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Autore: Adeia Di Elferas    14/10/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Isabella sentì la porta aprirsi alle sue spalle e sussultò. Voltò appena la testa e fece giusto in tempo a vedere Ludovico Sforza, lo zio del suo defunto marito, dire in fretta qualcosa alla guardia e poi entrare nel salotto, chiudendo poi la porta con un suono sordo.

Milano era avvolta da una cortina di nebbia fitta e gelata, ma se non altro non nevicava più. Le stanze del palazzo di Porta Giovia erano scaldate in modo insufficiente, ma con qualche abito un po' spesso si poteva resistere bene.

Anche se il cancelliere Calco aveva insistito molto con il Moro per convincerlo ad accendere più camini e a rafforzare certe finestre, chiuse da pergamene ormai rovinate, Ludovico aveva fatto orecchie da mercante. Aveva invece continuato a spendere per i lavori nella chiesa in cui riposavano i resti di sua moglie Beatrice.

A corte si malignava molto su questa improvvisa riscoperta della religione da parte del signore di Milano e in certi borbottavano dicendo che presto la chiesa di Santa Maria delle Grazie sarebbe stata più accogliente del palazzo ducale.

“E a quel punto – aveva aggiunto qualcuno – converrà a tutti esser morti e farsi seppellire lì, piuttosto che restare qui a patire il freddo!”

Il Duca di Milano passò accanto alla vedova di Gian Galeazzo e la guardò solo di striscio. Aveva notato che le avevano fatto indossare abiti nuovi e che anche i suoi capelli erano stati sistemati come si doveva.

Da quando era arrivata da Pavia, il Moro l'aveva vista solo una volta, ancora incosciente e poi l'aveva lasciata alle cure di alcune di quelle che erano state le dame di compagnia di Beatrice, affinché la rimettessero in sesto e l'aiutassero a riprendersi.

Era passato qualche giorno e alla fine Ludovico aveva deciso di incontrarla.

Isabella, dopo il lungo isolamento patito, si sentiva ancora molto insicura. Cambiare ambiente in modo tanto repentino e vedersi improvvisamente di nuovo servita e abbastanza riverita era stato difficile da accettare.

Benché l'essere umano si abitui in fretta a ciò che è meglio, l'Aragona non riusciva a mettere a tacere la propria diffidenza per un simile trattamento, anche perché l'unica domanda che poneva con insistenza – ovvero avere notizie del figlio Francesco – era l'unica che non trovava mai risposta.

Anche in quel momento, mentre il Moro prendeva tempo, indeciso su cosa dirle, Isabella non smetteva di torcersi le mani l'una con l'altra e i suoi occhi continuavano a saettare a turno verso il Duca e poi verso gli angoli della stanza, come se si aspettasse di vedere qualcuno acquattato lì, pronto a farle del male.

Per andare all'incontro con il Moro, Isabella d'Aragona aveva dovuto lasciare le sue figlie alle dame di compagnia che l'avevano accolta al palazzo di Porta Giovia.

Non era tranquilla, benché fosse abbastanza sicura che quelle ragazze non fossero cattive. Le avevano detto di essere state le dame di compagnia di Beatrice, ma non per questo parevano ostili a lei o alla sua prole. Anzi, qualcuna si era anche lasciata scappare qualche commento tutt'altro che malinconico a riguardo della defunta Duchessa.

In ogni caso, dopo tanto tempo passato nella torre in compagnia delle sue due figlie e del suo adorato Francesco, trovarsi senza nessuno dei tre per l'Aragona era un trauma.

“Sapete già che Beatrice è morta, vero?” chiese Ludovico, con voce piatta.

Per la prima volta, Isabella sollevò apertamente lo sguardo su di lui e trovò il coraggio di osservarlo con accuratezza.

Il Duca non era più come lo ricordava. Era sempre un omone alto e largo, con il naso grosso e il ventre prominente, ma qualcosa nel suo volto si era spento e tutta la tracotanza che aveva sempre emanato pareva svanita nel nulla.

I suoi capelli, a zazzera, avevano qualche filo grigio e i suoi occhi pesanti erano cerchiati da spesse occhiaie. Le guance, dalla pelle un po' cadente, sembravano incavate, malgrado la sua stazza tutt'altro che patita, e le sue labbra erano incurvate verso il basso, con una decisione che lasciava intendere che non avrebbero sorriso mai più.

“Mi è stato detto, sì.” confermò Isabella, la voce roca e la gola secca.

“Io non sono mai stato del tutto d'accordo con l'idea di incarcerarvi.” disse il Duca, sedendosi sulla poltroncina che stava davanti a quella della donna: “Ma Beatrice voleva uccidervi, dunque ho scelto una via di mezzo.”

“Avevate già ucciso mio marito. Perché non uccidere anche me?” fece l'Aragona, sprezzante, ancora troppo adirata con il Moro per riuscire a trattenersi, malgrado la paura costante per la sorte dei figli.

“Siete davvero certa che abbia ucciso io mio nipote?” chiese Ludovico, sollevando un sopracciglio.

L'uomo portava abiti scuri, a lutto, molto rovinati. Sembravano vestiti ripescati da una cassapanca caduta in disuso da anni o rubati a un mendicante che chiedeva l'elemosina per strada.

Tuttavia, mentre gonfiava il petto per contrastare l'accusa della nipote acquisita, il Duca aveva ripreso parte della sua autorevolezza, benché stesse indossando degli stracci e avesse il volto di un penitente.

“Rivoglio mio figlio.” fece Isabella, lasciando perdere la domanda del Moro e provando a strappare qualche concessione.

“Vostro figlio resterà a Pavia.” tagliò corto il Duca: “Dovreste accontentarvi di avere qui le vostre figlie e di aver avuto salva la vita.”

“La mia bambina più piccola è morta per colpa vostra – fece notare Isabella, che si stava rendendo conto solo in quel momento di quanto la rabbia che aveva covato per anni dentro di sé fosse davvero più forte anche della paura – dunque esigo che mi lasciate portare a Milano Francesco. Non vi permetterò di uccidermi un altro figlio.”

Ludovico si alzò, scuotendo il capo: “State pur certa che se avessi voluto uccidere vostro figlio, l'avrei già fatto. Voi però adesso chiedete troppo e troppo in fretta. Vedrò come vi comporterete nelle prossime settimane. Se saprete darmi delle buone ragioni per farlo, potrei rivalutare la posizione di vostro figlio.”

“Credete davvero che io cercherei di metterlo al vostro posto?!” sbottò l'Aragona, alzandosi e inseguendo il Duca, che aveva quasi raggiunto la porta.

I passi ancora malfermi della vedova di Gian Galeazzo furono sufficienti per indurre il Moro a fissarla con pietà, tuttavia, quando parlò lo fece con molta durezza: “E perché non dovreste? Avete scatenato una guerra, per sollevarmi dal mio titolo. Non crediate che mi sia dimenticato delle lettere con cui avete cercato di scatenare Napoli contro di me. Chi mi dice che non ci riprovereste? Perché dovrei smettere di temervi?”

“Perché il potere mi ha fatto troppo male. Sia a me, sia ai miei figli.” rispose Isabella, con una franchezza che suonò dolorosa alle orecchie dello Sforza: “Voglio solo permettere a loro, a tutti e tre loro, di vivere. Ma il potere... Quello non lo voglio per nessuno dei miei figli. Il potere uccide e basta, in tutti i sensi.”

L'uomo la fissò un momento e poi decretò: “Vi terrò d'occhio. Dimostratemi che siete davvero solo interessata a sopravvivere e non al potere e allora rivaluterò le mie decisioni.”

 

Tommaso Dall'Aste allargò le braccia e poi guardò ancora una volta la Contessa di sottecchi: “Sono il primo a non crederci, posso giurarvelo, ma io dico che nella vostra posizione sarebbe buona cosa accettare.”

La donna picchiettava indice e medio sulla scrivania con fare teso. Aveva deciso di incontrare Dell'Aste alla rocca e non a palazzo solo perché non voleva orecchie indiscrete all'ascolto e dunque aveva pensato che starsene a Ravaldino sarebbe stato molto più sicuro.

“Non parlate da Vescovo, quando dite queste cose – fece la Tigre, con una smorfia – trattate la religione come se fosse mera superstizione...”

“Non sono un uomo cieco alla verità, mia signora.” intervenne Tommaso, abbozzando un sorriso e passandosi una mano sugli abiti talari che indossava: “Ho avuto modo di capire, nel corso della mia vita, che la peste attacca laddove c'è carestia o siccità o molta povertà. Se attaccasse laddove Dio trova dei peccatori, allora la corte di papa Alessandro sarebbe già stata sterminata da tempo.”

La Sforza fece un mezzo sospiro, come a dargli ragione e improvvisamente capì perché suo figlio Cesare, che pure non faceva altro che stare in compagnia di monaci e prelati, avesse sempre visto di cattivo occhio quel Vescovo.

“Però, anche se credete che il favore divino non c'entri nulla con le epidemie, mi state ugualmente chiedendo di accettare la formazione di questa compagnia... Come l'avete chiamata?” domandò la donna.

“Della pietà.” rispose il Vescovo, stringendo un po' le labbra: “Io vi dico che se permetteste questo e se rideste ai Battuti Bianchi una loro dignità, visto che in pratica esistono, pur senza aver avuto una fondazione ufficiale, ne gioverete molto, agli occhi dei vostri sudditi.”

Caterina lasciò che quelle parole si stemperassero nell'aria chiusa dello studiolo del castellano e poi sollevò le spalle: “Voi parlate bene, ma io diffido da chi sembra voler fare il bene altrui senza averne un tornaconto.”

“Io parlo solo per il bene vostro e del vostro Stato.” fece subito Dall'Aste, facendosi molto più scuro in volto: “Sono comunque un uomo di fede, anche se, come sapete, rifuggo certe idee che trovo retrograde. Se sostenere e aiutare voi vuol dire dare respiro alla gente che vive in queste terre, allora farò del mio meglio per sostenervi e aiutarvi. E poi due compagnie tanto caritatevoli non farebbero altro che ridurre il senso di povertà e dare sollievo ai malati e agli orfani...”

La Tigre non disse nulla, restando in attesa e guardando fissamente il religioso che, fino a quel momento, pur essendo parente con un membro del Consiglio e Vescovo di Forlì da oltre dieci anni, non aveva mai fatto nulla di pratico per aiutare i forlivesi.

“Quello che è successo alla morte di vostro marito, il Barone Feo – riprese Tommaso, scegliendo accuratamente le parole – mi ha fatto capire quanto può essere difficile stare alla guida di uno Stato, e vedere i risultati della pressione a cui siete stata sottoposta mi ha fatto capire che era giusto cercare di aiutare come potevo, per fare il mio dovere di uomo e di Vescovo, oltre che di suddito.”

La Contessa soffiò e poi sollevò una mano, con fare noncurante: “Parlate bene, questo l'ho capito, quindi ho bisogno di tempo per pensare alla vostra proposta senza avervi qui davanti a rintronarmi di parole. Vi manderò a chiamare io, quando avrò preso una decisione.”

Il Vescovo ringraziò, si alzò, fece un profondo inchino e poi, appena prima di lasciare lo studiolo del castellano aggiunse: “Ricordatevi una cosa, mia signora: è più facile farsi temere che amare, ma quando arriva il momento del bisogno, in favore di chi si schiera il popolo? Di chi si è fatto temere o di chi si è fatto amare?”

“Di nessuno dei due.” rispose con un breve sorriso Caterina e dopo quello a Tommaso Dell'Aste non restarono più parole e finalmente se ne andò.

 

Ercole Este spezzò in due la fettina di formaggio stagionato che stava mangiando e ne offrì metà al genero.

Francesco Gonzaga accettò il cibo con un gesto di riconoscimento e cominciò a masticare lentamente, mentre il suocero sospirava e si versava da bere.

“Dicono che anche Fracassa sia passato dalla parte del Moro, questa volta in modo stabile. Si sta preparando bene per la guerra contro i francesi. Credevo che anche Galeazzo Sanseverino si sarebbe messo alle sue dipendenze, dato che aveva sposato sua figlia, ma quell'uomo mi ha sorpreso.” disse piano Ercole, mentre con una mano su cui spiccava l'anello con il sigillo degli Este si sistemava una ciocca di capelli grigi che gli era finita in viso: “Rimasto vedovo da poco, pare abbia già trovato una nuova moglie, Costanza del Carretto, la figlia del Marchese di Finale, e il Moro non ha nemmeno provato a opporsi alle nuove nozze...”

“Ma credete che Ludovico attaccherà per primo?” chiese Francesco, inseguendo lo sguardo del suocero, che si stava perdendo oltre la finestra che dava su Ferrara.

Al Marchese interessavano solo relativamente le vicende matrimoniali del Sanseverino, anche se si rendeva conto che risposandosi a quel modo, forse Milano ne sarebbe uscita indebolita. I Marchesi di Finale erano notoriamente ambiziosi e forse avrebbero provato a strappare Castelnuovo e tutte le terre che erano state dei Dal Verme, sfruttando quel matrimonio.

Il Moro era stato imprudente a concedere così tante città in dote alla figlia. Non aveva preso in considerazione l'ipotesi non remota che Bianca Giovanna potesse morire di parto – e così dicevano fosse accaduto, malgrado la sua tenera età – lasciando tutto al marito e quindi, ipoteticamente, a figli nati da un secondo matrimonio.

“No, non attaccherà la Francia per primo. E come potrebbe...” sbuffò l'Este, scuotendo il capo e rimettendo sul vassoio il formaggio mangiato solo per metà.

“Voi intendete schierarvi con lui, quando i francesi torneranno in Italia?” domandò il Marchese di Mantova, rimettendo come il suocero il formaggio quasi intatto al suo posto.

Francesco ci aveva messo qualche giorno, ma poi aveva capito perché sua moglie lo aveva voluto a Ferrara proprio in quel momento.

Rileggendo alcune delle sue lettere, aveva intuito come lei volesse che lui scoprisse cosa avesse in mente Ercole e, ancora di più, come stesse andando realmente il matrimonio del fratello Alfonso con Anna Maria.

“Schierarmi con lo Sforza?” fece l'Este, puntando i freddi occhi scuri in quelli del Gonzaga: “Non è nemmeno stato in grado di tenere al sicuro mia figlia Beatrice.”

“Ma vostra figlia è morta di parto... Come avrebbe potuto tenerla al sicuro da una simile disgrazia?” chiese Francesco, sistemandosi sulla sedia, in forte ansia: “Noi uomini siamo del tutto impotenti, davanti a queste fatalità...”

“Fandonie.” ribatté Ercole, incrociando le braccia sul petto: “Mia figlia gli aveva già partorito due figli maschi. Non era il caso di farne nascere un terzo. Si poteva evitare benissimo.”

Il Marchese non disse nulla, spostando il mento a destra e sinistra, rendendo il suo volto già di per sé molto brutto ancora più disarmonico.

“Piuttosto – riprese l'Este dopo un po', mostrando un vaga apprensione – mia figlia Isabella come sta?”

Francesco non era abituato a sentire il suocero chiedere notizie di Isabella, men che meno in quel tono perciò ci mise un po' prima di rispondere: “Si è ripresa abbastanza bene, dopo la morte di Margherita...”

Parlare della figlia morta in fasce era ancora un grosso peso per il Gonzaga, al quale mancò la voce per qualche istante. Anche se sua moglie pareva davvero essersi ripresa discretamente bene, per lui il dolore era sempre una spina conficcata nel fianco.

Non aver avuto nemmeno modo di vederla, seppur per un istante, aveva reso Margherita un fantasma costante e angoscioso per lui, una presenza effimera eppure eterea che quasi ogni notte lo visitava in sogno, risvegliandolo poi in un bagno di sudore, con la sensazione pressante della morte ad aleggiare attorno a lui.

Ercole interpretò quella reticenza come paura, perciò si affrettò a dire: “Voi fate bene a continuare a provare. La vostra situazione è diversa da quella che avevano il Moro e mia figlia Beatrice. Avete solo una femmina. Non basta. Dovete necessariamente continuare a provare. Isabella deve darvi un maschio, solo così si potrà dire di lei che sia una buona moglie.”

“Ma Isabella è un'ottima moglie, anche se abbiamo solo...” prese a dire il Marchese, ma il suocero lo zittì con un'occhiataccia.

“Mio figlio, piuttosto...” disse l'Este, dopo aver fatto cenno a un servo di portare via quel che restava del pane e del formaggio: “Sono preoccupato per lui. Se sua moglie restasse gravida, almeno avrei un motivo per schierarmi con lo Sforza, ma così...”

La situazione di Alfonso, aveva saputo il Marchese, non era certo delle più rosee. Aveva contratto il mal francese e, anche se i medici di corte riuscivano a tenere sotto controllo gli accessi più violenti e sostenevano che probabilmente non ne sarebbe morto, il giovane aveva già qualche segno inconfondibile di malattia e presto non sarebbe più stato possibile nascondere quello stigma.

“Potreste far sciogliere il matrimonio.” propose Francesco.

Il giorno Gonzaga prima si era imbattuto in Anna Maria Sforza, che era appena stata fuori da palazzo da sola assieme a una schiava dalla pelle nera come l'ebano, e la sua conoscenza delle donne gli era bastata per capire quale fosse il problema di fondo tra lei e il marito.

Aveva così pensato subito che il nodo della questione fosse che i due non concepivano per il semplice fatto che non si frequentavano. Tuttavia poi, da chiacchiere di palazzo, aveva scoperto che Alfonso e Anna Maria, malgrado lo facessero entrambi controvoglia, si incontravano regolarmente, nella speranza di dare un nipote a Ercole.

Per come il Marchese di Mantova vedeva il mondo, però, quella era solo una violenza inutile e tanto valeva cercare una nuova moglie ad Alfonso e lasciare in pace la povera Sforza.

“Non se ne parla.” si ostinò l'Este: “Se chiedessi un annullamento, dovrei farlo incolpando Anna Maria e così mi inimicherei Milano. Ferrara non può permetterselo.”

“E allora non vedo che potreste fare per favorire la fortuna di vostro figlio e vostra nuora.” chiuse il discorso il Gonzaga.

“Ho chiesto a delle monache di pregare, ma l'anima nera di quella maledetta Sforza sembra anche più forte delle loro preghiere... Con quell'abominio che perpetra sotto al mio tetto... Con una schiava, per di più! Ma se la cacciassi, allora tutti saprebbero...” sussurrò Ercole e, per la prima volta, Francesco vide in lui quello che gli parve un lampo di pura follia: “Potrei provare a parlare con quella suora... Dicono che sia una santa in vita...”

Provvidenziale come un temporale nel mezzo di un'estate torrida, sulla porta del salottino si profilò un servo, dicendo che era arrivato un messaggio per il Duca.

“Vi lascio alla vostra corrispondenza.” disse Francesco, approfittandone per lasciare la tavola e ritirarsi nelle sue stanze a rimuginare su quanto appena detto e sentito.

 

“Ho bisogno di un consiglio.” disse Caterina, sedendosi accanto a Giovanni, a tavola.

Era mattino presto e a parte loro non c'era nessun altro nel salone, se non un paio di servi che portavano il cibo e il vino dalle cucine.

Il Popolano, che era sceso di buon'ora perché quel giorno doveva andare a parlamentare con i segretari fiorentini che vivevano al palazzo degli ambasciatori, bevve un altro sorso d'acqua e poi la invitò a parlare.

La Contessa gli riassunse quello che il Vescovo le aveva detto un paio di giorni prima, in merito ai Battuti Bianchi e alla Compagnia della Pietà.

Ci aveva ragionato sopra parecchio, cercando di capire se potesse esserci sotto qualcosa. Nemmeno le sue spie avevano trovato grossi collegamenti tra Dall'Aste e il papa, quindi era improbabile che si trattasse di qualche strano tranello di Alessandro VI per avere occhi e orecchie ancora più aperti nelle sue terre. A conti fatti, pareva che il Vescovo avesse davvero avanzato quella proposta senza secondi fini.

Tuttavia la Tigre sentiva il bisogno di qualcuno che le desse manforte e l'aiutasse a decidersi. Per lei, che era abituata a ragionare sempre e solo con la propria testa, era una sensazione abbastanza nuova, provare a chiedere aiuto. Però sapeva che Giovanni riusciva ad avere una visione più distaccata di lei, per quanto riguardava gli affari del suo Stato.

Dopo aver ascoltato tutto con attenzione – tanta da dimenticarsi perfino di mangiare quello che aveva preso dal vassoio – il Medici fece un paio di respiri profondi e poi disse: “Non è affatto una cattiva idea. Potresti girarla, anzi, ancor più a tuo vantaggio di quel che crede il Vescovo.”

“Che intendi?” domandò Caterina, accigliandosi.

“Mi hai detto tu stessa che quando c'è stata quella grossa epidemia di peste, anni fa, sei stata in prima linea a curare i malati, no?” fece il fiorentino, mentre gli occhi chiarissimi brillavano di qualcosa che sembrava orgoglio: “Ecco, ricordalo a tutti e poniti a capo della Compagnia della Pietà.”

La Sforza si versò un bicchiere di vino e provò a pensarci. Se avesse reso quella carica prettamente nominale, sarebbe bastato fare qualche donazione di quando in quando e partecipare a qualche eventuale festa o processione e non sarebbe servito altro. A conti fatti, si sarebbe parlato bene di lei e lei non avrebbe dovuto fare quasi nulla.

“E per i Battuti Bianchi...” il Medici trattenne un sorriso: “So perché non ti piacciono.”

Le iridi verdi di Caterina lo fissarono come quelli di una preda che sa di essere in trappola.

“Prima che cadessero in disgrazia, loro potevano chiedere la liberazione di un prigioniero all'anno, il giorno di Ognissanti. Hai paura che lo vogliano poter fare ancora.” disse Giovanni, abbandonandosi contro lo schienale: “Per questo, basterà mettere dei paletti. Dovrai solo dire che non possono chiedere la scarcerazione di assassini, traditori e congiurati. Che si liberi pure un ladro o un rissaiolo ogni tanto. A chi può importare?”

La Tigre si trovò d'accordo con lui e si chiese come avesse fatto lei a non arrivare a escogitare a quella scappatoia, quando, invece, l'ambasciatore ci aveva messo pochi minuti.

“E metti a capo dei Battuti Bianchi tuo figlio Ottaviano – aggiunse Giovanni, schiarendosi la voce, mentre vedeva all'ingresso del salone arrivare Bianca e Galeazzo – e costringi tutti i notabili della città a entrare nella confraternita o almeno ai capifamiglia più importanti. In fondo i Battuti sono per lo più laici. Non oseranno rifiutare. A quel modo, i Battuti Bianchi li potrai comandare direttamente tu e la tua paura che prendano potere non avrà ragion d'essere. Se riuscirai a mostrarti come madrina di questa ondata di aiuti ai poveri e ai malati, forse riuscirai a mitigare la fama che ti circonda e recupererai un po' di consensi. Potresti far dimenticare un po' di chiacchiere sul tuo conto. Un'opera pia potrebbe mettere a tacere qualche pettegolo...”

La Contessa non pareva ancora del tutto convinta, ma ormai i suoi figli erano arrivati al tavolo e si erano seduti a un paio di posti da lei, dunque non era più il caso di parlarne.

“Ci penserò ancora un po' e poi deciderò.” furono le uniche parole di Caterina.

Non volendo far tardi all'incontro che lui stesso aveva chiesto, il Popolano le strinse in fretta la mano, celato dal tavolo, la salutò e poi fece un mezzo inchino anche a Galeazzo e a Bianca – che ricambiò con un sorriso acceso e un cordiale 'buona giornata a voi, messer Medici' – e uscì dalla sala e dalla rocca, dirigendosi in centro città.

 

Gli zigomi larghi e il mento a punta di Machiavelli erano investiti dall'odore acre di un misero falò rimasto acceso in fondo alla strada, tra le cui fiammelle bruciavano ancora un paio di abiti di seta e un quadretto dipinto a olio.

Dopo la pira enorme accesa dagli uomini di Savonarola davanti al palazzo della Signoria, in molti avevano cominciato ad appiccarne di più piccole per ardere ancora qualcosa che era sfuggito alla mattanza della notte del 7 febbraio.

Niccolò, stretto nel suo piccolo ufficio, condiviso con altri funzionari, aveva mal sopportato gli strascichi del Falò delle Vanità, tanto da arrivare a disertare di quando in quando il lavoro, pur di non sentire più il sentore di bruciato che ristagnava ancora perfino nelle alle più remote del palazzo.

Le fiamme erano state troppo alte e voraci, per sperare che bastasse un mesetto per far sparire il tanfo di distruzione e cenere che avevano portato con loro.

Anche quella mattina, contrariamente alla sua indole, Machiavelli aveva lasciato il suo posto molto prima del previsto e si era messo a camminare per Firenze, sperando di ritrovare un po' di aria per i suoi poveri polmoni.

E invece quel piccolo falò in mezzo alla via Larga lo aveva fatto tossire di nuovo.

Finito l'accesso, per prima cosa l'uomo si portò una mano alla testa e sistemò il ciuffo di ricci ribelli che non voleva saperne di stare al suo posto. Poi, stringendosi al petto il blocco di documenti che avrebbe consultato una volta a casa, Niccolò si asciugò gli occhi lacrimanti per il fumo e fu a quel punto che qualcosa attirò il suo sguardo.

Davanti al palazzo dei Medici si erano fermate delle carrozze. Machiavelli aguzzò la vista e lentamente si avvicinò.

Da mesi, ormai, a parte gli amministratori dei Popolani, nessuno più era entrato da quel portone.

Di Piero il Fatuo non si avevano pressoché più notizie, così come per sua moglie e i suoi figli. I suoi fratelli e le sue sorelle si chiamavano del tutto estranei alla politica di Firenze e perfino Jacopo Salviati, marito di Lucrezia Medici e quindi cognato del Fatuo, aveva improvvisamente cominciato a disertare la vita politica, dedicandosi ai figli, che erano quattro, nati in circa dieci anni di matrimonio.

Infine, anche dei cugini arrivati da Cafaggiolo, che avevano di fatto strappato la casa e i beni tutti a Piero, non si sapeva quasi nulla da mesi.

Giovanni Medici era a Forlì, 'nella tana della Tigre' così dicevano a Firenze, e sembrava che tutte le sue mosse diplomatiche fossero paralizzate.

Alla Signoria in pochi si ricordavano di lui, ma gli oppositori più ferventi dei Medici e i sostenitori più strenui di Savonarola ogni tanto lo prendevano d'esempio come emblema di incapacità e lassismo, soprattutto dopo che si era lasciato battere sul tempo da una donna, che avrebbe dovuto per natura essergli inferiore in tutto, nell'acquisto del grano.

Lorenzo, invece, era partito e aveva tenuto solo rari contatti con la Signoria, scusandosi profusamente per gli affari che lo tenevano lontano.

Machiavelli era ormai a pochi metri dal palazzo dei Medici e come altri fiorentini che passavano di lì si era messo a osservare in silenzio.

Il primo a scendere dalla carrozza fu un uomo vestito di rosso e oro. Aveva i capelli più lunghi rispetto a quando era partito e indossava abiti sgargianti che sapevano di moda straniera, ma tutti riconobbero il volto paffuto e gli occhi mezzi chiusi di Lorenzo il Popolano.

Dopo di lui, dall'abitacolo giunse la moglie, Semiramide. Anche lei portava abiti raffinatissimi e non alzò mai la testa, neppure quando sentì della gente fare il suo nome.

I due entrarono nel loro palazzo tenendo il volto duro di chi si preparava a combattere e nessuno restò per vedere i figli – Pierfrancesco e Laudomia – e le balie, né i bauli colmi di oggetti preziosi che li seguirono nel cortile.

Niccolò tagliò verso San Lorenzo e quando fu davanti alla chiesa entrò un momento per trovare un ambiente raccolto in cui riflettere.

Gli amministratori dei Medici avevano nascosto moltissime cose agli uomini di Savonarola, ne era certo. Con tutte le ricchezza che tenevano nei loro uffici e nel loro palazzo, era assurdo che i Piagnoni fossero arrivati al falò con appena un paio di dipinti e qualche suppellettile.

Niccolò incrociò lo sguardo severo di uno dei preti che stava passando dalla navata laterale. Lo aveva guardato storto perché, per l'agitazione, Machiavelli aveva iniziato a picchiettare in terra la punta dello stivale, come un bambino impaziente.

Smise subito e si fece in fretta un segno della croce, per quanto ingombrato dai documenti che portava con sé, in modo da convincere il prete della sua sincera necessità di pregare in pace.

Il religioso sospirò, scuotendo il capo con fare sconsolato, ma alla fine lo lasciò stare e passò oltre.

Niccolò prese fiato, inalando l'odore di incenso che permeava la chiesa. Era quasi meglio il tanfo dei falò.

Stringendosi sul cuore i documenti, quasi in cerca di sostegno morale, tentò di ragionare lucidamente su tutto quello che stava capitando.

Firenze era un calderone ribollente e il mondo si stava agitando attorno alle sue fiamme. Pisa, Venezia, forse perfino Milano. Tutti li volevano annientare.

In questo quadro di confusione, però, non s'era ancora aggiunto il papa. Niccolò, all'indomani del falò, era stato certo che Alessandro VI avrebbe risposto duramente a Savonarola.

Tutti sapevano che il Borja amava l'arte e la bellezza, e gli attacchi sempre meno velati del domenicano alla sua passione per la mondanità non erano certo passati inascoltati a Roma.

Eppure, perfino il silenzio del Santo Padre quel giorno per Machiavelli perdeva importanza.

Firenze era Firenze e aveva la sue regole interne. I fiorentini non davano mai troppo peso a quel che accadeva fuori dai confini. Non lo stesso che si dava a ciò che capitava tra le mura della città.

E proprio quel giorno era capitato un bel fattaccio, secondo Niccolò. Un fatto che avrebbe cambiato le cose: i Medici erano tornati, dopo mesi di giochetti politici e scuse. Dopo che avevano cacciato con la forza Piero, loro cugino, erede di Lorenzo il Magnifico. Dopo che avevano creato un nuovo governo a loro immagine e somiglianza. Dopo che avevano lasciato a briglia sciolte quel pazzo di Savonarola, senza mai provare davvero a imbrigliarlo di nuovo. Dopo aver di fatto contribuito pesantemente a gettare nel caso Firenze. Erano tornati.

Niccolò si rifece il segno della croce, questo volta con molta più convinzione e con la mano che tremava appena.

Il ritorno dei Medici poteva voler dire solo una cosa: guerra.

 
   
 
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