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Autore: Adeia Di Elferas    08/10/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Caterina e Giovanni restarono seduti al tavolo per poco tempo. Dopo appena un calice di vino, infatti, la Contessa era stata di nuovo avvicinata da alcuni invitati, che, guardinghi, avevano provato a parlare con lei, forse per sondare meglio il significato delle due danze che aveva condotto con l'ambasciatore di Firenze.

Stanca di quell'insistenza, la Tigre dopo un po' abbandonò il bicchiere vuoto sul tavolo e pregò il suo castellano di fare le sue veci fino al termine della serata.

Sentendosi addosso ancora gli sguardi di tutti, la Sforza fece un cenno al Medici ed entrambi, sgusciando in silenzio tra la gente che ancora rideva, beveva e ballava, uscirono dal salone e andarono verso le loro stanze.

Giovanni era stato così preso da Caterina per tutto il tempo da non essersi accorto dell'uscita di scena improvvisa di Ottaviano. La Contessa, invece, l'aveva notata, ma aveva cercato di convincersi che ci sarebbe stato il modo di appianare qualsiasi cosa, ma il giorno dopo.

Senza doversi dire nulla, tutti e due puntarono con sicurezza alla camera di Giovanni.

Un paio di soldati, che su ordine della Leonessa quella sera stavano perlustrando i corridoi per assicurarsi che nessun ospite si infilasse senza permesso nei meandri della rocca, li videro, ma il fiorentino e la milanese, pur accorgendosene, non fecero una piega e continuarono a camminare e ridere, mano nella mano, verso la stanza del fiorentino.

Appena furono nella camera dell'ambasciatore, prima ancora di accendere qualche candela o controllare il fuoco nel camino, i due cominciarono a baciarsi, dando finalmente sfogo a un bisogno che avevano avvertito per tutta la durata della festa.

Dopo qualche minuto, stringendo forte a sé Caterina, il Popolano avvertì una fitta alla caviglia e per un secondo la gamba gli cedette.

La donna lo sorresse come meglio poteva e poi gli accarezzò con lentezza la fronte: “Siediti.” gli ordinò.

Giovanni, zoppicando un po', si andò a sedere sul letto, come gli era stato intimato di fare, e attese con pazienza che la Contessa accendesse qualche lume e rintuzzasse il fuoco nel camino.

Quella sera faceva molto freddo e fuori aveva ripreso a nevicare, come si poteva intravedere dal vetro appannato della finestra, eppure il Medici si sentiva continuamente avvampare di calore, come fosse stata piena estate.

Dopo aver sistemato quel che doveva, la Tigre tornò a concentrarsi su di lui. Lo fissava con uno sguardo strano, come se si stesse facendo delle domande a cui non poteva trovare alcuna risposta che fosse di suo gradimento.

Alla fine, gli si avvicinò con lentezza e gli prese una mano. Giovanni sollevò lo sguardo verso di lei e tentò di scrutare le sue iridi verdi per capire che cosa la stesse improvvisamente turbando a quel modo.

Al pensiero che potessero essere il suo cedimento e dunque l'improvvisa rinnovata consapevolezza della sua malattia ad aver portato la Sforza ad avere quell'espressione triste, il fiorentino si sentì tremendamente inadeguato. Così, mortificato, abbassò di nuovo gli occhi, senza però trovare la forza di far scivolare via la propria mano da quella di Caterina.

“Siamo stati due incoscienti.” sussurrò la Tigre, mettendosi a sedere accanto a Giovanni e poi appoggiando la testa sulla sua spalla.

Il Popolano era d'accordo con lei. Se avesse potuto tornare indietro di qualche ora, avrebbe fatto esattamente le stesse cose che ora si rimproverava, tuttavia capiva bene quello che la Contessa intendeva dire.

Entrambi avevano molto da perdere, ma era chiaro che in quello specifico frangente fosse lei, quella che correva i rischi maggiori.

Le braccia di Caterina gli cinsero le spalle e poi lo accolsero in un abbraccio colmo di tenerezza, qualcosa che Giovanni non si sarebbe mai atteso da lei.

Aspettò con una leggera tensione che la donna allentasse la presa, temendo che quello fosse il preludio a un addio.

Forse era sciocco, da parte sua, essere tanto categorico, ma sapeva che la Leonessa di Romagna non aveva mezze misure ed era consapevole della sua spiccata capacità di mettere gli affari di Stato davanti a tutto. Solo per il suo amato Giacomo aveva fatto il contrario, ed era finita molto male.

E invece la presa non si allentò, anzi, da tenera si fece sempre più prepotente e, prima che potesse far qualcosa per fermarla, la Tigre aveva ripreso a baciarlo e a pretendere per sé qualcosa che prima del banchetto lei stessa aveva rifiutato.

Lasciandosi spogliare, docile, Giovanni la guardava assorto, come se la vedesse davvero per la prima volta e si trovò a pensare che, comunque fosse andata, non si sarebbe mai pentito di averla amata in modo tanto disperato.

 

“Che cosa volete fare? Fermi! Lasciatemi! Dove ci state portando?!” Isabella d'Aragona, la voce arrochita, gli occhi incavati nel volto scarno e i capelli arruffati come un rovo di spine, avrebbe tanto voluto riuscire a divincolarsi dalla presa delle guardie, ma le sue membra erano diventate troppo deboli per riuscirvi.

“Non agitatevi!” la zittì un soldato che lei non aveva mai visto, ma che era arrivato alla torre con l'aria sicura di chi va ubbidito senza fiatare: “Vi stiamo portando a Milano, come da ordini del Duca.”

“A Milano?!” fece la donna, atterrita, sentendo le gambe cedere, mentre i suoi figli venivano presi di peso come lei e portati fuori dalla stanza che li aveva visti prigionieri per anni: “Perché? No, a Milano no, vi prego... No, no... Vi prego, no!”

Milano, per Isabella, poteva significare solo una cosa: morte.

Per quale altro motivo sua cugina Beatrice avrebbe voluto farla portare fin là, se non per metterla ai ceppi e poi giustiziarla assieme ai suoi figli in pubblica piazza?

“State zitta!” si alterò a quel punto il soldato che guidava gli altri: “E voi – aggiunse, parlando alle ultime due guardie, che avevano preso Francesco, sollevandolo da terra per proteggersi dai suoi calci, deboli, ma molto fastidiosi – portate quel bambino al piano di sotto e fate in modo che non scappi.”

“No, mio figlio...” iniziò a dire Isabella, cercando di voltarsi per vedere il suo primogenito, di appena sei anni, che faceva di tutto pur di dimenarsi tra le braccia dei suoi carcerieri.

Si era fermata a mezza frase, però, perché aveva pensato che se a Milano l'attendeva la morte, forse Francesco, restando a Pavia, sarebbe stato salvo. Anche se non aveva alcun senso, visto che tra tutti loro, lui era l'unico che potesse ormai essere un pericolo per Beatrice e Ludovico.

Annebbiata dalla debolezza e dal trauma di essere stata portata via dalla torre dopo così tanto tempo, l'Aragona si lasciò portare senza dire più altro fin fuori, convincendosi che Francesco fosse più al sicuro lì, benché ciò significasse non rivederlo mai più.

La fecero salire in fretta assieme alle due figlie su una carrozza, e così ebbe solo un fugace assaggio del pungente morso della nebbia gelata che avvolgeva il castello di Pavia.

Tenendosi le bambine vicine, cercando di riscaldarle anche con il proprio corpo, che era coperto solo da un abito ormai consunto, Isabella guardò di nuovo il soldato che le aveva prese in custodia e, vincendo la paura, trovò il coraggio di chiedere: “Perché mia cugina vuole che vada a Milano?”

L'uomo, dopo aver dato il permesso al cocchiere di partire, la guardò di sottecchi con occhi di pietra e poi borbottò: “Vostra cugina è morta da oltre un mese.”

La donna ci mise parecchio, prima di elaborare quell'informazione. Quando finalmente si rese conto di tutto quello che la morte di Beatrice poteva significare per lei, fu certa che Ludovico avesse cambiato idea sulla sua sorte, ma sentì crescere dentro di sé una nuova paura.

Se era vero che il Moro probabilmente aveva deciso di liberarla, assieme alle due figlie che le erano rimaste, poteva finalmente spiegarsi il perché le avessero tolto Francesco.

Il Duca probabilmente aveva pensato che sarebbe stato magnanimo, da parte sua, uccidere solo il figlio maschio di suo nipote Gian Galeazzo, il legittimo signore di Milano, risparmiando le femmine, inutili ai fini dinastici.

“Fatemi scendere!” urlò all'improvviso Isabella, scagliandosi verso la portiera della carrozza.

“Che accidenti state facendo?!” la bloccò l'uomo, agguantandola con violenza e tentando di rimetterla seduta.

Le due bambine erano scoppiate a piangere, vedendo lo scatto della madre, ma Isabella non accennava a calmarsi. I suoi occhi erano sgranati, folli, mentre i suoi capelli, rossi come il fuoco e annodati come un cespuglio, si agitavano assieme alla sua intera figura, che cercava di divincolarsi dalla stretta del soldato.

“Voglio Francesco! Non posso lasciarlo! Lo uccideranno, lo uccideranno!” pianse disperata Isabella, dando pugni sempre più deboli al soldato che, capendo che ogni spiegazione sarebbe stata vana, le assestò uno schiaffo tanto forte da farle perdere i sensi.

Alzando le mani su di lei, aveva contravvenuto agli ordini del Moro, ma non avrebbe saputo trovare un'altra soluzione per arrivare indenne fino a Milano.

Sistemando con una certa cura la donna priva di sensi davanti a sé, l'uomo rassicurò in modo burbero le due figlie della sfortunata Isabella d'Aragona, e poi diede voce al cocchiere, affinché spingesse i cavalli al massimo.

 

Simone Ridolfi stava ancora cercando di mettere ordine nelle carte di Tommaso Feo. Suo cognato aveva organizzato lo studio secondo la sua forma mentis, ma era bastato poco al fiorentino per capire che non ragionavano allo stesso modo.

Era appena iniziata la Quaresima e Imola sembrava ancora più tranquilla del solito.

Stava per scendere la sera e Simone era stato tentato di raggiungere sua moglie nella loro tenuta, che era appena fuori dalle mura. Lucrezia, però, gli aveva fatto avere nel tardo pomeriggio un biglietto in cui lo invitava a restare pure al palazzo, se aveva da fare.

Ormai Ridolfi la conosceva abbastanza bene da capire che lo voleva fuori dai piedi almeno fino al mattino dopo.

Così aveva chiuso la missiva e l'aveva fatta a pezzi, senza però arrabbiarsi più di tanto. Restare in città per una notte, di quando in quando, non era poi un gran peso. Inoltre, il palazzo del Governatore, lasciato subito libero da Tommaso, era molto accogliente, benché Lucrezia fosse stata irremovibile nel non volersi trasferire, millantando le innumerevoli scomodità di quella dimora.

Il vecchio Governatore aveva portato tutte le sue cose nella casa del Bosco, ereditata dalla moglie, che l'aveva ricevuta come dote dalla sorella.

Tommaso quindi passava le sue giornate tra quei terreni – così trascurati negli anni addietro – e la rocca di Imola, presso il suocero. Pareva che i due passassero il tempo a ricordare in silenzio le rispettive mogli, senza trovare altro da dirsi se non qualche frase vaga sul clima. Eppure a entrambi quella vicinanza faceva piacere e quindi si incontravano quasi ogni giorno.

Simone non lo invidiava per niente. Suo cognato non aveva ancora quarant'anni, eppure sembrava già un vecchio.

“Messaggio.” disse uno dei servi, affacciandosi nello studiolo e porgendo una lettera chiusa al Governatore.

Simone ringraziò e prese la missiva: “Aspettano risposta?” chiese.

Il domestico fece segno di no, così il fiorentino lo congedò e poi si andò a mettere in poltrona, in favore della luce delle candele.

Stava ancora ripensando al bilancio del passato anno dello Stato della Sforza. Se non fosse stato per gli oboli obbligatori che avevano dovuto versare al Vaticano, si avrebbero potuto chiudere i conti se non in attivo, almeno in pari...

Quando si accorse del sigillo che chiudeva la lettera, Simone smise all'istante di pensare agli affari della Tigre. Si trattava del sigillo dei Medici.

Ridolfi spezzò con un colpo secco la ceralacca rossa, dividendo in due il cerchio di palle medicee e corse prima di tutto alla firma. Lo scrivente era uno dei curatori degli affari di Lorenzo, uno di quelli rimasti a Firenze.

Gli occhi del Governatore passarono rapidi su tutte le parole vergate con pugno sicuro, rabbrividendo sempre di più man mano che veniva messo a parte di quello che era successo alla sua amata città.

'Cred'io – terminava il messaggio – che doppo lo assalto subito e benché s'abbia salvate tutte l'opere nascoste dallo cugino vostro, che sia d'uopo cercarlo d'averlo indietro e farlo sì che rientri in Firenze. Si scrisse anche allo cugino vostro in Forlì, ma ancor non s'abbia risposta alcuna. Lo domenicano che noi ben gnosciamo presto colpirà ancor Firenze. Abbiamo che agire.'

Simone chiuse un momento gli occhi, cercando di immaginarsi l'enorme falò descritto dal suo concittadino.

Senza dar spazio ad altro, corse alla scrivania e scrisse sul primo pezzo di pergamena che trovò: 'E si chiami subito mio cugino Lorenzo e lo si faccia tornare. Che difenda la famiglia e Firenze.'

Uscito dallo studiolo, trovò lo stesso servo che gli aveva portato il messaggio. Gli consegnò il biglietto e gli disse di trovare una staffetta che partisse subito per Firenze.

Visto scalpicciare via il domestico, Ridolfi seppe che ormai lo aspettava solo l'attesa. Si chiese se Giovanni l'avrebbe pensata come lui. Si chiese anche perché non avesse ancora risposto al suo amministratore. Forse, pensò con un velo di amarezza, aveva già dimenticato Firenze e le sue bellezze.

Dopo un momento di smarrimento, durante il quale avvertì il palazzo del Governatore come vuoto e ostile, desiderò ardentemente trovarsi in compagnia della moglie. Malgrado tutto, stava bene con lei.

Però sapeva che lei, per quella notte, aveva altri piani.

Così, controllando di avere abbastanza soldi in bisaccia, uscì dal palazzo, lasciando detto che sarebbe tornato tardi, e cercò un postribolo che potesse aiutarlo ad arrivare al mattino dopo senza spaccarsi la testa coi suoi dubbi.

 

Pandolfo guardò con ansia dalla feritoia. La rocca di Rimini gli stava dando asilo, ma la folla inferocita non trovava requie, non restando scoraggiata nemmeno delle spesse pietre che lo proteggevano dai ripetuti assalti dei rivoltosi.

Essere sotto assedio era un continuo susseguirsi di lunghi momenti di calma, che instillavano nel Malatesta una sorta di ottimismo, seguiti da improvvise esplosioni di rabbia che lo facevano tremare come una foglia.

Al momento gli assedianti stavano solo gridando motti sconclusionati contro di lui, quindi poteva ritenersi abbastanza tranquillo.

Aveva dovuto lasciare il palazzo, perché non abbastanza sicuro, e si era asserragliato con la sua guardia personale e parte dell'esercito nella rocca, ma era chiaro che quella situazione sarebbe stata presto insostenibile.

Dopo essersi lasciati sfuggire Castracani, e aver requisito i suoi beni e messo a sacco la sua casa, i provvigionati del Pandolfaccio avevano dovuto ripiegare miseramente, prima di essere lapidati da riminesi.

La popolazione si era unita come un sol uomo e aveva cominciato a minacciare apertamente il proprio signore che, senza avere nemmeno il tempo di prendere con sé qualche abito pesante, aveva dovuto chiudersi nella rocca, tirandosi dietro la moglie.

Violante l'aveva pregato di portarla con sé. Sapeva che il popolo non avrebbe fatto distinzione tra lei e il marito e dunque preferiva le sue angherie, alle quali sapeva di poter sopravvivere, piuttosto che la morte certa che la gente di Rimini le avrebbe dato, se fosse stata catturata.

“Infami...” sussurrò Pandolfo, ritirandosi dalla feritoia e sputando in terra con rabbia.

“Mio signore – disse il castellano, teso – sapete che non abbiamo provviste necessarie per sopravvivere a un lungo assedio...”

“E allora sterminate questi imbecilli con i cannoni e le frecce!” fece il Malatesta, allargando le braccia: “Sono quasi tutti disarmati, in fondo! Voi siete soldati! Uccideteli tutti!”

“Non abbiamo nemmeno abbastanza munizioni, mio signore...” dovette controbattere l'altro, abbassando la testa, già temendo una punizione per quelle parole: “Non eravamo pronti a un'emergenza...”

Pandolfo intravide la moglie, alle spalle del castellano. Aveva le mani giunte in grembo e gli teneva gli occhi puntati addosso.

“Che vuoi, anche tu?!” abbaiò il Pandolfaccio, mandandola intanto a quel paese con un gesto della mano.

“Penso di saper come fare per risolvere questa situazione.” sussurrò Violante, ingoiando la vergogna per i modi che il marito usava quando si rivolgeva a lei.

“Ovvero?” chiese il Malatesta, che, in crisi com'era, non disdegnava più nemmeno le parole di quella donna inutile.

“Ho scritto ai veneziani...” iniziò a dire la Bentivoglio, alzando istintivamente una mano per pararsi il volto, nel caso in cui Pandolfo volesse percuoterla per la sua sfacciataggine.

Il colpo non arrivò e così la donna poté proseguire: “Dicono che ci aiuteranno, se tu vorrai.”

“E in cambio che vogliono?” chiese il Malatesta, trattenendo la voce per non tradire la speranza.

Anche lui aveva pensato di scrivere al Doge, ma era stato certo che Barbarigo gli avrebbe detto di risolversi le sue beghe da solo, visto il motivo di quel contenzioso.

“Che tu combatta per loro contro Firenze.” spiegò Violante, alzando di nuovo una mano.

Pandolfo ragionò in fretta. Meglio morire menando la spada per aria in mezzo ai nemici, che non di fame assalito da dei pezzenti.

“Va bene, scrivi al Doge dicendo che accetto.” disse: “Muoviti!”

La Bentivoglio non se lo fece ripetere e rientrò nella rocca, quasi di corsa, convinta che, almeno per quella volta, sarebbero stati salvi.

“Queste maledette donne...” borbottò il Pandolfaccio, sentendosi osservato dal castellano, che in effetti lo fissava attonito, non avendolo mai visto prendere in considerazione i suggerimenti di chicchessia: “Vogliono sempre fare di testa loro...”

 

Forlì aveva assorbito discretamente bene le chiacchiere sorte dopo il banchetto di Carnevale alla rocca. Fondamentalmente, si era sparso un velo di omertà che non voleva fosse detto che la Tigre aveva scelto chiaramente un partito nella guerra che sembrava in procinto di scoppiare.

Bernardi, una sera che la Contessa si era presentata alla sua barberia in cerca di chiacchiere fresche, aveva provato a sondare il terreno, ma la donna aveva solo detto: “Non sapevo che adesso un ballo, per di più a una festa di Carnevale, equivalesse a una proposta di matrimonio.”

Così il barbiere aveva deciso di non accennare più a quell'episodio e aveva anche rinunciato a chiedere indirettamente come mai lui non venisse mai invitato a quel genere di eventi quando, invece, avrebbe voluto con tutto se stesso vedere dal vivo certe cose.

A contribuire, poi, a mettere un po' a tacere certe voci era stata l'indisposizione di Giovanni, che era dovuto restare chiuso nelle sue stanze per quasi una settimana, poco dopo la festa, per colpa di un violento attacco di gotta.

Caterina, giocando di strategia, aveva cercato di farsi vedere spesso in città, evitando che la gente la credesse al capezzale del fiorentino da mattino a sera. Quando, però, gli impegni di Stato e quelli mondani non la prendevano, la donna passava tutto il suo tempo con il Medici, cercando una soluzione migliore del ghiaccio per ridurre i suoi dolori, ma senza mai trovarla.

Si trovò a pensare che forse al Paradiso era rimasta qualche lettera di qualche alchimista che ne parlava. In passato aveva sempre accantonato gli scritti riguardanti malattie che non la interessavano, ma adesso sarebbero tornati utili. C'era però il problema di andare al Paradiso a prenderli, e lei non credeva di farcela.

Sentendo dentro di sé un sentimento di vulnerabilità che odiava, la Leonessa poteva solo far compagnia all'uomo che amava, leggergli qualcosa, confortarlo quando lo sentiva tremare di dolore e scottare di febbre e sperare che si riprendesse.

Com'era già successo la volta prima, una mattina il Popolano si era svegliato sfebbrato e, benché ancora con gli arti gonfi, anche i dolori erano passati.

“Ti disturbo?” la Tigre era arrivata alle spalle di Giovanni mentre questi stava leggendo una lettera.

L'uomo, assorto come non mai nella lettura, non le rispose subito. Quella lettera era arrivata da giorni, ma, dato che stava male, gli era stata consegnata solo quella mattina. Arrivò all'ultima riga, prima di farle segno di no.

La sala delle letture era silenziosa. Nel camino scoppiettava un fuoco acceso da poco. Era presto e faceva ancora molto freddo. Dopo Carnevale, come se anche il cielo fosse in digiuno quaresimale, aveva smesso di nevicare, ma in compenso era arrivata la nebbia. Fitta e gelata, come quella che Caterina aveva imparato a conoscere nel corso della sua infanzia trascorsa tra Milano e Pavia.

Il Popolano chiuse lentamente la missiva arrivata da Firenze e poi si voltò verso Caterina. Aveva gli occhi lucidi e sembrava sul punto di scoppiare a piangere.

La Contessa capì che quello che l'uomo aveva appena letto doveva averlo sconvolto. Siccome sapeva che di lì a poco sarebbe arrivata Bianca, che a quell'ora spesso si ritirava lì a leggere, lo prese per la mano e in silenzio lo condusse fino in una stanza che non veniva mai usata.

Era una di quelle che avevano ristrutturato di recente. Quella, ironicamente, che sarebbe stata di Giovanni, se solo fosse stata già pronta, quando era arrivato a Forlì. Era molto lontana da quella della Contessa e forse, se fosse stata assegnata al fiorentino, loro due non avrebbero mai trovato il modo di avvicinarsi tanto quanto avevano fatto stando in due camere attigue.

Rassicurato dal fatto che erano soli e in un punto tranquillo della rocca, il Popolano non si trattenne più e cominciò a piangere sommessamente. La Sforza lo abbracciò, non sapendo di preciso per cosa lo stesse consolando.

Non era nelle sue corde, accettare di vedere piangere qualcuno, soprattutto se uomo. Eppure, si sorprese a trovare quello spettacolo più doloroso, che non irritante. Voleva che Giovanni smettesse di versare lacrime, ma non perché si vergognava di lui, com'era successo in passato con Giacomo o anche con Girolamo. Voleva che smettesse solo per saperlo rincuorato e confortato.

Quando riuscì a respirare di nuovo normalmente, l'ambasciatore le allungò la lettera che stava leggendo poco prima. La donna la prese e la lesse subito. Seguì il racconto, così vivo e dolente, dell'amministratore dei Medici aveva scritto e le parve di essere anche lei là davanti al palazzo della Signoria, a vedere copie del Decameron e del Canzoniere prendere fuoco assieme ai disegni di quel Botticelli che, a detta di Giovanni, in passato era rimasto tanto colpito da lei da ritrarla più di una volta nei suoi dipinti.

Si parlava dettagliatamente di un enorme falò, voluto da Savonarola, con cui erano stati bruciati oggetti di tutti i tipi, ma soprattutto libri, opere d'arte e tutto ciò che poteva esprimere bellezza. Una tragedia, soprattutto per una città come Firenze.

“Tutto quello che amavo della mia Firenze...” sussurrò Giovanni, andandosi a sedere sul letto, un po' impolverato, che troneggiava in mezzo alla stanza disabitata: “Hanno bruciato tutto quello che faceva grande la mia terra... La mia Firenze...” e senza provar nemmeno a evitarlo, ricominciò a piangere in silenzio, tenendosi la testa tra le mani, afferrandosi i riccioli castani con le lunghe dita.

Caterina comprese l'entità di quella notizia, ma la prese decisamente in modo meno sentimentale di Giovanni.

Il suo primo pensiero, infatti, non andò al danno artistico dato dal falò, ma alle implicazioni politiche di quel gesto. Savonarola aveva passato il limite. Il danno, economico oltre che d'immagine, dato a Firenze sarebbe stato la sua prova del fuoco, in tutti i sensi.

A quel punto, o i toscani abbracciavano fino alla fine la sua folle visione del mondo, o si ribellavano, magari appellandosi al papa o a chi per lui, scacciandolo e dando un nuovo governo alla loro terra.

In ambo i casi, quella novità andava a indebolire enormemente Firenze. A quel punto, una guerra contro Venezia sarebbe stata un suicidio. La Serenissima ne avrebbe di certo approfittato e Firenze ne sarebbe rimasta schiacciata...

Il Popolano, che cominciava a tornare padrone di sé, benché il dolore per quella ferita fosse profondo come se avesse perso un familiare, si era messo a osservare le reazioni della Tigre.

Aveva compreso subito a cosa stessero andando i pensieri di quella donna.

Dopo un po' anche lui era giunto alle stesse conclusioni della Leonessa e, con crudele sincerità, si stava dicendo che lui, ormai, non aveva per lei più alcuna attrattiva. Era un secondogenito di un ramo secondario di una famiglia che non era nemmeno più al potere. Era malato. Legarsi a lui equivaleva a legarsi a uno Stato che si stava gettando da solo nella propria rovina...

“Convinci tuo fratello a tornare in Italia.” disse piano Caterina, stringendo ancora in mano la lettera arrivata da Firenze: “Con le buone o con le cattive, Savonarola va rovesciato. E bisogna farlo prima che Venezia spari il primo colpo di cannone.”

Giovanni, che per la seconda volta nel giro di pochi giorni aveva temuto di vedere la Tigre allontanarsi da lui, sollevò i suoi occhi d'un verde quasi trasparente, resi ancora più limpidi dalle lacrime, e le disse: “Non sei obbligata a parteggiare per Firenze. Mi rendo conto che è la scelta peggiore. Noi due non siamo legati da nulla. Da nulla di ufficiale, almeno. Sei ancora in tempo a rifiutarmi.”

La Contessa lo guardò un momento. Avrebbe voluto prenderlo a schiaffi, per quello che aveva appena detto. Si sentiva legata a lui in ogni modo, ormai. Non avrebbe in alcun modo potuto rinunciare a lui. Come poteva non capirlo?

“Scrivi a tuo fratello – ribadì Caterina, fingendo di non aver sentito nulla di quello che il Medici aveva appena detto – digli di tornare a Firenze e di mettersi in prima linea per sollevare Savonarola, anche scrivendo al papa, se necessario. Bisogna rovesciare il governo di quel pazzo e mettere di nuovo voi Medici a capo della Signoria. Fatto questo, vedremo come muoverci.”

Giovanni si alzò e si avvicinò alla Tigre: “Lo farò.” assicurò e, seppur un po' trattenuto dallo sguardo gelido della Sforza, la circondò con le sue braccia e le sussurrò nell'orecchio: “Ti amo.”

 
   
 
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