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Autore: Alchimista    05/10/2017    1 recensioni
Shirabu non lo aveva mai detto a nessuno, ma gli spogliatoi avevano in qualche modo il potere di rilassarlo. Tutto pareva restare sigillato al di fuori di essi: la folla che li acclamava, la frenesia del campo, l’agitazione e l’adrenalina della sfida, ogni cosa entrava in pausa per tutto il tempo in cui lui restava negli spogliatoi e il giovane alzatore poteva prendersi qualche istante per pensare in maniera rilassata, senza la pressione del gioco, senza il costante pensiero di dover essere perfetto.
«È ora, Shirabu», si sentì chiamare dal capitano.
No. Aveva bisogno ancora di qualche istante, solo un paio, il tempo necessario a pensare ancora una volta, magari da solo…
«Solo un secondo, vi raggiungo subito».
Quarta soulmate della raccolta | Ushishira | Semiten | IwaOi
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eita Semi, Kenjiro Shirabu, Tendo Satori, Tooru Oikawa, Wakatoshi Ushijima
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Fate don't know you like I do'
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PairingUshishira | TenSemi |IwaOi

Parte: 1/9.

AvvertimentiSoulmates!AU in cui si vedono i colori per la prima volta quando si trova il proprio compagno. | Angst | Malattia | Non odiatemi troppo | Per le parti in cui saranno coinvolti gli IwaOi (più avanti nella storia) è necessario leggere la prima soulmate, che trovate qui.

Note d’Autore: (e maledizioni) a fine storia.

Alla mia parabatai Luna: ci ho messo mesi a finire questa storia, è tua e mi sembrava opportuno cominciare la pubblicazione nel giorno del tuo compleanno.

 

Don’t let me be gone.

 

«[...] Sed si quis, quae multa vides discrimine tali,

si quis in adversu piat casusve deusve,

te superesse velim, tua vita dignior aetas

[...] ille autem: «causas nequiquam nectis inanis

nec mea iam mutata loco sententia cedit

 

Shirabu non lo aveva mai detto a nessuno, ma gli spogliatoi avevano in qualche modo il potere di rilassarlo. Tutto pareva restare sigillato al di fuori di essi: la folla che li acclamava, la frenesia del campo, l’agitazione e l’adrenalina della sfida, ogni cosa entrava in pausa per tutto il tempo in cui lui restava negli spogliatoi e il giovane alzatore poteva prendersi qualche istante per pensare in maniera rilassata, senza la pressione del gioco, senza il costante pensiero di dover essere perfetto.

«È ora, Shirabu», si sentì chiamare dal capitano.

No. Aveva bisogno ancora di qualche istante, solo un paio, il tempo necessario a pensare ancora una volta, magari da solo…

«Solo un secondo, vi raggiungo subito».

Sperò che Ushijima capisse, che non si lamentasse o insistesse – il suo compagno, dopotutto, non lo aveva mai sentito chiaramente come in quei giorni, sebbene fosse passato poco da quando avevano stretto il legame. E Wakatoshi non si oppose, in qualche modo comprese il suo bisogno senza che il ragazzo dovesse spiegarsi e fece cenno all’intera squadra di cominciare ad uscire. Tendou Satori fu l’ultimo a lasciare la stanza, uno sguardo sottile lanciato all’indietro ed un brutto presentimento taciuto.

Quando fu da solo, Shirabu si fece scappare un grosso sospiro, quasi avesse fino a quel momento trattenuto il fiato ed ora potesse tornare a respirare liberamente. Non era il genere di persona abituato a compatirsi ed anzi odiava profondamente chi passava il tempo a disperarsi per la propria condizione in maniera passiva, senza riuscire a fare qualcosa per migliorarla; eppure, in quel momento, sentiva l’urgenza di sospirare e stare da solo, di raggrupparsi su se stesso e provare a sparire dal mondo. E davvero, davvero, non era da lui arrendersi a quel modo, sfiduciarsi e lasciarsi andare, ma non riusciva a farne a meno; non riusciva a guardare davanti a sé e vedere qualcosa.

Ci aveva pensato a lasciar perdere quella partita. Ci aveva davvero pensato e poi s’era preso a schiaffi per averlo fatto; s’era detto che una vittoria o una sconfitta non avrebbe cambiato nulla, non avrebbe certamente migliorato la sua condizione - ed era la verità. Poi, però, gli era tornato in mente quanto si fosse impegnato per essere in quella squadra, per poter giocare da titolare ed alzare per Ushijima. Quella era una finale, dannazione! Una finale che dovevano vincere ad ogni costo.

Perché sarebbe potuta essere la sua ultima finale.

 

Shirabu sentiva chiaramente il respiro ferirgli il petto sempre più man mano che prendeva fiato: più l’aria entrava, più le fitte aumentavano, quasi avesse corso per salvare la propria vita, quasi avesse fatto uno sforzo inumano. E invece, come sempre, era solo giunto quasi alla fine degli allenamenti di pallavolo, che alla Shiratorizawa potevano essere pesanti più che in altre scuole, ma a cui ormai era davvero abituato. Perché era improvvisamente senza fiato?

«Ancora dieci giri di campo e possiamo passare a qualche set di gioco», sentì dire ad Ushijima e per la prima volta il pensiero di un ulteriore sforzo fisico lo fece deprimere.

Shirabu Kenjirou non era mai stato facile da demoralizzare, anzi aveva sempre dato più del cento per cento quando si trattava di raggiungere un obiettivo, con una forza d’animo ed una volontà encomiabili, che tutti in squadra gli invidiavano. Mentre tornava a correre dietro i ragazzi dell’ultimo anno, però, sentiva le forze venirgli meno e il petto fare davvero male per il respiro corto - non si sarebbe mai lamentato per una cosa del genere, eppure dentro di sé aveva preso a gridare basta ad ogni passo, fermatevi ad ogni metro, vi prego ad ogni nuovo respiro. Non aveva idea di cosa stesse succedendo e quando finalmente raggiunsero la panchina per rinfrescarsi, l'alzatore quasi tremava.

Prese a bere con avidità, affannandosi e smettendo quasi di respirare per farlo. Finì la prima bottiglina quasi in un unico sorso e riprese fiato forse troppo velocemente perché gli venne da tossire, la gola ferita da quell'impeto.

«Tutto bene, Shirabu?» si sentì chiedere dal capitano. Si domandò se si fosse accorto del suo malessere o se magari lo avesse sentito. Wakatoshi era diventato il suo compagno da poco più di un mese ormai, sebbene quella situazione sembrasse tanto naturale da parere molto più vecchia di così.

«Sto bene», rispose - poteva sentirle le sue bugie?

Il capitano restò a guardarlo per un po': avrebbe voluto dire altro, ma aveva idea che a Kenjiro non andasse di parlarne davanti a tutti gli altri, quindi lasciò perdere, non senza una certa preoccupazione. Shirabu era il suo compagno, eppure per la prima volta faticava a capire che cosa gli passasse per la testa.

Quando presero a giocare i set di allenamento, l'alzatore si rese conto di essere lento: qualcosa non andava, la mente pensava veloce e precisa come sempre, ma il corpo non pareva volerle rispondere con la solita coordinazione - reagiva con qualche istante di ritardo, il tempo necessario perché non fosse perfetto.

«Si può sapere che cosa ti è preso oggi, Shirabu

Per quanto una parte di sé si aspettasse quel rimprovero, il ragazzo sussultò a quel richiamo: aveva sperato che le sue mancanze non fossero state altrettanto evidenti a nessun altro, ma ovviamente l'allenatore aveva visto ogni cosa.

«Resterai qui finché non avrai fatto almeno cinquanta alzate come si deve», decretò questi, senza lasciare spazio a qualunque tipo di contestazione.

Shirabu annuì, ma per la prima volta si sentì venire meno al pensiero di un allenamento.

 

La tosse aveva deciso di perseguitarlo. Non potevano esservi altre spiegazioni al fastidio continuo che dal petto gli saliva in gola ormai da quasi due settimane. Shirabu aveva cercato di stare attento, di non esporsi a cambiamenti bruschi di temperatura, a non raffreddarsi dopo gli allenamenti o sudare quando non era necessario, eppure quella tosse sembrava proprio non volerlo lasciar in pace.

La pallavolo ne stava risentendo. A Kenjirou sembrava quasi che più si avvicinava la data delle qualificazioni per il Torneo Primaverile, più il suo gioco peggiorasse. Era perennemente stanco: nonostante stesse dormendo - e anche più del solito in quelle notti - semplicemente il suo corpo non pareva volerne sapere di ristabilirsi e permettergli di tornare ai suoi soliti ritmi.

Shirabu odiava quella situazione ed odiava il suo corpo, che lo tradiva in un momento tanto importante.

«Vuoi che resti a studiare con te, questa sera?»

La gentilezza di Wakatoshi era qualcosa a cui l'alzatore della Shiratorizawa doveva essere abituato ormai, eppure c'era qualcosa nel modo in cui il suo compagno parlava - e gli parlava - a cui ancora non era riuscito ad abituarsi, una disinteressata dolcezza, una sincera premura che lo prendeva dritto allo stomaco e di tanto in tanto gli faceva chiedere che cosa avesse fatto per meritarlo.

No, Shirabu non era sentimentale. Eppure Ushijima aveva su di lui quello strano potere di fargli tremare le gambe e far male il petto. La verità era che Kenjiro era stato innamorato di lui ben prima del legame, forse inconsciamente dalla prima volta in cui lo aveva visto giocare.

«Non voglio disturbarti, posso tranquillamente ripassare da solo», disse - sapeva che il compagno avrebbe preso la sua risposta come sincera, senza fraintendere.

«Tuttavia vorrei restare con te stasera, se per Kawanishi non è un problema...» ammise Wakatoshi senza alcun imbarazzo: sentiva qualcosa, a livello istintivo, che premeva perché non si separasse da lui.

Shirabu non indagò oltre, ma annuendo semplicemente lo rassicurò che al suo compagno di stanza non sarebbe importato: Taichi era tipo da addormentarsi in qualunque situazione, quasi potesse isolarsi dal resto del mondo a suo piacimento. Non ebbero bisogno di dirsi altro: il legame che li univa era da sempre stato qualcosa di tanto naturale che ad entrambi veniva semplice capirsi e non c'era quasi mai bisogno di spiegare le proprie azioni o parole. Se Ushijima aveva espresso il desiderio di restare con lui, a Kenjirou non serviva altro.

Fu mentre aveva ancora la testa china sul libro, che un colpo di tosse scosse violentemente il corpo dell'alzatore. All'inizio Shirabu non si accorse di nulla, ma semplicemente cercò quanto prima di coprirsi la bocca per evitare di infastidire Wakatoshi, seduto accanto a lui alla scrivania. Tuttavia, la tosse non accennava a volerlo lasciar stare e anzi l’intensità aumentava rendendogli difficile respirare e causandogli grosse fitte al petto. La testa di Shirabu girò d’improvviso e il ragazzo sarebbe quasi sicuramente caduto dalla sedia se Ushijima non lo avesse preso per un braccio, allarmato dalla sua reazione.

«Kawanishi, hai dell’acqua?», chiese con tono autorevole ma senza tradire l’agitazione che lo aveva preso - Taichi gli passò subito un bicchiere pieno per metà e si mise dall’altro lato di Shirabu, cercando di capire che cosa non andasse.

L’alzatore della Shiratorizawa bevve con la stessa avidità che mostrava da giorni durante gli allenamenti e la tosse sembrò dargli tregua, permettendogli di avere di nuovo il controllo sul suo corpo. Sentire addosso lo sguardo sia di Ushijima che di Kawanishi lo innervosì.

«Sto bene», minimizzò con una certa impazienza, evitando di guardarli negli occhi perché non capissero quanto poco credeva alle sue stesse parole «È stato solo un colpo di tosse, devo essermi raffreddato».

Taichi sospirò, alzandosi ma senza staccargli gli occhi da dosso. Ushijima pensò per qualche istante se replicare o meno a quella che sapeva essere una bugia: c’era qualcosa che impensieriva Shirabu, lo sentiva da giorni, lo sentiva come fosse un fastidio fisico, un continuo punzecchiare della pelle. I legami di solito non erano così forti e Wakatoshi aveva capito da subito che quello che lo legava a Shirabu era particolare, era intenso; per questo sapeva esattamente che cosa stava succedendo e non era nulla di buono. Ma Kenjirou non ne voleva parlare, questo era altrettanto evidente.

«Forse è ora di chiudere e di andare a dormire», suggerì il più piccolo - aveva l’improvviso bisogno di chiudere la luce e nascondersi sotto le coperte, di fare in modo che non lo fissassero, che non si concentrassero su di lui o sarebbe crollato.

 

Erano passati diversi giorni e Shirabu era diventato sempre più nervoso. Gli allenamenti non erano migliorati così come non era migliorata la sua tosse o la sua stanchezza o il fiato corto che ormai lo prendeva sempre più spesso.

Dire che stava bene serviva a poco, ma il ragazzo cercava ancora di reggere, di aggrapparsi a quelle parole e pareva voler convincere più se stesso che gli altri. Continuava a ripetersi che sarebbe stato meglio, che presto si sarebbe ripreso, cher era solo una brutta - strana - influenza capitata nel momento sbagliato.

Ushijima lo fissava senza avvicinarsi, sempre più consapevole ma senza sapere cosa fare. Aveva provato a parlargli ovviamente, chiedendogli di prendersi una pausa, di rallentare un po’ il ritmo che s’era fatto particolarmente intenso dato il periodo dell’anno, ma Shirabu aveva ribattuto che non c’era nulla di cui preoccuparsi e lo aveva in qualche modo chiuso fuori. Da allora Wakatoshi non aveva più detto nulla, ma controllava da lontano ogni suo movimento, ogni più piccolo dettaglio: la sensazione di disagio che aveva provato quando Kenjirou aveva cominciato a stare male ora era diventata molto più forte, forte da tenerlo sveglio la notte, da essere un pensiero fisso nella sua testa.

Per questo sentì chiaramente il corpo di Shirabu cedere. Stava sistemando la palestra dopo gli allenamenti insieme a Tendou e Semi: la palla che aveva in mano cadde, abbandonata a se stessa - tutto quello che Wakatoshi percepì fu Shirabu, fragile, in pericolo, senza di lui.

Il capitano si affrettò fuori dalla palestra: non aveva bisogno di chiedere dove fosse il ragazzo perché lo sentiva chiaramente, allo stesso modo in cui percepiva il proprio corpo - Shirabu era ancora negli spogliatoi. Quando entrò, lo trovò accovacciato contro il muro, una mano che si allungava in alto, come se volesse provare a sostenere l’intero corpo e l’altra a stringere la divisa all’altezza del petto.

«Sono qui», gli disse, piegandosi accanto a lui e poggiandogli una mano sulla schiena.

«Wakatoshi», sussurrò quello con un filo di voce e Ushijima tremò perché non l’aveva mai visto tanto indifeso da che lo conosceva.

Decise per entrambi, decise in quell’istante che le cose non potevano andare avanti così, facendo finta che non fosse nulla. Decise che la mattina dopo avrebbero preso appuntamento con un medico per cercare di capire che cosa stesse succedendo.

Kenjirou non disse nulla: Ushijima aveva preso la decisione che lui aveva paura anche solo a considerare - Ushijima, stava imparando, era tutto ciò che a lui mancava, tutte le volte in cui mancava.

 

Shirabu era stanco. Non solo fisicamente: Shirabu era stanco delle ipotesi, degli accertamenti, delle parole dei medici, di tutta la gente che aveva intorno. Shirabu era stanco degli sguardi preoccupati, dei suoi compagni di squadra, che lo fissavano intensamente ogni volta che si fermava a prendere fiato.

Soprattutto, Shirabu era stanco di non sapere. Perché, qualunque cosa fosse, era certo che avrebbe potuto superarlo solo una volta saputo cosa fosse: non avere un nome per quel malessere che lo stava prosciugando dall’interno rischiava di farlo impazzire.

Per questo non era preoccupato la mattina della biopsia. Avrebbe potuto finalmente avere una risposta: la massa che la radiografia aveva rivelato nel polmone destro poteva essere un cancro. Paradossalmente, non si sentiva spaventato – si ripeteva che non sapere era peggio, che non conoscere che cosa stava succedendo al suo corpo lo rendeva più instabile di quando sarebbe stato con qualunque malattia, e questo lo faceva andare avanti.

Voleva essere forte come era sempre stato, voleva mostrare a tutti che non aveva bisogno di essere accudito, che non era improvvisamente diventato un bambino da sorvegliare. E voleva dare una pausa ad Ushijima. Il suo compagno non s’era dato un attimo di tregua da quando avevano deciso di fare tutti gli accertamenti del caso: era stato con lui costantemente, ad ogni visita, ad ogni analisi, quasi più dei suoi genitori. Non si era mai lamentato, non aveva ceduto neanche una volta e anzi, era stato sempre pronto ad una parola di incoraggiamento o di conforto quando Shirabu era irritato. Aveva saputo riconoscere i momenti in cui il silenzio bastava a dare conforto e quelli in cui invece l’alzatore avrebbe preferito parlare di qualunque cosa pur di saturare l’aria della stanza.

Shirabu non poteva essergli più grato. E allo stesso tempo, Wakatoshi restava una delle sue maggiori preoccupazioni: come avrebbe reagito ad una sua malattia? Sentiva dolore? Sentiva il suo malessere? Gli aveva posto diverse volte quella domanda e il capitano gli aveva sempre garantito di non sentire nulla se non un leggero fastidio, dovuto più alla situazione in generale che alla specifica malattia. Tuttavia, Kenjirou non gli aveva creduto – sapeva quanto poteva essere forte il loro legame, era impossibile che Ushijima non sentisse nulla.

La biopsia non durò molto. Shirabu era stato contento di sapere che l’anestesia sarebbe stata solo locale, perché non aveva alcuna voglia di farsi ricoverare o di sopportare l’annebbiamento che un sedativo gli avrebbe sicuramente causato.

Quando poté lasciare la sua stanza, trovò ad aspettarlo in corridoio tutta la squadra della Shiratorizawa. Stette a fissarli, il conforto per quella presenza che faceva a pugni con la sensazione di sentirsi costantemente messo in dubbio; poi semplicemente sospirò.

«I risultati arriveranno fra un paio di settimane», li informò: lo avrebbero saputo comunque, quindi tanto valeva che fosse lui la fonte delle notizie che sarebbero circolate in breve in tutta l’Accademia.

«Come ti senti?».

Se Shirabu fosse riuscito ad essere oggettivo con se stesso come lo era con gli altri, si sarebbe preso a schiaffi per il modo in cui la sua reazione all’esterno cambiava se l’esterno in questione era Ushijima. Perché quella domanda probabilmente lo avrebbe irritato se posta da chiunque altro, mentre nella voce di Wakatoshi non riuscì a sentire niente se non genuina apprensione.

Kenjirou era dannatamente innamorato del suo capitano.

«Mi dà appena fastidio la gola, sai per via del tubo che hanno inserito, ma è sopportabile», rispose in modo sincero. «E vorrei andare via da qui, ho visto fin troppo spesso questi corridoi», aggiunse, alquanto seccato.

Mentre camminavano verso l’uscita, Tendou che, accanto a Semi, precedeva la coppia, notò con la coda dell’occhio un volto familiare che camminava lungo il corridoio, in direzione opposta alla loro.

Chissà che ci fa qui dentro il capitano della Aoba Joshai, pensò con una certa curiosità.

 

A voler essere precisi, i risultati della biopsia avevano impiegato venti giorni per essere pronti. Ed ovviamente avevano avuto il peggiore dei tempismi. Shirabu aveva saputo il giorno prima dell’inizio del torneo che, appena fosse stato libero, sarebbe potuto passare a ritirarli con i suoi genitori e solo in quel momento aveva realizzato quanto fosse reale tutta quella situazione. La cosa gli aveva fatto girare la testa: sapere, improvvisamente, non era più la sua priorità.

Aveva mentito ad Ushijima – aveva detto che sarebbe tornato a casa per passare un pomeriggio con i suoi, s’era addirittura finto seccato dalla cosa ed aveva promesso che sarebbe tornato in serata: nonostante fossero in vacanza già da un po’, i ragazzi della squadra erano rimasti in Accademia per continuare gli allenamenti in vista delle qualificazioni per i Nazionali e si dava il caso che quello fosse proprio il giorno prima delle partite.

Wakatoshi non aveva detto nulla, s’era fidato e questo aveva fatto sentire ancora di più in colpa Shirabu. Ma non poteva portarlo con sé, non per questa cosa: aveva bisogno di conoscere per primo, da solo, i risultati di quella biopsia, aveva bisogno di preparasi a ciò che sarebbe accaduto se fosse risultata positiva.

Quando aveva preso fra le mani il foglio bianco dell’ospedale, i kanji avevano preso a confondersi tra loro davanti ai suoi occhi. Shirabu aveva dovuto leggere più volte per essere certo di aver compreso ciò che quelle parole significavano e quando era accaduto, non aveva avuto il coraggio di guardare sua madre negli occhi.

L’esito era stato positivo.

La sera era tornato alla Shiratorizawa come promesso – i suoi genitori gli avevano chiesto di restare, di lasciar perdere la pallavolo e la scuola, perché nulla contava quanto la sua salute, ma l’alzatore li aveva messi di fronte alla pratica constatazione che le partite dei giorni seguenti non avrebbe fatto crescere il suo cancro più di un’intera giornata passata nel letto ed era andato via. La verità era che non sopportava il volto di sua madre o le parole di suo padre – aveva sempre avuto un tono di voce forte e sostenuto, lui, mentre adesso pareva non essere in grado di parlare senza tremare.

All’Accademia nessuno sapeva della sua malattia, all’Accademia avrebbe potuto fingere di essere sano ancora per un po’, almeno fino alla fine della partita. Per questo non aveva detto nulla, per questo era arrivato con gli altri alla palestra ed aveva giocato con loro, fino alla finale di quella mattina. Aveva retto, era stato bravissimo, era fiero di quanto fosse riuscito anche lui a contribuire alle tre vittorie che avevano ottenuto.

Shirabu sospirò, sistemandosi meglio la maglietta della divisa e lasciando finalmente lo spogliatoio. Era l’ultimo passo da compiere, l’ultimo sforzo da sostenere, l’ultima partita da vincere.

 

***

 

«Kenjirou, stai bene?».

La voce di Reon lo sorprese – Shirabu quasi sussultò a quella domanda: s’era accorto di qualcosa? Aveva forse giocato in modo da far notare che qualcosa non andava?

«Sì. Mi gira solo un po’ la testa». Non aveva la forza di mentire e, dopotutto, nulla in quella frase doveva per forza significare di più del semplice fatto che era stanco per via dei set interminabili.

Nonostante tutto, Shirabu non riusciva a pensare ad altro che alla sconfitta. La Karasuno aveva vinto e loro avevano perso. La sua ultima partita non sarebbe stata una vittoria.

«Non avevo mai pensato che avremmo potuto perdere», ammise, pensando ad alta voce.

Reon, accanto a lui non sapeva bene che cosa dire: nessuno aveva pensato che avrebbero potuto perdere e per questo la sconfitta bruciava ancora di più. I ragazzi della Shiratorizawa non riuscirono più a trattenere le lacrime – Reon si fece scappare le prime e quelle di Shirabu le seguirono: l’alzatore non sapeva precisamente perché stesse piangendo, se per la partita, la sua malattia, la probabilità che non avrebbe mai più giocato: tutto era confuso e mischiato in quel senso di oppressione che provava all’altezza del petto e che solo le lacrime parevano poter esprimere.

La premiazione si svolse in silenzio. Shirabu poteva sentire chiaramente la Karasuno esultare, ma tutti i suoi compagni di squadra non dissero nulla, si limitarono a ringraziare per i complimenti che venivano loro fatti e guardavano davanti, con appena le forze per andare via. Era triste: sentivano così cocente la sconfitta che quasi non avevano voglia di fare nulla.

«Il tuo alzatore ha qualcosa che non va».

Quelle parole colpirono Kenjirou come un secchio di acqua gelida addosso. Aveva perso la cognizione di ciò lo circondava per qualche istante, quindi faticò a capire da dove venisse la voce. Quando alzò la testa, il quattrocchi biondo della Karasuno stava parlando con Ushijima – entrambe le squadre erano dirette agli spogliatoi ma s’erano fermate quando il ragazzo aveva parlato.

«Cosa hai detto del mio compagno di squadra?».

Tendou s’era fatto avanti, ciondolando in modo che le braccia apparissero troppo lunghe per il resto del corpo – voleva spaventarlo, voleva che ritirasse quello che aveva detto su Shirabu ed andasse via, perché non aveva idea di quello che stavano passando.

«Non intendevo offendere». Tsukishima era stanco come tutti gli altri, aveva solo fatto un’osservazione «Durante la partita, ha faticato a resistere – quando sono tornato dall’infermeria per l’ultimo set, era evidente che fosse allo stremo, molto più di noi, molto più di quanto la partita richiedesse. Anche ora, è molto pallido».

«Cosa vuoi saperne tu?», Tendou non avrebbe davvero dovuto prendersela tanto, ancor di più perché il commento di quel centrale era oggettivo e non tratteneva davvero alcun tipo di malizia. Ma dopotutto lui non era la persona più lucida con cui parlare.

«Va tutto bene, Satori. Ti ringrazio per questo appunto», rispose Ushijima, rivolgendosi al centrale con la sua solita calma e l’espressione serena.

Shirabu era bloccato sul posto, gli occhi vacui ma spalancati, l’aria che prendeva a mancargli. Quindi si era notato. Quindi qualcuno si era accorto del suo malessere, qualcuno di esterno che non conosceva la sua condizione. Aveva davvero giocato male come credeva, forse era stata solo colpa sua se quella partita era stata persa, alla fine. Aveva sacrificato la vittoria per un atto di puro egoismo, per aver voluto giocare a qualunque costo, senza informare i suoi compagni delle sue reali condizioni…

Ebbe voglia di vomitare.

Quando entrarono nello spogliatoio per prendere le proprie cose e raggiungere il pullman, Tendou stava ancora borbottando qualcosa contro Tsukishima – non gli era piaciuto il modo in cui aveva parlato di Shirabu, non gli era piaciuta la sua sfrontatezza, il suo tono saccente. In definitiva lo odiava. Ushijima annuiva ad ogni nuova frase che l’amico diceva a riguardo e Semi cercava di zittirlo perché quella era davvero l’ultima cosa di cui avevano bisogno, distrutti com’erano.

«L’esame è positivo».

Shirabu sussurrò quelle parole nella stanza, senza essere certo che qualcuno gli stesse prestando attenzione. Aveva solo bisogno di dirlo, perché era stata la peggiore delle idee tenerselo dentro e giocare, quindi doveva rimediare in qualche modo. Anche se non avrebbe potuto dar loro la vittoria.

Qualcuno dei ragazzi lo guardò. Nessuno disse niente. Tendou ancora parlava, quindi Kenjirou pensò che non lo avesse affatto sentito. Di fronte a lui, però, gli occhi di Goshiki lo fissavano, enormi e pieni di lacrime; le mani avevano coperto la bocca e sembrava non stesse respirando. Goshiki lo aveva sentito, perché era un primino fastidioso e gentile con tutti, perché in qualche modo sapeva sempre esserci nel momento giusto.

«La biopsia è positiva», ripeté il ragazzo, con più forza nella voce.

Stavolta il silenzio calò completamente nella stanza. Tendou smise di parlare; ad Ushijima cadde il borsone dalle mani mentre un dolore tremendo gli bloccava il petto. I singhiozzi di Goshiki presero a scandire il tempo che, altrimenti, si sarebbe potuto dire congelato. Nessuno sapeva che cosa dire, nessuno sapeva come rimediare a quelle parole.

«L’ho saputo il giorno prima che cominciassero le qualificazioni, ma non volevo dirvelo perché c’era bisogno che tutti fossimo concentrati su queste partite. Mi dispiace, probabilmente è stato egoistico da parte mia, perché se lo aveste saputo non avrei giocato e forse questa partita sarebbe finita diversamente».

Shirabu diceva tutto quello che aveva dentro senza fermarsi e senza guardare nessuno dei compagni negli occhi – aveva solo voglia di sfogare ciò che sentiva senza essere interrotto, ma non sapeva se sarebbe stato in grado di sostenere gli sguardi degli altri. Che cosa stavano pensando di lui? Lo odiavano per aver tenuto nascosta una cosa di queste dimensioni? O forse provavano semplicemente pietà per un ragazzo troppo giovane per avere il cancro?

Perché Shirabu aveva il cancro. Dio, lui aveva il cancro.

«Perché non me l’hai detto?». Il sussurro di Wakatoshi lo ferì e non riuscì a non guardarlo. Il suo compagno, impallidito, gli restituiva uno sguardo pieno di dolore.

«Non volevo che una notizia del genere ti togliesse la concentrazione necessaria per questo torneo, non volevo che smettessi di pensare a vincere solo perché io…».

«Stai davvero paragonando una partita di pallavolo con la tua salute?!»

A gridare era stato Semi, che fissava l’alzatore con occhi sbarrati e pieni di rabbia – no, Shirabu non poteva essere tanto stupido, non poteva essere arrivato ad una conclusione del genere! Eita non poteva credere che Shirabu avesse pensato di far loro un favore non dicendo niente, quando negli ultimi mesi non era passato giorno in cui tutti non fossero preoccupati per la sua salute, per quello che poteva succedere... E lui, lui più di chiunque altro...

«Ci siamo allenati tanto per questa finale, non sarebbe stato giusto che io-».

«Abbiamo perso in ogni caso!»

Semi era fuori di sé dalla rabbia, le mani gli tremavano, le spalle erano rigide, i tratti del viso stravolti. Shirabu non l'aveva mai visto in quello stato - nessuno lo aveva mai visto così. Tendou gli poggiò entrambe le mani sulla schiena, provando a calmarlo, ma questi si scansò seccato, facendo qualche passo in avanti.

«Parli come se non fosse importante, come fosse una sciocchezza! Ti sei forse messo in testa di morire?».

Semi seppe di aver sbagliato nel momento stesso in cui l'ultima parola lasciò le sue labbra. Non avrebbe dovuto dirlo, non avrebbe dovuto essere così privo di tatto. Eppure Shirabu continuava a dargli l'impressione di credere che quello di oggi sarebbe stato il suo ultimo sforzo e la cosa lo faceva impazzire.

«Volevo giocare...», sussurrò Shirabu - perché improvvisamente era tanto stanco? «Volevo solo… solo… giocare». Dio, da quando era tanto facile arrivare alle lacrime? L’alzatore le ricacciò indietro: no, lui non piangeva e non avrebbe cominciato a farlo da adesso. Non si sarebbe lasciato portare via anche questo.

Semi avrebbe voluto replicare, avrebbe voluto di nuovo scrollarsi di dosso la presenza di Tendou, ma non fu possibile fare altro. Il pianto di Goshiki interruppe la scena e distolse per la prima volta l’attenzione da Shirabu. Il primino, seduto su una panca in un angolo della stanza, aveva il viso nascosto tra le mani e tremava da testa a piedi; non stava neanche provando a soffocare i singhiozzi che, anzi, riempivano la stanza in maniera rumorosa.

Come facevano gli altri a non capire? Come faceva Semi ad essere arrabbiato e Shirabu a rispondergli? Come facevano a respirare, come facevano a non piangere? Era possibile non piangere? E come stava Ushijima? Sentiva dolore…? Shirabu sentiva dolore? Perché lui lo sentiva il dolore - fitto, perforante, soffocante, all’altezza dello stomaco, non pareva volerlo lasciar stare e lo faceva piangere. Goshiki non si accorse di star gridando, non riuscì a cogliere le sue stesse parole: si ritrovò semplicemente a terra e poi tra le braccia di Reon - Reon lo stava stringendo? Perché?

«Va tutto bene, Tsutomu. Tutto bene. Cerca di respirare. Ora passa, cerca solo di respirare», lo sentiva sussurrare, ma il dolore era così forte… Shirabu aveva il cancro. Shirabu sarebbe potuto morire. Esisteva una possibilità, uno scenario futuro in cui Shirabu non ci sarebbe più stato. Come si faceva a respirare con un simile pensiero in testa? Il primino si aggrappò alla maglietta di Reon e pianse contro il suo petto, consumando tutto il fiato che aveva, perché non era in grado di reggere il dolore.

Ushijima si avvicinò a Kenjirou senza dire nulla - il ragazzo aveva la testa bassa e i pugni stretti e lui non avrebbe voluto fare altro che prenderlo e portarlo via, dove la sofferenza che sentivano sarebbe semplicemente sparita.

«Torniamo a casa, Wakatoshi», sussurrò l’alzatore.

 

 

 

 

 

 

________________________

I guess I’m back! Ancora una volta con una soulmates!AU e nuove coppie da traumatizzare! Alla Ushishira sono particolarmente legata, quindi quella che doveva essere una shot si è trasformata in una roba di oltre cento pagine di word… spero che possa piacervi!

Qualche precisazione: il titolo è tratto da “Goner” dei Twenty one pilots, mentre la citazione proviene dall’episodio di Eurialo e Niso, nell’Eneide.

Cercherò di mantenere gli aggiornamenti regolari, ogni settimana / dieci giorni, dal momento che la storia è praticamente conclusa!

A presto e grazie anticipatamente a chiunque presterà attenzione a queste righe!

   
 
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