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Autore: Adeia Di Elferas    11/10/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Dal Po si levava una nebbia fitta e gelata, ma le barche che Francesco Gonzaga aveva scelto per tornare a Ferrara stavano affrontando la prova in modo egregio.

Non sapeva dire che cosa sua moglie Isabella avesse realmente detto e promesso al Doge, ma era chiaro che i suoi maneggi avevano funzionato molto bene. Per sicurezza, lei non gli aveva scritto quasi nulla, ma lo aveva invitato comunque a lasciare Venezia in fretta, per evitare incidenti.

Senza bisogno di farla insistere, Francesco era partito subito e, seguendo il suo velato suggerimento, si era diretto senza indugio verso le terre del suocero, sperando che sua moglie fosse lì per aspettarlo e spiegargli meglio quel che era accaduto.

Poco prima di partire da Venezia, il Marchese aveva fatto in tempo a sentire delle chiacchere che non gli erano piaciute per niente. Si parlava di una guerra contro Firenze, in particolare pareva che i Serenissimi fossero decisi a fomentare Pisa, già insofferente ai tentativi della repubblica fiorentina di riprenderla sotto il proprio dominio, e di schiacciare a quel modo i nemici a tenaglia.

Appoggiandosi con un'espressione stanca al parapetto della barca su cui viaggiava, Francesco guardò le acque del fiume, così placide da sembrare finte, in quel mare di nebbia.

Grattandosi un po' la barba ispida, finì per chiedersi quanto avesse Venezia da guadagnare da Rimini, che pareva l'arma segreta di quella stupida guerra. Il Doge avrebbe salvato il Malatesta, senza dubbio, e in cambio gli avrebbe chiesto di attaccare Firenze. L'idea era buona, anche se nel mezzo c'era una grossa incognita.

In molti avrebbero potuto prendere sottogamba la signora di Imola e Forlì, una donna, ma Francesco aveva seguito con attenzione le sorti del governo della nipote del Moro e aveva capito che era molto più pericolosa di quello che si sarebbe potuto pensare per colpa della sua condizione e della piccola dimensione del suo Stato.

“Dovremmo arrivare a Ferrara prima di domani mattina.” disse l'attendente del Marchese, arrivandogli alle spalle e mettendosi a fissare il corso del fiume assieme a lui.

Il Gonzaga fece un suono gutturale con la gola e poi, con un lento sospiro guardò il suo soldato e disse: “Credi che una Tigre possa bastare, per fermare il Leone di San Marco?”

L'attendente lo guardò stranito, senza capire, così il Marchese lasciò perdere e, con un colpetto sulla spalla, a mo' di incoraggiamento, gli disse: “Che si spingano al massimo le barche. Voglio arrivare a Ferrara prima che spunti il sole.”

 

“Caina attende chi a vita ci spense...” sussurrò Giovanni, smettendo di leggere e chiudendo il libro con l'indice tra le pagine per tenere il segno.

Caterina non disse nulla, restando con gli occhi puntati verso il camino acceso. Era un pomeriggio tranquillo, troppo freddo e nevoso per permettere di continuare i lavori al mastio. Il Consiglio si era sciolto in fretta e per il resto la Contessa era rimasta libera.

Seguendo quel suggerimento che il fato le aveva lanciato, aveva cercato il Medici e aveva trascorso con lui il tempo che era riuscita a strappare ai propri impegni. Tuttavia, benché non desiderasse altro che concentrarsi su di lui, aveva troppi pensieri per la testa e l'attesa la stava logorando.

Achille Tiberti le aveva scritto con toni molto ottimisti, ma aveva anche aggiunto che vista l'instabilità del clima riminese, preferiva prima fare qualche breve sortita nelle campagne vicine alla città.

A Caterina non era piaciuto il termine esatto che aveva usato, ovvero 'razziare', perché aveva intuito che quella sarebbe stata un'azione negletta e criminosa, non molto diversa dallo scempio che aveva colpito Mordano qualche anno addietro.

Aveva risposto dicendo di moderarsi, di non prendere troppe provviste ai civili e di non toccare le donne, ma sentiva che quelle tre cose sarebbero state quasi impossibili, visto che il Capitano aveva reclutato della soldataglia della peggior specie.

L'alternativa sarebbe stata mandare i propri uomini, ben addestrati e da lei stessa incanalati verso un certo codice morale da tenere in guerra. Però, così facendo, avrebbe gridato ai quattro venti che era lei la mandante di quell'aggressione.

A peggiorare la situazione c'erano le notizie poco chiare che volevano l'avvicinarsi di un'ondata di peste. Per il momento la Romagna era ancora intonsa, ma se avesse smesso di nevicare e fosse cominciata la siccità, forse anche loro sarebbero stati colpiti.

Oltre a tutto questo, la Tigre sentiva anche un'altra spada di Damocle sopra la testa: da quando Giovanni aveva scritto a suo fratello per convincerlo a tornare, infatti, Caterina aspettava con un misto di speranza e timore la risposta di Lorenzo Medici.

“Sei pallida.” disse il Popolano, appoggiando il libro al tavolino e fissando più intensamente la donna: “Vuoi che ti faccia portare qualcosa? Un po' di vino, del cibo...”

La Leonessa stava per dire qualcosa, quando la porta della sala delle letture si aprì. Con aria distratta, a profilarsi sull'uscio fu Ottaviano.

La Contessa lo guardò appena e poi incrociò le braccia sul petto e tornò a fissare il fuoco, in chiaro atteggiamento di disinteresse nei confronti del figlio.

Il ragazzo guardò prima lei e poi il Medici, seduto nella poltrona accanto. I due si scambiarono uno sguardo un po' imbarazzato e poi Ottaviano tornò sui suoi passi e uscì.

“Dovresti provare a riconciliarti con lui.” provò a dire Giovanni, quando la porta fu richiusa e Caterina parve rilassarsi un po'.

Gli occhi verdi della donna si piantarono su di lui. La severità con cui lo stava guardando, però, non fu sufficiente a metterlo a tacere.

Mentre leggeva il Canto della Commedia che parlava di Paolo – un Malatesta – e Francesca, il fiorentino aveva cominciato a rimuginare tra sé proprio a riguardo del figlio di Caterina.

Aveva capito benissimo che lei lo considerava alla stregua di un traditore, degno proprio di Caina, come l'assassino dei due amanti di Rimini, macchiatosi di tradimento nei confronti dei parenti. Però, per quello che ne poteva capire lui, non aveva senso continuare a tenerlo a quel modo isolato in una sorta di limbo senza nome.

Quel ragazzo era come un cartoccio pieno di polvere da sparo. A furia di far avvicinare la fiamma, alla fine sarebbe esploso di nuovo.

“E non sarebbe una cattiva idea nemmeno provare a riconciliarti con i tuoi concittadini.” si azzardò ad aggiungere l'uomo, imitando la Tigre nel fissare il camino.

“Sono i miei sudditi, non i miei concittadini. Questa non è una repubblica.” lo corresse Caterina, aspra.

Giovanni strinse i denti, ben capendo di aver toccato un argomento delicato e che la donna non voleva sentire, tuttavia provò a dire quel che pensava, convinto che se avesse atteso un'altra occasione, avrebbe finito per non trovare mai più il coraggio: “Ci sono ancora molti prigionieri nelle segrete?”

“Nelle segrete di qualsiasi rocca ci sono dei prigionieri. Se non fosse così, non avremmo nemmeno bisogno delle leggi, perché vorrebbe dire che gli uomini non recano mai danno a nessun loro simile.” ribatté la Sforza, alzandosi, visibilmente infastidita.

“Intendo dire, se ce ne sono ancora da...” fece Giovanni, alzandosi a sua volta, ma senza riuscire a finire la frase, sovrastato dalla voce della Tigre.

“Da quando hanno ammazzato mio marito come fosse una bestia?” domandò la donna, con tono aggressivo.

“È solo che sono stato un po' in giro per la città, e ho notato che la gente se lo chiede.” si schermì il Popolano, cercando di avvicinarsi, ma trovando solo occhiate ostili a tenerlo lontano.

“E che se lo chiedano tutti, allora. Così almeno questi maledetti pettegoli avranno qualcosa da fare!” esclamò la Contessa, sbuffando.

“Liberali.” sussurrò Giovanni, riuscendo a prenderle una mano nelle sue.

“Che cosa?” fece la donna, con una smorfia di incredulità.

“Liberali tutti.” ripeté il Medici: “Fallo come segno di riconciliazione.”

A quel punto, Caterina si prese un momento. Si fermò sul posto e guardò il volto ancora giovane e fresco del fiorentino, che pure aveva quasi trent'anni, e cercò di capire quali fossero le reali intenzioni che stavano sotto la sua proposta.

Riconobbe nel suo sguardo una sfumatura di incrollabile ottimismo, che non era stato scalfito nemmeno dalla sua malattia o dalle tragiche notizie arrivate da poco da Firenze. Benché fosse come lei avvezzo alle regole del mondo, aveva ancora un briciolo di fiducia nel genere umano. Per qualche istante lo invidiò profondamente.

“Se li liberassi, di certo almeno uno tra loro sarebbe pronto a cercare vendetta. O, vendendoli, la gente se li ricorderebbe, ma stavolta per davvero.” cominciò a dire la Tigre, facendo scivolare via la mano da quelle di Giovanni: “E allora qualcuno si metterebbe in testa di cercar vendetta per quelli già morti. Vuoi scatenare una guerra civile? Se è questo che vuoi, allora vai pure dalle guardie a dire di liberarli tutti.”

Il Popolano non sapeva cosa dire. Adesso che Caterina gli aveva esposto i suoi pensieri, con una voce tanto ferma e disillusa, anche lui capiva che chiunque fosse ancora nelle celle che stavano sotto di loro, colpevole o innocente che fosse, non ne sarebbe potuto uscire più.

“Parli di riconciliazione – prese a dire la Sforza, cominciando ad alterarsi in modo abbastanza vistoso – coi miei sudditi e anche con mio figlio. Ottaviano mi ha tolto la cosa che amavo di più al mondo. Sono già stata abbastanza magnanima a lasciarlo in vita. Tu, se fossi ancora in tempo per farlo, ti riconcilieresti con tuo cugino, che ha tolto a te e a tuo fratello tutto quello che vi aveva lasciato vostro padre?”

Il Popolano si grattò la tempia, in difficoltà, e fu anche sul punto di dire che era suo fratello, quello che nutriva maggior astio verso il Magnifico, e che lui, forse, sarebbe anche stato pronto a riappacificarsi almeno con Piero e gli altri figli del cugino, ma poi pensò che fosse meglio evitare esternazioni tanto ipocrite.

“Tu e tutti i tuoi amici avevate un'ideale e pensavate che l'essere umano dovesse racchiudere in sé tutte le migliori qualità e tutta la saggezza di questo mondo, ma non avevate fatto i conti con la realtà. Gli uomini non sono buoni, non sono affidabili e soprattutto sono stupidi. Nella realtà, devi uccidere per non essere ucciso e se passi il tuo tempo a parlare, ti troverai una spada alla gola mentre prendi fiato tra una tesi di filosofia e una strofa di poesia. Se vuoi davvero vincere la guerra contro Savonarola o contro Venezia, o contro chi diamine ti pare – concluse la Sforza, andando alla porta – farai meglio a lasciar perdere i tuoi sogni da ragazzo e diventare un uomo.”

Giovanni guardò Caterina uscire dalla sala delle letture senza avere la forza di fermarla. Restò qualche momento immobile, a ripensare a quello che si erano appena detti. Aveva sbagliato a proporre quell'amnistia alla Tigre.

Chiuse un momento gli occhi, pensando in fretta a come muoversi. C'era una cosa che voleva fare più di tutto, ovvero cercare subito di appianare quella divergenza. Non voleva rischiare che da qualche frase troppo colorita potesse crearsi tra loro una crepa troppo difficile da sanare.

Perciò, sperando di aver immaginato bene la strada scelta dalla Tigre per scappare a quello scomodo confronto, uscì in corridoio e camminò a passo svelto verso le scale, sicuro di trovarla nella sala delle armi.

Poco prima di arrivare nel cortile su cui si apriva proprio quell'ambiente, la vide e le corse dietro, pur facendo fatica a tenere il passo, dato che le giunture ancora gli dolevano.

“Aspetta, Caterina!” provò a chiamarla, per indurla a fermarsi.

Complice il freddo pungente, in quel momento non c'era nessuno, in quel punto della rocca, a parte il maestro d'armi che stava barbottando con Cesare Feo, in un angolo.

I due uomini sollevarono contemporaneamente lo sguardo e fissarono la Contessa che si fermava a quel richiamo, fatto con tanta naturalezza da stupire entrambi. Da che ne avessero memoria, nessuno, nemmeno il Barone Feo, aveva mai chiamato la Contessa con il nome di battesimo in presenza di testimoni.

La Leonessa aveva notato l'attenzione del castellano e dell'altro e così fulminò Giovanni con lo sguardo. Sul suo volto era ancora vivo il furore di poco prima, però la sua voce risultò più calma di quanto il fiorentino non avesse temuto.

“Adesso ho da fare.” gli disse, in un sussurro: “Tu non hai qualche impegno? È davvero così facile, essere ambasciatore di una città come Firenze?”

Il Medici incassò il colpo e, guardando con una vaga agitazione verso Cesare Feo e il maestro d'armi, fece un cenno secco con il capo e le voltò le spalle, ben capendo che lo slancio del momento non avrebbe portato ad altro.

Caterina fece altrettanto, andando in fretta nella sala delle armi. Prese una spada a caso, senza nemmeno guardare se avesse già il filo o meno, e cominciò a passare la cote avanti e indietro, immersa nei suoi pensieri.

Benché l'avesse un po' infastidita il modo disinvolto con cui Giovanni l'aveva chiamata, attirando delle occhiate curiose che avrebbe preferito risparmiarsi, doveva dirsi colpita dal suo ardire. L'aveva cercata subito, sperando di poter continuare immediatamente il discorso. Non si era lasciato spaventare tanto in fretta, come avrebbero fatto altri.

Mentre controllava in controluce il filo della spada a due mani su cui aveva iniziato a lavorare, la Tigre non riuscì più a reprimere un sorrisetto soddisfatto che le restò stampato in faccia per parecchio tempo.

Giovanni, intanto, era tornato, sconfitto e abbattuto, verso la sala delle letture. Aveva l'impressione di aver sommato un errore all'altro, cercando di mettere pressioni a una donna che aveva fatto dell'indipendenza la sua ragione di vita.

Incitarla a cambiare improvvisamente condotta nei confronti dei prigionieri era stato un errore e provare a seguirla per riaprire il discorso lo era stato altrettanto.

Però, pensò, forse c'era ancora spazio per farle un'altra proposta. Ci aveva ragionato su molto e, con la variabile si quello che sarebbe successo se Lorenzo fosse tornato a Firenze, era sicuro di poter riuscire a risolvere almeno uno dei problemi della donna che amava.

Se quella sera fosse arrivata nelle sue stanze per passare la notte con lui – perché a quel punto non ne poteva essere certo – allora le avrebbe detto quello che aveva pensato di fare. Forse, a quel punto, Caterina avrebbe accettato l'idea che non tutti gli esseri umani erano da buttare.

 

“Non posso prendere alla leggera queste minacce...” borbottò Alessandro VI, lanciando una delle lettere a suo figlio Cesare.

In quei giorni, dopo che Juan era stato messo con scarsi risultati a riposo forzato in modo da accelerare la sua completa guarigione, Rodrigo aveva cominciato a tenersi vicino l'altro figlio, lasciando Lucrecia e Jofré liberi da pensieri che non fossero inerenti ai rispettivi matrimoni.

Se da un lato la figlia del papa cercava – apparentemente con grande volontà – la compagnia del marito senza aver troppa fortuna, altrettanto faceva Jofré con la moglie.

Alla corte del Santo Padre si malignava molto su Sancha, arrivando a dire che di tutti i maschi della famiglia Borja, Jofré fosse l'unico che lei non avesse ancora conosciuto.

Alessandro VI faceva finta di non sentire, mentre Cesare si era risentito molto, quando aveva saputo che anche Juan era stato enumerato tra gli amanti dell'Aragona. Tuttavia, quando i due fratelli si erano confrontati brevemente sull'argomento, il preferito del padre aveva solo fatto spallucce dicendo che lui una moglie l'aveva già e che non aveva certo bisogno di andare a rubare quella del fratello.

“A differenza tua.” aveva aggiunto, con un sorrisetto furbo che aveva fatto ribollire il sangue nelle vene dell'altro, che si era trattenuto dall'alzare le mani solo per paura che Juan andasse dal padre a riferire del suo scatto d'ira.

“Prospero Colonna non può permettersi di minacciare voi...” disse Cesare, leggendo la missiva che il padre gli aveva allungato.

“Lui e Consalvo di Cordoba ci stanno dicendo chiaramente che Napoli vuole mangiarci terre dopo terre. Non ho né la testa né il denaro per seguire due guerre. Con gli Orsini deve finire qui.” decretò Alessandro VI, mettendosi una mano sulla fronte, con fare afflitto.

Cesare riappoggiò la lettera alla scrivania e poi guardò il padre, nella luce morente della sera che filtrava dalle ampie finestre dell'appartamento vaticano dei Borja: “Quindi accetterete le condizioni di Carlo Orsini e Bartolomeo d'Alviano? Non dovreste, perché si tratta praticamente di una truffa.”

“Non provare a dire cosa devo o non devo fare, ragazzo mio.” ribatté il papa, ma senza alcuna cattiveria, anzi, con un'aria stanca e sfinita che fece quasi pena al figlio.

Cesare si sistemò l'abito talare e poi, sporgendo in fuori le labbra, e pensò a quanto fosse stato inutile, a quel punto, avvelenare Virginio Orsini e sprecare tanti uomini e munizioni nel tentativo di espugnare il castello di Bracciano.

Non trovando requie, cercò comunque di apparire rispettoso del volere paterno e così fece un sospiro: “Se è questo che volete, sono solo un vostro umile servo.”

Alessandro VI annuì in silenzio e poi, dopo aver vagato per un po' con lo sguardo per l'enorme studio, decretò: “Libereremo Gian Giordano e Paolo Orsini. Renderemo a quella strega di Bartolomea Orsini le sue inutili terre, ma le dovranno pagare cinquemila ducati, come hanno proposto, non un soldo di meno. Ma che a questo punto non pretendano più altro da me.”

Rodrigo fece un profondissimo respiro e gettò la testa all'indietro, con un gesto tanto improvviso da far scivolare in terra la papalina rossa che indossava quella sera più per difendersi dal freddo che non per decoro.

“Chi volete che se ne occupi?” chiese Cesare, cominciando a raccogliere le carte: “Juan?”

“Te ne occuperai tu.” disse il papa, con un velo di delusione nella voce: “Juan ha già combinato troppi disastri, in questa storia. Si rifà più avanti, quando avrà le ossa più forti e la testa più salda.”

Cesare avrebbe voluto offrirsi come pieno sostituto del fratello, proponendosi come validissima alternativa. Era pronto a spretarsi anche subito e indossare l'armatura, se era quello che suo padre cercava in un figlio.

Però, appena prima che potesse aprir bocca per dar fiato ai suoi pensieri, Rodrigo lo liquidò con un cenno della mano, dicendo, con voce quasi spezzata: “Avanti, fai quello che ti ho detto. Tanto non sarà per molto. Appena Juan sarà pronto, potrai tornare alle tue amate feste da ragazzini e lasciare a lui le cose da uomini...”

 

La sera era scesa su Forlì e Caterina non si era vista nemmeno a cena. Giovanni, dopo aver mangiato distrattamente qualcosa, l'aveva cercata un po' in giro per la rocca, senza azzardarsi a chiedere apertamente a chicchessia se qualcuno l'avesse vista.

Alla fine, non riuscendo nel suo intento, aveva deciso di lasciar perdere e si era ritirato nelle sue stanze.

Non sapeva se aspettarla o meno. Non aveva nemmeno capito se quella sua assenza protratta fosse legata a quello che si erano detti o fosse dovuta ad altri motivi.

Accaldato, si era levato il giubbotto imbottito e si era messo a girare per la camera con addosso solo le brache e la camicia, indeciso se mettersi a coricare o meno. Forse quella notte sarebbe rimasto da solo, e allora tanto valeva provare se non altro a riposare.

Più il tempo passava, più la sua mente si divideva tra il pensiero costante e tormentoso di quello che stava accadendo a Firenze e quello che lui e Caterina si erano detti quel giorno.

Era la prima volta che provava a prenderla così di petto su quel genere di argomento e temeva di aver osato troppo. In fin dei conti, lei non lo aveva legato a sé in modo ufficiale. La conosceva da circa un anno e non aveva idea di come gestisse le sue relazioni amorose. Aveva avuto molti uomini, ma tutti per una notte o anche meno. Con lui la cosa stava durando già da circa un mese.

Non era poi molto, però. Poteva essere che fosse decisa a lasciarlo, così, alla prima incomprensione?

Tormentandosi le mani l'una nell'altra, Giovanni aveva cominciato a passare in rassegna la propria stanza con un passo frenetico, incurante dei fastidi che provava ancora alle caviglie e alle ginocchia.

Tutta la sua attenzione stava tornando alle parole che lui stesso aveva rivolto alla Tigre.

“Scusa se ho fatto tardi, ma...” Caterina era appena entrata nella stanza, con ancora addosso un mantello pesante, e il Medici, non più padrone delle proprie azioni, le era già arrivato vicino e la stava abbracciando con un sollievo che quasi gli toglieva il fiato.

Dopo un primo momento di pura gioia, Giovanni non perse tempo e cominciò a baciare la Tigre e con un movimento rapido le aprì il fermaglio del mantello pregno di nebbia, facendolo cadere a terra.

“Che impeto...” sussurrò la Contessa, dopo un ennesimo bacio, allontanandolo da sé: “Che è successo?”

Giovanni si sentì arrossire. I suoi occhi chiarissimi e un po' allungati la sfuggirono, mentre, trattenendosi visibilmente, l'uomo faceva un passo indietro e deglutiva.

“Io... Avevo paura che stanotte non saresti venuta. Temevo che saresti rimasta di là.” spiegò il Medici, indicando con la testa la parete oltre la quale stava la camera della Sforza.

“E perché?” chiese Caterina, mettendosi alla poltrona per cavarsi gli stivali e mettersi più comoda.

“Be'...” fece il fiorentino, restando un po' sulle sue, senza più cercare di sfiorarla nemmeno con un dito, mentre si alleggeriva di qualche abito: “Dopo quel che s'è detto oggi...”

La Tigre si alzò dalla poltrona e gli si mise davanti: “Credevo che ormai lo sapessi: non sono una donna semplice. So che è difficile starmi accanto. Però sappi questo: non basta certo qualche frase storta per allontanarmi da te.”

Mentre diceva queste parole, Caterina aveva preso le mani di Giovanni, che trovava sempre così belle e gentili, e se l'era portate ai fianchi, in un chiaro invito che il fiorentino non stentò a riconoscere.

 

Era ancora buio, dovevano mancare ancora almeno un paio d'ore all'alba, ma le pochi luci di Ferrara risplendevano come fari agli occhi di Francesco Gonzaga.

Attese con impazienza che la barca che lo trasportava venisse assicurata alla riva e poi, sperando di non dover seguire le curve ampie del Po per un bel pezzo, scese a terra con un enorme sollievo.

Dovette attendere che anche il suo seguito più stretto fosse sbarcato e poi, date precise disposizioni per i bagagli, si fece portare qualche cavallo che non avesse sofferto troppo la traversata via fiume, e poi partì alla volta del palazzo del suocero.

Si fece annunciare e subito arrivo il cancelliere di Ercole Este ad accoglierlo. Si vedeva benissimo che si era alzato da letto controvoglia e così Francesco ci tenne a non disturbarlo più del dovuto.

“Saluterò mio suocero domattina – disse in fretta – per ora ditemi solo dove posso trovare mia moglie.”

Il cancelliere lo guardò per un lungo istante, perplesso, poi, rabbrividendo per un soffio d'aria gelata che aveva attraversato il salone, alzò un po' la candela che portava in mano e rispose: “Credo che la possiate trovare a Mantova.”

Il Marchese non riuscì a celare del tutto la sua profonda delusione. Era stato certo che sua moglie Isabella sarebbe stata lì. Era vero che non gli aveva scritto nulla a riguardo ed era pur vero che forse si sentiva ancora in lutto per la sorella Beatrice, benché non fossero esattamente in ottimi rapporti.

Però Francesco ci aveva sperato davvero.

“Oh, capisco, deve esserci stata un'incomprensione, allora.” minimizzò, cercando di sorridere.

“Sì...” fece il cancelliere, sollevando un sopracciglio: “Comunque vi chiamo un servo per accompagnarvi nelle vostre stanze.”

Gonzaga annuì e ringraziò. Appena fu al sicuro della stanza che il suocero aveva già predisposto per lui, ancora vestito si gettò sul letto e si trovò a pensare che a quel punto aveva spinto al massimo le barche per nulla. Solo per Isabella aveva messo fretta a tutti e ora si trovava solo.

Affondando la faccia incagnita e coperta di barba ispida nel cuscino, il Marchese cercò di immaginarsi di essere a casa e per quel che poté, lavorò di fantasia fino ad addormentarsi.

 

“Era bello il Canto che mi stavi leggendo oggi...” disse la Tigre, passando lentamente una mano sul petto di Giovanni, che si alzava e si abbassava lentamente al ritmo del suo respiro.

Nessuno dei due era ancora riuscito ad addormentarsi. Le coperte spesse erano calde e accoglienti e il silenzio era pressoché perfetto, accentuato dalla notte nebbiosa che si stagliava fuori dalla rocca, eppure entrambi erano ancora completamente svegli, gli occhi aperti nella penombra della stanza e i sensi all'erta.

“Però forse leggere qualcosa che parla di un Malatesta non era la scelta giusta, visto quel che sta succedendo a Rimini.” notò il Medici, fermando la mano di Caterina e cercando di guardarla negli occhi: “Lo so che continui a pensare anche a Pandolfo Malatesta. Hai notizie da Tiberti?”

“È proprio per quello che ho fatto tardi, stasera. Sono stata tutto il tempo al palazzo a discutere con un suo portavoce.” spiegò la donna, spostandosi un po', fino a sciogliersi dal mezzo abbraccio del fiorentino.

“E..?” la sollecitò Giovanni, teso.

“E niente, Tiberti ha raccolto dei soldati, ma si tratta di mezzi delinquenti. Ho paura di quello che potrebbero fare. Sono stata a un passo dal dire che manderò i miei uomini.” rispose la donna.

“E lo farai?” chiese il Medici, mettendosi sul fianco, il gomito contro il cuscino e la testa appoggiata al palmo della mano.

“Per ora no.” disse la Sforza, in un soffio.

L'uomo non volle chiedere altro, immaginando che la Tigre o non gli avrebbe risposto o avrebbe preso qualsiasi domanda per il verso sbagliato.

“Rileggimi il Canto di Francesca.” disse dopo un po' Caterina.

Il fiorentino non se lo fece ripetere. Si alzò dal letto, accese qualche candela, recupero la Commedia di Dante e poi, rabbrividendo per il bacio freddo della notte ancora invernale contro la pelle nuda, tornò sotto le coperte.

Quando arrivò a citare Caina, la Leonessa lo fermò: “Forse hai ragione – gli disse, togliendogli il libro dalle mani – forse dovrei davvero fare qualcosa con Ottaviano.”

Il Popolano si mise tutto orecchi e attese di sentire cos'aveva in mente la sua donna, prima di avanzare la sua proposta.

“Io non voglio lasciargli il mio Stato, ma qualcosa dovrà pur fare, o presto qualcuno gli monterà la testa e cercherà di usarlo per rovesciarmi.” disse la Contessa, non andando oltre.

“È Galeazzo il tuo erede, vero?” chiese Giovanni, sicuro di aver fatto centro.

Senza nemmeno tentare di negarlo, la donna annuì e aggiunse: “Se potessi, forse punterei su Bianca o Bernardino, ma mia figlia è una donna e avrebbe una vita troppo difficile, perché nessuno la riconoscerebbe come signora di uno Stato, se non per matrimonio, mentre Bernardino è ancora troppo piccolo e preparare la strada a lui significherebbe resistere ancora almeno una decina d'anni e io non credo di riuscirci.”

Giovanni stava per dire la sua, quando la Tigre precisò ulteriormente: “E poi Bernardino è come suo padre. Potrebbe essere un passabile soldato, ma non sarebbe mai in grado di comandare.”

Il Popolano si ravviò i riccioli del suo castano che tendeva indefinibilmente al rosso, e poi finalmente trovò il modo di dire: “So che la situazione di Firenze è instabile, ma la mia famiglia ha ancora molti contatti in certi organi di governo.”

Caterina non capiva di che cosa stesse parlando di preciso, perciò preferì lasciargli carta bianca e starsene zitta finché non avesse finito.

“Io posso sfruttare l'influenza del mio cognome per procurare una condotta vantaggiosa per tuo figlio.” concluse Giovanni.

“Una condotta contro Venezia?” chiese la Tigre, facendosi seria.

“Magari contro Pisa. Quel lato del fronte sarà sicuramente più tranquillo.” rispose il Popolano.

“Questa è una proposta molto generosa. E molto svantaggiosa per Firenze. Mio figlio sa a malapena tenere in mano una spada, malgrado gli abbia dato i mezzi per imparare a battersi.” disse Caterina, mesta.

“Mi prometti che ci penserai?” chiese il fiorentino, che però già sospettava di aver fatto breccia nelle resistenze della donna.

La Contessa fece un breve sorriso poi sistemò la Commedia a lato del letto, avendo cura di non sciupare il volume che Giovanni teneva con tanta cura, e poi tornò a guardare l'uomo che le stava accanto: “Sì. Lo prometto.”

Poiché era ormai certa che la tensione non l'avrebbe lasciata dormire, e sentendosi comunque troppo stanca per affrontare con il fiorentino il discorso a riguardo di Savonarola, la Tigre pensò che ci fosse un altro modo per arrivare al mattino stemperando un po' l'ansia che la corrodeva.

Il Medici lesse nei suoi occhi verdi un bagliore che ormai conosceva più che bene e, appena prima che la donna gli si gettasse tra le braccia alla ricerca di un pronto sollievo per le sue tribolazioni, disse, ridendo: “Sei una cosa incredibile...”

“Ti sto chiedendo troppo?” fece di rimando lei, premendo poi le labbra sul suo collo.

“No, però mi chiedo come faceva...” iniziò a dire Giovanni, mordendosi subito la lingua, anche se ormai aveva già detto troppo.

La Sforza capì cosa l'uomo stava per dire, ma riuscì a non raggelarsi, anzi, senza fermarsi, disse con un sorriso un po' triste: “Quando l'ho conosciuto, Giacomo aveva diciassette anni. Non si stancava mai.”

“Forse preferiresti anche adesso uno come lui...” sussurrò il Popolano, rispondendo comunque agli assalti della donna, che si stavano facendo sempre più insistenti.

“A me serviva e serve un uomo.” sentenziò la Tigre, con voce dura: “Mentre lui era solo un ragazzo.”

Quella mezza ammissione di preferenza rivolta a lui diede al Medici uno slancio incredibile e così, mentre la voltava sulla schiena e cominciava a placare la sua sete, le assicurò: “Io sono quello che ti serve, allora.”

 

 
   
 
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