare.

Nell'atmosfera fumosa e satura della chiesa, Savonarola salì sul pulpito per la sua predica. Dal periodo dell'Avvento aveva sempre lasciato le Messe – anche quelle solenni – al suo confratello Domenico da Pescia, per non attirarsi altre inutili ire del Santo Padre, ma quella vigilia di Quaresima doveva essere sua.

L'altro domenicano aveva fatto un ottimo lavoro, nelle settimane addietro, infervorando il popolo e soffiando sulle ceneri che stavano ridando vigore al fuoco incontrollato dell'estremismo.

Con studiata calma, Savonarola si prese il suo tempo per cominciare a parlare, facendosi forte del silenzio che aveva reso le navate della chiesa spettrali come una grotta.

L'unico suono che si poteva udire era quello ritmico e metallico dei turiboli agitati avanti e indietro dai chierici e qualche sommesso pregare dei flagellanti che, non potendosi prendere a frustate per via della calca, continuavano la loro espiazione almeno a parole.

Quando il frate iniziò a tuonare, Girolamo Benivieni, in primissima fila, strinse a sé con più forza il crocifisso che ormai si portava appresso ovunque e poi si assicurò per la centesima volta di avere ancora in tasca il foglio di pergamena su cui s'era appuntato la sua Canzone, scritta appositamente su ordine di Savonarola.

L'avrebbero cantata i bambini quel pomeriggio, assiepati nella loggia accanto al palazzo della Signoria, quando si sarebbe raggiunto uno dei momenti cruciali di quel Carnevale.

La trama della sua composizione era semplice e fortemente satirica. La personificazione di Carnevale veniva cacciata con scherno da Firenze e scappava a Roma, dove la Curia, per ripagarla delle offese subite, puniva i toscani bandendo Quaresima dalla città. Al che, addolorato per la pena dei fedeli fiorentini che si vedevano negati uno dei periodi dell'anno più importanti per un credente, Carnevale decideva di tornare a Firenze e immolarsi sul fuoco, lasciandosi bruciare per fare sua erede Quaresima.

Ripensando a come Savonarola avesse insistito per fargli scrivere quella Canzone che inneggiava a dimenticare tutto ciò che era il Carnevale, cioè la festa, l'allegria, la bellezza e gli effimeri piaceri della vita umana, Benivieni si trovò a ripensare al suo caro Giovanni.

Tutti ricordavano la fulgida stella di Pico della Mirandola, a Firenze, ma solo a lui mancava davvero.

Mentre Savonarola gridava, aggrappandosi al pulpito e agitando in aria una mano dall'indice puntato in alto, in molti cominciarono a inneggiare a Dio o a chiedere perdono per i propri peccati gettandosi in ginocchio disperati.

Approfittando di quella confusione, anche Girolamo si accasciò a terra, cominciando a piangere in modo inconsolabile, ripensando a Giovanni Pico e alla sua giovane vita, spezzata senza un valido motivo, senza che lui potesse nemmeno manifestare apertamente il suo lutto, molto più profondo di quello dovuto alla perdita di un semplice amico.

Qualche panca più indietro, Sandro Botticelli restava immobile a fissare il domenicano che predicava e sentiva crescere dentro di sé una grandissima paura. Savonarola stava attaccando tutto quello in cui lui credeva e a cui aveva dedicato gran parte della sua vita.

Aveva sentito dire che quella sera ci sarebbe stato un grande falò e che molte opere d'arte vi sarebbe finite dentro.

Lui, che trovava nell'arte l'unica forma di verità, bellezza e amore, come avrebbe potuto sopportare una simile visione?

“Dio è l'unica verità!” stava ululando Savonarola: “Dio è l'unica bellezza! Dio è l'unico amore!”

Botticelli, sentendosi incredibilmente rispondere a tono dal grido di quell'oscuro frate, si fece lentamente il segno della croce e, puntando lo guardo in terra, si chiese comunque cosa avrebbe fatto, se avesse visto cadere nelle fiamme alcune delle sue opere.

Chi aveva ragione? Il frate che gridava sul pulpito e che propugnava un abbrutimento pregno d'umiltà, oppure il suo istinto, che gli suggeriva quanto fosse sbagliato scagliarsi contro la più bella creazione di Dio, ovvero l'ingegno umano, di cui l'arte era solo la più valente schiava?

Sandro si strinse una mano sul cuore e, come molti altri, cominciò a piangere in silenzio, mentre Savonarola ancora tuonava, promettendo le fiamme della punizione divina a tutto ciò che rappresentava in terra la lusinga del demonio e la vanità dell'Uomo.

 

Giovanni aveva passato parte della mattina al palazzo degli ambasciatori a parlare con i segretari fiorentini che, da quando erano arrivati in città assieme a Simone mesi addietro, non avevano più dato cenno di volersene tornare in patria.

“Non buone notizie, non buone, no.” aveva continuato a dire uno di loro, non appena il Popolano accennava alla situazione della repubblica.

Ci si riferiva soprattutto all'assolutismo di Savonarola che, senza Medici in patria e con il resto delle famiglie importanti ormai succubi a lui, poteva fare e dire quel che pareva, trovando pure una nutrita schiera di gente pronta a eseguire ciecamente ogni suo ordine.

“E per la situazione con Venezia? Ci sono novità?” aveva chiesto Giovanni, a cui la carenza di lettere da Firenze indirizzate a lui non era certo passata inosservata.

“Sempre la stessa cosa. Tanto la nostra repubblica, quanto la Serenissima si sta aspettando che l'altro faccia il primo passo falso.” aveva risposto uno dei segretari, guardandolo di traverso: “A Firenze, piuttosto, si chiedono come mai non siate riuscito a comprare il grano promesso.”

“Con tutti i problemi che ha Firenze con Savonarola – aveva tagliato corto il Medici, sudando freddo – non credo che si faccia bene a fissarsi con questi affari di mercato.”

Così, per nulla rincuorato da quell'incontro, l'ambasciatore aveva cominciato a girare a vuoto per Forlì, deciso a calmarsi prima di tornare alla rocca.

Sapeva che Firenze non aveva ancora usato il pugno duro con lui – che nel tempo passato alla corte della Sforza aveva portato a casa ben pochi risultati diplomatici – solo perché realmente la Signoria era troppo distratta dal vortice in cui Savonarola stava gettando la repubblica.

Nel suo peregrinare sotto la neve sottile che cadeva quella mattina, Giovanni passò distrattamente sotto la Torre del Pubblico. Non sollevò nemmeno lo sguardo, quando si ricordò che là in alto stavano ancora alcune delle teste che Caterina aveva fatto mozzare all'indomani della morte di Giacomo Feo.

Stava rimuginando su Venezia e Firenze. Sapeva che gli equilibri erano fragili, come i segretari avevano ricordato, e avrebbe voluto poter fare di più per evitare quella guerra. La terra in cui si trovava era parte della zona contesa tra le due potenze e tanto bastava a farlo sentire molto inquieto.

Rimini e Faenza erano già sotto il tacito dominio del Doge, ma Forlì e Imola per il momento si ritenevano ancora neutrali, malgrado il contratto di matrimonio tra Bianca Riario e Astorre Manfredi.

Grattandosi pensoso la nuca, Giovanni si trovò, prima di rendersene conto, ad aver fatto il giro completo delle strade che conosceva meglio e, quando si guardò attorno per capire dove fosse, si trovò di nuovo sotto la Torre.

Questa volta, però, sollevò lo sguardo, stringendo gli occhi contro la neve che turbinava in piccoli fiocchi. Le teste erano ancora là al loro posto, anche se imbiancate dal ghiaccio.

Rabbrividendo, l'uomo si strinse nel mantello e con passo un po' claudicante riprese a camminare, ma questa volta fece molta più attenzione ai palazzi e alla gente.

La prima volta che era arrivato in città, era stato colpito dalla tetraggine delle sue strade. Ora erano passati mesi, un anno più o meno, e in parte il clima di cupo terrore che si respirava prima era svanito, anche se di certo Forlì non ne usciva come una città dall'aspetto fiorente.

Gli edifici gli parvero scarni e in parte da ristrutturare. Sarebbe stato opportuno curare meglio i decori e anche aggiungere qualche abbellimento. L'unica statua degna di nota che si trovava a Forlì era quella del defunto Barone Feo e secondo il Popolano non era esattamente l'ideale, visto tutto quello che era successo per colpa di quel giovane uomo.

La gente che osservò, poi, benché fosse un giorno di festa, era ancora nelle botteghe e alle bancarelle del mercato. Tuti quanti avevano espressioni serie in volto e quando Giovanni provò a origliarne qualche discorso, restò stupito nel sentire che tutti parlavano o di lavoro o del freddo.

Non si lamentavano delle tasse, che, era chiaro, non erano un grosso problema, per lo stato della Sforza, tuttavia parevano spenti, come se non avessero altro svago in terra se non lavorare.

A un certo punto, Giovanni stava attraversando la piazza e stava per tornarsene a Ravaldino, vinto soprattutto dal fastidio alle ginocchia e alle caviglie, quando, passando accanto a un piccolo gruppetto di giovani, sentì fare il nome della Contessa e così, fingendo interesse per la merce esposta da un mercante lì vicino, si fermò a origliare.

“Sì, però senza maschera, badate bene – stava dicendo uno, vestito con abiti abbastanza eleganti, che lasciavano presupporre che fosse di ceto abbastanza alto – anche se è Carnevale. Dicono che la Tigre abbia paura di qualche ospite indesiderato.”

“Come se qualcuno osasse provare a entrare in casa sua per ucciderla... Dopo tutte le volte che è scampata alla morte!” sbuffò un altro, di rimando.

“Che vi devo dire?” si difese il primo: “Magari ha solo finito i prigionieri da torturare nelle sue segrete e, sotto sotto, spera di avere il pretesto per arrestarne di nuovi...”

“Oppure la Tigre è di nuovo a caccia e non vuole maschere per potersi scegliere più agevolmente un nuovo Barone Feo da mettere alla testa del suo Stato e tra le lenzuola del suo letto!” esclamò un altro, toccandosi la berretta di lana e accennando un ossequioso inchino, parendo in tutto e per tutto un guitto da due soldi.

La risata che seguì, sguaiata eppure così fredda e distaccata, strinse lo stomaco di Giovanni, che, tirandosi il cappuccio del mantello in testa per difendere i riccioli castani dalla neve, andò avanti per la sua strada.

 

“Come sarebbe a dire che è a una festa?!” sbottò Alessandro VI, senza riuscire a controllarsi.

“Non una vera e propria festa...” provò a minimizzare il paggio di Juan Borja, che aveva risposto con sincerità alla domanda del Santo Padre solo perché terrorizzato dalla sua stazza: “Si tratta più che altro di un ritrovo tra amici...”

“Levati di torno, ragazzino!” intimò Rodrigo, spintonando di lato il giovane, che, tremando, si fece subito da parte.

Il papa percorse a passo di marcia mezzo palazzo, fino a raggiungere gli appartamenti in cui il suo figlio prediletto stava passando la convalescenza da quando era tornato dalla guerra.

Quando spalancò la porta, il pontefice si trovò dinnanzi una scena che perfino lui, che nelle peggiori osterie di Roma veniva soprannominato 'Diavolo', trovò degradante.

Juan, la guancia ancora coperta di bende, era steso su uno dei divanetti, mentre due donne in abiti discinti gli servivano dei pezzi di frutta che lui mangiava avidamente con un sorriso beato stampato in bocca.

Tutt'attorno, rampolli delle famiglie più influenti di Roma stavano indulgendo in svaghi simili o, in maggioranza, anche molto più arditi, tanto che a un primo sguardo, il papa aveva avuto l'impressione di vedere un insieme confuso di giovani corpi muoversi e contorcersi in quella che era solo un'illusoria proiezione dell'amore.

“Fuori tutti di qui!” tuonò Rodrigo, agitando le braccia e usando la ampie maniche della tunica da papa come se fossero state ali di pipistrello: “Fuori! Fuori!”

I ragazzi e le donne, recuperando solo parte dei vestiti che si erano già levati, cominciarono a scappare, chi ridendo, chi gridando, e anche Juan cercò la salvezza, compiendo però l'imprudenza di passare proprio sotto gli occhi rapaci del padre, che lo afferrò per la collottola, costringendolo a restare.

“Tu no...” gli sussurrò, minaccioso e così il giovane abbassò lo sguardo e mise a tacere ogni animosità.

Rodrigo lo fissò per un lungo istante. La guancia coperta di bende candide spiccava contro l'altra, che era invece rossa di barba che stava ricrescendo.

Il Duca di Gandia osò sollevare lo sguardo, ma quando si specchiò nel viso del padre, la vergogna lo sovrastò e non disse nulla, benché fino a un momento prima avesse in mente di chiedergli almeno di lasciare la presa sul suo camicione, in riguardo alla sua condizione di ferito di guerra.

“Guarda questo.” gli disse piano il papa, estraendo dal tascone dell'abito un pezzo di carta di stracci.

Juan guardò la grafia stentata e lesse a mezza bocca: “Chi avesse notizie d'un certo esercito della Chiesa, lo riporti allo Duca di Gandia ch'el ha perso tornando alla casa dello padre suo.”

“Roma ne è tappezzata. E questo, ti posso assicurare, è uno dei più gentili.” sibilò Rodrigo, lasciando di scatto il figlio, che per poco non cadde: “Mi hai messo in ridicolo, Juan. Sai che farai adesso? Lascerai perdere le feste e le donne e diventerai un vero soldato.”

“Ma sono ferito...” si lamentò il giovane, portandosi una mano al volto.

Rodrigo avrebbe tanto voluto prenderlo a schiaffi proprio là dove la lama nemica l'aveva tagliato, ma si trattenne: “Ebbene, appena il cerusico dirà che sei pronto, riprenderai ad addestrarti e poi tornerai in guerra.”

Juan non ebbe nulla da ridire e attese che il padre sbollisse del tutto e se ne andasse, prima di tirare il fiato.

Sistemandosi il camicione che il papa aveva strattonato, uscì dalla stanza per fare due passi e rischiararsi le idee.

Mentre passava in un corridoio deserto, sentì dei passi e delle risate femminili. Attese e vide sua sorella, quel giorno in visita al padre, assieme a Sancha d'Aragona e qualche altra giovane nobile che faceva loro da codazzo.

Lucrecia lo guardò un momento, ma, benché i suoi occhi dicessero più del suo silenzio, finse di non essersi accorta della profonda tristezza di Juan e andò avanti a chiacchierare fittamente, trascinandosi dietro le sue amiche.

Solo Sancha si fermò, approfittando del gran numero di ancelle su cui Lucrecia poteva contare, e si avvicinò al giovane: “Vi sentite bene?”

Juan guardò per la prima volta la cognata con attenzione. Fino a quel momento non aveva mai fatto caso alla vivacità dei suoi occhi o ai suoi capelli perfettamente acconciati. Tanto meno aveva notato il suo corpo pieno e aggraziato.

“Oh, nulla di che – rispose, mettendosi un po' di profilo, per far risaltare la guancia medicata – è solo questa ferita di guerra che non mi lascia riposare...”

“Mi spiace...” sussurrò Sancha, guardando gli occhietti di Juan e posandogli una mano sulla guancia sana, con una delicatezza e una sicurezza che fecero provare un forte brivido al figlio del papa: “Posso fare qualcosa, per alleviare il vostro dolore?”

Il Borja deglutì e subito dopo, preso da un'ispirazione del momento, fermò la mano della cognata con la sua e poi si sporse in avanti per baciarla.

Quando sentì dall'altra parte una risposta ferma e compiacente e non un rifiuto, come invece si era atteso, non esitò a dedicarsi a quel nuovo passatempo con tutta l'attenzione di cui era capace.

 

“Dov'eri?” chiese Caterina, a voce bassa, cercando di non farsi sentire da nessuno dei presenti.

Era appoggiata alla sbarra per i cavalli in cortile e stava osservando con attenzione i soldati che portavano nell'armeria alcuni pezzi di artiglieria appena arrivati da Ferrara.

Non era stata una spesa ingente, ma aveva dovuto comunque fare dei tagli alle opere pubbliche, per poter avere quelle armi.

“Stavo facendo un giro in città.” spiegò Giovanni, mettendosi accanto a lei, incurante degli sguardi curiosi che ogni tanto qualche armigero lanciava loro.

Con uno strano pizzicare lungo il collo, il Popolano si chiese quanti di quegli uomini avesse conosciuto Caterina in modo più intimo del necessario. Dopo un paio di secondi, però, preferì accantonare quelle scomode domande e concentrarsi su di lei.

“E sai che cosa pensavo, mentre camminavo?” riprese il Medici: “Che dovremmo abbellire un po' questa città.”

“Questo discorso l'abbiamo già fatto – lo fermò la Tigre, incrinando le labbra e guardando con più attenzione la colubrina che i suoi soldati stavano trasportando con molta cura attraverso il cortile – e ti ho già detto che i soldi per l'arte io non li ho.”

“Ma io sì.” ribatté il fiorentino.

“Me ne hai già dati abbastanza, di soldi.” ribatté la Contessa, staccandosi dal palo e gettando l'occhio verso la sala delle armi.

La donna stava per andare a controllare da vicino i suoi nuovi acquisti, ma Giovanni sapeva che una volta nella sala delle armi non solo non l'avrebbe più ascoltato, ma lui avrebbe avrebbe anche fatto più fatica a parlarle apertamente per colpa dei troppi testimoni.

Così, convincendola a fermarsi con un tocco sulla spalla, le disse, in fretta: “La gente che vive in mezzo alla bellezza ragiona in modo da conservarla. Questa mancanza di arte, porta tutti a fare pensieri bui e prima o poi il malcontento potrebbe...”

“E Firenze?” l'attaccò Caterina, che trovava il discorso del Popolano convincente solo in linea teorica: “Mi risulta che sia una città traboccante d'arte e bellezza, eppure avete quel folle di Savonarola che vi fa fare quello che vuole da anni.”

Giovanni strinse le labbra carnose, punto sul vivo, ma, prima che la Tigre potesse sgusciare via per andare a rimirare le sue armi, iniziò: “Se vuoi, quando la guerra sarà finita...”

“Quale guerra?” chiese la donna, bloccandosi subito e fissandolo con le sue penetranti iridi verdi.

“Quella tra te e Pandolfo Malatesta. O tra Venezia e Firenze, se scoppierà a breve...” rispose il Medici.

La Leonessa non disse nulla, guardando il suolo ghiacciato. Per un momento aveva creduto che il fiorentino si stesse riferendo a qualche scontro già iniziato di cui era all'oscuro.

“Dicevo, se vorrai, a guerra finita, potrei contattare qualche artista. Ne conosco molti e certi sono davvero eccezionali. Prendi per esempio il maestro Sandro Botticelli.” il viso del Popolano si accese nel ricordare l'amico di famiglia che aveva dipinto così tante meravigliose opere per loro: “Sai che lui ti ha ritratta?”

“Cosa?” quella notizia, così strampalata a suo modo di vedere, aveva fatto sorridere e arrossire appena la Tigre che, braccia incrociate sul petto, si stava quasi dimenticando delle sue armi nuove.

Giovanni annuì, allargando le spalle con una sorta di orgoglio: “Ti aveva vista a Roma, qualche anno fa, quando era ancora vivo papa Sito IV. Botticelli era lì per accaparrarsi la comanda per un affresco, credo, per una cappella, se non mi sbaglio. Pare che ti abbia vista in giro per i palazzi vaticani e da allora ti ha dipinta spesso. In casa abbiamo un quadro meraviglioso in cui ci sei anche tu. Perché io sono sicuro che quella Grazia sia tu.”

Caterina non poteva negare di essere colpita da quella rivelazione. Gli occhi chiarissimi del fiorentino brillavano, come se quell'aneddoto fosse per lui davvero importante e prezioso.

“Allora in fondo un po' mi conoscevi già, quando sei arrivato qui.” disse la donna, mentre qualche soldato cominciava a lasciare la sala delle armi, attraversando di nuovo il cortile.

“Avevo solo un'idea del tuo aspetto – ammise il Medici, abbassando la voce per non farsi sentire dagli altri – ma ti preferisco decisamente in carne e ossa.”

La Contessa represse un sorriso compiaciuto e, indicando la sala delle armi con un cenno del capo, lo invitò a seguirla.

Mentre cominciavano a controllare i nuovi pezzi d'artiglieria, la donna gli si avvicinò e, non badando al modo in cui il maestro d'armi sembrava tenerli d'occhio, gli passò accanto, sfiorandolo appena, e gli sussurrò: “A guerra finita, se vorrai, potrai chiamare tutti gli artisti che vuoi.”

 

La sala delle feste nel podere dei Tiberti era già pronta per quella sera, benché fosse appena il primo pomeriggio.

Achille si stava tormentando fin dall'alba. Aveva mandato inviti rispolverando tutte le sue conoscenze, ma più il momento si avvicinava, più temeva di non essere affatto all'altezza.

Le voci volevano Rimini preda dell'inizio di una guerra civile e di certo quella prospettiva rendeva la sua proposta ancor meno allettante, per i nobili di Cesena.

Il Malatesta aveva cercato di prendere prigioniero Castracani, però, non solo l'uomo era riuscito a scappare, ma addirittura la popolazione aveva fatto quadrato attorno a lui e aveva cominciato a contrattaccare le cariche dei provvigionati del Pandolfaccio. In breve, la scintilla aveva originato un incendio e si diceva che Rimini fosse già spaccata in due: da un lato quelli che per paura non osavano andar contro al folle volere del loro signore, dall'altro quelli che volevano cogliere quell'occasione per creare un nuovo governo, più stabile e meno corrotto.

Achille aveva fatto accendere tutti i camini di tutte le stanze. Aveva investito molto in quella cena, dunque aveva pagato anche molte donne e qualche ragazzo, in modo da poter intrattenere gli ospiti più facoltosi anche dopo il ballo.

Per quanto lo riguardava, si sentiva tanto teso che forse non sarebbe nemmeno riuscito a mangiare.

Quanto avrebbe preferito lasciare gli abiti da festa e indossare un'armatura. Con una spada in mano, tutte le dispute erano molto più semplici...

 

Caterina sentì bussare alla porta, così, mentre cercava di allacciarsi la pesante collana che le era stata regalata anni prima da papa Sisto IV, chiese: “Chi è?”

Rispose la voce di Giovanni: “Sono io.”

La Tigre gli aprì e poi si rimise seduta davanti allo specchio: “Mi aiuti?” chiese, mostrando il gancio della collana.

Il Popolano le si mise subito alle spalle e in un unico gesto riuscì nell'impresa. Tuttavia non si spostò subito, restando a osservarla. La Contessa aveva legato i capelli in una reticella molto semplice e aveva indossato un abito elegante, rosso, ma non troppo vistoso. L'unica cosa sensibilmente diversa dal solito era la ricchezza dei monili che aveva indossato.

“Non è strano che una donna della tua importanza non abbia una cameriera personale?” chiese il Medici, andandosi a sedere sul letto, mentre Caterina sceglieva qualche anello da mettersi alle dita.

Quella domanda, detta con un tono così casuale e innocente, raggelò per un attimo la donna, che rimase con la mano a mezz'aria.

“Avevo una cameriera personale, una volta.” sussurrò la Tigre, masticando un po' l'aria e prendendo a caso un paio di anelli: “Ma dopo di lei ho preferito non averne più.”

“Come mai se n'è andata?” chiese il Popolano, senza capire ancora di aver toccato un nervo estremamente esposto.

“Perché l'ho fatta impiccare.” rispose atona Caterina, alzandosi dalla sua sedia e andando a spegnere qualcuna delle candele.

Giovanni, che mai si sarebbe atteso quel risvolto della conversazione, era rimasto di sasso e la fissava in silenzio.

“Era una delle maggiori responsabili della morte di Giacomo.” spiegò la Leonessa, andandosi a sedere un momento accanto all'ambasciatore: “Anche se la ritenevo mia amica, non potevo lasciarla vivere.”

Il buio che si rifletteva nelle pupille della Contessa fece vacillare un momento il Popolano, che, come sempre, faticava a credere che quella donna, che lui amava come si può amare un fresco giorno di primavera passato in mezzo ai boschi, fosse stata capace di certe cose.

“Da allora non ho voluto avere nemmeno più amiche.” concluse lapidaria Caterina: “Non ne ho bisogno.”

Il fiorentino ci mise qualche momento per riprendersi, ma poi, passando ancora una volta sopra a tutto, tentò di cambiare discorso con naturalezza: “I primi ospiti stanno arrivando.”

“Io voglio arrivare nella sala per ultima.” spiegò la donna, apprezzando la capacità dell'uomo di gestire quei momenti spinosi: “Quindi vai pure avanti, tra poco arrivo.”

Avevano deciso che Giovanni avrebbe cenato seduto a una delle tavolate minori, assieme a certi uomini d'affari di Forlì che erano stati invitati per fare numero. Anche se entrambi avrebbero preferito stare vicini tutta sera, era chiaro che avrebbero dato scandalo, se avessero deciso di far sistemare l'ambasciatore fiorentino alla destra della Tigre.

“Vedrai che andrà tutto bene – la rassicurò il Popolano, con una carezza lungo la schiena, lasciata in parte in vista dalla generosa scollatura – sia qui sia a Cesena.”

Caterina sospirò e per un momento desiderò solo togliersi quell'abito, che le sembrava troppo elegante, e passare la notte da sola con Giovanni, a chiacchierare, a immaginarsi il futuro, a leggere e ad amarsi. Però sapeva che non si poteva fare.

Come colto dai medesimi pensieri, il Medici le sollevò appena il mento con le dita e la baciò, dapprima con lentezza e poi sempre con maggior intensità.

La Contessa sentiva nella testa una grande confusione. Rievocare una volta di più lo spettro di Giacomo, pensare ad Achille Tiberti e alla precarietà del loro piano, ricordare la morte della sua cameriera personale e avere la costante incognita della guerra tra Firenze e Venezia, che avrebbe di certo cambiato anche il suo rapporto con Giovanni, la stava facendo sentire sperduta come le era capitato tante altre volte.

La Tigre, tentata a quel modo dall'iniziativa del Popolano, che le stava involontariamente offrendo la soluzione più semplice, quella a cui si era sempre aggrappata nei momenti di smarrimento da quando aveva perso Giacomo, pensò di approfittarne anche quella volta.

Con un fremito, allungò una mano verso il suo giustacuore rosso e giallo, che era dello stesso colore delle calzabrache, e lo aprì poco per volta.

Arrivata alla camicia di seta rossa che stava sotto – i colori vivaci dei Medici parevano perfetti, per il Carnevale – fece altrettanto, fino a sentire sotto alle dita la pelle calda e fremente di Giovanni.

Disegnò il profilo evidente delle coste e poi passò alla schiena, approfittandone per tirarlo verso di sé, tanto che, per non perdere malamente l'equilibrio, l'ambasciatore finì a lasciarla stendere sopra di sé.

Tuttavia, proprio quando Giovanni aveva deciso che non gliene importava nulla di arrivare al banchetto in ritardo, con gli abiti stropicciati e i riccioli tutti spettinati, Caterina si fermò di colpo.

“No, non qui...” sussurrò, rimettendosi dritta e sistemandosi qualche ciocca di capelli che era scivolata via dalla reticella.

Il Medici si guardò attorno e provò a dire: “È perché qui passavi le notti con lui?”

La donna scosse il capo: “No, dopo che è morto ho cambiato stanza. È che qui ho ricevuto troppi uomini, io...” un po' confusa e imbarazzata, si alzò da letto e tornò allo specchio, per controllare di essere ancora abbastanza in ordine: “Sarebbe troppo squallido.”

Giovanni non trovò nulla da ridire. Si era già arreso anima e corpo a quella strana donna e così non si sforzava nemmeno di capire se le sua motivazioni fossero valide o meno.

Mettendosi in piedi, si infilò di nuovo la camicia nelle calzabrache e riallacciò il giustacuore. Cercò di calmarsi e di dimenticarsi quello che si era appena visto negare. Dopo essere tornato padrone di sé, si passò una mano tra i capelli, e poi si diede una rapida controllata.

Trovandosi accettabile, sospirò e con un sorriso tranquillo disse: “Allora, ci vediamo più tardi.”

Caterina annuì e, pur tentata di scusarsi di nuovo, lo lasciò uscire senza aggiungere altro.

 
   
 
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