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Autore: Adeia Di Elferas    06/10/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Le voci bianche dei bambini di Firenze riempivano ancora l'aria, riecheggiando dalla loggia che stava accanto al palazzo della Signoria.

La folla, assiepata all'inverosimile nella luce calante del giorno che era ormai digradato nella sera, aveva lasciato un corridoio per permettere a tutti quelli che desideravano farlo di raggiungere il falò, che ancora non era stato acceso.

I seguaci di Savonarola, forti dell'autorità che si erano presi da soli, avevano passato la giornata a requisire, di casa in casa, tutto ciò che potesse essere considerato simbolo di vanità. Erano stati poi i bambini a portare personalmente tutte quelle cose in piazza.

Come se non bastasse, molti fedeli, preda dei sensi di colpa e della smania di assecondare il gregge, avevano cominciato a consegnare spontaneamente i propri averi, andando a ingrossare la piramide, grossa quindici metri per venti, che troneggiava nella piazza.

I fiorentini, guidati costantemente dal profilo affilato e severo del domenicano, avevano consegnato come pegno a Dio non solo ciò che poteva dirsi prettamente artistico, ma anche tutta una serie di oggetti che avevano fatto grandi le feste e la vita quotidiana di Firenze fino a quella sera.

Abiti sfarzosi, specchi, ghironde, gioielli, soprammobili preziosi, copie del Morgante di Pucci, volumi già sbrindellati rabbiosamente del Decameron di Boccaccio, boccette di profumo, cappelli, i libri di Dante, carte da gioco, dadi, liuti, le raccolte di poesie di Petrarca, tavole da gioco e finanche testi di canzoni ritenute immorali appositamente ricopiati solo per poter essere dati al fuoco: tutto quanto si stava accatastando senza sosta, mescolandosi a quadri, disegni e statue.

Ignorando ottusamente tutti quelli che lo fissavano e anche le chiacchiere vuote di alcuni stranieri capitati lì per caso – uno tra tutti, un mercante veneziano che aveva appena fatto una stima a occhio di tutti i libri abbandonati sulla pira, sostenendo che a venderli ne avrebbe ricavato almeno ventimila ducati – Sandro Botticelli percorse lo stretto corridoio portando sotto braccio un grosso blocco di fogli, pergamene e tele.

Con uno slancio molto suggestivo, quasi scoppiando in lacrime, l'artista gettò alla rinfusa la sua serie di dipinti e schizzi, frutto delle fatiche di anni. Erano quasi tutti a tema mitologico, espressione di paganesimo, senza il minimo pudore o senso cristiano. Molti dei soggetti erano nudi, molti altri erano intenti in atteggiamenti che andavano contro la morale. Tutto andava distrutto.

Ricacciando indietro il pianto che voleva ribellarsi a quella privazione, Botticelli voltò le spalle alla piramide e tornò a mescolarsi con la folla.

Ormai il cielo era scuro e nella piazza la gente cominciava a rumoreggiare. I bambini avevano finito i loro canti e i preti le loro invocazioni. A un preciso segnale convenuto, quattro uomini arrivarono con delle torce accese e appiccarono il fuoco ai quattro angoli della pira.

In un secondo, come se l'arte fosse il naturale nutrimento delle fiamme, il falò prese ad ardere nella notte come una stella dalla luminosità insostenibile.

Non appena anche l'apice della piramide s'infiammò, un urlo di gioia liberatoria si diffuse per tutta la piazza, riempiendo ogni strada di Firenze, facendola quasi tremare fin nelle fondamenta.

Anche dalle finestre che si affacciavano in piazza molte donne esultavano e invocavano il perdono divino, mentre i religiosi, dispersi ormai in mezzo agli altri fedeli, riprendevano a intonare i loro canti, tessendo le lodi di Dio e della sua magnanimità.

Botticelli, rapito dal bagliore delle fiamme, per qualche momento non pensò ad altro che alla propria anima, dilaniato dal dubbio e dal senso di colpa. Solo dopo un po', risvegliato da un involontario spintone datogli da un Piagnone, l'uomo si rese conto di una cosa.

Per quanto tutti avessero partecipato con furore e cieca fiducia a quella messinscena, adesso che tanta ricchezza stava letteralmente sfumando davanti ai loro occhi, alcuni fiorentini parevano perplessi e sperduti, come se solo dinnanzi alle fiamme alte quasi quanto il palazzo della Signoria finalmente avessero aperto gli occhi e visto la verità.

 

La sala dei banchetti di Ravaldino era già stipata di gente. Benché la Contessa avesse indetto quella piccola festa per l'ultimo giorno di Carnevale con un modestissimo anticipo, tutti gli invitati si erano affrettati ad assicurare la propria presenza e si erano recati alla rocca in abiti eleganti e – come da precise indicazioni della padrona di casa – senza maschera.

Tra i presenti c'erano molti Capitani dell'esercito, alcuni seguiti da moglie e figli, gli esponenti principali delle famiglie che avevano voce in capitolo nel Consiglio degli Anziani e in quello Cittadino, e altri rappresentanti dei possidenti più abbienti di Forlì.

Caterina aveva aspettato l'ultimo momento, prima di presentarsi ai suoi concittadini.

Come aveva fatto anni addietro in presenza degli ospiti francesi, aveva fatto il suo ingresso senza dar risalto alla propria apparizione, entrando nel salone da sola, senza nemmeno farsi annunciare.

E come allora l'effetto era stato ancora più suggestivo. Nel vederla arrivare, infatti, uno dopo l'altro, gli invitati si erano azzittiti e tutti gli occhi si erano puntati su di lei.

Giovanni, che non stava poi molto lontano dall'ingresso, l'aveva fissata per tutto il tempo, fino a che non l'aveva vista sistemarsi al tavolo d'onore assieme ai figli e far cenno ai presenti di mettersi pure comodi e ai servi di cominciare a portare le pietanze in tavola.

Mentre la Contessa, facendo sì che Ottaviano si alzasse assieme a lei, proponeva un brindisi al Carnevale e a una vaga 'rinascita' dello Stato, il Popolano non ebbe nemmeno la forza di sollevare il calice come tutti gli altri.

Vederla in quell'abito rosso, con addosso i gioielli che lui le aveva ricomprato, e soprattutto ripensare a quello che stavano per fare poco prima nella stanza di lei aveva risvegliato in lui un desiderio prepotente e difficile da reprimere e, pur avendola così lontana, gli sembrava di poter sentire il calore della sua pelle e il rumore del suo respiro.

“Be'? Che avete?” chiese con una mezza risata l'uomo che gli stava seduto accanto, un Rosetti, forse, dai lineamenti.

Giovanni ancora non riconosceva tutti i personaggi più importanti della città, ma cominciava a barcamenarsi abbastanza bene con nomi e cognomi.

“Non bevete?” chiese ancora l'uomo, dandogli di gomito con fare gioviale: “Non credete che la nostra signora sia abbastanza bella da meritarsi un sorso in suo onore?”

Il Medici fece un sorriso tirato e poi, tornando subito dopo a chiudersi in se stesso, bevve controvoglia una piccola sorsata di vino.

Non vedeva l'ora che la cena finisse e che cominciassero le danze.

La Tigre, nel frattempo, aveva cominciato a mangiare con calma tutto quello che il servidorame le piazzava davanti, ma la sua attenzione non stava andando alle portate. Teneva d'occhio gli invitati, soprattutto quelli più facoltosi.

Rispetto a prima della morte di Giacomo, il panorama di invitati era quasi completamente cambiato. A parte i Numai e pochi altri, non c'era praticamente più nessuno della vecchia guardia. I cognomi più rappresentati non erano più Orcioli, Marcobelli o Delle Selle, ma Rosetti, Tomasoli, Berti, Laziosi, Bonoli...

Mentre la sua memoria la riportava involontariamente ancora una volta nelle segrete di Ravaldino davanti al corpo esangue di Ludovico Marcobelli, Caterina si fece versare dell'altro vino e, dopo averlo bevuto, schiacciò un momento gli occhi, per poi concentrarsi sui figli, sforzandosi di non fare più paragoni tra la corte passata e la corte presente.

Quella doveva essere una serata di festa e quindi doveva chiudere fuori dalla sua testa tutti i ricordi e tutti i pensieri oscuri. I suoi sudditi la stavano studiando e lei avrebbe mostrato loro una Tigre sicura di sé e scevra da quel velo di mesta ira che tutti ancora le cucivano – non a torto – addosso.

Aveva voluto che sedessero con lei tutti i suoi figli e aveva intuito con piacere, dalle prime reazioni colte dalle espressioni dei tavoli più vicini, che questa scelta cominciava a non far più né caldo né freddo a nessuno.

Alla sua destra stava Ottaviano, vestito di raso blu, i capelli perfettamente inanellati e una voracità spaventosa, che quasi faceva sfigurare quella di Sforzino, seduto tra lui e Cesare che, invece, non aveva ancora toccato cibo.

Alla sinistra della Contessa stava Bianca, composta e attenta, apparentemente meno rilassata del solito. Dopo di lei era seduto Galeazzo, che aveva chiesto e ottenuto il permesso di indossare abiti scuri e sobri e una spada al fianco. Accanto a lui restava solo Bernardino, che, più piccolo degli altri, continuava a osservare i fratellastri, come se volesse carpire da loro tutti i segreti dello stare a tavola a un banchetto di quel tipo.

“Smettila di ingozzarti a questo modo.” sussurrò la Tigre, rivolgendosi al suo primogenito.

Ottaviano, fermando a mezz'aria il coltello con infilzato un pezzo di carne in punta, strinse i denti e poi, guardandola appena, sibilò di rimando: “Mi avete messo a digiuno per un anno. Non volete che ora mi sfami?”

Caterina non rispose più, cerando di tener fede alla promessa che si era fatta di non rivangare il passato almeno per il tempo di quel banchetto. Così si limitò a lanciargli un'occhiata gelida e il giovane Riario non poté evitare di sentire un brivido gelido lungo la schiena e mettersi a mangiare se non di meno, almeno più lentamente.

 

“Certo, certo, non dico che dobbiate darmi soldati, né che lo debba fare Cesena...” stava sussurrando Achille, quasi nascosto nella nicchia in cui si era messo a discutere con uno dei membri del Consiglio Cittadino più influenti: “Solo, se il Malatesta chiedesse aiuto, mi basterebbe sapere che non correrete in suo aiuto.”

“L'idea è buona...” convenne l'altro, i cui occhi neri brillavano alla luce della torcia a muro: “Ma voi siete un uomo della Tigre, ormai, non più un vero cesenate. Vostro fratello s'è venduto ai Manfredi... Insomma, che dovrei pensare? Come posso fidarmi?”

“Calma, calma...” fece Tiberti, cominciando a sudare freddo: “Io sono io e mio fratello è mio fratello. Ognuno risponde delle proprie azioni...”

“Ma voi siete corso a salvare vostro fratello usando i soldati della Tigre. Mi pare che sia voi che lei siate dentro fino al collo agli affari di Faenza.” fece notare il Consigliere con l'espressione paternalista di chi ha scoperto la magagna e vuole far vergognare il presunto furbetto: “E Faenza è veneziana, ormai. Perché mai vorreste strappare Rimini alla Serenissima, dunque? Sarebbe da sciocchi, se non da folli.”

La musica che arrivava dal salone era per il Capitano solo un brusio fastidioso che gli confondeva i pensieri. Sapeva che se avesse convinto quello e un paio d'altri Consiglieri, sarebbe stato a buon punto, ma per farlo doveva saper parlare bene.

La sua signora gli aveva ribadito alla nausea quanto fosse importante farla risultare estranea a quella mossa, almeno all'inizio. Sospettando che vi fosse lei dietro a tutto, Cesena non avrebbe di certo permesso una guerra a Rimini senza provare a intervenire e voltarne le sorti a proprio vantaggio.

La Leonessa di Romagna era ritenuta troppo irruente e imprevedibile, per permetterle di espandere ancora di più i propri confini, diventando davvero una seria minaccia per la stessa Cesena.

“Sentitemi bene – disse allora Achille, fingendosi molto infastidito e quasi offeso dalle parole del cesenate – io sono andato al soldo della Sforza solo perché quella donna pagava bene e mi ha dato più spazio che chiunque altro. Ho aiutato mio fratello, questo è vero, ma solo per un mio tornaconto e i soldati della Tigre erano solo in prestito e ho pagato molto per averli, perché lei era contraria.”

Il Consigliere ascoltava in silenzio, attento a ogni sfumatura della voce di Tiberti, pronto a cogliervi subito un'esitazione che ne rivelasse la falsità.

“Adesso voglio fare di testa mia. Ho i mezzi e le capacità di prendere Rimini, ora che Pandolfo Malatesta è impazzito.” concluse il Capitano: “Dunque lasciate che lo faccia, e io creerò uno Stato a voi amico.”

“Se è così facile, forse dovrebbe provarci Cesena...” fece l'altro, insinuante, incrociando le braccia sul petto.

Dalla sala stavano uscendo alcuni invitati, diretti alle stanze in cui Tiberti aveva fatto sistemare le donne e i ragazzi che aveva pagato. Come previsto, i suoi ospiti non si facevano certo pregare a sfruttare appieno l'offerta che aveva messo sul piatto.

Attese che fossero lontani e poi disse, fingendosi superiore: “Se è così, allora vi lascio campo libero. Però, se le cose andassero male, io sono pronto a prendermi il rischio di finire su una forca davanti a San Marco. Il vostro Consiglio Cittadino è pronto a rischiare altrettanto?”

Il Cesenate deglutì a fatica e parve seriamente combattuto. Alla fine, con un sospiro pesante, fece segno di no con la testa.

Mascherando il proprio sollievo, Achille fece spallucce: “Quello che credo anche io. Dunque sarebbe saggio, per un uomo come voi, convincere il Consiglio ad accettare la mia mano tesa. Io combatterò, e ci guadagnerò, ve lo posso assicurare, ma in cambio voi avrete un alleato commerciale e vi allontanerete il giogo di Venezia dal collo. La testa è vostra. Pensateci, e domani mattina, datemi una risposta.”

 

Il banchetto era finito senza intoppi e la Contessa aveva permesso ai musici di dare il via alle danze.

Mentre tutti stavano spostando i tavoli, aiutando com'era ormai prassi, i servi, Cesare ne aveva approfittato per ritirarsi e Ottaviano aveva annunciato che sarebbe rimasto per una un'ora o meno per poi imitare il fratello.

I più piccoli si erano andati a mescolare con gli invitati più giovani, sparendo poi tutti e tre fuori dal salone, a giocare con i figli dei servi.

Caterina non aveva fatto nulla per fermarli. Era relativamente tranquilla, visto che nella rocca c'erano solo persone di cui si fidava, anche se relativamente.

Non le dispiaceva sapere che Galeazzo, Sforzino e Bernardino stessero stringendo amicizia con i figli dei domestici. Forse, a quel modo, avrebbero un giorno avuto dei servitori sinceramente fedeli.

“Non vai a ballare?” chiese la Tigre, rivolgendosi a Bianca, che era rimasta seduta accanto a lei, sorseggiando distratta un piccolo calice di passito.

La ragazzina occhieggiò verso la madre, che lesse nelle sue iridi blu un'incertezza che non aveva mai trovato prima. Avrebbe voluto chiederle che cosa la tormentasse, ma preferì non farlo, per evitare di sentire risposte spiacevoli, e così lasciò che Bianca finisse il suo bicchiere senza dire altro.

Tuttavia, quando un giovane Berti si avvicinò alla tavola per chiedere alla figlia della Contessa di danzare, la ragazzina guardò di nuovo la madre, le ombre quasi scomparse dal suo volto, chiedendo tacitamente un rinnovato permesso.

Caterina le dedicò un rapido sorriso e, dopo aver scrutato con attenzione il ragazzo in attesa – bei lineamenti e schiena dritta – le disse: “Avanti, divertiti. Senza esagerare, però.” soggiunse, avvertendo come un macigno il peso del matrimonio tra la figlia e il Manfredi, ancora tragicamente valido e sempre in bilico.

Tra il suo Stato e quello di Astorre Manfredi, per il momento, vigeva un momento di stallo che conveniva a tutti. Non sapendo, però, quanto Venezia avesse davvero gli occhi puntati su di lei, a volte la Tigre aveva il terrore che la Serenissima si mettesse a fare pressioni su Castagnino in un senso o in altro.

Benché anche lei non vedesse l'ora di liberare Bianca da uno sposo che chiaramente non voleva, l'idea di annullare subito il matrimonio le sembrava troppo pericolosa.

A quel modo Faenza sarebbe diventata se non un'aperta nemica, almeno una potenza a loro del tutto estranea e Venezia avrebbe potuto approfittarne per scagliarla contro Imola o Forlì.

Al contrario, se per qualche motivo Manfredi avesse provato a forzare Bianca ad andare una volta per tutte a Faenza, per assicurare al Doge un alleato come la Leonessa di Romagna, a quel punto sarebbe stata Firenze a poter prendere di mira Forlì e Imola.

Per quanto la Sforza confidasse nell'appoggio di Giovanni, e forse, di rimando, anche del fratello Lorenzo, sapeva bene che i Medici non erano più i padroni indiscussi della repubblica e dunque poco avrebbero potuto fare, per aiutarla in caso di necessità.

Immersa nei suoi calcoli, che a volte si intersecavano con il pensiero fisso del ballo che Achille Tiberti stava tenendo in quelle ore nel cesenate, Caterina nemmeno si accorse del piccolo gruppo di uomini che si stava assiepando davanti a lei per parlarle.

Siccome si trattava per lo più di gente che era stata invitata alla rocca per una festa ufficiale per la prima volta, la Tigre si prestò volentieri a ricevere i ringraziamenti formali che le venivano avanzati, ma poi, sempre con più rapidità, liquidava i vari ospiti con frasi di prammatica o li passava alle attenzioni del castellano Feo o del cancelliere Cardella.

Finalmente, come se aspettasse fin dall'inizio quel momento, la Leonessa vide anche Giovanni farsi avanti, con passo abbastanza sicuro, le mani strette l'una nell'altra e un vago timore negli occhi chiari.

“Ma che fa quello?” sussurrò Roso di Gentone, attirando l'attenzione dell'amico Angelo Laziosi.

Entrambi erano appoggiati al muro, non molto lontani dal tavolo della Contessa Riario, alla quale avevano appena portato i propri omaggi e ringraziamenti. Con loro c'erano anche Lando Golfarelli e una altro paio di uomini che erano entrati uno dopo l'altro nel Consiglio a seguito delle epurazioni seguite alla morte del Barone Feo.

“Ah, non saprei...” fece Laziosi, fissando il Medici, che era ormai davanti a Caterina e si stava esibendo in un profondo inchino.

Tutti guardarono l'ambasciatore che, agghindato alla fiorentina, con un giustacuore rosso e giallo di ottima fattura, un paio di calzabrache molto aderenti dello stesso colore e un camicione rosso dalla foggia invidiabile, stava porgendo la mano alla Tigre di Forlì.

“Roba da matti...” soffiò Golfarelli, quando capì: “Sta chiedendo alla Contessa di ballare...”

“Tutti sanno che lei non balla più, da che le hanno ammazzato lo stalliere.” commentò a denti stretti Roso di Gentone, che dopo qualche bicchiere di vino di troppo non tratteneva le parole com'era solito fare.

Anche se alla festa di Capodanno in molti avevano chiesto alla Tigre di danzare, più per complimento che non sperandoci davvero, ormai tutti sapevano che la donna avrebbe risposto di no a chiunque e quindi domandarle un ballo sembrava superfluo, se non del tutto ridicolo.

Caterina stava fissando Giovanni dritto negli occhi, come a chiedergli tacitamente se stesse facendo sul serio.

Il fiorentino le stava chiedendo di ballare con lui in modo tanto plateale che la sua risposta sarebbe stata vista in ambo i casi come un'ammissione molto chiara.

Era cosciente del fatto che rifiutando, forse, avrebbe sollevato meno chiacchiere. Dopotutto, a Capodanno aveva rifiutato anche l'offerta del suo castellano, dell'ambasciatore di Milano e di molti altri uomini importanti. Rifiutare un Medici, schermandosi ancora dietro lo scudo del lutto, non avrebbe fatto tanta differenza e la cosa sarebbe morta lì.

Invece, prima di riuscire a resistere, disse, a voce abbastanza alta da farsi sentire da tutti quelli che stavano nelle vicinanze: “Accetto molto volentieri.”

Il Popolano sentì il cuore scoppiargli nel petto per la gioia. Per tutta la cena non aveva fatto altro che rimuginare e ragionare e si era detto che, per quanto un po' se ne vergognasse, anche a lui serviva una prova d'amore tangibile da parte di Caterina.

Lei aveva già avuto molto chiare dimostrazioni dei sentimenti che lui provava, ma la Tigre era un mondo così impenetrabile che a Giovanni serviva farsi chiarezza. La paura di aver frainteso era ancora così grande che in alcuni momenti gli toglieva il fiato.

Così si era detto che se lei avesse acconsentito a danzare con lui, accettandolo quando invece aveva rifiutato tutti gli altri, sarebbe stata una prova d'amore notevole, viste le implicazioni politiche di quel gesto.

“Porco mondo, ha detto di sì...” sussurrò Golfarelli, con tanto d'occhi.

Francesco Numai, che aveva sentito i discorsi degli altri e se n'era stato zitto nel suo angolo fino a quel momento, posò una mano sulla spalla di Roso e una su quella di Lando e sospirò: “E dunque pare che alla fine nella guerra che verrà la nostra nemica sarà Venezia...”

“E i nostri ingaggi verranno pagati in fiorini.” concluse Mongardini, che, come Numai, aveva teso le orecchie, pronto a sentire eventuali malignità contro la sua signora: “A me basta essere pagato, poi che sia da Venezia o da Firenze non conta nulla. E voi?”

Gli altri si affrettarono a dire che la pensavano allo stesso modo, temendo, in caso contrario, che il fedele Capitano andasse a riferire le loro parole alla Contessa.

Caterina raggiunse Giovanni oltre il tavolo e, lasciandosi prendere per mano, camminò con lui fino al centro della sala.

Mentre camminavano, il Popolano le lanciò qualche sguardo di sguincio, ma la donna non ricambiò mai, troppo tesa per accorgersene. Tuttavia, le sue dita stringevano con forza quelle del fiorentino e a lui bastò per sentire quanto anche lei, in fondo, avesse desiderato quel momento.

Tutti quanti s'erano spostati per lasciare loro posto e anche la musica era stata interrotta, come a sottolineare l'importanza di quel frangente.

La Tigre fece un cenno ai musici e quelli, con un'occhiata d'assenso tra loro, cominciarono a suonare una bassadanza a due.

Tanto la Contessa quanto il Popolano riconobbero già nelle prime note un Amoroso e così si comportarono di conseguenza, iniziando con la prima figura, che li voleva ancora mano nella mano, l'uno al fianco dell'altra.

Nella sala si stava spargendo un certo sgomento, misto a tacita tensione. Per quanto la Sforza fosse ormai molto chiacchierata, e benché le sue abitudini notturne fossero già ben note anche oltre i confini del suo Stato, quel ballo, per quanto all'apparenza più innocente dei suoi incontri occasionali, stava sbandierando a tutti i notabili di Forlì un'accecante verità.

Bianca aveva notato con apprensione lo sguardo di Ottaviano, che puntava la loro madre con una fermezza spaventosa.

Nessuno si era ancora unito alle danze e la Leonessa di Romagna e l'ambasciatore di Firenze erano i soli a muoversi a ritmo di musica, stando al centro dell'attenzione, come in uno spettacolo ben studiato. Eppure nessuno dei due sembrava impensierito dagli sguardi altrui. Anzi, danzavano con precisione, entrambi addestrati da un'infanzia e una giovinezza passate a imparare anche cose come le danze eleganti. E oltre alla precisione, stavano mettendo in quell'Amoroso un trasporto che andava ben oltre il rigore di una buona esecuzione dell'esercizio.

La figlia della Contessa li osservò per qualche istante come rapita. C'era un qualcosa, nel modo in cui si sfioravano e in cui tenevano gli occhi puntati l'uno in quelli dell'altra, che alla giovane sfuggiva. Non riconosceva quell'intensità e quella naturalezza, che non aveva visto correre neppure tra sua madre e il Barone Feo.

Riscuotendosi un momento, quando la bassadanza era ancora nel vivo, si avvicinò a Ottaviano e gli disse: “Forse dovremmo ballare anche noi. Trovati una dama.”

Il giovane Riario stava per ribattere con acidità, ma ormai la sorella lo aveva anticipato, scendendo in pista assieme a un giovane Bonoli e rifilando a lui una figlia di uno dei Capitani.

Pian piano, seguendo l'esempio dei figli della Contessa, anche altri invitati si unirono alle danze e così Giovanni e Caterina, non più uniche attrazioni del momento, poterono rilassarsi un po' di più.

I musici fecero sfumare l'Amoroso per poi iniziare subito con un Reale, sempre da ballarsi in coppia e ciò diede una scusa alla Tigre e al fiorentino per non fermarsi nemmeno un momento.

“Hai visto come ci guardavano?” chiese piano la donna, quando fu più vicina al Medici, dopo una breve giravolta.

L'ambasciatore, stringendola a sé dopo un altro giro, benché quel ballo non lo richiedesse affatto, le sussurrò all'orecchio: “Vivamus, mea Lesbia, atque amemus, rumoresque senum severiorum...”

Caterina sentì il calore del corpo di Giovanni contro il suo e per un istante tutto il resto della sala svanì nel nulla. Avrebbe voluto tenerlo stretto a sé, cercare le sue labbra e baciarlo. Infilare le mani sotto la sua camicia e poiprenderlo lì dov'erano.

“Omnes unius aestimemus assis.” completò la frase la Contessa, senza riuscire a soffocare una risata di leggerezza, mentre, tuttavia, si allontanava da Giovanni per resistere alla tentazione di fare qualcosa di sconsiderato e così continuò a ballare come gli altri, secondo le figure prestabilite, sfuggendo alle occhiate sconvolte di alcuni invitati che avevano letto in quell'abbraccio un'intimità eccessiva tra lei e l'ambasciatore.

Quando il Reale finì, Caterina lasciò la mano del fiorentino e applaudì alla bravura dei musici assieme agli altri.

I suonatori cominciarono a strimpellare qualcosa di più movimentato, una ballata popolare che aveva già surriscaldato gli animi dei più giovani.

La Tigre avrebbe anche continuato volentieri a ballare, visto che erano secoli che non si sentiva leggera a quel modo, ma negli ultimi passi della bassadanza aveva notato che Giovanni cominciava a dare qualche segno di cedimento, zoppicando un po'.

Cercando di non fargli pesare quella debolezza, lo guardò in tralice e, avvicinandosi sorridente a lui, propose: “Ho sete, che ne dici di sederci un attimo e bere qualcosa?”

Il Popolano accettò, ma capì subito che la donna aveva fatto quella proposta solo in suo riguardo.

Avrebbe tanto voluto ballare con lei fino a notte fonda, stringendola a sé di quando in quando, godendosi pure il modo in cui i forlivesi li fissavano attoniti ogni volta che si parlavano e si toccavano, anche se lo facevano solo con la punta delle dita.

Però Caterina era più saggia di lui e con quell'espediente forse l'avrebbe aiutato a non cadere di nuovo in una crisi del suo male nei giorni prossimi.

Appena la Contessa e l'ambasciatore si furono sistemati al tavolo d'onore, a cui erano in quel momento seduti anche il castellano e un paio di Consiglieri che discutevano tra loro animatamente, Ottaviano mollò in mezzo alla sala la dama impostagli dalla sorella, e, con un ultimo sguardo indecifrabile verso la madre, lasciò la festa per ritirarsi nelle sue stanze.

 

Sandro Botticelli guardava il vento portare via il fumo nero che ancora saliva dalla pira antistante il palazzo della Signoria.

Parte della folla si era ritirata e a fissare gli ultimi riccioli di fuoco erano rimasti soprattutto penitenti e flagellanti. Le finestre che davano sulla piazza erano state chiuse e i bambini erano tornati nelle case coi genitori.

L'artista sentiva un grande freddo nelle ossa, anche se quella sera non aveva né piovuto né nevicato.

Stringendosi nelle spalle, guardò ancora una volta, sconsolato, la massa ormai informe di oggetti che avevano trovato la loro distruzione in una notte pregna di fede. O follia. Sandro non aveva ancora deciso quale fosse il termine più adatto.

Sapeva solo che molte delle sue opere erano finite tra le fiamme e con esse anche tante altre cose che lui aveva amato a dismisura.

Proprio mentre faceva questo ragionamento, un refolo d'aria gli fece svolazzare davanti una pagina di un libro. L'afferrò al volo e gli bastò poco per riconoscervi una pagina di Boccaccio.

Quanto si era divertito, molti anni prima, a leggerne dei pezzi assieme a Giuliano e Lorenzo... Ora era tutto andato. Così come il Magnifico e suo fratello, anche il clima di molle opulenza e di entusiastico fervore che permeavano Firenze se n'erano andati.

Era rimasta solo la cenere. La cenere e la puzza di bruciato.

L'uomo nuovo, esperto d'ogni cosa, mosso dalla curiositas e dalla sete di sapere in ogni ambito, artistico, letterario, scientifico... L'Uomo Universale che lui e i suoi amici avevano cercato disperatamente di creare da ragazzi era solo un'utopia. Savonarola aveva riportato tutti con i piedi per terra, ricordando loro che sopra la testa di ognuno gravava il peso di Dio, e come si diceva chiaramente nella Genesi, la conoscenza era il male e andava rifiutata, evitando così l'errore che aveva fatto Eva, inducendo Adamo a cogliere per lei la mela.

Abbattuto, voltò le spalle al falò e cominciò a camminare. Non era diretto a casa. Voleva solo camminare per Firenze, nel buio e nel silenzio, dopo tutti quei canti, quelle grida e quella luce sfolgorante.

Passò nelle strade più strette, evitando come la peste i gruppuscoli che ancora giravano per la città, costeggiò l'Arno e poi se ne allontanò, sfuggendone il freddo pungente, e alla fine si trovò davanti alla chiesa della Santissima Annunziata.

Si appoggiò a una delle colonne del patio e poi si lasciò scivolare fino in terra. Il convento di Savonarola era a una strada di distanza e poteva sentire delle voci sollevarsi da là in canti di giubilo.

Quella era la notte del domenicano e nessuno gliel'avrebbe tolta. Con qualche lingua di fuoco aveva bruciato tutto ciò che Firenze era stata fino a quel giorno.

Mentre si teneva la testa tra le mani, ripensando ancora una volta alle sue opere gettate nel fuoco e trasformate in fumo, Botticelli sentì dei passi rapidi, ben udibili nella notte, per quanto ovattati.

Nascondendosi un po' dietro la colonna, cercò di individuarne la fonte e alla fine la trovò.

Era una donna, molto giovane da come si muoveva, che portava in braccio un fagotto. La figura scura salì di corsa i gradini dello Spitale degli Innocenti e poi andò alla pila.

Da quasi cinquant'anni quel rifugio dava asilo a bambini orfani, o rifiutati: era facile capire cosa quella giovane fosse andata a fare.

Sandro la scrutò impotente mentre lasciava il fagottino in quella specie di acquasantiera che veniva usata ormai anche troppo spesso per affidare i bambini allo Spitale.

La donna mise qualcosa tra le fasce del piccolo e poi, con un ultimo bacio sulla fronte, lo lasciò là.

Botticelli si sentì come lei. Anche lui, quella notte, aveva abbandonato delle creature che lui stesso aveva dato alla luce. Però, al contrario di quella giovane, lui le aveva affidate alle fiamme, per distruggerle, mentre lei aveva cercato per la sua qualcuno che potesse prendersene cura e crescerla.

Il pittore la guardò correre via e la sentì piangere. Avrebbe voluto andare a vedere subito il bambino che era stato lasciato nella pila, magari per coprirlo meglio e dargli conforto. Quel piccolo era di certo come Firenze: solo, impaurito e pieno di freddo.

Però, proprio mentre Botticelli si stava alzando per andare a controllare in che stato fosse il gittatello, vide qualcuno uscire dalla porta dello Spitale. Il bambino venne controllato e portato dentro e così Sandro sentì il bisogno di allontanarsi.

Mentre camminava a passi lenti verso la sua dimora, l'artista si trovò a ripensare alla notte appena passata e sentì crescere dentro di sé l'amarezza. Forse stava sbagliando tutto, o forse Dio cercava di dirgli qualcosa.

A pochi metri dalla sua porta, Botticelli sollevò lo sguardo al cielo e non gli ci volle niente, per capire da che parte fosse la piazza: il fumo, ormai una striscia sottile e il riverbero ancora vivo delle fiamme indicavano in modo nitido dove fosse stato eretto il Falò delle Vanità, come la luce di un faro che segnava la via ai naviganti smarriti.

 
   
 
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